Com’è noto, Guido Morselli ultimò la stesura dell’ultimo romanzo, Dissipatio H. G., pochi mesi prima di togliersi la vita, nel 1973. L’opera venne edita postuma nel ’77 e rappresenta uno degli esempi più significativi di letteratura apocalittica italiana del Novecento, trattando dell’avventura di un unico sopravvissuto all’improvvisa e misteriosa “scomparsa” del resto del genere umano dal pianeta Terra.
La critica si è interrogata a lungo, in questi anni e specie dopo la tardiva valorizzazione dell’opera dello scrittore, sul reale significato del romanzo, sui suoi modelli stranieri e sulla lettura da dare alla catastrofe che esso rappresenta, alla “volatilizzazione” del genere umano descritta dal protagonista, in prima persona, senza riuscire a darsene una spiegazione. Nell’opera s’intrecciano, infatti, i motivi del catastrofismo e della sindrome del sopravvissuto, che si dibatte tra il senso di colpa per essere stato “prescelto”, il disprezzo per il genere umano dal quale voleva inizialmente allontanarsi tramite il suicidio e il progressivo sentimento di oppressione dovuto alla solitudine schiacciante e al silenzio assordante che lo circonda.
Come ho tentato di dimostrare in uno studio uscito alla fine del 2009 sulla «Rivista di studi italiani»[1. M. Panetta, Da Fede e critica a Dissipatio H. G.: Morselli, il solipsismo e il peccato della superbia, in «Rivista di studi italiani», numero monografico dedicato a Guido Morselli, a cura di A. Gaudio, a. XXVII, n. 2, dicembre 2009: pp. 205-37 (www.rivistadistudiitaliani.it); in cartaceo, in Morselliana, Biblioteca di «Rivista di studi italiani».], a mio parere sussiste un ben preciso rapporto tra l’incipit del romanzo e la scena finale di un’altra opera morselliana, molto meno studiata rispetto alla sua produzione narrativa, ovvero il saggio Fede e critica. Esso apparve nel 1977 a Milano, ma era stato elaborato da Morselli nel biennio 1955-1956, e meditato addirittura a partire dal 1952[2. Cfr. M. Fiorentino, Fede e critica, in Ead., Guido Morselli tra critica e narrativa, pref. di F. D’Episcopo, Napoli, Eurocomp 2000, 2002: pp. 141-81 (in particolare, p. 143).].
Morselli si nutre sempre e continuamente di contraddizioni: sia nelle sue opere di saggistica sia in quelle narrative. La contraddittorietà sembra essere un suo tratto costitutivo: eppure l’impressione è che, più che elemento caratteriale, essa sia artificio voluto e cercato razionalmente per dissimulare, per occultare il proprio Io che prepotentemente riaffiora continuamente nella sua produzione e che egli non riesce a ricacciare indietro (e non vuole veramente relegare in un angolo, in silenzio), perché – a mio giudizio – le sue tensioni intime irrisolte sono il motore di tutta la sua attività di scrittore e il filo conduttore di tutta la sua riflessione teorica, della sua produzione narrativa più ispirata e sincera, e, infine, causa della sua tragica fine. Lo stesso pregiudizio, quindi, che ha pesato nella sua vita – ovvero quello che parlare di se stessi sia eticamente poco conveniente e giusto, specie in epoche storiche di grande disagio e crisi generalizzata – credo abbia pesato e continui a condizionare certa critica che di Morselli si è occupata, impegnata sempre – a mio parere a torto – a sminuire l’importanza dell’autobiografismo nella sua produzione.
Nel caso di Fede e critica, lo scopo reale del saggio non pare tanto quello di arrivare a conclusioni filosoficamente valide e razionalmente giustificabili e comprovabili, ma quello di descrivere, di raccontare il percorso intellettuale e spirituale seguito da un’anima (quella di Guido Morselli) che si pone di fronte al problema del Male e della Sofferenza nella vita umana, ovvero al “Problema” per antonomasia.
Domanda priva di senso sembra a Morselli quella sul Perché si soffre?, che dà il titolo al primo capitolo: «esistere» è anche «soffrire» – risponde l’autore – che si dichiara, in nota, d’accordo con Benedetto Croce, che vede necessariamente contrapposti i poli del piacere e del dolore nel momento economico dello Spirito, o “vitalità”. Male e bene, morte e vita sono, allo stesso modo, problemi ed eventi oscuri; per questo, qualsiasi filosofia si ponesse domande sul senso del male e del suo coesistere col bene sarebbe, per Morselli, da additare come una pseudo-filosofia. L’autore passa in rassegna vari modi di rapportarsi a tale questione e varie soluzioni susseguitesi nella storia della speculazione: il male giustificato da una finalità superiore (di tipo individuale o universale); il male ridotto a pura negatività e, dunque, non avente realtà (laddove Agostino sembra anticipare Hegel, commenta Morselli); il male come defectus boni, minus esse della creatura rispetto al creatore, all’Essere (per cui il peccatore è contraddistinto da un’ulteriore deminutio essendi) etc.
Interessante e – a mio avviso – illuminante (ai fini dell’esegesi dell’opera morselliana tutta), poi, il rilievo da lui attribuito a una concezione del male come “eccedenza”: «si prevarica in quanto vi è qualcosa in noi che esorbita o eccede (…) La superbia, in cui la Storia sacra designa (con molta accuratezza, bisogna ammetterlo) il primo e sommo peccato, è tipicamente un eccedere»[3. Tutte le citazioni saranno tratte dall’edizione milanese Adelphi del 1977: questa è tratta dalla p. 29.].
Centrale[4. Cfr. S. Costa, Guido Morselli, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 31 e sgg.], nell’esame di Fede e critica, è la considerazione del secondo capitolo (incentrato sul Libro di Giobbe), che discute il noto “principio retributivo” secondo il quale il male è necessario in quanto “castigo delle nostre colpe”. A giudizio di Morselli, gli «eroi eponimi dell’umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra, e dice le cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose veramente essenziali per tutti»[5. Cfr. G. Morselli, Fede e critica, op. cit., p. 54. Corsivo mio.]: passo di estrema importanza, dato che vi sono evocati alcuni tra i personaggi più degnamente illustri e semanticamente pregni di tutta la letteratura mondiale. La centralità del libro di Giobbe risiederebbe nel fatto che vi si rivela il «Deus absconditus, che cela il proprio volto alle creature governando la loro sorte dall’alto, e la cui parola non risuona che nel travaglio delle loro coscienze»[6. Ibidem.].
Il libro di Giobbe inizia con Dio e Satana a colloquio, a dimostrazione che nella Bibbia il Bene e il Male «possono stare di fronte l’uno all’altro, parlarsi, misurarsi»[7. Ivi, p. 55. Alcuni punti di contatto si possono rilevare fra l’interpretazione morselliana della figura di Giobbe e quella di Primo Levi. Si veda su quest’ultimo il saggio di Anna Baldini che tratta anche dell’antologia La ricerca delle radici, uscita per Einaudi nel 1981 (Primo Levi e il modello sapienziale, in Mi metto la mano sulla bocca. Echi sapienziali nella letteratura italiana contemporanea, a cura di M. Naro, Roma, Città Nuova Editrice, 2014, pp. 177-92, specie le pp. 181-86; cfr. https://www.academia.edu/7572906/Primo_Levi_e_il_modello_sapienziale).]: Satana è, dunque, una realtà «congenita al mondo»[8. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 56.] (conclude Morselli):
E esisteva prima dell’uomo, esisterebbe anche se l’uomo, che si è creduto riempir l’universo colle invereconde vociferazioni della sua superbia, non fosse apparso mai. È autentica presunzione, non umiltà, quella che ci fa asserire che il male lo introduciamo, lo ‘inventiamo’ noi; una sottospecie dell’antropocentrismo ai cui miraggi cedono volentieri i filosofi[9. Ibidem. Corsivi miei.].
Giobbe crede in Dio e, quando la calamità immeritata lo colpisce, non reagisce con la pazienza e l’acquiescenza che la tradizione gli ha proverbialmente attribuito, bensì con accenti di inusitata violenza, chiedendogli ragione della propria sofferenza. La ribellione di Giobbe si concluderà con la sua finale sottomissione a Dio, che gli concederà, dunque, la «grazia della rassegnazione»[10. Ivi, p. 64.].
Da tutto l’episodio Morselli deduce – contrariamente alle letture tradizionali, da Tertulliano al vescovo Martini – che il Cielo non condanna le reazioni degli uomini alla sventura, non si vendica delle loro rivolte alle punizioni che giudicano ingiuste: «Dio è disposto a indulgenza verso chi insorge contro i suoi decreti, ma non verso chi pretende svelarne il mistero, subordinandoli ai criteri di una legalità rigorosa bensì, ma antropomorfica»[11. Ivi, p. 66.]; ciò che il Signore non tollera è, dunque, di dover «chiarire all’uomo la propria condotta»[12. Ivi, p. 64 (come le citazioni successive).], avendo diritto all’«incondizionato ossequio della creatura». Dunque, «superbia è (…) voler penetrare l’impenetrabile, indagare i voleri del Signore».
Il fatto che nella dottrina venga scelta la superbia come «colpa cui spetta di deviare l’umanità dalla prisca perfezione»[13. Ivi, p. 125 (come le citazioni successive).], come massimo vizio e peccato e come «radice d’ogni pervertimento» è giudicato da Morselli frutto di «un’insuperata sapienza». Che il primo uomo fosse del tutto “libero” è, a parere dell’autore, indubitabile, specie dato che lo sfondo della sua vita era l’Eden, una «natura ideale, o in cui il reale coincide con l’ideale»[14. Ivi, p. 126.]; i suoi discendenti, invece, vivono in un «mondo guasto e sconvolto»[15. Ivi, p. 127 (come le citazioni successive).] e la loro libertà è gravemente limitata dal retaggio di peccato, dalla “macchia” che hanno ereditato. Nondimeno – prosegue – «una traccia della nativa nobiltà si conserva in Adamo dopo la caduta», ed è ciò che ci pone in grado di «figurarci la libertà, e di desiderarla». Pertanto, il bisogno che gli uomini avvertono di Dio è, per Morselli, «anelito a essere liberi».
Nel capitolo su La conversione (il VI), Morselli opera un’importante distinzione tra due categorie di uomini che arrivano a convertirsi (nel senso di acquisire la fede ex novo) dopo aver sperimentato il male: gli spiriti semplici, oppure gli sfortunati, i reietti, i depressi; e «gli egocentrici, consci o inconsci, teorici o empirici»[16. Ivi, p. 154 (come le citazioni successive).], ovvero i «soggettivisti; quella schiera di altamente compresi e compiaciuti di sé, con cui un Leopardi andava così poco d’accordo». L’autore conduce un’analisi dettagliata, accuratissima e spietata della forma mentis dell’egocentrico e delle barriere che tenta di costruire al dilagare del male (analisi troppo dettagliata – aggiungerei – perché non lo riguardi molto da vicino). Il problema è, secondo l’autore, che questa categoria di uomini ha risolto il reale nel proprio «onniassorbente se stesso»[17. Ivi, p. 155. Il corsivo è mio.] e, per questo, nel momento in cui si scontra col male, non può non approdare che a due soluzioni: o al pessimismo integrale (con l’ammissione che esiste un anti-io che contrasta e sovrasta l’io ipertrofico che è tratto caratterizzante della categoria) o a uno «specioso ottimismo»[18. Ibidem.] (per cui si contesta la sostanza del male, intaccandolo con le armi dell’ironia e del cinismo, o esorcizzandolo col ragionamento capzioso). La presenza della Negatività prova ciò che l’egocentrico si rifiuta di ammettere, ovvero che in lui l’essere abbia «almeno un confine necessario»[19. Ivi, p. 156.] e che, dunque, pertenga al relativo, mentre l’assoluto è qualcosa che esiste oltre il relativo stesso, lo supera e non è conoscibile. Ne consegue un forte limite «alla validità delle nostre costruzioni mentali, dei nostri assiomi, delle antinomie che ne deduciamo»[20. Ibidem. Il corsivo è mio.]: pertanto, il male, in queste anime, è l’unica via efficace che introduca al Mistero.
Le riflessioni delle pagine finali del saggio sono di estremo interesse: se qualcuno si considera felice – precisa Morselli – e il resto del mondo è, nel frattempo, infelice, può pensare che il mondo, con la sua infelicità, non sia che un’apparenza: ciò non viene etichettato come allucinazione dall’autore, bensì come «sillogismo»[21. Cfr. G. Morselli, Fede e critica, op. cit., p. 243 (come le citazioni seguenti).], pur capzioso. Morselli conviene, comunque, con degli ipotetici lettori, sul fatto che si possa parlare, in tali casi, di «aberrazioni», di «deviazioni», e, nello specifico religioso, di «patologia della religiosità». Il cristiano, però, deve superare quell’atteggiamento per non ricadere nel «peccato d’orgoglio: il solipsismo»[22. Ivi, p. 244 (come le citazioni che seguono).], ovvero la condotta di chi «pensa e agisce come se l’universo non fosse altro che una sua proiezione o una sua dipendenza». Il rimedio a tale tendenza – passo di estrema importanza – è individuato da Morselli nell’esercizio della «charitas Christi, che consiste nel fare del bene, ma anzitutto nel sentire le creature fuori di noi altrettanto reali e importanti quanto noi siamo. Non è eccessivo pensare che, senza di essa, anche della fede più schietta sarebbe possibile la corruzione e l’abuso».
A mo’ di esempio probante della reale possibilità che un credente riesca a salvarsi da un atteggiamento di egocentrica chiusura verso il suo prossimo (cosa che, invece, non è avvenuta al protagonista di Dissipatio e che segna il suo umano fallimento, nonostante l’aprirsi di una tardiva speranza finale), la pagina conclusiva del saggio – una delle più mosse e vive – è incentrata sul racconto di un anziano amico avvocato, malato di una forma di diabete ritenuta mortale, «cattolico osservante»[23. Ivi, p. 245.] tornato miracolato da un viaggio a Lourdes (nel novero di quell’1% dei malati che erano stati graziati). Gioverà riprodurla per intero:
«Ti assicuro» mi disse «che il fatto non va attribuito a nessun merito speciale. (…) D’altra parte, supporre che Chi mi ha elargito la grazia si sia affidato puramente e semplicemente al caso[24. Molto importante, in Dissipatio, il passaggio in cui il protagonista si chiede se sia stato un «Caso» o no che proprio lui sia rimasto l’unico superstite alla sparizione del genere umano: «prescelto» o «escluso»? Questo il dilemma (cfr. pp. 86-87), al quale si risponde che, se la “dissipatio” è stata un castigo, è stato un prescelto; se, invece, è stata un «mistero glorioso», è da considerarsi un escluso.], sarebbe offensivo; lo capisco». «E allora?». Sorrise: «Confesso che in principio ho dovuto combattere una stramba fantasia. Vedendo ogni giorno centinaia di malati che se ne partivano quali eran venuti, ricordo che mi pareva di vedere muoversi personaggi di un sogno. Io solo in carne e ossa in mezzo a un popolo di fantasmi[25. I corsivi sono miei.]. Era un’illusione presuntuosa, che in fondo rispondeva a una mia logica inconscia, al bisogno di spiegarmi il miracolo che era stato fatto per me e non per loro. Così la scelta si rendeva più comprensibile, anche se in cambio il mio prossimo diventava qualcosa di evanescente, messo là al solo scopo di cimentare la mia fiducia nella divina giustizia… In quei momenti avrei giurato di esser l’unico uomo che esistesse per davvero al mondo. Perbacco, mi dicevo poi, adesso che son sano di corpo dovrei ammalarmi di mente? Per fortuna ho visto subito quel che bisognava fare. Ero andato a Lourdes con mia moglie e mio cognato. Li ho persuasi a rientrare senza di me e me ne sono tornato nello stesso treno-ospedale, come brancardier[26. Questo corsivo è del testo.], con una mezza dozzina fra uomini e bambini da servire di tutto punto. Non c’è stato verso di chiuder occhio; la mia testé ricuperata salute era di buona marca. L’ho collaudata». «E quelle idee?…». Fisime, s’intende, che non hanno resistito un’ora. Per convincersi della positiva consistenza del proprio prossimo, non c’è che dovergli rifare il letto e la medicazione, o portarlo in braccio pel corridoio d’un vagone. È un metodo sicuro!».
Come accennato, la forte suggestione che questo racconto dovette esercitare sull’animo di Morselli – che lo inserì nella “posizione forte” dell’explicit, a suggellare il tormentato percorso personale di Fede e critica, evidentemente non risolto – è, a mio avviso, da rintracciare come una delle spinte più potenti alla base dell’invenzione narrativa su cui s’impernia Dissipatio H.G.: a partire già dall’incipit («Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’. (…) Relitti inconsistenti, e ormai reliquie»[27. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., Milano, Adelphi, 2009 (I ed. 1977), p. 9. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione.]).
Che non si tratti di un evento assimilabile alle sciagure di Pompei, di Hiroshima[28. Ivi, p. 12. Molta critica ha indicato in La nube purpurea di Matthew Phillip Shiel (The Purple Cloud, 1901; trad. it. 1967) un possibile antecedente di Dissipatio.] o all’Apocalisse[29. Ivi, p. 13. Cfr. anche la fantasia apocalittica in cui egli vede tutti i suoi colleghi e pseudo-amici della carta stampata, in attesa dell’estrema sentenza, vigilati dai tre angeli neri che in vita essi veneravano (Sociologismo, Storicismo, Psicologismo); e, ai piedi del monte Armageddon, due «serpi loricate» che strisciano (Advertising e Marketing): forse una “vendetta” dell’autore per i numerosi rifiuti opposti alla pubblicazione delle sue opere? La cultura viene qui definita «una fenice», che non ha «consistenza, se non ne trova una produttivistica» (p. 92).] viene confermato dallo stesso protagonista (e, per quanto apprezzabili e a volte convincenti nell’evocare suggestioni, a tale proposito mi sembra che non colgano nel segno molti tentativi di rintracciare altre fonti letterarie per l’idea su cui si basa il romanzo)[30. Cfr., ad esempio, l’utile capitolo (Dissipatio H. G. e la letteratura del Novecento) che al romanzo dedica Paola Villani nel suo Il «caso» Morselli. Il registro letterario-filosofico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, pp. 73-114.].
Il protagonista tende a responsabilizzare i propri simili riguardo alla loro scomparsa, non riuscendo a ipotizzare una «costrizione innaturale»[31. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 14 (come la citazione che segue).] e accusandoli di aver ceduto a una «follia collettiva» o a un «comando, a cui però dovevano disubbidire. Sono stati complici: non c’era forza, autorità, che li potesse obbligare»[32. Ivi, pp. 14-15.].
Ecco la frase che dà il via al vero e proprio “delirio solipsistico”: «Eppure, l’Inspiegabile si è inaugurato per opera mia»[33. Ivi, p. 19.] (da rammentare, al riguardo, il ragionamento di Fede e critica sulla preghiera-richiesta[34. A p. 103, il protagonista definisce «un miracolo, un miracolo orrendo» quello che si è compiuto, e che sembra rispondere alle sue preghiere.] e sulla superbia); i misteriosi accadimenti hanno coinciso con «un evento strettamente privato e mio; coincidenza, oso pensarlo, non casuale»[35. Ibidem.] (altra conferma).
Segue il racconto delle cause del tentativo di suicidio, motivato dalla prevalenza quantitativa del male sul bene, nella vita del protagonista (tema già incontrato sempre in Fede e critica): il disagio comincia come malattia fisica cronica, di quelle che, «curate con un po’ d’umanità» (la charitas?), guariscono. Il progetto di suicidio consiste nel far perdere ogni traccia di sé: una «misteriosa irreperibilità»[36. Ivi, p. 22 (come la citazione seguente).], o, meglio, un «misterioso annichilamento, un dissolvimento nel nulla»: esattamente quello che parrebbe esser successo, poi, ai suoi simili. Segue il racconto del suicidio mancato: con suggestione dantesca, l’aspirante suicida riflette sul fatto che la sua vita «termina a imbuto»[37. Ivi, p. 23. In seguito, Morselli parlerà anche di «piramide, temporale, capovolta» (pp. 85 e poi 115) e di morte come «precipizio» (p. 109).], mentre si avvia per il sentiero che lo condurrà all’imbocco del cunicolo che porta «all’orlo del pozzo, una grande apertura ovale, in fondo a cui stagnava l’acqua»[38. Ivi, pp. 23-24.]. Inutile rammentare la forza evocativa delle morti per annegamento e i significati che la psicanalisi (tanto osteggiata da Morselli[39. Anche il medico Karpinsky, pur laureatosi a Vienna con una tesi sui rapporti epistolari tra Jung e Freud, è «disposto a accantonare la P.A.» (p. 62). Cfr. al riguardo l’intervento cit. di Paola Villani, specie alle pp. 88-91.]) attribuisce all’acqua: il bacino chiuso entro il quale il protagonista dovrebbe lasciarsi cadere si chiama – guarda caso – lago «della Solitudine»[40. Ivi, p. 24.].
L’aspirante suicida indugia sull’orlo del pozzo e si concede un sorso di cognac (espediente letterario che aggiunge ambiguità al prosieguo della narrazione, che potrebbe essere interpretato come un sogno[41. Cfr. a p. 37, quando il protagonista afferma, tornando a Crisopoli: «Rimettendoci piede (erano sei mesi che non ci venivo), dopo il sogno cominciato sull’orlo del Sifone, io ‘prendevo terra’, riavevo contatto col solido mondo».], un’allucinazione, un delirio o uno stato di sbornia[42. Il fatto che il narratore precisi che abbia bevuto un unico sorso di cognac non è rilevante, dato l’alto tasso di ambiguità e di mistificazione presente in questo racconto, che non è chiaro neanche al protagonista.] in cui si perdono i confini tra realtà e immaginazione).
A complicare le cose, l’urto della testa contro uno spuntone di roccia, una «capata tremenda»[43. Ivi, p. 25.] che lo rintrona al punto da fargli sbagliare la strada[44. Un altro errore di tal fatta a p. 48.] del ritorno e lo conduce davanti a una cabina telefonica[45. Un’altra cabina telefonica ritorna a p. 106.] dalla quale decide di chiamare il 333, «un Amico nella Notte»[46. Ivi, p. 27 (come la citazione che segue).]: la prima richiesta di aiuto del romanzo. Risale, poi, il sentiero verso casa, «o risalivo l’imbuto. Non recriminazioni, accuse di codardia a me stesso. Fastidio e basta».
Chi manca un suicidio – commenta il protagonista – si illude che ci sia una terza via, tra la morte e il «rituffo nel quotidiano»[47. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 32.]; ma tertium non datur, e la «monade intellettuale senza aperture né impegni»[48. Ivi, p. 30.], al suo ritorno alla vita, viene aggredita dai «problemi irrisolti»[49. Ivi, p. 31 (come la citazione che segue).] e dall’«assedio delle piccole cose ‘care’», degli oggetti vischiosi che hanno valore solo per il singolo, che ne conosce la storia e, attraverso essi, riprende contatto con se stesso e con i propri ricordi.
Il IV capitolo introduce la distinzione tra cronaca esterna e cronaca interna dell’evento (torna l’ossessione, oserei dire, per la Storia di Morselli); è il momento in cui viene sancito ufficialmente il passaggio al Solipsismo[50. Non concordo con Paola Villani, che sostiene che quello «in cui si trova il protagonista del romanzo non è “solipsismo”, in quanto l’assenza degli uomini, in questo caso, non è più voluta» (op. cit., p. 79) e che, nella vicenda, c’è stato un «hegeliano rovesciamento del razionale nel reale» (ivi, p. 94); così sarebbe solo nel caso in cui si ritenessero gli eventi raccontati come realmente accaduti. Non mi sembra convincente neanche la sua lettura dell’opera come ascrivibile al genere del romanzo fantastico descritto da Todorov (cfr. pp. 83 e sgg. dell’art. cit.).]: la Storia, intesa come storia dell’umanità, coincide, ormai, con la storia interiore del protagonista (motivo ricorrente anche in Fede e critica). Il “superstite” comincia a registrare un silenzio diverso, quello da assenza umana: «mi accorgevo, è un silenzio che non scorre. Si accumula»[51. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 35.].
Giunto a Crisopoli, egli ne constata la desolazione: gli uomini non hanno «lasciato un messaggio decifrabile. Hanno lasciato invece tutte le loro cose»[52. Ivi, p. 37.]: si profila il tema dell’incomunicabilità con i propri simili, se non attraverso la mediazione degli oggetti.
La telefonata al servizio di Ora Esatta[53. Cfr. anche la riflessione su tempo “oggettivo” e tempo psichico in Robinson Crusoe (pp. 92-93).] ha la funzione di fissare dei punti di riferimento temporali, mentre quelle, prima, a persone con cui è in «occasionale corrispondenza»[54. Ivi, p. 41.] e, poi, a sconosciuti suonano come altrettante richieste di aiuto. I suoi simili, infatti, cominciano a mancargli: «Adesso che ‘loro’ si fanno desiderare, o cercare se non altro, comincio forse a misurare la loro importanza»[55. Ivi, p. 45.].
Il VII capitolo inizia con la rievocazione di un «gioco»[56. Ivi, p. 51 (come la citazione che segue).] con cui il protagonista s’intratteneva, alla metà del precedente maggio: «parentesizzare l’esistenza dei miei simili, figurarmi come l’unico pensante in una creazione tutta deserta. Deserta di uomini, s’intende».
Un cenno al «dogma dell’incomunicabilità» (e a un’ipotetica obiezione altrui: «sei sempre stato solo»[57. Ibidem. A p. 68 si parla di «imponderabilità sociale», di «Assenza totale di trame interpersonali».]) viene confermato, dopo la ricerca delle stazioni radio, tutte prive di voce umana, dall’affermazione: «Scarto subito gli assiomi della informatica, del tipo: il mezzo è il messaggio, con l’indiscutibile corollario niente mezzo, niente messaggio»[58. Ivi, p. 54.], perché il problema non è – evidentemente – il mezzo, che continua a funzionare anche senza umani. Il problema, per il protagonista, è che, da parte sua, non c’è stato mai messaggio[59. Un messaggio di «bontà e soccorso» (p. 129) verrà, invece, inviato al protagonista da Karpinsky, alla fine del romanzo.].
La Natura prosegue, a dispetto di tutto, il proprio moto inarrestabile, come gli animali; l’idea della fine del mondo, dunque, viene etichettata come «Uno degli scherzi dell’antropocentrismo»[60. Ivi, p. 56 (come la citazione che segue).], e anche Montaigne è ironicamente dileggiato: «Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo»: torna il tema della superbia e della Natura che prosegue la propria vita, anche dopo la conclusione di quell’«intermezzo breve»[61. Ivi, p. 87.] che per gli umani ha il nome di Storia.
Una «rapida allucinazione»[62. Ibidem. Cfr. anche p. 63.] (o «visione o evocazione involontaria, o apparizione»[63. Ivi, sempre p. 63.]) viene definita quella in cui il protagonista ricorda, a distanza di dieci anni, come in «un sogno a occhi aperti»[64. Ivi, p. 61 (come la citazione successiva).], la villa sul lago (ancora un lago), ovvero la clinica privata in cui, a ventinove anni, “è guarito dalla giovinezza” e dalla «neurosi ossessiva» grazie al soccorso del medico Karpinsky[65. Alexander Petrovich Karpinsky (1847-1936) fu un famoso geologo e minerologo russo, che ha dato anche il nome a un cratere della luna. Sembra altamente probabile che Morselli abbia scelto questo cognome riferendosi a tale scienziato, vista la sua passione per la luna, ampiamente documentata nel Diario.], che, in quell’occasione, sembra parlargli nuovamente con «voce viva»[66. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 63.].
Il IX capitolo del romanzo riprende il tema del male, inteso non come problema morale ma come sofferenza (esattamente come in Fede e critica); si fa strada un inatteso moto di comprensione e compatimento verso la collettività degli scomparsi: si parla di simpatia, di empatia e del venire a galla di una «naufraga solidarietà umana»[67. Ivi, p. 69.]. Nonostante ciò, il protagonista ammette anche di non rintracciare nessun senso in ciò che gli sta capitando: lo soffre, ma non lo capisce, come potrebbe fare se fosse un uomo morale o un devoto che ha «una Provvidenza a cui votarsi»[68. Ivi, p. 71. A differenza di Giobbe, dunque, in questo caso la creatura ha la pretesa di comprendere le trame imperscrutabili del Creatore e pecca, in questo, di superbia.]. Smentisce anche l’assioma di Durkheim (evocato spesso, nel romanzo) che “pensiamo soltanto in funzione degli altri”. «Sarò immodesto»[69. Ivi, p. 73.] – ammette – ma «Io sono, dunque penso (…)»[70. Ivi, p. 74 (come la citazione seguente).].
La conversazione con l’ex-paranoico Mylius chiarisce la concezione per cui si è morti anche se, pur essendo ancora in vita, ci si disinteressa di ciò che accade intorno a noi; caratteristiche dei morti viventi: «Impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza»[71. Ivi, p. 77 (come la citazione che segue).], «impassibilità». Vivere, per Mylius, vuol dire esperire; pertanto, la cecità nei confronti delle esperienze altrui equivale alla morte: «Quei dati, quelle esperienze, ‘non ci sono’ per noi, e noi non ci siamo per essi. Non importa che, per altri individui, essi costituiscano la trama del ‘quotidiano’: noi, qui, siamo morti, e non c’è ragione di chiamare tale morte ‘metaforica’. È morte parziale, ma reale»[72. Ivi, p. 78.].
La vita è un movimento circolare intorno al proprio io – sostiene Mylius –, un moto circoscritto dal cerchio d’ombra di tutto ciò che sfugge alla nostra cognizione: è fatta di esclusioni e occlusioni, che, però, salvano gli umani dal rischio di dispersione («ci disperderemmo»[73. Ivi, p. 79.]). La cecità degli uomini, dunque, è il loro limite, ma anche la loro salvezza dallo smarrimento negli infiniti percorsi del possibile: il loro, pur miserando, radicamento al reale.
Dopo essere caduto in preda al freddo e alla paura, il protagonista ammette di aver bisogno di aiuto e precisa che neppure scienza e filosofia sono, ormai, in grado di soccorrerlo, perché «ciò che succede non è pensabile, va oltre»[74. Ivi, p. 111.]. Si rifugia, allora, nel passato (con ovvio riferimento all’amato Proust) e ritorna, con la memoria, all’«isola»[75. Ivi, p. 113.] felice Karpinsky.
L’idea che sia stato salvato perché, al momento dell’Evento, si trovava in una caverna gli riaccende la speranza di poter trovare in vita alcuni minatori e, mosso dal proposito («Ho un progetto, e con questo (lo sento) io sfato la morte»[76. Ivi, p. 115 (come la citazione che segue).]) di cercarli, si riaffaccia «sul reale, sull’umano» (ma il tentativo sarà vano). Subito dopo è, però, preda anche del dubbio di essere divenuto pazzo[77. Cfr. M. Mari, Estraneo agli angeli e alle bestie (Lettura di Dissipatio H. G.), in «Autografo» (Ipotesi su Morselli), a. XIV, n. 37, luglio-dic. 1998, pp. 49-58.], ma poi presto si consola, riflettendo sul fatto che la pazzia si misura in relazione a una presunta normalità e che, dunque, non essendoci più termini di paragone perché i suoi simili sono scomparsi, egli non può più impazzire.
Sull’ipotesi che possano esserci probabilità che riprovi di nuovo a suicidarsi si sente tranquillo, perché il suicidio – osservazione di estremo interesse, in relazione alla brusca conclusione volontaria della vita dello scrittore – «richiede un destinatario o dei destinatari. Qualcuno che noi decidiamo di punire, o viceversa di ammaestrare»[78. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 135.]. Preso da un vero e proprio raptus, raggiunge di nuovo l’aeroporto e scrive cartelloni in cui chiede – per «pietà» – a chiunque eventualmente passi di lì di avvisarlo. Ex-uomo si definisce, quasi alla fine, perché si sente privato della propria identità, «uscito dalla sua pelle»[79. Ivi, p. 145.]; e si avverte come fuori dal tempo, perché per lui, ormai, l’eterno è «la permanenza del provvisorio»[80. Ibidem.].
La sua passata previsione sull’avvento di un’epoca di necessaria (e quasi egoistica, dato il restringersi dei confini del mondo)[81. Cfr. M. Fiorentino, Fede e critica, in Ead., Guido Morselli tra critica e narrativa, op. cit., pp. 178-81 (il tema è trattato ampiamente in Roma senza papa).] solidarietà tra gli uomini (la «socialidarietà»[82. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 147.]) è stata delusa; eppure non direi, con Marina Lessona Fasano, che in Dissipatio si colga solo una «determinata volontà di morire»[83. Cfr. M. Lessona Fasano, Guido Morselli. Un inspiegabile caso letterario, Napoli, Liguori, 2002 (I ed. 1998), p. 127 (come la citazione che segue).], una «diffidenza radicata o ostinata verso “loro”, gli uomini, infidi e pericolosi», ché, anzi, l’opera, a ben vedere, si chiude con una, pur flebile e pallida, speranza e con una richiesta di aiuto a uno di loro, degli uomini, sebbene la sua figura si carichi di suggestioni cristologiche molto evidenti (il suo essere in clinica «trattato male (…) mal pagato, male stimato»[84. Cfr. G. Morselli, Dissipatio H. G., op. cit., p. 62 (come la citazione che segue).], la sua «barba bella, folta, ma che in lui era una stimmata», la sua «trasandatezza»[85. Ivi, p. 113.] nel vestire, il suo «parlare senza suono»[86. Ivi, p. 62.], i suoi inviti a credere, il suo essere «paterno (e era più giovane di me)»[87. Ivi, p. 63.] come il Figlio di Dio, che è insieme Padre e Spirito Santo; la sua morte-estremo sacrificio per dividere due litiganti[88. E non “evaporizzazione” (cfr. p. 197) assieme al resto del genere umano, come in C. Stifani, La Dissipatio morselliana: dal solipsismo all’antropo-dinamismo, in «Rivista di Studi Italiani», a. XXIII, n. 1, giugno 2005 (ma 2008), pp. 192-98.], il suo parlare «da un luogo che non è di questa terra», il suo apparire al protagonista l’unico individuo la cui fine risultasse «certa sul piano storico, anagrafico»[89. Ivi, p. 70 (come la citazione che segue).] e nello stesso tempo il solo che «non mi sembra morto. Vive, o rivive. Dovrei dire, pateticamente, che rivive ‘in me’»).
Il medico Karpinsky viene giudicato dal protagonista uno dei «rari incontri, nella mia vita, forse l’unico, per cui meritasse di uscire dal pianeta-io»[90. Ivi, p. 70.]; è proprio lui che – a mio parere – gli diagnostica la sua vera malattia, invitandolo: «distacchi il suo io, pensi a tutto tranne se stesso»[91. Ivi, p. 63.].
Nell’ambigua allucinazione finale, il protagonista viene “chiamato” (dall’ennesima cabina) dal medico, che gli promette aiuto, e si rende conto che non riesce a incontrarlo perché è lui che lo fa aspettare, «equivocando sul suo appello. Lo cerco in templi di legno o di pietra, quando il suo senso del divino spaziava libero e vasto»[92. Ivi, p. 132.].
Il medico-Dio lo invita a riconciliarsi con il genere umano, e, in un passaggio importante e denso, si cela, forse, la radice della solidarietà umana, per come è concepita da Morselli: Karpinsky lo spinge ad abbandonare la sua dimora e a tornare in città. Gli chiede indirettamente di non condannare i «Mercanti» di Crisopoli, «i Ladroni e le Prostitute»[93. Ivi, p. 153.], e il protagonista capisce che deve «dire no, a ciò che in quella riprovazione si esprime del suo io»[94. Ivi, p. 146.]. A che cosa, dunque? Il giudicare – puntualizza Morselli – implica sempre il condannare: se teniamo presente Fede e critica, ciò implica che solo un superbo può pensare di potersi ergere a giudice dei propri simili, dato che gli uomini sono tutti accomunati dalla macchia originaria e da una natura debole e imperfetta. Probabilmente, il Dio-Karpinsky aspetta che egli si liberi del suo peccato più evidente – la Superbia, che l’ha condotto al solipsismo – per concedergli di incontrarlo, finalmente (si potrebbe, forse, concludere che la “liberazione dal peccato” e l’anelito all’Assoluto corrispondano, per Morselli, al processo di purificazione dal vizio capitale della superbia).
Allora egli lo vedrà, «ritto nel suo camice bianco, macchiato di sangue sul petto dove l’hanno colpito. A braccia aperte. (…) La mia è una certezza, non propriamente un’attesa, e mi libera da ogni impazienza»[95. Ivi, p. 154 (come la citazione che segue).]. Dissipatio si chiude, dunque, con una speranza, verde come i fili d’erba (le «piantine selvatiche») evocati nell’ultima pagina: un filo che va dall’uomo all’uomo, ma passando per il divino.
Evidentemente, però, l’ultimo, fatale accesso del dolore intervenne, due mesi dopo la conclusione del romanzo, a fiaccare le forze del suo autore, un uomo che per tutta l’esistenza aveva lottato per restare in vita e per non cedere alla tentazione del suicidio; uno scrittore che, come narratore, non ebbe mai la possibilità di confrontarsi con un pubblico: Dissipatio, dunque, forse anche come allegoria della solitudine dello scrittore che non ha lettori.
Dissipazione, dunque – mi sembra –, come “spreco”, essendo la Dissipatio Humani Generis non il fenomeno fisico di «sublimazione»[96. Per quanto Morselli sembri indicare questa spiegazione, citando l’opera di Giamblico nel romanzo (p. 81).] o «vaporizzazione» del genere umano (fatta eccezione per il suo protagonista), bensì l’amara constatazione dell’irreparabile dissipazione del tempo che il protagonista ha trascorso accanto ai propri simili, senza saperne trarre frutto e senza comprendere il valore profondo della comunicazione e dello scambio emozionale e affettivo con gli altri uomini.
Il protagonista del romanzo avrebbe, forse, potuto guarire e salvarsi (come l’amico avvocato di Morselli), “uscendo” in tempo “dal proprio io” e, magari, mettendosi al servizio degli altri; e l’autore stesso avrebbe potuto, forse, resistere alla tentazione di indulgere all’atteggiamento egocentrico dell’uomo fiero di essere una monade (e al periodico richiamo del cupio dissolvi), affidandosi, magari, anche al suo profondo – per quanto criticamente vigile – senso di religiosità, perché – come scriveva – l’uomo religioso «non si radica in quelle posizioni estreme, le supera»[97. G. Morselli, Fede e critica, op. cit., p. 213.].
In conclusione, la lettura che si è proposta del romanzo è in chiave essenzialmente psicologica, per cui il senso del tragico vi si configura come la condanna dell’Io solipsista all’alienazione, alla disperazione della monade affetta dall’incapacità di comunicare col resto del mondo. In tale contesto, come accennato, il romanzo di Morselli mette in crisi la tradizione del genere stesso, configurandosi come un complesso intreccio di generi e alternando sequenze cronachistiche, descrittive o narrative a veri e propri inserti di scrittura di taglio saggistico, specie in riferimento a temi filosofici, antropologici e sociologici.
Il futuro delineato si presenta come assoluta distopia, contenendo in sé un monito che, forse, rappresenta il più tragico dei lasciti testamentari di Morselli: quello anti-dialettico di chi ha perso ogni speranza e non crede più nella possibilità di un reale dialogo con l’Altro[98. Si pubblica il testo della relazione tenuta al XIV Convegno Compalit (Associazione di teoria e storia comparata della Letteratura) di Venezia, 14-16 dicembre 2016, dal titolo Maschere del tragico (Panel: Ri(scrivere) la catastrofe), a cura di C. Cao, A. Cinquegrani, E. Sbrojavacca, V. Tabaglio.].
(fasc. 17, 25 ottobre 2017)