Calpestato tu l’hai questo mio cuore!
Ma di una donna non sa far vendetta.
È abitato da Dio, pieno d’amore;
nei miei sogni ti chiamo benedetta[1.Nuovi versi alla Lina (4), in U. Saba, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1996, III ed., p. 126.].
Chi si trovasse a leggere il celebre capitolo XX dei Promessi Sposi[2. A. Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di F. de Cristofaro et alii, Milano, Rizzoli, «BUR-Classici italiani», 2015, II ed.] (che comincia: «Il castello dell’Innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio»), tenendo a mente, per predilezione o lettura recente, la ben nota poesia dedicata a Trieste dal petrarchesco-freudiano (schivo e pensoso) Umberto Saba, non potrebbe fare a meno di notare la ricorrenza di parole e immagini in tutto o in parte omologhe nelle due opere, come «erta», «ragazzaccio», «intorno» (in posizione privilegiata e dominante), «cantuccio»; e, magari, di domandarsene (ove vi fosse) la ragione. Oltretutto, il famoso incipit della poesia sabiana (Ho attraversata tutta la città) sembra trovare riscontro al precedente capitolo XIX dell’opera manzoniana, allorché Don Rodrigo decide di rivolgersi a un tale «terribile» ma anonimo personaggio per trafugare Lucia: e qui l’autore non disdegna di offrircene qualche notizia tramite gli storici del tempo e racconta di quando, bandito, si trovò a lasciare Milano, tra trombe e trambusto, attraversando la città con pertinace impertinenza verso l’autorità, prefigurandone quasi una traiettoria “achillea” (in seguito alla lite con Agamennone), che troverà compimento nel commovente incontro con Priamo-Federigo, decisivo per la restituzione del “corpo” di Ettore-Lucia (una linea “iliadica”, sottesa al romanzo, ancora non sviscerata dalla critica e che illustreremo prossimamente): «Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore».
C’è da stabilire se l’attraversamento sabiano avvenga ante o post reditum, dato che «Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di ritornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto», come idealmente lo era anche Trieste. È come, insomma, se i due personaggi (l’Innominato manzoniano e l’«innominato»- io lirico sabiano), uno di qua e uno di là dal confine («un cantuccio in cui solo / siedo; e mi pare che dove esso termina / termini la città») si dessero le spalle o, volgendosi, la mano, mirandosi, non invisi, in viso. O che addirittura, come si conviene a una commedia plautina (la medesima allusa in Manzoni nel colloquio tra il Conte zio e il Padre provinciale dei cappuccini, dicendo il primo al secondo: «e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai»[3. Ove quest’ultimo sintagma ascende sicuramente all’espressione plautina del Miles, odiorum Ilias, allorché il giovane Pleusicle, amante di Filocomasia e ospite del vecchio Periplectomeno, afferma che il prolungamento della sua permanenza presso l’ospite sarebbe inopportuno: «verum ubi dies decem continuos sit, east odiorum Ilias» (T. M. Plautus, Miles gloriosus, 743). Qui, dunque, la pertinenza della citazione manzoniana, misconosciuta dalla critica, nel luogo ove si fa questione della permanenza o meno di fra Cristoforo nel paesello dei due promessi.]), forata una parete, potessero trapassare di qua e di là, tanto da consentire al protagonista sabiano di mutuar quasi il «cantuccio» in cui Lucia attendeva la sua sorte nella tormentosa e provvidenziale notte dell’Innominato. Bisogna, quindi, senz’altro propendere per il post-reditum e l’avvenuta conversione, visto che, dopo il decisivo incontro con Federigo, «stava l’innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia» (cap. XXIII) o, per dirla col poeta, a «poter soccorrere chi s’ama» (in Confine)[4. U. Saba, Tutte le poesie, op. cit., p. 438.].
Dunque, l’attraversamento è da considerarsi il rientro da un “esilio”; è un ritorno a casa quel che ci appalesa la poesia sabiana: egli attraversa tutta la città come a re-impadronirsene, senza la hýbris militaresca e irresponsabile della partenza; è un prendere possesso partecipe di tutto ciò che la città è e contiene, nella sua variegata esistenza di persone e cose, in un doppio movimento orizzontale (metonimico, di fisica e totale contiguità) e verticale (di superiore e distaccato sguardo metaforico): movimenti che non si escludono a vicenda ma sembrano invece convivere in un precario e contrastato equilibrio, incarnato nella similitudine del «ragazzaccio aspro e vorace», dalla «scontrosa grazia», non lontano da colui che si avanza «armato come un saracino», dalla «taverna» (luogo chiave per Saba) della Malanotte, «al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava», id est Don Rodrigo (forse con lontana allusione autobiografica al «piccolo Berto», cui furono di gioiosa compagnia le armi nel tempo favoloso della balia). Dunque, sale l’erta/arte, nel movimento metaforico verso il cantuccio/castello, da cui domina la vista tutt’intorno, come un’«aquila dal suo nido insanguinato» (cap. XX). E forse è da riportare a questa immagine manzoniana una supposta stravaganza del poeta che, un giorno, come ebbe a raccontare la moglie, «tornò a casa con un’aquila. Così, per il suo piacere. E volle tenerla»[5. S. Carrai, Saba, Roma, Salerno editrice, 2017, pp. 93-94.].
Egli, Saba/Poli, è come l’Innominato che, convertitosi nell’incontro con Federigo, non è più un “assassino”, come il padre di Umberto lo era stato «fino ai vent’anni che l’aveva conosciuto».
Insomma, si opera una riconquista poetica della funzione paterna, che si riafferma con tutta la propria forza: «Io sono però» (cap. XX), assumendo tuttavia il poeta anche il peso di uno sguardo materno sulla città. L’uno (pecorella smarrita) si fa santo come Federigo, l’altro poeta come il genitore («Il dono ch’io ho da lui l’ho avuto»), essendo la poesia per Saba il grado spirituale antecedente la santità. I figli si rispecchiano nei relativi padri, quasi sostituendoli nella loro rispettiva identità o doppiandoli in essa, entrambi circonfusi da un’aura, per così dire, di santità poetica. In ciò potrebbe consistere il segreto dello pseudonimo Saba, quasi una reductio ad unum di un cognome, Poli, che sembrava richiamare la scissione tra i due genitori («due razze in antica tenzone»), per conquistare un salvifico equilibrio da santo eremita, collocato come un San Saba in un cantuccio/eremitaggio periferico, sede di una vita pensosa e schiva, santa, prima invece letterariamente ancora delittuosa, denominandosi egli, con dannunziana appariscenza, Umberto da Montereale; e trapassando, dunque, dal dandismo letterario alla «poesia onesta» di ascendenza manzoniana[6. Dedico queste Note a Umberto Saba nel 60° della morte (25 agosto 1957), auspicandogli, se non una beatificazione, di certo la beatitudine che tanto desiderò. Ringrazio al contempo i miei alunni Mouhamed Ali Meddeb e Ivan Di Rosa, coi quali ho profittevolmente dialogato sul tema.].
(fasc. 16, 25 agosto 2017)