Il «problema Croce» e il vizio aristocratico: intervista a Fabio Vander

Author di Francesco Postorino

In questa intervista, il parere dello storico Fabio Vander in merito all’«attualità» di Benedetto Croce. Laureatosi in Filosofia sotto la guida di Gennaro Sasso e poi in Scienze Politiche con Pietro Scoppola, Vander ha approfondito il pensiero teorico e politico di Croce. Tra le sue pubblicazioni recenti: Relatività e fondamento. Filosofia di Aristotele (Sesto San Giovanni, Mimesis Edizioni, 2011); Il sistema-Leopardi. Teoria e critica della modernità (Mimesis 2013); Ontologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele (Roma, Inschibboleth edizioni, 2015).

Salvatore Cingari, nell’intervista a me rilasciata ed edita nel numero precedente di «Diacritica», definisce Croce tendenzialmente «conservatore» e «liberista». È d’accordo?

Per la verità, Gaetano Salvemini scrisse una volta: «Croce non potrebbe essere classificato con certezza sotto nessuna categoria politica». Croce di suo spiegava (cito da un articolo dell’agosto 1943, ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli): «già da una quindicina d’anni svincolai, nei miei lavori filosofici, il liberalismo (politico) dal liberismo (economico)». Una distinzione che a me sembra reggere, permettendo di tenere ferma la differenza fra “liberalismo come politica” (i due termini per Croce sono coestensivi) e “liberismo come economia”, cioè come specifico “programma” di governo. Dunque, il filosofo sul piano personale fu sicuramente un moderato (ancora nel secondo dopoguerra fu contrario alla concessione del suffragio universale, cioè del voto alle “cosiddette masse”), ma il suo concetto di politica mantenne un valore che può essere considerato autonomamente rispetto alle singole opzioni politiche o economiche. Del resto, l’articolo proseguiva: «comunismo e liberismo e le altre tendenze hanno del pari diritto di lottare e riportare vittorie l’una sull’altra e di venire tra loro, come usano, a transazioni ed accordi; ma nessuna d’esse deve chiedere il soccorso della violenza». Che cosa c’è di non condivisibile in questo? A me sembra una corretta dottrina della democrazia, dove persino il comunismo è lecito come programma politico e di governo, purché rinunci certo alla “violenza”. Il che dovrebbe essere pacifico per tutti.

Più in generale, direi questo: vale per Croce quello che non vale per Heidegger. Croce teorizza, infatti, la distinzione (e autorizza noi a distinguere) fra filosofia e politica, fra teoria della politica e politique politicienne, tra liberalismo e liberismo; mentre in Heidegger il pensiero è indistricabilmente connesso con la “politica”. Politica fra virgolette perché il totalitarismo è, in verità, essenzialmente antipolitica, negazione del pluralismo; l’«Amico-Nemico» è categoria dell’impolitico, e il totalitarismo prevede l’annientamento del nemico, non semplicemente la sua sconfitta. L’ontologia di Heidegger come pensiero dell’Essere e dell’Assoluto è, perciò stesso, fondazione dell’antipolitica. L’adesione di Heidegger al nazismo fu una necessità. Di più: non fu Heidegger ad essere nazista, ma il nazismo ad essere heideggeriano. In questo senso, francamente preferisco l’“incoerenza” (per altro strutturale) di Croce (a cominciare proprio da quella fra liberalismo e liberismo) alla “coerenza” di Heidegger.

Non crede che la lettura dello «pseudoconcetto» sia un serio tentativo di non estromettere del tutto il ruolo dell’empiria dal quadro spirituale della vita? Oppure, nel discorso crociano, considera irrilevante il tema della «finzione concettuale» ai fini più marcatamente teorico-politici?

Sono del tutto convinto che lo «pseudoconcetto» risponda all’esigenza, particolarmente urgente in Croce, di «non estromettere l’empiria dal quadro spirituale della vita». È quello che dicevo nella prima risposta: di contro all’assoluto ontologico, il problema di Croce pensatore dialettico è quello della mediazione, della relatività, del rapporto fra “empiria” e “spirito”, fra teoria e prassi. Il punto è quello della fondazione del relativo, della teoria della relatività. Tanto è vero che, nella Logica come scienza del concetto puro, è detto che la “finzione concettuale”, la mediazione fra vero e finto, fra essere e non-essere è necessaria. Non errore o “opinione” personale, ma verità dell’essere. La verità dell’essere è l’opinione. Cioè, la non-verità. E questo già per la grande filosofia classica. Aristotele parlava, infatti, di “opinione vera”; non un ossimoro, ma l’individuazione dell’essere come verità/non-verità. La finitezza è un dato originario, appartiene alla struttura d’essere dell’ente (della qualsiasi cosa, del pensiero, del linguaggio). Questo per la tradizione che va appunto da Aristotele a Croce. “Finzione concettuale” o “pseudoconcetto”, allora, non significano un errore o un vizio da rimuovere, ma costituiscono un dato strutturale e “positivamente” fondativo. In questo senso non può esserci politica senza relatività e, di conseguenza, si può dire che la politica è l’arte del possibile. Non una banalità, ma la consapevolezza che appunto l’essere dell’ente è finito, per cui occorre riconoscere la negatività, la relatività, la reversibilità come dati costitutivi e intrascendibili, e pertanto assumersi la responsabilità della decisione tra opzioni diverse. La possibilità è la ragione del divenire, ciò che sottende a ogni decisione, conflitto o cambiamento. A tal proposito, quando Croce dice che «tutti i concetti della politica sono pseudoconcetti» non fa che confermare una profonda verità filosofica: che nel campo dell’ente (non solo, quindi, in quello politico) tutto è relativo, determinato, generale ma non universale, dunque anche criticabile e revocabile. Solo la dialettica fonda la rivoluzione (e, per la verità, anche la conservazione, la democrazia, il progresso e tutti gli altri infiniti “pseudoconcetti”). Fonda la politica. Che nessun concetto politico sia assoluto non è relativismo. Al contrario, presuppone una dottrina forte della relatività. La fondazione, i. e. la necessità, della relatività. La pseudoconcettualità della politica è fondata sul concetto di pseudoconcetto.

Lei ha affermato di recente che quello di Croce è un liberalismo «senza democrazia» e soprattutto «senza organizzazione». In Scritti e discorsi politici (1943-1947) Croce sembra, tuttavia, voler legare sul piano politico – di certo non gnoseologico − i principi liberali e il meccanismo democratico («simul stabunt, simul cadent»), tenendo conto del momento organizzativo e del ruolo pseudo-concettuale delle «strutture».

Veramente anch’io nella prima risposta mi riferivo agli Scritti e discorsi politici, dove, in un articolo del gennaio 1943, è Croce a insistere proprio sul “contrasto” fra liberalismo e democrazia, il cui «rapporto sembra assai difficile a cogliere, assai sfuggente nei suoi aspetti, e ora d’identità e ora di contrarietà». Dove, però, la “contrarietà” è nel fatto che il liberalismo è «principio supremo della vita morale», mentre la democrazia è solo «demagogismo», «mistica del popolo», estremismo ecc. L’«identità» consiste, invece, nella convinzione che «il contrasto tra il liberalismo e il democratismo non può altrimenti conciliarsi che con la risoluzione del secondo nel primo». Dunque, «simul stabunt» solo se la democrazia si annulla nel liberalismo.

Se, invece, si riferisce alla famosa polemica Croce-Parri proprio su democrazia e liberalismo, svoltasi alla Consulta nel settembre 1945, a mio avviso aveva assolutamente ragione Parri. Il leader azionista aveva sostenuto che nell’Italia pre-fascista c’era stato un regime liberale ma non democratico; Croce rispose piccato, impegnandosi in una difesa della democrazia inedita e poco credibile. Che l’Italia prefascista fosse liberale ma non democratica è un dato incontrovertibile. Basta vedere lo Statuto, l’accesso al diritto di voto, la diffusione delle libertà politiche e civili. Quando Croce scrive che nei decenni successivi al 1861 «sorsero partiti politici che formularono e propugnarono i diritti dei lavoratori», dimentica di dire che, al netto di repressioni, stragi, persecuzioni, i partiti politici erano vietati nell’Italia liberale. Il fascismo avrebbe solo abolito in via di fatto quello che era già “abolito” dal liberalismo. La democrazia si sviluppò nonostante il liberalismo. Di più: il liberalismo storico italiano fu un attivo agente antidemocratico. E Croce fu fra i primi. Personalmente non dimentico le ironie sul «Signor Socialismo e la Signora Democrazia» della polemica proprio contro i partiti sull’«Unità» di Salvemini nel 1912. Come non dimentico l’appoggio dato al fascismo allo statu nascenti. Fino all’appello al voto per Mussolini alle elezioni del 1924. Scrisse Gaetano Salvemini, riportando un giudizio di Edmondo Cione (all’epoca intimo del filosofo): in quei fatali Jahre der Entscheidung Croce «guardava al fascismo con simpatie così pronunciate che parlargliene in senso negativo significava farlo andare in bestia». Quando Giovanni Gentile dichiarò, certo acidamente, che Croce era «uno schietto fascista senza camicia nera», a mio avviso aveva perfettamente ragione. Il liberalismo storico italiano (e penso a Croce, a Gentile, a Mosca, a Missiroli, a Pareto, a Santi Romano, a Einaudi, a un’infinità di altri) ha una colpa inescusabile per la nascita del regime totalitario. Sicuramente maggiore rispetto a quella di movimenti “anti-sistema” come socialisti, comunisti, radicali, popolari, nazionalisti ecc. A mio parere, i meriti che Croce maturò in seguito come antifascista sono molto minori delle sue responsabilità. Confermo, quindi, il giudizio di elisione fra liberalismo (italiano) e democrazia.

Il difetto «idealistico» che gli riconosce è rinvenibile nella famiglia degli azionisti? Qual è la sua opinione sul liberalsocialismo italiano?

Intanto parlerei di un “filo rosso” che unisce Gobetti (anni Venti), Rosselli e “Giustizia e Libertà” (anni Trenta) e il Partito d’Azione (anni Quaranta). Riassumibile nel tentativo eroico quanto aporetico di definire qualcosa come un liberalismo “di sinistra”, addirittura una Rivoluzione liberale secondo l’ossimoro, tipicamente italiano, di Gobetti. Il riferimento a Croce, alle sue distinzioni fra liberalismo e liberismo, concetto e “pseudoconcetto”, universale e particolare, era tangibile. E, con la mediazione di Missiroli, arrivò direttamente alla nuova generazione cresciuta durante il fascismo. L’uso che tuttavia venne fatto dei “distinti” crociani fu a mio avviso non sufficientemente critico. Così, se per Missiroli «il movimento socialista è il concreto erede del liberalismo», Gobetti, come ha scritto Paolo Bagnoli, «fu un pensatore elitista che sviluppò in senso democratico la teoria della classe politica di Gaetano Mosca» e senz’altro anche di Benedetto Croce. Ma si può democratizzare l’elitismo? Si può fare rivoluzionario (in senso politico) illiberalismo? Queste a mio modo di vedere sono le aporie del gobettismo e, senz’altro, della nuova generazione azionista post-gobettiana e post-rosselliana. D’altro canto il Guido Calogero degli anni Quaranta parlava di “liberaler Sozialismus”, di cui ricostruiva la genesi addirittura dai tempi di Marx (passando per l’interessata attenzione alla “questione sociale” dei vari Stuart Mill, Russel, Dewey, Hobhouse ecc.). Qui aveva ragione Croce a stigmatizzare certe confusioni (appunto fra liberalismo e socialismo, fra politico ed economico, fra élite e “masse” ecc.), donde la sua severa polemica con i giovani azionisti del secondo dopoguerra. Ma certo lui per primo alimentò confusione ed equivoci: basti pensare alla sua accettazione della presidenza del Partito Liberale italiano nel 1947, proprio quando continuava a teorizzare un liberalismo senza partiti, come “metapartito”, “partito non-partito” ecc. Non è dubbio che il Croce uomo stride con il Croce pensatore. Contraddizione fra biografia e filosofia, se si vuole. In ogni caso, ho un giudizio sul Croce “conservatore” non diverso da quello sugli azionisti “rivoluzionari”.

In conclusione, cosa c’è di «attuale» nel filosofo di Pescasseroli?

Al netto della distinzione cui accennavo all’inizio, direi la concezione “aperta” della politica. Quando in Libertà e rivoluzione (Discorsi di varia filosofia, 1941-1943) scrive che «la libertà non solo non esclude le rivoluzioni, ma le contiene in sé, ed è in perpetuo rivoluzione», ovvero che «se le rivoluzioni sono lo svolgimento stesso e il perpetuo progresso della libertà, esse sono sempre sostanzialmente liberali», ciò è certamente interessante, originale e accettabile. Altrove scrisse che «il vero liberale è il rivoluzionario», perché aperto alla vita e al nuovo, di contro al vecchio liberale chiuso e conservatore (che Croce non voleva essere, ma era). Ma “attuale” (cioè intrascendibile) è soprattutto il “problema” Croce: intendo l’aporia di fondo, la diffidenza inestirpabile verso i partiti politici, la contrarietà alla sovranità popolare, al suffragio universale, la fede in un’“aristocrazia” sia pur “aperta”, cioè disposta ad accogliere «nuovi elementi che vengono dalla cosiddetta massa». Ancora una volta quell’elisione fra liberalismo e democrazia che rimane la ragione esaustiva della maladie italienne, della debolezza cronica della nostra democrazia, ma che è indice anche di un più generale vizio di origine della nostra identità moderna. “Attuale” in Italia è la crisi.

(fasc. 8, 25 giugno 2016)