Premessa
È l’unica ed eterna stella dei naviganti nel mare tempestoso della vita […] sol essa produce le cose nuove, le nuove idee, i nuovi atteggiamenti, i nuovi istituti, i nuovi modi di vita; e le vie della libertà il mondo, che non vuole e non può morire, deve sempre di necessità ripigliare, nonostante le parole diverse e avverse che taluni o molti degli uomini vociferano e che non possono cangiare la legge del mondo[1].
Queste poche battute, oltre a riassumere tutta la tensione etico-politica che caratterizza la figura di Benedetto Croce, sembrano mostrare come la questione della Libertà e del suo svolgersi con e attraverso il mondo sia centrale per comprenderne a pieno la riflessione[2]. Parole come «eterna stella», «nuovi modi di vita», «vie della libertà», «legge del mondo», infatti, testimoniano una mal celata frizione tra filosofia ed esperienza integrale, idealismo e storicismo, moralità e realismo politico che attraversa la filosofia crociana. Una tensione, un contrasto che viene da lontano a partire – almeno – dal volume Materialismo storico ed economia marxistica e dal carteggio con Vilfredo Pareto del 1900; passando per la Filosofia della pratica del 1909, palesandosi in tutta la sua forza nella distinzione metapolitica tra liberalismo e liberismo del 1928, per poi esplodere definitivamente nel 1932 con la Storia d’Europa nel secolo decimonono. In particolare, all’interno della «religione della libertà» si evidenzia chiaramente come tali istanze non siano solamente compresenti, ma si richiamino vicendevolmente. Anticipando alcune delle nostre conclusioni, si potrebbe affermare che, quanto più Croce cerca di mettere a punto il proprio liberalismo, inserendolo nel piano teoretico-categoriale dello spirito, facendone una teoria metapolitica, tanto più prepotentemente emerge in lui la difficoltà di afferrare gli accadimenti storici nella loro viva concretezza, cioè sul piano della lotta politica. All’opposto, sembrerebbe che Croce, quanto più cerca di allargare le maglie del proprio liberalismo, riconoscendo una certa autonomia categoriale al piano politico, tanto più forte emerge in lui la necessità di pacificare ogni conflittualità storica nell’alveo di quel superiore svolgimento etico-politico a cui sembra mettere capo la storia della libertà in quanto eterna autocoscienza dello spirito.
Da questo punto di vista, è quantomeno curioso come molti interpreti abbiano dedicato scarsa attenzione al nesso interno che lega la teoria filosofica con la prassi politica della libertà[3]. Vi è, però, un’illustre eccezione: Norberto Bobbio.
Nel suo saggio Benedetto Croce e il liberalismo (1955), Bobbio vede nel rifiuto crociano di ogni forma di riduzionismo empirico del concetto di libertà l’afflato di una concezione non astrattamente personalistica dell’individuo. Tuttavia, per Bobbio tra il liberalismo come teoria filosofica e il liberalismo come prassi politica non c’è passaggio, giacché Croce, rimanendo vittima del proprio idealismo, finisce per ricadere in una concezione teologica della libertà come essenza dello Spirito universale, dalla quale non è possibile trarre alcuna indicazione utile ai fini della comprensione della prassi politica.
Nelle pagine che seguono, pur tenendo presente la lezione di Bobbio, si cercherà di correggerne il tiro, mostrando come il liberalismo crociano tenda a trasfigurare la “prassi” politica nella “pratica” etico-politica.
Tra Spirito e Natura. La dottrina idealistica della libertà
La questione dello statuto e del ruolo giocato dalla teoria della libertà all’interno del pensiero crociano è, dunque, figlia di un’inquietudine di fondo. Inquietudine che, in realtà, sottintende un ben più grave problema che il filosofo eredita dalla tradizione dell’idealismo tedesco: il rapporto tra spirito e natura. Il ragionamento crociano è semplice e per certi versi va in direzione analoga ma opposta a quella di Hegel: se lo spirito è l’Assoluto, allora esso non può ammettere nulla di esterno a sé, tantomeno una Natura considerata hegelianamente come alienazione necessaria dell’idea[4]. Nella Filosofia della pratica Croce crede di riuscire a risolvere tale dualismo in quello che definisce:
Il concetto della libertà (necessità-libertà), che è scientifico ma non meccanico, e supera le categorie della Fisica, ma non quelle della Metafisica; come la filosofia idealistica in genere tende a conciliare l’ideale col fatto, il pensiero con la realtà piena, la filosofia con l’esperienza integrale. Col concetto della libertà […] sparisce insieme la pesante concezione materiale della realtà, perché quel che appare materia è svelato come spirito, il fatto come creazione, la necessità come prodotto della libertà. Ma sparisce insieme il miracolo, perché miracolo eterno, onnipresente, continuo, è lo Spirito stesso; e un miracolo continuo, onnipresente ed eterno non è poi miracolo, ma la semplice e ordinaria realtà, che ognuno di noi concorre a creare e ognuno può pensare e pensa[5].
La dottrina idealistica della libertà sembra risolvere in sé l’esigenza spaventiana prima e labrioliana poi di conciliazione tra filosofia ed esperienza integrale, idealismo e storicismo, decretando così la fine di ogni concezione materialistica e teologizzante della realtà. Necessità e libertà acquistano concretezza esclusivamente nella vivente unità dialettica che le lega. Fuori dall’orizzonte dialettico, ambedue i termini della relazione decadono a puri momenti empirici e, come tali, astratti. La dottrina idealistica della libertà, infatti, ha la pretesa di muoversi su quel piano di assoluta immanenza dialettica tra volizione (azione) e situazione di fatto (storia) – che rappresenta la cifra dell’attività pratica. Scrive Croce:
In effetto, la volizione nasce […] non già nel vuoto, ma in una situazione determinata, con dati storici e ineliminabili, sopra un accadimento o un complesso di accadimenti, i quali, poiché sono accaduti, sono necessarî. A quella situazione la volizione è correlativa, e staccarnela sarebbe impresa vana: variando la situazione, varia la volizione; tale la situazione, tale la volizione. E ciò importa che essa è necessitata, ossia condizionata da una situazione, e da quella, per l’appunto, sopra cui sorge. Ma ciò importa insieme che la volizione è libera. Perché se la situazione di fatto è la condizione, la volizione in quanto tale non è la condizione, ma il condizionato; e non si sta ferma alla situazione di fatto, né la ripete col formare il duplicato, cosa superflua, epperò impossibile nello svolgimento effettivo del reale, che non conosce cose superflue. Se così non fosse, la volizione non sarebbe volizione, e la realtà non cangerebbe, non diverrebbe, non crescerebbe sopra sé stessa. Come senza necessità non si ha libertà, perché senza situazione di fatto non si dà volizione, del pari senza libertà non si dà necessità, ossia non si formano le situazioni di fatto, sempre nuove e necessarie rispetto alle nuove volizioni; perché le situazioni di fatto sono nient’altro che gli accadimenti, e questi nient’altro che il risultato delle singole volizioni. I due termini non si possono separare: tolto l’uno, è tolto l’altro; ma non si possono neppure considerare identici, a mo’ di sinonimi. Sono i due momenti distinti e uniti, dell’atto volitivo, che è l’unità dei due, necessitato e libero insieme[6].
Occorre analizzare questo passo con molta attenzione in modo da metterne in rilievo tutta la problematicità. Da una parte, il soggetto, l’attività pratica è condizionata (necessità) dall’oggetto, dalla situazione di fatto che gli conferisce oggettività e concretezza. Dall’altra, il soggetto, l’attività pratica è condizione (libertà) dell’oggetto, poiché a ben vedere l’oggettività, la concretezza della situazione di fatto, non è altro che il prodotto, il rispecchiamento, del soggetto stesso. L’oggettività, dunque, si rovescia nella soggettività della pratica. Analogamente, da una parte l’oggetto, la situazione di fatto è condizionata (necessità) dal soggetto, dall’attività pratica che ne incrementa l’effettualità. Dall’altra, l’oggetto, la situazione di fatto, proprio perché è il prodotto, il rispecchiamento del soggetto stesso, arriva a un tale grado di sviluppo da porsi essa stessa come soggetto, condizione (libertà), produzione, dalla quale derivano l’oggettività e la concretezza poste dal soggetto stesso. Anche qui l’oggettività si rovescia nella soggettività della pratica. In entrambi i casi, si parte dall’oggetto per poi ritornare al soggetto. O, meglio, sarebbe più corretto affermare che in entrambi i casi si parte dal soggetto e si ritorna al soggetto. Si tratta, dunque, di un movimento chiuso che consente a Croce di spogliare l’oggettività di ogni forma di concretezza, riportandola alla pura produttività astratta del Soggetto, dello Spirito.
Indicativo è il fatto che in queste pagine Croce non ricorra pressoché mai al termine “prassi”, preferendovi piuttosto: «volizione-azione», «operare», e infine «pratica». È indicativo perché mostra come Croce nella Filosofia della pratica metta in atto un processo di ri-astrazione idealistica del concetto di “prassi”. È sulla base di tale trasfigurazione speculativa della prassi nella pratica che il momento della necessità, dell’oggettività può essere letto non come qualcosa di esterno, bensì di interno alla libera attività dello Spirito. Nella dottrina idealistica della libertà l’attività umana viene svuotata di ogni forma di concretezza a favore della spettrale soggettività della pratica. Attività, sì, ma dello Spirito.
Il dualismo spirito-natura viene superato in direzione di quello che sembra configurarsi come un vero e proprio totalismo. Certo, una simile operazione ha il vantaggio di permettere a Croce di superare la concezione deterministico-meccanicistica della natura, facendo di essa nient’altro che il prodotto delle concrete condizioni storico-sociali in cui la soggettività pratica dell’individuo si trova via via ad operare. Tuttavia, non è dato uscire dall’orizzonte totalistico, giacché è solo sullo sfondo dell’essenzializzazione della prassi nella pratica che la natura può essere riassorbita nella vita dello Spirito. La natura diventa Spirito, nient’altro che Spirito; anzi la natura, considerata dal punto di vista delle scienze naturali, è un modo pratico, un prodotto dell’assoluta libertà dello Spirito. A ragione Croce può scrivere che:
Logicamente la libertà non può tollerare accanto a sé la causalità [perché] non è reale in sé, ma semplice prodotto particolare dell’altra: la causalità meccanica non è un fatto, nemmeno una concezione, ma è uno strumento foggiato ai proprȋ fini dalla stessa libertà spirituale. E soltanto in questo significato si può concedere che la libertà si giovi della causalità per effettuarsi; cioè si deve ammettere che lo schematizzamento delle percezioni in serie di cause ed effetti diventi anch’esso presupposto di volontà e di azione. La conoscenza storica (giudizio storico) che precede l’attività pratica, come include in sé di necessità universali filosofici, così può includere anche universali empirici, concetti e pseudoconcetti, la coscienza della produttività dello spirito e gli schemi mnemonici nei quali questa produttività è fissata, e nei quali essa appare bensì meccanica, ma solamente a chi dimentichi che meccanici sono gli schemi stessi[7].
La natura viene, così, ad essere una sorta di solidificazione dello svolgimento che la libertà stessa dello Spirito produce allo scopo di padroneggiare la realtà. È dalla scissione arbitraria della produzione dal prodotto, dell’oggetto dal Soggetto, che si genera il dualismo spirito-natura, libertà-necessità che la concezione idealistica risolve.
Sul piano della critica puramente idealistica, è facile osservare come l’acquisizione del concetto idealistico di libertà sia tutt’altro che pacifica. Ad uno sguardo attento, infatti, non può non sfuggire la vena fortemente aporetica del discorso crociano. Se lo Spirito risolve in sé la natura, l’alterità, allora paradossalmente esso non è più divenire (divenuto) ma vuota immobilità; e con ciò Croce, pur contro le proprie intenzioni, colpisce al cuore la dialettica hegeliana: senza natura, senza alterità, salta completamente il movimento della negazione determinata e della contraddizione e con esso l’intero svolgimento dello Spirito.
A nostro avviso, qui va sottolineata con forza non tanto l’aporia idealistica di fondo del discorso crociano, quanto piuttosto il fatto che l’oggettivazione, la storicizzazione della natura è solo apparente. La natura viene, sì, storicizzata attraverso l’attività pratica, attività che però in ultima istanza non è attività dell’uomo in quanto uomo, ma nient’altro che attività dell’uomo in quanto spirito, e perciò attività dello Spirito. Dietro l’istanza di umanizzazione riemerge con più forza l’istanza idealistica di spiritualizzazione della natura.
Libertà e totalismo. Il problema dell’accadimento
Da quanto detto si evince come non sia possibile afferrare pienamente le conseguenze insite nella dottrina idealistica della libertà, senza prima aver analizzato a fondo l’orizzonte totalistico da cui sembra essere attraversata. Non meraviglia se, all’interno della Filosofia della pratica, un simile assunto lo si ritrova proprio all’interno dell’analisi dedicata alla struttura dialettica dell’attività pratica culminante nella teoria dell’accadimento. Non deve, quindi, stupire se il Croce della Filosofia della pratica, nel corso dell’analisi dedicata alla struttura dialettica dell’attività pratica, assuma come propria la dissoluzione ultra-idealistica del dualismo metafisico spirito-natura nel segno di una piena risoluzione della realtà in «spiritualità e soggettività»[8]. Non stupisce perché, a partire dal 1905, Croce inizia il confronto serrato con la filosofia di Hegel che lo porterà a pubblicare nel 1906 Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, passando poi per la Filosofia della pratica e per la stesura definitiva della Logica nel 1909; e che si protrarrà ininterrottamente lungo tutta la seconda metà del Novecento, interrompendosi solamente alla vigilia della morte avvenuta nel 1952, non prima però di aver dato alle stampe, appena qualche mese prima, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. La risoluzione più hegeliana dello stesso Hegel del dualismo spirito-natura, declinata dal punto di vista della sfera pratica, comporta l’asserzione dell’assoluta identità tra volente e voluto, e tra volizione, intenzione e azione. Da questo punto di vista, osserva Croce:
Quando […] si afferma che una volizione è tale davvero solo se produce effetti, o che una volizione si giudica dalle conseguenze, non si può non assentire […] ma nel predetto significato soltanto, e non in un altro che quelle proposizioni prendono talvolta e che conviene rigettare: nel significato nel quale si confonde l’azione (volizione-azione) col successo o accadimento. La volizione coincide con l’azione, ma non già con l’accadimento. E non può coincidere: perché che cosa è l’azione e che cos’è l’accadimento? L’azione è l’opera del singolo, l’accadimento è l’opera del Tutto: la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio. O, per mettere questa proposizione sotto forma meno immaginosa, la volizione dell’individuo è come il contributo ch’esso reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell’universo; e l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni, è la risposta a tutte le proposte. Nella quale risposta è compresa e risoluta la volizione stessa del singolo, che avevamo tolta a considerare da sola[9].
Questo passo sembra aprire «improvvisamente, una vera e propria frattura» all’interno della Filosofia della pratica, che però, come vedremo, ci permetterà di svolgere in modo esaustivo tutti i fili che ancora legano a doppio nodo la trama dell’attività pratica[10]. Nello specifico, non va mai dimenticato che tale attività, proprio perché attività del Soggetto, dello Spirito, non può mai ammettere di fronte a sé un’altra realtà con la quale si debba congiungere o combinare per acquisire concretezza e oggettività, giacché essa stessa pone e si pone come piena concretezza e oggettività. La struttura dello Spirito reclama per sé la massima immanenza. Occorre qui sottolineare con forza che tale immanenza trova necessariamente riscontro nella capacità della dialettica dell’attività pratica di disegnarsi come dialettica tra fine e mezzo. Spiega Croce:
Il fine in universale è […] il concetto stesso di volontà, e considerato nell’atto singolo come questo o quel fine, è nient’altro che questa o quella volizione determinata. Donde una migliore definizione del rapporto di esso col mezzo, che si suole empiricamente ed erroneamente concepire quasi parte di volizione e di azione al servigio di un’altra parte di essa. Un atto volitivo è unità inscindibile, e solo per comodo pratico si può darlo come diviso. Nell’atto volitivo tutto è volizione, niente è mezzo e tutto è fine. Il mezzo non è altro che situazione di fatto, dalla quale l’atto volitivo prende le mosse, e solo così il mezzo si distingue davvero dal fine. Si distingue, cioè, e si unifica insieme; perché se, come si è notato, la volizione non è la situazione, d’altra parte tale la volizione quale la situazione: l’una varia in funzione dell’altra […] Tal mezzo, tal fine; ma il mezzo è il dato di fatto e non ha bisogno di giustificazione, il fine è il voluto e deve giustificarsi in sé medesimo. A causa della continua mutevolezza del mezzo, ossia della situazione di fatto, è da abbandonare l’idea che si suole avere della finalità secondo la quale essa porrebbe il fine come qualcosa di fisso, come un disegno che si vada poi eseguendo. Nel che […] si è fatta consistere la differenza tra la finalità dell’uomo e quella della natura; la quale ultima è sembrato che operi con un disegno che cangia, accomoda e rifà a ogni istante secondo le contingenze, in modo che il punto di arrivo non è per lei predeterminato né predeterminabile. Ma il medesimo è da dire della volontà umana e della sua finalità. Anch’essa cangia a ogni attimo; come cangia il movimento del nuotatore o dell’atleta, secondo il moto del mare o dell’atleta avversario e secondo la variante misura o qualità delle proprie forze nel corso del processo volitivo. L’uomo opera caso per caso e d’istante in istante attuando la sua volontà di ogni istante e non già quel concetto astratto, che si dice disegno[11].
È notevole che Croce, attraverso la riformulazione auto-teleologica della dialettica dell’attività pratica, porti a compimento la spiritualizzazione della natura. Una volta riassorbita ogni forma concreta di attività umana nella spettrale attività dello Spirito, è ovvio che la natura non potrà che essere Spirito, sempre e solo Spirito. In termini più specifici, la teleologicità della natura è l’auto-teleologicità stessa della dialettica dell’attività pratica, e dunque nient’altro che la necessità assoluta dello Spirito in quanto libertà.
Nella dialettica dell’attività pratica si compendia l’intera vita dello Spirito. Il microcosmo compendia il macrocosmo. A ben vedere, infatti, la dialettica di fine e mezzo non è altro che il rispecchiamento particolare di quel circolo del teoretico e del pratico in cui, a rigore, non è possibile stabilire una precedenza di gradi. Nell’ottica del totalismo crociano, stabilire la preminenza di un grado rispetto a un altro significherebbe convertire i distinti da concreti in astratti, rompendo così il piano di immanenza dello Spirito. Nell’incondizionata circolarità della teoria e della pratica, non c’è spazio per nessuna forma di scissione, di al di là dello Spirito, poiché lo Spirito è sintesi delle sintesi. Questo è, in breve, il senso della dialettica dell’attività pratica come piano di assoluta immanenza dello Spirito.
È proprio a questo punto, però, che la «frattura» si fa più stridente. Se non c’è un al di là rispetto allo Spirito e perciò non c’è un al di là rispetto al piano di immanenza dell’attività pratica, che bisogno c’era di introdurre il tema dell’accadimento? E se, d’altra parte, «tale la volizione quale la situazione», perché mai la situazione di fatto dovrebbe assumere le fattezze “divine” dell’accadimento?
È chiaro come la distinzione tra l’azione «opera del singolo» e l’accadimento «opera del Tutto» rischi seriamente di compromettere la potenza sintetica dell’attività pratica e con essa la sua piena auto-teleologicità. Una volta separata l’«opera del singolo» dall’«opera del Tutto», si finisce per dissolvere anche il nesso dialettico tra fine e mezzo. Con il dissolversi dell’unità dialettica di fine e mezzo, il mezzo, la situazione di fatto finisce per essere svuotata di quel contenuto oggettivo che solo il fine, la prassi le può conferire. Sicché, la storia non potrà che assumere le fattezze dell’accadimento, di quell’Assoluto che, in quanto Dio nella e della storia, riconduce nel proprio viluppo onnicomprensivo ogni forma concreta di prassi umana, trasfigurandola nella spettrale operosità dello Spirito. In tal senso la strutturale auto-teleologicità caratterizzante l’«opera del singolo» si rivela nient’altro che il suo essere già da sempre risolta nella superiore auto-teleologicità dell’opera che «è di Dio».
Sul piano di una critica puramente idealistica, è facile osservare come nella teoria dell’accadimento, il momento della massima affermazione e pienezza di vita sembri hegelianamente coincidere con quello della morte e trasfigurazione della sintesi pratica nella sintesi ulteriore dell’Assoluto.
L’effetto perturbatore dell’accadimento possiede, però, una portata che va ben oltre la sfera pratica, arrivando a destrutturare l’intero quadro categoriale dello Spirito. Con il venir meno della sintesi volitiva, viene meno il grado economico; venendo meno il grado economico, viene meno il grado etico e con esso l’intera sfera pratica. Ora, per la legge del circolo, al venire a mancare della sfera pratica fa inevitabilmente da contraltare il venire meno della stessa sfera teoretica, visto che, non essendoci volizione, non c’è né accrescimento della realtà né tantomeno materia per la nuova figurazione estetica. Ma, venuta meno la materia, a rigore, non ci può essere forma o intuizione pura, e senza intuizione non ci può essere né espressione né ovviamente sintesi estetica. Da ultimo, senza intuizione-espressione il concetto puro non può nascere e con ciò stesso sparisce la sintesi a priori logica propria del distinto logico e con essa la possibilità di quella ricostruzione storica della situazione di fatto sulla quale soltanto si può formare la nuova sintesi volitiva che eternamente ravviva la motilità circolare di teoria e prassi.
L’accadimento, dunque, non si manifesta semplicemente come la trasfigurazione della singola sintesi pratica, bensì come la dissoluzione di tutte le sintesi nella sintesi ulteriore dell’Assoluto. A nostro avviso, ciò è dovuto al fatto che lo Spirito crociano si configura come una struttura totalistica auto-fondante in cui l’apparente infondatezza del singolo distinto si rivelava nient’altro che il suo essere già da sempre inserito nella trama vivente del Tutto.
In merito al nostro discorso occorre sottolineare come l’affermazione del piano di immanenza e di autonomia dell’attività pratica che – per lo meno in queste pagine – si esprimeva nel parziale riconoscimento della dialettica dell’attività pratica in quanto radice della storia, per il tramite della teoria dell’accadimento veniva riassorbito nel piano dell’assoluta immanenza dello Spirito. Certo, Croce parla di un dialettismo dell’attività pratica, ma si tratta pur sempre di una dialettica che trova il suo più alto compimento nella dottrina idealistica della libertà; certo, libera attività, ma pur sempre attività dell’Assoluto come libertà; certo, libertà, ma pur sempre libertà dell’Assoluto.
Tuttavia, sarebbe un grave errore quello di credere che Croce non avesse piena coscienza dei limiti e dei rischi insiti nella teoria idealistica della libertà, soprattutto in rapporto al problema dell’accadimento. Per quanto l’accadimento si configurasse come quel piano totalistico capace di trasfigurare ogni forma concreta di libertà umana nella spettrale libertà dell’Assoluto, nondimeno in qualche modo la libertà doveva pur continuare a darsi concretamente nella storia del mondo. Se la libertà dello spirito doveva diventare il nocciolo razionale che guida la realtà, garantendone nel contempo l’effettualità storica, allora la storia in quanto storia della libertà doveva esplicarsi sul fondamento di una concezione immanente dello svolgimento storico. Detto altrimenti: il liberalismo idealistico doveva diventare liberalismo politico. Il che comportava il confliggere della concezione idealistica della libertà con il crudo riconoscimento dell’autonomia della sfera pratica intesa come quello spazio di manifestazione del conflitto politico in quanto forza immanentemente propulsiva del corso storico.
Al fine di rendere al meglio la nostra proposta interpretativa, si è scelto di analizzare il tema della libertà in funzione di quelli che sono i tre assi portanti della filosofia politica di Croce: l’autonomia del politico, la dottrina dello Stato, la religione della libertà.
Di una categoria speculativa. L’autonomia dell’utile-economico tra le Tesi fondamentali di un’Estetica e il carteggio con Vilfredo Pareto
A questo punto è necessario aprire una breve parentesi. Se si vuole comprendere appieno il senso conferito da Croce all’autonomia del politico, occorre entrare nell’ambito degli studi giovanili sul marxismo compiuti sotto l’egida di Antonio Labriola. È impossibile qui ricostruire in poche battute la portata e il debito di Croce nei confronti di Marx e del marxismo. Possiamo limitarci a dire che – al di là di quello che lo stesso Croce sembrava disposto ad ammettere – si trattò di un incontro decisivo per lo meno al pari di quello con Hegel, se non di più. Abbiamo perciò scelto di concentrarci su due testi, la cui vicinanza cronologica e tematica sembra meglio riassumere questa fase della riflessione crociana: le Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale e il carteggio con Vilfredo Pareto.
Nella memoria letta per la prima volta il 18 febbraio del 1900 presso l’Accademia Pontaniana, in particolare nel capitolo dedicato all’analogia fra il teoretico e il pratico, Croce spiega:
Il doppio grado della teoretica ha importante riscontro, che non è stato studiato come meritava, nell’attività pratica […] riscontro, per annunziarlo in breve, consistente in ciò: che anche nell’attività pratica bisogna distinguere tra volere e volere, tra volere meramente economico e volere morale; e che il secondo trova la sua forma concreta nel primo, ossia che stanno anch’essi nel rapporto di un doppio grado. Al concetto dell’utile economico è accaduto come a quello dell’espressione o del bello, di esser considerato come un mero fatto psichico, anzi talora addirittura come un fatto cui siano applicabili i concetti della meccanica[12].
Il richiamo alla sfera estetica non è casuale. Poche pagine prima l’espressione era stata definita «fatto di attività» il cui tratto distintivo si dispiegava nell’elaborazione della passività sensitiva, cioè nella trasformazione delle impressioni in forma espressiva. Da ciò Croce traeva la soluzione per una delle questioni più dibattute in estetica: la distinzione tra contenuto e forma. Se il contenuto è l’impressione (fatto psichico) e la forma l’attività (spirituale), allora cadono le opposte tesi secondo le quali il fatto estetico consiste o nel semplice contenuto o nella somma meccanica di contenuto e forma, delle impressioni più le espressioni. Nel fatto estetico
l’attività espressiva non si aggiunge al fatto delle impressioni, ma queste vengono da essa elaborate o trasformate. Le impressioni ricompaiono nell’espressione come l’acqua che sia messa in un filtro e riappaia, la stessa e insieme diversa, dall’altro lato del filtro. Il fatto estetico è perciò forma, e niente altro che forma. Da ciò si ricava che il contenuto non è alcunché di superfluo, anzi è il punto di partenza necessario del fatto espressivo; ma che dalle qualità del contenuto alle qualità della forma non vi è passaggio. Si è pensato talvolta che il contenuto, per essere contenuto estetico, ossia trasformabile in forma, dovesse avere alcune qualità determinate o determinabili. Ma, se ciò fosse, la forma sarebbe un fatto medesimo con il contenuto, l’espressione con l’impressione. Il contenuto estetico non è il trasformabile in forma, ma quello che si è effettivamente trasformato. Delle impressioni, che non sono divenute espressioni, noi non sappiamo niente: né che sieno né che non sieno trasformabili […] Dal non aver bene stabilito, o dall’aver perso di vista, il carattere distintivo dell’impressione dall’espressione, del fatto psichico dall’attività, del contenuto dalla forma, ha preso origine la teorica dei sensi estetici. La quale si riduce all’errore ora indicato, del cercare un passaggio dalle qualità del contenuto alle qualità della forma. Domandare quale sieno i sensi estetici importa, infatti, domandare: 1º) quali impressioni sensibili possono entrare nelle espressioni estetiche; 2º) quali debbano entrarvi di necessità. Al che noi dobbiamo subito rispondere: che tutte le impressioni possono entrare nelle espressioni o formazioni estetiche; e nessuna impressione deve entrarvi di necessità[13].
Dove è da osservare che in queste pagine è presente in nuce quella struttura del discorso che nella Filosofia della pratica condurrà Croce verso la risoluzione idealistica della natura nello Spirito. È chiaro che anche qui si tratta di un movimento chiuso che consente al filosofo di spogliare il contenuto, l’oggetto, di ogni di concretezza, riportandola alla pura produttività astratta della forma, del soggetto. È sullo sfondo di tale conversione astrattiva dell’oggettività, che il contenuto può essere letto non come qualcosa di esterno, bensì interno all’attività della forma. In tal senso il trasformabile si dà solo in quanto già da sempre risolto nell’orizzonte dell’effettivamente trasformato. Una volta riassorbito ogni carattere oggettivo del contenuto nella spettrale attività della forma, è ovvio che tutte le domande circa lo stato concreto che il contenuto debba assumere per trasformarsi in forma perdano di significato, perché il contenuto non può che essere sempre e solo forma, nient’altro che forma.
Una simile soluzione consentiva a Croce di risolvere un’altra annosa questione: quella relativa alla relazione tra espressione e bellezza. Va da sé che ovviamente si tratta di una relazione «molto semplice, perché è relazione d’identità». Spiega Croce:
L’espressione è bellezza; l’espressione senz’altro è l’espressione bella. Che cosa è la bellezza se non il valore dell’espressione? E giacché l’espressione è attività, che cosa sono tutti i concetti analoghi a quello di bellezza, come la verità, la bontà, l’utilità, se non i valori dell’attività? La questione della relazione tra bellezza ed espressione si riduce perciò all’altra più generale, della relazione tra valore e attività. Ma un’attività senza valore non è più attività: è un’attività che è invece — passività. Valore e attività sono dunque sinonimi. Essere attivi è realizzare un valore. Essere attivi come pensiero, è pensare il vero: essere attivi come bontà, è volere il bene. E giacché valore ed attività sono sinonimi, sinonimi son anche bellezza ed espressione[14].
Il riconoscimento del nesso indissolubile tra attività e valore rappresenta il punto più alto a cui approdano le Tesi. Un nesso tutt’altro che pacifico, e che tornerà periodicamente a scuotere le successive sistematizzazioni del pensiero crociano. Per il momento, ciò che interessa sottolineare è come l’identità di valore e attività non sia ancora specificata. A differenza di quanto accade nella Filosofia della pratica, Croce non parla esplicitamente dell’attività in termini di attività dello Spirito universale, limitandosi a postulare l’esistenza di due generiche sfere della realtà, l’una opposta all’altra: la forma spirituale e il contenuto psichico-organico. Non va mai dimenticato che nelle Tesi si ha che fare con un Croce ancora a metà strada tra kantismo ed herbartismo, naturalismo ed assolutizzazione dei valori. Un retroterra filosofico che lo porta ad osservare:
L’impossibilità di distinguere tra attività e valore si conferma col notare che il meramente fisico o meccanico è non-valore. Una pietra che cade o un muscolo che si contrae rifiuta ogni aggettivo di valore: non è né vero né buono né bello né utile; o quando par che le accetti, gli è sempre in forza di quel procedimento pel quale la natura viene umanizzata, cioè appunto considerata come non-natura, non meccanismo. Il brutto, invece, come il falso, il cattivo e simili, è non già semplicemente non-valore (una pietra che cade o un muscolo che si contrae non sono valori, ma non sono neanche brutti o falsi o cattivi e simili), ma è disvalore: è non il diverso, ma il contradittorio del valore (nel nostro caso, della espressione o bellezza). Perché si abbia disvalore, occorre che attività e passività entrino in lotta senza che l’una vinca l’altra. L’espressione dev’esserci, ma inadeguata all’impressione che assume dominare[15].
Notevole è che, in queste pagine, al rifiuto crociano per ogni concezione meccanicistica del valore si accompagni un primo abbozzato tentativo di risoluzione della natura in soggettività e spiritualità. Si tratta di una risoluzione resa possibile dalla formalizzazione astrattiva di ogni contenuto oggettivo. Nello specifico, l’attività umana è sì affermata, ma in quanto attività valoriale, ossia attività spirituale. Il che porta Croce a pensare la contraddizione non in senso oggettivo, bensì sulla scia di una determinazione puramente astratta – la lotta interna a ogni determinazione valoriale – che in quanto tale non tocca la realtà nel suo svolgimento.
Riprendendo il filo del nostro discorso, si può affermare che il processo di trasfigurazione del contenuto nell’attività astrattiva della forma permetteva a Croce di identificare senza riserve espressione e bellezza, decretando con ciò la fine di ogni disputa circa l’oggettività e la relatività del bello. Da una parte, l’oggettivismo, il quale pretendendo di fare del bello un modello o esemplare, concepiva il valore estetico come un qualcosa di esterno e di trascendente rispetto all’attività estetica. Dall’altra, il relativismo, il quale riconducendo il bello alla coppia piacevole-spiacevole, riduceva l’attività estetica al contenuto, l’espressione all’impressione. Per Croce la soluzione a queste opposte unilateralità consisteva:
Nel riconoscere che il criterio oggettivo del gusto c’è, ma è soggettivo: che la vera oggettività è la soggettività. Il valore è attività, e la bellezza attività di espressione. Noi riconosciamo come bello ogni atto di attività espressiva, e come brutto ogni fatto in cui sieno in lotta insoluta ed incomposta attività e passività[16].
A differenza di quanto abbiamo visto accadere nella dialettica dell’attività pratica, qui, il movimento della soggettività è schiettamente lineare. Il soggetto, l’attività estetica (espressione) è condizione dell’oggetto, del contenuto (impressione), poiché a ben vedere l’oggettività del contenuto estetico non è altro che il prodotto, il rispecchiamento del soggetto stesso. La vera oggettività della soggettività si rivela essere la soggettività astratta dell’attività estetica. Tale movimento trasfigurativo-lineare dell’oggettività nella soggettività estetica consente a Croce di arrivare a scrivere che:
Elaborando le impressioni, l’uomo si libera da esse. Le distingue, le distacca, le oggettiva: e domina così quei fatti dai quali sarebbe altrimenti dominato e soverchiato. La funzione liberatrice e purificatrice dell’arte è un altro aspetto del carattere suo di attività. L’attività è liberatrice appunto perché scaccia la passività[17].
Si tratta di un movimento chiuso della soggettività verso la soggettività. Una sorta di riformulazione auto-teologica dell’attività che, analogamente a quanto avverrà nella dottrina idealistica della libertà, consente a Croce di portare a compimento la trasfigurazione estetica della natura. A nostro avvio, la funzione liberatrice dell’attività estetica è il primo passo di quel lungo e delicato processo di ri-astrazione idealistica dell’attività umana che Croce condurrà a termine nella Filosofia della pratica.
Tornando al passo citato in apertura, è ora possibile comprendere lo stupore di Croce per il fatto che all’utile-economico sia toccata la stessa sorte dell’espressione estetica, ovvero quella di essere considerato alla stregua di mero oggetto empirico, reso compiutamente quantificale dall’applicazione degli schemi astratti delle scienze naturali. Eppure, osserva:
La parola valore, di cui è piena la scienza economica, sarebbe dovuta bastare a rendere accorti dell’indole attivistica di esso: l’utile essendo un valore, dando luogo alle caratteristiche positive e negative dei valori (utile, ed antiutile od antieconomico), non può concepirsi se non come prodotto di attività, cioè attività esso stesso[18].
La conversione qualitativa dell’attività in attività-valore dava l’opportunità a Croce di porre l’attività pratica sullo stesso piano dell’attività teoretica, poiché entrambe erano caratterizzate al proprio interno dalla lotta tra positivo e negativo, valore e disvalore. L’utile-economico perdeva i tratti empirico-quantitativi tipici dell’economia classica, assumendo quelli di un’attività pratico-spirituale in grado di rovesciare il quantitativo nel qualitativo, il disutile nell’utile. È sul presupposto di tale riformulazione qualitativa – a sua volta resa possibile dalla critica alla teoria marxiana del valore-lavoro – che Croce giunge a escludere che l’utile in quanto attività pratica sia «produzione di cose», giacché
la semplice produzione di cose non è attività: l’albero produce frutti, lo schiavo produce manufatti; ma non perciò la loro produzione è attività pratica. Bisogna aggiungere dunque che l’attività pratica è produzione volontaria, ossia volontà produttrice. Dove manca la volontà, manca l’attività pratica; dove manca la produzione effettiva di cose, la volontà stessa non ha luogo[19].
In linea con quanto abbiamo visto accadere nel terzo volume della Filosofia dello spirito, l’autonomia dell’attività pratica viene fondata sul contemporaneo rifiuto di ogni concezione meccanicistico-naturalistica della volontà, ossia sulla sua auto-teleologicità. Spiega Croce:
Or se l’utile è attività pratica, dev’esser, come già sappiamo, un volere. Volere è volere un fine: l’utile è dunque il volere di un fine. Condursi utilmente (economicamente) è condursi secondo un fine. Condursi disutilmente (antieconomicamente) è entrare in contradizione col proprio fine, restar perplessi tra varii fini, non averne innanzi nessuno come veramente voluto[20].
Certo, siamo ben lontani dalla dialettica tra fine e mezzo e dall’immanentismo assoluto del Croce idealista. Ad ogni modo, va messo in evidenza che l’equazione tra utile e attività pratica, e tra attività pratica e volontà-fine, viene attuata attraverso il netto rifiuto di ogni forma di estrinseca sovrapposizione tra il piano dell’attività morale e il piano della pura attività economica. A nostro avviso, si tratta di una relazione fortemente sbilanciata a favore del secondo termine della relazione. Una ricerca – quella della pura economicità – figlia della lezione appresa alla scuola marxistica di Labriola, e che aveva già portato Croce a polemizzare contro l’esasperato determinismo economicistico di Achille Loria, e infine a rompere con il marxismo, aderendo all’indirizzo purista. La scuola austriaca di Menger e Böhm-Bawerk (in Italia, Racca) aveva il merito di aver criticato la teoria marxiana del valore-lavoro, riportando il valore delle merci al grado di utilità marginale, ossia di aver dimostrato come il profitto nasca dal grado diverso di utilità dei beni presenti e futuri. Ciò equivaleva a fare del valore il fatto ultimo e irriducibile di una scienza economica concepita come scienza autonoma, pura. Tuttavia, il purismo, se anche possedeva il pregio di aver riconosciuto l’autonomia dell’utile in quanto fatto economico elementare, nella sua tendenza a ridurre meccanicamente la natura del fatto economico al principio dell’interesse edonistico, identificandolo di fatto con l’egoismo, da ultimo ricadeva nel moralismo. Dunque, agli occhi di Croce nella scuola austriaca l’autonomia dell’attività economica era più affermata che dimostrata, dal momento che finiva per essere riassorbita nel piano della pura attività morale. A ragione Croce può ora scagliarsi contro l’identificazione operata da «alcuni economisti» tra «volere economico» ed «egoismo», la quale mette capo a una concezione dell’economia come «scienza dell’Egoismo», per cui, essendo a sua volta l’egoismo «un concetto speciale dell’immorale»,
l’Economia sarebbe, in tal senso, una scienza ben curiosa! Essa sorgerebbe non accanto ma di fronte all’Etica, come il diavolo di fronte a Dio, o come l’advocatus diaboli nei processi di santità. Un tal concetto è del tutto inammissibile: la scienza dell’immorale è implicita in quella del morale, come la scienza del falso è implicita nella Logica, scienza del vero; e una scienza del brutto, nell’Estetica, scienza del bello. Se, dunque, l’Economica fosse la trattazione scientifica dell’egoismo, essa sarebbe non solo un capitolo dell’Etica, ma l’Etica stessa; giacché ogni determinazione del morale importa una negazione del suo contraddittorio. D’altra parte, la coscienza ci dice che condursi economicamente non è condursi egoisticamente: che anche l’uomo moralmente più scrupoloso deve condursi utilmente (economicamente), se non vuol essere un sconclusionato, e, per conseguenza, non veramente morale[21].
L’autonomia dell’attività morale, dunque, si rivelava un’autonomia apparente, astratta, e che perciò necessitava di essere radicata nella concretezza del principio economico:
Volere economicamente è volere un fine: volere moralmente è volere il fine come razionale. Ma appunto chi vuole ed opera moralmente non può non volere ed operare utilmente (economicamente). Come potrebbe volere il razionale se non lo volesse insieme come fine? L’inverso non è vero: come non è vero in scienza estetica che il fatto estetico debba esser di necessità congiunto col fatto logico. Si può volere economicamente senza volere moralmente. Si può condursi con perfetta coerenza economica seguendo un fine irrazionale (immorale). Esempio di carattere economico disgiunto dal carattere morale è l’uomo del Macchiavelli, Cesare Borgia, o il Jago di Shakespeare. Chi può non ammirar la forza della loro volontà, benché l’attività loro sia puramente economica?[22]
Vale la pena ricordare come sia la teoria del doppio grado implicativo – per la quale il primo grado (economia) può essere concepito in un certo senso indipendentemente dal secondo (morale), mentre il secondo (morale) non è concepibile senza il primo (economia) – ad aprire la strada a Croce verso la dimostrazione dell’autonomia dell’attività pratico-economica. In tal senso, è sintomatico il fatto che con l’approdo all’idealismo, la teoria lineare dei gradi sia sottoposta da Croce a una tale torsione da farle assumere le fattezze del circolo spirituale del teoretico e del pratico. È sintomatico perché la fedeltà alla teoria del doppio grado avrebbe coerentemente condotto Croce ad ammettere ciò che nell’ottica del suo idealismo era impossibile ammettere: il riconoscimento della sfera pratica in quanto radice dello svolgimento della Storia e dello Spirito. Al netto di tali considerazioni, si può affermare che, agli occhi di Croce, l’autonomia dell’Utile-Economico era ormai un dato acquisito e ineliminabile. Dal punto di vista strutturale, ciò comportava la rottura della «vecchia triade» valoriale del Vero, del Bello e del Buono. Una rottura, però, non estranea alla vita dei valori. A suo tempo, infatti, il riconoscimento dell’autonomia del Bello aveva portato alla rottura dell’«antichissima» diade del Vero e del Buono, in favore appunto della triade. Adesso, con l’aggiunta dell’Utile, la triade da «vecchia» era diventata a sua volta «antichissima», e perciò andava risolta nella nuova quadriade del Vero, del Bello, del Buono e infine dell’Utile. Si domanda Croce:
O perché il povero Utile è sempre stato oggetto dei disdegni dei filosofi ai quali è parso di scapitare nei contatti con esso? o perché, ora che cominciano a rivolgervi lo sguardo, vogliono per forza abbassarlo ad una semplice categoria psicologica, che non si sa che cosa possa essere? Solleviamo l’Utile alla pari del Bello, ed usiamo verso quello l’indulgenza che si è usata verso questo: egli la merita! I soli che resteranno alquanto sconcertati saranno gli identificatori della triade dei valori con non so quale Trinità o Trimurti: coloro che nel Vero vedono Dio Padre, nel Bello il Figliuolo, e nel Buono lo Spirito Santo. Noi non possiamo se non pregarli di cercare una quarta persona della Trinità che simboleggi l’Utile, di cui abbiamo gran bisogno[23].
L’autonomia dell’Utile-Economico giungeva a piena maturazione di lì a pochi mesi nella polemica epistolare che Croce intrattenne con Vilfredo Pareto, tra il 15 maggio e il 20 ottobre del 1900[24]. È ancora una volta sulla base della critica alla teoria marxiana del valore-lavoro, ridotta (troppo sbrigativamente) a mera teoria ellittica, che Croce imposta il piano del discorso. Non a caso il punto di partenza è la ripresa della vecchia critica rivolta all’indirizzo purista di cui Pareto era il maggiore rappresentante. Una scuola a cui spettava
il non piccolo merito di avere reagito contro le tendenze antiscientifiche dello storicismo e dell’empirismo, e restaurato il concetto di una scienza economica pura: il che poi non vuol dire altro se non scienza che sia scienza; la parola “pura”, se non è pleonasmo, è schiarimento aggiunto per gl’ignoranti e per gl’immemori di quel che scienza sia. L’Economia non è storia né questioni pratiche; è scienza che ha principio proprio, designato appunto come principio economico[25].
Alla scienza dell’economia pura veniva rinfacciato di non essere abbastanza pura, di non essere abbastanza scienza. Una scienza dell’economia pura, se voleva essere tale, doveva cogliere il fatto economico in sé e per sé, nella sua essenzialità di puro principio. È chiaro che qui Croce intendeva la scienza ancora in senso herbartiano, ossia come una sorta di scienza delle scienze, scienza somma, che aveva il compito di essenzializzare i concetti che le scienze particolari lasciavano confusi e tra loro contradditori. Per questo motivo Pareto – rispetto al resto dell’indirizzo purista – aveva, sì, il merito di aver criticato la concezione meccanica e quella edonistica, riportandole rispettivamente alla «Metafisica» e alla «Psicologia»; tuttavia, attuava una simile critica sulla possibilità di una strutturale convergenza metodologica tra «Economia pura» e «Meccanica razionale». Ora, in una scienza capace di cogliere il principio economico nella sua essenzialità, un simile passaggio metodologico non trovava spazio nemmeno in forma di mera possibilità astratta. A rigore, postulare un passaggio metodologico significava postulare una scissione interna all’oggetto d’indagine. Vi poteva essere passaggio solo laddove i due termini della relazione erano concepiti come originariamente scissi e, perciò, posti uno di fronte all’altro. Da una parte, il lato economico, dall’altra, il lato meccanico dell’oggetto. Ma con ciò Pareto finiva per cadere in quello stesso meccanicismo che riteneva essere proprio di una concezione ormai superata della scienza, la metafisica. All’opposto, per l’herbartiano Croce identificare il fatto economico con il fatto meccanico non poteva che rappresentare una contraddizione in termini. A riprova della natura non-meccanica del fatto economico, Croce replica a Pareto:
Considerate, di grazia, che nel fatto economico si nota un carattere che ripugna affatto a quello meccanico. Al fatto economico sono applicabili parole che suonano approvazione o disapprovazione. L’uomo si conduce economicamente bene o male, con vantaggio o con danno, con convenienza o senza convenienza: si conduce insomma, economicamente o antieconomicamente. Il fatto economico è, perciò, fatto di valutazione (positiva o negativa); laddove il fatto meccanico è concepito come mero fatto bruto, a cui non si possono attribuire aggettivi di lode e biasimo se non per metafora[26].
Analogamente a quanto avvenuto nelle Tesi, la meccanicità del fatto economico veniva rifiuta sulla base della conversione astrattivo-qualitativa dell’attività in generica attività-valore. Su questo punto Croce crede di non essere troppo distante da Pareto, poiché spiega:
Per accettarlo, basta ricorrere all’osservazione interna. La quale ci presenta questa distinzione profonda di meccanico e di teleologico, di mero fatto e di valore. Voi, se non erro, rimettete alla Metafisica il problema di ridurre il teologico al meccanico, il valore al mero fatto. Ma badate che la Metafisica non può cancellare la distinzione; e solo, si affaticherà, con maggiore o minor fortuna, nella sua vecchia opera di conciliare gli opposti, o di trarre i contrarȋ dall’uno[27].
L’attenzione va posta sul fatto che la distanza con la concezione economica di Pareto veniva colmata da Croce attraverso la riformulazione auto-teologica dell’attività, che specularmente – ma in direzione formalmente diversa – a quanto già avvenuto nelle Tesi e a quanto sarebbe avvenuto nella Filosofia della pratica, ora gli consentiva la trasfigurazione economico-valoriale della natura. Certo, una tale riformulazione prestava il fianco a un’obiezione del tipo:
Ciò che non è meccanico, non è misurabile; e i valori economici, invece, si misurano, e, se finora non si è ritrovata l’unità di misura, sta in linea di fatto che noi distinguiamo molto bene valori più grandi e valori più piccoli, massimi e minimi, e formiamo scale di valori. Il che basta per istabilire la misurabilità, e, di conseguenza, l’intrinseca natura meccanica del valore economico. Ecco l’uomo economico, che ha dinnanzi una serie di possibili azioni, a, b, c, d, e, f…..; le quali hanno per lui valore decrescente, indicato dai numeri 10, 9, 8, 7, 6… Appunto perché misura i valori, si risolve per l’azione a ₌ 10, e non per c ₌ 8, o per e ₌ 6[28].
Tuttavia, l’identificazione del fatto economico con l’attività intesa come risoluzione qualitativa del disvalore nel valore tagliava sul nascere ogni tipo di obiezione fondata su una presunta «scala dei valori», svelandone tutta l’assurdità. La comparazione quantitativa dei valori funzionava a patto di accettarne il presupposto, ossia la scissione analitica dell’oggetto in oggetto economico e in oggetto meccanico. Una volta concepito il valore come attività, tale scissione veniva a cadere, giacché l’oggetto era risolto nell’attività del soggetto. Nello specifico, l’oggetto economico era trasfigurato nella produttività del soggetto-economico, poiché, a ben vedere, l’oggettività quantitativa del contenuto economico non era altro che il rispecchiamento qualitativo della stessa soggettività-economica. Anche in questo caso, la vera oggettività si rivelava essere la soggettività astratta dell’attività (economica). Tale processo di trasfigurazione astrattiva dell’oggettivo nel soggettivo, del quantitativo nel qualitativo, permetteva a Croce di ritenere «assurda» la scala dei valori e astratto il concetto di homo oeconomicus. È interessante notare come Croce critichi la metodologia della scienza economica empirica – rea, nel suo tipico processo astrattivo, di scindere il lato economico e il lato meccanico dell’oggettività – in direzione di una pura scienza del principio economico, la quale, però, ha per fondamento metodologico quel processo di trasfigurazione astrattiva dell’oggettività nella soggettività che riassorbe in sé ogni contenuto oggettivo. In piena coerenza, Croce può osservare:
La pretesa scala dei valori è cosa assurda. Allorché l’homo oeconomicus dell’esempio soprarecato sceglie a, tutte le altre azioni (b, c, d, e, f …) non sono per lui valori minori di a: sono semplicemente non–a; sono ciò ch’egli scarta: non valori. Che se poi l’homo oeconomicus non potesse avere a, egli opererebbe in condizioni diverse: in condizioni senza l’a. Mutate le condizioni, l’atto economico cangerebbe, s’intende bene, anch’esso. E poniamo che le condizioni siano tali che, per l’individuo agente, b rappresenti l’azione dal lui scelta, e c, d, e, f … quelle ch’egli tralascia di compiere, e che sono tutte non-b, cioè non hanno valore. Si facciano ancora mutare le condizioni, e si supponga che l’individuo si risolva per c, e poi per d, e poi per e, e così via. […] Questi varȋ atti economici, ciascuno nato in particolari condizioni, sono tra loro incommensurabili. Sono varȋ; ma ciascuno è perfettamente rispondente alle condizioni date, e non può giudicarsi se non rispetto a queste condizioni[29].
Senonché, in questi passaggi si assiste a una svolta rispetto alle posizioni contenute nelle Tesi. Il movimento trasfigurativo-lineare dell’oggettività nella soggettività andava torcendosi in direzione di quella circolarità spirituale di soggetto e oggetto, condizione e condizionato, attività pratica e attività teoretica, che costituirà l’apice dell’immanentismo assoluto crociano. Con la differenza non marginale che, in queste pagine, l’oggettività – essendo pensata sullo sfondo della sua trasfigurazione astrattiva – finiva con l’essere intesa in maniera statica, appunto come l’astratto insieme delle diverse e particolari condizioni in cui si esplicava la stessa attività valoriale del soggetto. Nella Filosofia della pratica, tale difficoltà verrà superata (apparentemente) attraverso una concezione non più statica, bensì dinamica dell’oggettività in quanto frutto della produttività reciproca di soggetto e oggetto, di condizione e condizionato. Per questo motivo, nella dialettica dell’attività pratica l’oggettività non potrà più essere ricondotta all’astratto insieme delle diverse e particolari condizioni, ma verrà necessariamente radicata sul piano concreto della storia.
Nelle Lettere l’individuazione del principio economico andava sempre più intrecciandosi con l’individuazione del piano di immanenza dell’attività valoriale. Il che spingeva Croce a radicalizzare la dimensione qualitativa dell’utile-economico, rigettandone ogni lettura economicistico-matematizzante. Era ovvio, infatti, che, in una prospettiva dove i metodi delle singole scienze empiriche venivano ricondotti nell’alveo metodologico dell’unica Scienza somma – l’unica capace di essenzializzare i concetti che le scienze particolari lasciavano confusi e tra loro contradditori –, ogni forma di quantificazione finiva per essere considerata come un’astrazione di “secondo livello”, non in grado di cogliere i concetti nella loro pura essenzialità[30]. A una simile riconduzione non poteva fare eccezione nemmeno l’economia “pura” di Pareto, la quale nella sua logica astrattiva ritagliava una fetta del fatto (il lato meccanico), riducendo ciò che era soggetto a oggetto, l’atto economico a oggetto fisico quantificabile attraverso il calcolo numerico. Nell’orizzonte dell’Economicità pura in quanto attività pratico-valoriale, perfino le basi stesse della scienza matematica, perfino i numeri diventavano astrazioni di “secondo livello”:
Che cosa sono i numeri 10, 9, 8, 7, 6…? […] Sono simboli. […] Simboli di che? Che cosa vi ha di reale è il cangiar delle condizioni di fatto; e quei numeri designano il seguirsi dei cangiamenti: né più né meno di ciò che designa la serie alfabetica, alla quale vengono surrogati. L’assurdo, contenuto nel concetto dei valori maggiori o minori, è, insomma, il presupposto, che individuo possa trovarsi contemporaneamente in condizioni diverse. L’homo oeconomicus non è nello stesso tempo in a, b, c, d, e, f …; ma, quando è in b, non è più in a; quando è in c, non è più in b. Egli non ha dinnanzi se non un’azione da lui accettata, la quale esclude tutte le altre, che sono infinite, e che per lui rappresentano solamente azioni non prescelte (non-valori). Certo, nel fatto economico entrano gli oggetti fisici i quali, appunto perché fisici, sono misurabili. Ma l’Economia non conosce cose e oggetti fisici, sibbene azioni. L’oggetto fisico è semplice materia bruta dell’atto economico: misurando esso, si resta nel mondo fisico, non si passa all’economico. Ovvero, quando si comincia a misurare, l’atto economico è già volato via[31].
L’autonomia dell’utile-economico veniva garantita attraverso la messa a punto di una scienza qualitativa del quantitativo: l’Economia pura come scienza non economicistica del principio economico.
Una volta delineate le basi di una vera e propria filosofia dell’economia, la critica crociana assumeva toni sempre più serrati. Occorreva sgombrare il campo da ogni sorta di equivoco che ancora poteva persistere. Il riconoscimento del fatto economico come attività era un punto che accumunava la filosofia dell’economico di Croce con l’economia meccanicistica di Pareto. Anche l’economista francese, infatti, aveva parlato del fatto economico in termini di attività, di «scelta», allargando però la categoria alla vasta gamma delle scelte inconsapevoli. A tale ragionamento, andava replicato che l’attività economica, lo scegliere, era sempre in un certo qual modo uno «scegliere consapevolmente». Incalzava Croce:
Una scelta che si faccia inconsapevolmente, o non è scelta o non è inconsapevole. Voi parlate di “azioni inconscie” dell’uomo; ma queste non possono essere azioni dell’uomo in quanto uomo, sibbene, tutt’al più, fatti dell’uomo in quanto è trattato come animale o come macchina. Saranno fatti istintivi; e l’istinto non è scelta, fuor che per metafora. E perciò gli esempȋ che adducete di cani, di gatti, di passeri, di topi e di asini di Buridano, non sono atti di scelta; e per conseguenza neanche atti economici. A voi pare che l’economia degli animali sia una scienza poco feconda, che si esaurisce nelle descrizioni. Guardate meglio e v’accorgerete che quella scienza non esiste. Un’economia degli animali, naturalisticamente concepiti, non è stata scritta, non già perché non ne franchi la spesa, ma perché si può scriverla[32].
Sullo sfondo dell’autonomia dell’utile-economico, tornava a presentarsi il problema della risoluzione della natura. Accettare una categoria come quella delle «azioni inconscie» avrebbe significato ammettere l’esistenza di uno spazio esterno, non riconducibile all’interno dell’orizzonte auto-teleologico-valoriale dell’attività economica. Nondimeno, si assisteva a un’ulteriore svolta. La sfera dell’economicità iniziava a essere delineata come il piano d’immanenza dell’attività valoriale. La critica al meccanicismo si saldava alla piena affermazione del «fatto economico come atto dell’uomo: ossia come pertinente all’attività umana»[33].
La critica al meccanicismo in tutte le sue forme larvate aveva il suo punto di partenza nella critica alla concezione edonistica del principio economico. In particolare, Pareto, per un verso, rifiutava l’assunto edonistico, poiché riteneva che le equazioni dell’economia pura esprimessero semplicemente il fatto della scelta economica, e perciò fossero ricavabili indipendentemente dalla nozione di piacere e dolore; per un altro, lo accettava, giacché arrivava ad ammettere che la scelta economica potesse essere espressa in forma egualmente compiuta dal «fatto del piacere». Un simile problema per Croce non si poneva, dal momento che la formalizzazione astrattiva del valore gli consentiva di trasfigurare nell’attività economica ogni tipo di contenuto oggettivo. Senza nulla togliere alla coerenza del proprio discorso, poteva, perciò, rivendicare l’identità della scelta economica con il sentimento, piacevole se la scelta era condotta economicamente (vantaggio), spiacevole se condotta antieconomicamente (svantaggio):
L’attività dell’uomo si svolge non sotto la campana pneumatica, ma nella psiche umana: e un’attività, che si svolge bene, reca come riflesso un sentimento di piacere, e quella che si svolge male, un dispiacere. L’utile economico è, insieme, piacevole. Senonché, questo giudizio non è convertibile. Il piacevole non è l’utile economico. Nell’aver fatto questa conversione consiste l’errore della teoria edonistica. Il piacevole può apparire scompagnato dall’attività propriamente umana, o accompagnarsi a una forma di umana attività, che non sia l’economica. Qui è la distinzione profonda tra piacere e scelta. La scelta è, in concreto, inseparabile dal sentimento di piacere e di dispiacere; ma questo sentimento è separabile dalla scelta, e s’incontra, infatti, indipendentemente da essa[34].
Dunque, secondo Croce il problema non era quello di accettare o meno l’assunto edonistico – l’attività economica era sempre in certo qual modo attività-piacere – quanto piuttosto di mostrare come anch’esso si rivelasse, al pari dell’economicismo, un’astrazione di “secondo livello”, cioè un criterio parziale (naturalistico), incapace di cogliere l’essenza (auto-teleologica) dell’attività valoriale dell’utile-economico[35]. Per questo motivo, con buona pace di von Ehrenfels, lo psicologismo non poteva costituire la base solida per una scienza economica intesa come sistema di teoria del valore. Inoltre, l’identificazione dell’utile con la capacità da parte dell’uomo di calcolare il proprio vantaggio economico permetteva a Croce di intendere la scienza economica come una teoria ristretta dei bisogni economici. Molti esponenti del Positivismo dell’epoca, tra cui Camillo Trivero, accettando il concetto di azione inconscia, era stati portati ad estendere la nozione di bisogno anche al mondo naturale, arrivando a fare della teoria dei bisogni una «teoria madre» abbracciante ogni aspetto della realtà. All’opposto, Croce era convinto che l’economia dovesse occuparsi esclusivamente dei bisogni in quanto bisogni umani, «dell’uomo in quanto homo oeconomicus»[36]. Ma con ciò Croce, se pur aveva il merito di smontare la pretesa realistica dell’indirizzo economicistico, nel contempo non faceva un passo avanti rispetto al concetto di homo oeconomicus tipico dell’indirizzo purista e dello psicologismo positivista. A ben vedere, il suo concetto di homo oeconomicus – essendo figlio di una visione estremamente essenzialistica della scienza economica – finiva con il configurarsi come un qualcosa di completamente avulso da ogni contesto storico-sociale, rivelandosi un concetto altrettanto astratto.
Tralasciando tali considerazioni, per Croce ne seguiva che, se l’utile coincideva in tutto e per tutto con la scelta economica, allora esso doveva essere considerato «un fatto di attività pratica, ossia di volontà», perché «scegliere qualcosa» equivaleva a «volerla»[37].
Anche la classificazione paretiana tra azioni logiche, economiche e azioni illogiche, antieconomiche era destinata a cadere. Agli occhi di Croce una tale classificazione si fondava su di una confusione categoriale:
Logico e illogico rimandano chiaramente all’attività teoretica. Un’azione “logica” o “illogica” sarà un modo di dire comune, ma non certo esatto e rigoroso. Il lavoro logico del pensiero è ben distinto dall’atto della volontà. Ragionare non è volere. Né volere è ragionare: ma il volere suppone il pensiero, e perciò la logica. Chi non pensa non può nemmeno volere. Intendo di una volontà quale ci è nota per coscienza ed esperienza; non di un metafisico Wille alla Schopenhauer. Nella conoscenza, in quanto necessario presupposto dell’azione economica, trova, se non giustificazione, spiegazione il vostro distinguere “azioni logiche e illogiche”. Le azioni economiche sono sempre (diciamo pure così) azioni “logiche”, cioè precedute da atti logici; ma bisogna tener ben distinti i due momenti, il fatto dal suo presupposto. Giacché dalla mancata distinzione dei due momenti è nata l’erronea concezione del principio economico come fatto tecnologico[38].
È facile osservare come in queste pagine sia contenuta in nuce la concezione del giudizio storico come antecedente teoretico dell’attività pratica, che rappresenterà il cardine di quello storicismo assoluto messo a punto nella Storia come pensiero e azione (1938). Tuttavia, ai fini del nostro discorso, occorre piuttosto prestare particolare attenzione al successivo riferimento di Croce allo scritto polemico del 1898 dedicato al volume di Rudolf Stammler Wirtschaft und Recht nach der materialistichen Geschichtsauffassung (1896). Riassumendo, si può affermare che Stammler interpretava il marxismo come una forma di riduzionismo economicistico. Il materialismo storico aveva arbitrariamente negato il concetto di teleologia a favore di quello di necessità, per cui la struttura economica diventava il sostrato reale che determinava meccanicamente la sovrastruttura. Nel caso specifico, il diritto era ridotto a mera maschera ideologica della sottostante struttura economica. Inoltre, l’introduzione surrettizia della necessità causalistica, agli occhi del neokantiano Stammler, inficiava la scientificità del marxismo, rendendo di fatto logicamente immotivate alcune delle sue tesi fondamentali, ad esempio la socializzazione dei mezzi di produzione come programma politico. Sullo sfondo della distinzione kantiana tra libertà e necessità, teleologia e causalità, Stammler vedeva nel materialismo storico nient’altro che uno strumento tecnico insufficiente nell’analisi della società e del diritto. Ora, Croce criticava a Stammler non tanto la riduzione del marxismo a strumento tecnico, dal momento che anch’egli vedeva in esso nient’altro che un canone ellittico-interpretativo proficuo, ma insufficiente ai fini della ricerca storiografica. Ciò che, invece, non poteva accettare era il fatto che la critica di Stammler sottintendesse la riduzione del fatto economico a fenomeno meccanico-causalistico, ossia la negazione dell’economicità come principio generalissimo, formale, caratterizzante l’autonomia della sfera pratica del valore. In altri termini, la critica di Stammler al marxismo non era sufficientemente essenzialistica, giacché conteneva ancora i residui di una concezione naturalistica del valore-economico. È in questa prospettiva che va letta l’avvertenza crociana:
A chi voglia scorgere a colpo d’occhio la differenza tra il tecnico e l’economico, suggerirei di considerare bene in che consista un errore tecnico, ed in che un errore economico. È errore tecnico l’ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare: per esempio ritenere che si possano porre travi di ferro molto pesanti sopra mura sottili senza che queste ultime rovinino. È errore economico non mirar diritto al proprio fine: voler questo e insieme quello, ossia non voler veramente né questo né quello. L’errore tecnico è errore di conoscenza; l’errore economico è errore di volontà[39].
Anche qui è facile osservare come in questi passaggi sia contenuta in nuce la teoria dell’origine pratica dell’errore, che verrà ripresa e approfondita nel 1909 rispettivamente nella Filosofia della pratica e nella Logica. Analogamente, ci interessa rilevare che, dal punto di vista dell’analisi crociana, Stammler prima e Pareto poi, non riconoscendo la praticità del fatto economico, finivano con il ridurlo a fatto meccanico-tecnico, ricadendo entrambi proprio in quella forma di errore teoretico che era l’errore tecnico. La concezione tecnica del valore-economico era essa stessa una forma di errore tecnico: un’astrazione di “secondo livello”.
Di contro, Croce, attraverso il processo di trasfigurazione speculativa dell’attività umana in attività economica, libera il valore da ogni incrostazione positivistico-naturalistica, conferendogli però nel contempo quel tanto di oggettività che lo mette al riparo dall’essere concepito come una mera astrazione qualitativa. Perciò, poteva replicare a Pareto:
Voi credete che l’oscurità del termine “valore” venga da ciò, che esso designa un fatto complesso, una collezione di fatti compresi in un’unica parola. Per me, invece, la difficoltà di esso nasce dal designare un fatto semplicissimo, un summum genus, ch’è il fatto dell’attività stessa dell’uomo. Attività è valore. Per noi non vale se non ciò che è sforzo di fantasia, di pensiero, di volontà, dell’attività nostra in ogni sua forma. Come il Kant diceva che non v’ha altra cosa nell’universo che possa dirsi buona se non la buona volontà, così, estendendo, si può dire che non v’ha altra cosa nell’universo, che valga, se non il valore dell’attività umana. Del valore, come dell’attività, non potete chiedere una definizione, come si dice genetica, ossia composita; il semplice e l’originario, è geneticamente, indefinibile. Il valore si osserva e si pensa in noi, nella nostra coscienza[40].
Il che era un modo per ribadire l’autonomia dell’utile-economico come auto-trasparenza speculativa dell’attività valoriale.
Da ultimo, Croce tornava a polemizzare contro la concezione egoistica dell’utile-economico. Il bersaglio polemico diventa il marginalismo di Maffeo Pantaleoni. Nei suoi Principȋ d’economia pura (1889), l’economista aveva riconosciuto il fatto economico in quanto attività pratica. Tuttavia, l’autonomia dell’attività pratico-economica era raggiunta attraverso il confronto antitetico con un modello ideale di attività: l’attività morale. Ora, se l’attività pratico-morale poteva essere definita nei termini di attività altruistica, l’attività pratico-economica doveva essere definita nei termini di attività egoistica. Dunque, il marginalismo, pur contro le proprie intenzioni, si strutturava come una sorta di moralismo indiretto che di fatto minava l’autonomia dell’utile-economico. In altre parole: il purismo di Pantaleoni e Pareto era metodologicamente insufficiente perché non era abbastanza purista. Agli occhi di Croce bisognava garantire l’autonomia, la purezza categoriale della sfera economica:
L’egoistico non è qualcosa di semplicemente diverso dal fatto morale, ma l’antitesi del fatto morale: è l’immorale. Per questa via, col fare del principio economico il medesimo dell’egoismo, anziché a distinguere l’economia dalla morale si viene a subordinare quella a questa, e perfino a negarle diritto all’esistenza, riconoscendola come qualcosa di meramente negativo, come un pervertimento dell’attività stessa morale. Tutt’altro è il fatto economico. Esso non sta in antitesi col fatto morale, ma nel rapporto pacifico di condizione a condizionato; come, cioè, la condizione generale, che rende possibile il sorgere dell’attività etica. In concreto, ogni azione (volizione) dell’uomo è o morale o immorale, non potendosi concepire azioni moralmente indifferenti. Ma tanto il morale quanto l’immorale sono azioni economiche; il che vuol dire che l’azione economica, per sé presa, non è né morale né immorale. La fermezza del carattere, per esempio, è attributo così dell’onest’uomo come del birbante[41].
A nostro avviso sarebbe fuorviante leggere tali affermazioni sulla scia di un presunto tentativo crociano di rigorosa fondazione del piano etico dello spirito. Croce è lontano da quel moralismo assoluto che caratterizzerà la fase senescente del suo cammino speculativo. Ciò che gli premeva era la piena attestazione dell’autonomia dell’utile-economico in tutta la sua realistica crudezza. In tal senso va inquadrata l’esortazione a Pareto contenuta in questo passo:
Ecco, ottimo amico, rapidamente spiegato come io giunga alla definizione del fatto economico, che mi piacerebbe vedere a capo dei trattati di Economia: IL FATTO ECONOMICO È L’ATTIVITÀ PRATICA DELL’UOMO IN QUANTO SI CONSIDERI PER SÉ, INDIPENDENTEMENTE DA OGNI DETERMINAZIOE MORALE O IMMORALE[42].
Riprendendo ciò che abbiamo già detto e anticipando ciò che a breve diremo, è qui possibile affermare che la scoperta e la difesa dell’autonomia categoriale dell’utile-economico allargava l’orizzonte della teoria filosofica della libertà al liberalismo in quanto dottrina storico-politica: l’unica in grado di pacificare in sé l’autonomia dello spazio politico come spazio conflittuale.
Autonomia del politico e teoria dello Stato. La dottrina politica della libertà
A partire dagli anni Venti, anche a causa del primo conflitto mondiale e dell’avvento del Fascismo, Croce metteva al vaglio della prova storica e politica il concetto di libertà elaborato nel corso della Filosofia della pratica. Iniziava una stagione di profondo ripensamento di quel liberalismo, che fin dai tempi del soggiorno romano in casa Spaventa (1883-1886) era diventato per Croce quasi una sorta di naturale tendenza spirituale e politica, e che troverà il proprio culmine nella «religione della libertà» esaltata nelle pagine della Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932.
È sulla scia di tale aspro e duro bisogno di ripensamento dell’esperienza risorgimentale del liberalismo che va inquadrato l’interesse crociano per la Realpolitik. Nel saggio Il senso politico del 1925, Croce identifica senza riserve lo spazio del politico con lo spazio dell’utile-economico:
Quando si parla di “senso politico”, si pensa subito al senso della convenienza, dell’opportunità, della realtà, di ciò che è adatto allo scopo, e simili. E si considerano forniti di senso politico coloro che a quel modo operano o a quel modo giudicano l’altrui operare, e, per contrario, privi di senso politico quegli altri, che diversamente si comportano, ancorché abbondino di morali intenzioni e si accendano a nobilissimi ideali. È irragionevole dunque, […] con siffatto riconoscimento, si può dire quotidiano, […] ripugnare poi alla dottrina che l’azione politica non sia altro che azione guidata dal senso dell’utile, indirizzata a un fine di utilità, e che per sé non possa qualificarsi né morale né immorale[43].
Identificazione resa possibile sullo sfondo di quel processo di ri-astrazione speculativa dell’oggettivo nel soggettivo, della prassi nella pratica, iniziato con gli studi sul marxismo e proseguito lungo le pagine della Filosofia della pratica. Il problema del rapporto tra «senso politico» e «senso dell’utile», agli occhi di Croce non si poneva affatto, dal momento che la formalizzazione astrattiva della prassi gli consentiva di trasfigurare nell’attività pratico-economica ogni tipo di contenuto oggettivo. Il piano concreto della prassi politica veniva, così, completamente trasfigurato nel piano astratto dell’attività pratico-economica. Non deve stupire, perciò, se al concetto di politico sia toccata la stessa sorte dell’utile-economico. L’autonomia del politico, infatti, era per lo più concepita attraverso il confronto antitetico con un modello ideale di attività: l’attività morale. Il fatto politico diventava fatto immorale: egoismo politico. Da ciò il «dualismo tra azione politica e azione morale», il quale – spiegava Croce – aveva come conseguenza:
In primo luogo, il volgare giudizio che la politica sia una triste necessità (volgare giudizio che taluni filosofi hanno innalzato all’empireo delle loro speculazioni, facendo della politica e dello Stato un espediente provvisorio e una condizione transitoria del genere umano); e, in secondo luogo, la sequela delle illogiche sentenze onde si afferma che bisogna far talvolta il male per servire il bene, che il fine morale giustifica il mezzo immorale, che altra è la morale privata e altra la morale pubblica, che impossibile è far politica e serbare pure le mani, che nell’interesse dello Stato si deve all’occorrenza non osservar la fede data o compiere delitti. Illogiche, perché la nostra umana coscienza ci grida che in nessuno caso è lecito rompere la fede o commettere delitti; che non c’è una morale in casa e una in piazza: che non si può fare il male per ottenere il bene, come se male e bene fossero merci da scambiare; che le mani debbono serbarsi pure; che la qualità del mezzo e quella del fine non debbono contrastare[44].
Al di là dell’implicito riferimento polemico alla teoria marxiana dell’abolizione dello Stato, va messo in luce il fatto che Croce leghi l’autonomia del politico a quel piano d’immanenza che abbiamo visto essere rappresentato dalla capacità dell’attività pratica di delinearsi come dialettica tra fine e mezzo. Se nel terzo volume della Filosofia dello spirito la riformulazione auto-teleologica dell’attività pratica portava a compimento la spiritualizzazione della natura, adesso tale riformulazione metteva capo alla piena spiritualizzazione della sfera politica. In altri termini, l’auto-teleologicità dell’utile-economico riassorbiva in sé l’auto-teleologicità della prassi politica. Ciò è indicativo del cambio di prospettiva operato da Croce. A differenza di quanto accadeva nel carteggio con Pareto – dove l’antitesi con il piano pratico-morale andava in direzione del compiuto riconoscimento dell’autonomia categoriale dell’utile-economico –, adesso l’antitesi si andava sempre di più rovesciando in direzione del riconoscimento del piano pratico-morale in quanto luogo privilegiato dell’immanentismo crociano. La ri-astrazione idealistica della prassi nella pratica permetteva a Croce di liberare il piano politico dalla scorza realistica che ancora lo avvolgeva, mostrandone il nocciolo razionale-moralistico. A nostro avviso, è su questa linea che va letto il seguente passo dedicato alla presunta illogicità delle azioni politiche:
E sarebbe da chiamarle, peggio che illogiche, turpi, se non si convenisse che esse si ritrovano talora perfino sulle labbra di uomini come Federico di Prussia e Camillo di Cavour; ed esprimono allora l’ingenua angoscia che si prova nell’eseguire azioni, delle quali si sente la razionale necessità e che tuttavia non si riesce ad adagiare negli schemi delle dottrine professate, a segno che i loro stessi autori ne discostano le proprie persone dopo averle compiute, e trepidamente se ne accusano, o ne lasciano l’esclusività a Dio, che li ha messi in tali strette da dover fare quello che han fatto. Ma il vero è che se, nella maggiore chiarezza della coscienza morale, si è affermato necessario eseguire quelle azioni (necessario, ben s’intende, non per soddisfare la propria sete di potere o altra privata ambizione e passione, né per abito di rozzezza e delinquenza, ma per la sacra tutela, per l’accrescimento o pel risorgimento della patria), esse non possono essere né mancanti di fede, né assassinamenti, né altra sorta di bricconate o di malvagità: allo stesso modo che la “magnanima menzogna”, della quale parla il Tasso, appunto perché “magnanima”, non poteva essere “menzogna”, altro che per poetica metafora[45].
Il riferimento a Federico di Prussia e Cavour è quanto mai significativo, giacché testimonia la piega moralistica che andava assumendo la filosofia crociana. Il piano pratico-economico non costituiva più il sostrato “concreto” del piano pratico-morale. All’opposto, era il piano pratico-morale che si rivelava essere il sostrato “concreto” del piano pratico-economico. L’autonomia dell’utile da piano immanente della prassi economico-politica passava ad essere il piano trascendente della pratica etico-politica. Certo, Croce in queste pagine parlava anche del politico e dell’utile come di due concetti «coestensivi». Tuttavia, si affrettava subito ad aggiustare il tiro delle proprie affermazioni precisando che:
Se si richiede abilità politica per governare lo Stato o per capitanare un partito, ce ne vuole parimenti per governare la propria famiglia, ce ne vuole per annodare e coltivare relazioni di amore e di amicizia, ce ne vuole perfino verso gli animali, dei quali ci serviamo, e perfino verso le cose, posto che anch’esse obbediscano a leggi, e a loro modo (o a modo campanelliano) abbiano vita e senso. Cosicché, nel parlare come qui si fa di politica e di azioni politiche, s’intende semplicemente rivolgere l’attenzione a certi ordini di fatti che di solito hanno maggiore rilievo e porgono più di frequente materia a indagini e discussioni: ordini di fatti che non sapremmo logicamente delimitate entro l’infinita distesa dell’utile e pei quali ci riferiamo unicamente (e per fortuna basta al nostro fine) alla rappresentazione generale, suscitata dal vocabolo “politica”[46].
Analogamente a quanto avvenuto con la teoria marxiana del valore-lavoro, l’autonomia dell’utile-politico viene sbrigativamente ridotta a una sorta di canone ellittico-interpretativo, sicuramente fruttuoso, ma insufficiente ai fini della ricerca storiografica.
La risoluzione dell’autonomia dell’utile in quanto prassi economico-politica nella superiore autonomia della pratica etico-politica si era già palesata in tutta la sua problematicità pochi anni prima nei Frammenti di etica del 1922. In particolare nel saggio L’antieroicità degli stati, Croce arrivava a schernire quanti ancora non scorgevano chiaramente il fatto che le lotte tra Stati non erano «lotte morali» tra sostanze etiche, bensì «lotte politiche» tra sostanze economiche. Gli Stati lottavano unicamente in funzione del crudo accrescimento della propria potenza sul palcoscenico della storia mondiale. Osservava Croce:
L’individuo morale è tenuto a serbare, e serba con la cura più schiva, la dignità, che non è solo prova della sua energia d’individuo, ma ossequio all’ideale morale che vive nel suo petto. Perciò gli è vietato cedere alle disoneste minacce, ma gli è altrettanto vietato di ostinarsi in un proposito, quando quel suo proposito gli si è scoperto ingiusto, sorto da errore. Riconoscere il proprio errore è suo obbligo strettissimo, e in questo riconoscimento egli non si umilia ma si esalta, o si umilia esaltandosi. Ma la dignità degli Stati è tutt’altra cosa: è una dignità che consiste nell’asserire la forza senz’altro limite che questa forza stessa e il più conveniente e utile modo di usarla. Onde lo Stato non riconosce mai, in nessun caso, un proprio torto, non trovando ragione a ciò, e, tutt’al più, si rammarica con sé stesso dei proprî errori di calcolo; ma, d’altra parte, cede alle minacce quando sono veramente pericolose, o, come si dice con nobiltà di suoni, non riconosce sopra di sé altro che “Dio e la spada del vincitore”. È una forma di dignità che trova riscontro in quella dell’uomo prepotente, che non si piega se non al prepotente più forte e più fortunato di lui. Ma con questa differenza: che l’individuo prepotente ha in sé un lume, sia pur obliquo, di coscienza morale, una forma di onore, e talvolta preferisce la rovina e la morte all’onta della sottomissione e rende così omaggio indiretto alla coscienza morale, distruggendo sé stesso per celebrare il valore dell’umana dignità. Lo Stato, invece, non può preferire alla salvezza, quale che sia, della vita, la propria rovina e morte; cosicché, per questa parte, se fosse un individuo morale, sarebbe da dire vile: giudizio al quale sfugge non per altro se non appunto perché esso non si aggira nella cerchia etica, e le sue viltà non sono viltà, ma “dolorose rinunzie”, che, a volta a volta, secondo che soffia il vento della Storia, tutti gli stati hanno compiuto e compiono[47].
Gli Stati si muovevano secondo una logica che si sottraeva a ogni considerazione morale. Agli occhi di Croce, la lotta tra gli Stati diventa una lotta per la sopravvivenza. L’autonomia dell’utile-politico andava sempre di più assumendo i tratti ferini di una vera e propria legge di natura:
Che cosa volete? Gli Stati sono magnifici animali, poderosi, colossali; ma essi non vogliono altro che vivere, e, per non morire, accettano qualunque modo loro si offra. Per intanto (essi pensano), si vive: l’avvenire provvederà al resto. Questa è la verità; e perciò niente di più fittizio delle vanterie degli Stati vincitori; quasi che essi abbiano salvato l’onore e i vinti l’abbiano perso: laddove non c’è, in questo caso, né onore da salvare né un onore da perdere, ma solo vita e interessi di vita da garantire in quel miglior modo che si può. Se quelle vanterie venissero da individui etici, sarebbero erose e spudorate; ma tali non sono per la ragione già detta, e perché, utilitariamente, servono al fine di eccitare certe forze, utili alla vita dei singoli Stati[48].
La dimensione politico-economica della Stato come Stato-potenza sembrava risolvere in sé la dimensione etica, imponendosi in tutta la propria durezza. Anche in questo caso, però, si trattava di un riconoscimento apparente.
Nel saggio Lo Stato etico la dimensione amorale dello Stato-potenza veniva, infatti, fortemente ridimensionata. Vale la pena sottolineare come tale ridimensionamento veniva svolto sullo sfondo di quello che rappresentava uno dei principi capitali della storiografia crociana: la riconduzione delle proposizioni filosofiche alla loro «origine storica». Esaminare una teoria filosofica o una dottrina politica significava interpretarla in funzione degli avvenimenti storici che l’avevano caratterizzata: domandarsi «contro chi o che cosa» essa reagiva. Nello specifico, la concezione dello Stato-potenza veniva fatta risalire al contrasto tra Ragione di Stato rinascimentale e teorie politiche del Medioevo, passando attraverso il contrasto tra Romanticismo e Illuminismo, Restaurazione e Giacobinismo, fino ad arrivare a quello tra Nazionalismo e Umanitarismo, Imperialismo e Rivoluzione.
Nel giro di poche battute, Croce costruiva una colossale storia delle dottrine politiche – che aveva per padre comune Machiavelli – in cui riusciva a porre sullo stesso piano conservatori e riformisti, reazionari e rivoluzionari. In nome della “comune ostilità” verso la riduzione del piano politico al piano morale, venivano conciliati Galiani e Haller con Hegel e Marx, Treitschke e Maurras con Lenin. Specularmente, Croce metteva in opera una non meno colossale contro-storia etico-politica nella quale la concezione dello Stato-morale era fatta risalire al «gran contrasto» tra Stato e Chiesa, Riforma e Controriforma, società laica e società teocratica. Un contro-movimento che vedeva necessariamente nella filosofia hegeliana il culmine della modernità. L’hegelismo, infatti, con la sua pretesa di risolvere in sé lo «hiatus tra cielo e terra», consentiva a Croce di riassorbire il piano politico nel piano morale. La storiografia assumeva i tratti di un contro-movimento speculativo in grado trasfigurare l’oggettività del fatto storico nel piano superiore della storia etico-politica. Nel giro di poche battute, si assisteva al rovesciamento della Chiesa in Stato, della Controriforma in Riforma, del dispotismo teocratico in democratismo laico[49].
Non deve, quindi, sorprendere se la soluzione al contrasto tra queste due opposte definizioni dello Stato fosse indicata da Croce in termini puramente filosofico-speculativi:
Queste due definizioni, a volta a volta asserite, non riescono pensabili in relazione l’una all’altra se non da chi pensi dialetticamente, cioè non le mantenga nella loro parallelistica dualità, giustapposite o concorrenti, ma le risolva in un processo spirituale, pel quale lo Stato si pone, in un primo momento, come mera potenza e utilità, e s’innalza da esso a moralità, non respingendo da sé quel primo suo carattere, ma negandolo, e cioè serbandolo nel superarlo. Chi non pensa dialetticamente, ossia filosoficamente, si ritrova sempre innanzi quelle due diverse definizioni, e non può se non ripetere ora l’una ora l’altra, contradittoriamente, e procurare invano di sopprimere ora l’una ora l’altra, con l’effetto di vedere sempre risorgere l’una dall’altra e l’altra dall’una. Chi non pensa filosoficamente e dialetticamente, per isforzi che faccia, non le dominerà mai a pieno[50].
Il processo di ri-astrazione idealistica della prassi economico-politica nella pratica etico-politica portava Croce a non considerare il problema della natura dello Stato come un «problema a sé», ossia come un problema di architettura politico-giuridica delle moderne istituzioni. Il problema dello Stato doveva essere ricondotto a un problema di filosofia della pratica, perché esso non era altro che una metafora dell’«uomo nel suo pratico operare». Fuori dall’orizzonte speculativo della pratica, lo Stato non serbava «realtà veruna». A ragione Croce poteva osservare:
La grande antinomia nella quale si è aggirata la storia della è quella tra l’operare utilitario e l’operare morale dell’uomo, e si a che a volta a volta i teorici hanno procurato di cavarsi d’impaccio disciogliendo il secondo termine nel primo (utilitarismo) o il primo nel secondo (moralismo astratto), finché si è avvertito che né l’uno né l’altro potevano eliminarsi e che bisognava dialetticamente trapassare dall’uno all’altro. Le contrastanti concezioni dello Stato egoistico e dello Stato moraleggiante e umanitario rispondono di tutto punto alle due opposte unilateralità dell’utilitarismo etico e del moralismo astratto, e anzi sono, con esse, affatto identiche[51].
Entrare nel merito della «grande antinomia» tra utilitarismo e moralismo astratto – affrontata e “risolta”, stando almeno a quanto dice Croce nelle pagine della Filosofia della pratica – richiederebbe uno spazio di analisi a parte. Ciò che preme mettere in evidenza è che, a differenza non solo di quanto accadeva nel carteggio, ma anche nella stessa Filosofia della pratica, adesso l’utile-economico finisce per essere identificato con l’egoistico. Ancora una volta l’autonomia del piano politico cede il passo all’autonomia del piano morale.
Lo Stato in quanto entità politica veniva a delinearsi come una sorta di grado di utilità marginale – lo Stato-egoistico – che doveva essere superato e risolto nell’orizzonte spirituale dello Stato-morale. Con il che Croce si poneva sullo stesso piano di quel marginalismo liberale da lui in precedenza criticato. Secondo la teoria liberista, lo Stato doveva intervenire il meno possibile nell’economia di mercato, lasciando ampio spazio al “libero gioco” auto-regolativo della concorrenza tra capitali. Ora, Croce aveva appreso alla scuola dell’economia marxistica come tale capacità auto-regolativa della libera concorrenza, in realtà, si rivelasse essere uno scontro tra capitali al fine di assumere una posizione predominante all’interno del mercato. La libera concorrenza si risolveva necessariamente in dominio monopolistico. Tuttavia, sulla scia del proprio essenzialismo metodologico, egli era ormai portato a leggere tutte le questioni di economia politica in termini filosofico-morali. La soluzione alle tendenze monopolistiche insite nell’economia di mercato consisteva nel fare del principio fondante della concezione liberale – la libertà – una pura forza morale in grado di trasfigurare in sé ogni istanza di strutturazione economico-politica. Lo Stato doveva diventare l’incarnazione del principio liberale in quanto principio morale, e perciò doveva intervenire nel quadro della libera concorrenza senza mai pretendere di determinarlo in tutto e per tutto. Il compito principale dello Stato in quanto Stato-morale era quello di riassorbire in sé ogni forma concreta di pianificazione economico-politica.
Nello scritto del ’25, sullo sfondo dell’identificazione tra prassi politica e pratica utilitaria, Croce riprendeva la questione, delineando lo Stato come «nient’altro che un processo d’azioni utilitarie di un gruppo d’individui». Nell’ottica dell’essenzialismo crociano, lo Stato poteva essere distinto solo astrattamente dalle altre formazioni politiche che componevano la società civile. Anche il tentativo di definire lo Stato come «complesso di istituzioni o di leggi» risultava un qualcosa di astratto e di derivato. A ben vedere, infatti, la strutturazione giuridica era un tratto che lo Stato condivideva con ogni altra forma di organizzazione politico-sociale (ad es., i partiti politici non potevano sussistere senza stabilire al proprio interno una gerarchia regolata attraverso una precisa normazione legislativa). Secondo Croce, il problema dello Stato e della sua concreta intelaiatura politico-giuridica in relazione alla specifica prassi dei singoli soggetti politici acquistava concretezza solo a patto di essere riportato nell’alveo del problema generale della Filosofia dello spirito. La questione dello Stato-potenza, in quanto «entità» conflittuale che si imponeva a spese dei singoli attori politici, veniva ipostatizzata nel problema filosofico dell’universalità concreta dei distinti, dello Spirito-attività. In fin dei conti, per Croce si trattava del
consueto scherzo che l’irriflessione esegue per mezzo delle metafore del linguaggio e che l’enfasi rettorica rassoda: uno scherzo a cui lo Stato va soggetto insieme con le altre idee e ideali, il Vero, il Bene, il Bello, scritti con la maiuscola e tutti sospesi in alto come astri luminosi. Nascono da ciò le assurde domande, che cosa sia il Vero, il Bene, il Bello oggettivamente e in sé; e gli assurdi procedimenti teoretici onde si viene esponendo come, poste quelle idee, lì ferme, l’uomo si conduca rispetto a esse, le apprenda, le imiti, le attui, o le tradisca e loro si ribelli; e, infine, l’insoddisfazione che lasciano siffatte dottrine, dalle quali non si viene fuori se non col riacquistare la consapevolezza che non c’è il Vero, ma il pensiero che pensa, non il Bene, ma la volontà morale, non il Bello, ma l’attività poetica e artistica; e non già lo Stato, ma le azioni politiche. La parola “Stato”, del resto, che fu messa in uso nel suo significato politico dagli italiani del Rinascimento, sembra quasi un paradosso verbale, perché richiama la “statica” in una cerchia come la vita politica, che, al pari di ogni vita, è dinamica, o, per meglio dire, spiritualmente dialettica[52].
Con la riduzione dell’attività dello Stato a pura attività politica, veniva meno la distinzione teoretica tra Stato e Governo. La pratica statale si risolveva nella pratica governamentale. Fuori dalla «non mai interrotta catena» della pratica di governo lo Stato tornava ad essere l’«ombra» del politico, nient’altro che un’astratta esigenza giuridico-legislativa[53].
Il rovesciamento della realtà dello Stato nella realtà della pratica politica offriva l’opportunità a Croce di accettare senza difficoltà la concezione che indicava la nascita e l’essenza dello Stato nell’esercizio della «forza». Accettazione resa possibile dalla vena idealistica che attraversava la teoria della storiografia crociana. Per «origine», infatti, non bisognava intendere l’origine storica, il fatto nella sua concreta particolarità storica, bensì l’eterna contemporaneità (attualità) dello Stato in quanto «categoria spirituale». Assunto che valeva in special modo per il concetto di forza, il quale andava nettamente distinto dalla «grossolana rappresentazione» che la parola sembrava suggerire. La forza non andava pensata nei termini naturalistici della cruda brutalità, ma, al contrario, nella sua «piena verità» di «forza umana e spirituale». Scriveva Croce:
Inteso così rettamente il concetto di forza, ne segue che non si può concepire la forza distribuita in modo che, in una moltitudine di uomini, uno o taluni la posseggano e gli altri no, uno o taluni ne posseggano più e altri ne posseggano meno; sicché quell’uno o taluni s’impongano agli altri e li signoreggino. La varia distribuzione di quella forza non quantitativa ma qualitativa; ed è varietà di attitudini e di capacità e di virtù, di cui ciascuno cerca il suo completamento nelle altre, ciascuna ha bisogno delle altre, ciascuna reciprocamente può imporsi alle altre, minacciarle della privazione del proprio sussidio, esercitare, come si dice, una pressione, sulle altre[54].
Spiritualizzazione della forza resa possibile da quel processo di trasfigurazione qualitativa del quantitativo messo a punto da Croce nel confronto con la concezione paretiana del valore. In quel caso, la comparazione quantitativa dei valori era stata risolta in funzione della conversione qualitativa dell’attività in attività-valore. L’oggettività quantitativa del contenuto economico finiva con l’essere nient’era altro che il rispecchiamento qualitativo della stessa soggettività-economica. Analogamente, la conversione del concetto di forza avveniva per il tramite della trasfigurazione astrattiva dell’oggettività quantitativa nell’attività qualitativa del soggetto. Con la differenza non marginale che adesso il soggetto dell’attività non era più la soggettività-economica – che, per quanto astratta, rimaneva in qualche modo attività umana –, bensì la soggettività dello Spirito, l’attività dello Spirito. L’essenzializzazione del concetto di forza non era altro che il rispecchiamento qualitativo dello Spirito in quanto enèrgeia totalizzante.
Sul piano della pura teoria politica, ciò dava lo spazio a Croce per proporre l’ennesima soluzione filosofico-speculativa a un problema di prassi politica. Nello specifico, al «dilemma» se la legittimità dello Stato dovesse essere fondata sulla forza o sul consenso. Va da sé che, una volta svuotato di ogni contenuto concreto il concetto di forza, un simile dilemma non aveva più senso, perché osservava Croce:
In verità, forza e consenso sono in politica termini correlativi, e dov’è l’uno, non può mancare l’altro. Consenso (si obbietterà) “forzato”; ma ogni consenso è forzato, più o meno forzato ma forzato, cioè tale che sorge sulla “forza” di certi fatti, e perciò “condizionato”: se la condizione di fatto muta, il consenso, com’è naturale, viene ritirato, scoppiano il dibattito e la lotta, e un nuovo consenso si stabilisce sulla condizione nuova. Non c’è formazione politica che si sottragga a questa vicenda: nel più liberale degli Stati come nella più oppressiva delle tirannidi, il consenso c’è sempre, e sempre è forzato, condizionato e mutevole. Se così non fosse, mancherebbero insieme lo Stato e la vita dello Stato[55].
La struttura del discorso crociano ricalcava in tutto e per tutto la struttura che sottintendeva la dottrina idealistica della libertà. Da una parte, il soggetto, il consenso era condizionato dall’oggetto, dalla forza che gli conferiva oggettività e concretezza. Dall’altra, il soggetto, il consenso era condizione dell’oggetto, poiché, a ben vedere, l’oggettività, la concretezza della forza, non era altro che il prodotto, il rispecchiamento, del soggetto stesso, del consenso. L’oggettività, dunque, si rovesciava nella soggettività, la forza nel consenso. Analogamente, da una parte l’oggetto, la forza era condizionata dal soggetto, dal consenso che ne incrementava l’effettualità. Dall’altra, l’oggetto, la forza, proprio perché era il prodotto, il rispecchiamento del soggetto stesso, del consenso, arrivava a un tale grado di sviluppo da porsi essa stessa come soggetto, condizione, consenso, dalla quale derivavano l’oggettività e la concretezza poste dal soggetto stesso. Anche qui l’oggettività si rovesciava nella soggettività, la forza nel consenso. In entrambi i casi si partiva dall’oggetto, la forza, per poi ritornare al soggetto, il consenso. O, meglio, sarebbe più corretto affermare che in entrambi i casi si partiva dal soggetto e si ritornava al soggetto, si partiva dal consenso per ritornare al consenso. Si trattava di un movimento chiuso che permetteva a Croce di spogliare le formazioni politiche di ogni concretezza storica, riassorbendole così sul versante di quel piano totalistico in cui tirannide e democrazia liberale venivano conciliate nella superiore razionalità della storia etico-politica. Soluzione filosofico-speculativa che doveva essere estesa anche alla relazione politica tra libertà e autorità. A ben vedere, infatti, secondo Croce si poteva affermare che:
In ogni Stato autorità e libertà sono inscindibili (e si pensi anche qui agli estremi del dispotismo e del liberalismo): la libertà si dibatte contro l’autorità, e pur la vuole, e senz’essa non sarebbe; e l’autorità reprime la libertà, eppure la tien viva o la suscita, perché senz’essa non sorgerebbe. Quale parola fa battere con più calore e dolcezza il cuore umano? Non c’è n’è forse altra che abbia pari potere se non quella di amore; e in certo senso il contenuto delle due parole confluisce in uno, perché la libertà, come l’amore, è la vita che vuole espandersi e godere di sé, la vita in tutte le sue forme e sentita da ciascuno a modo proprio, in quella infinità varietà, in quell’individualità di tendenze e di opere onde s’intesse l’unità dell’universo […] Ma a ragione altresì si celebra l’autorità, l’ordine, la regola, il sacrifizio che ciascuno deve a ciascuno e tutti a tutti, che è il potenziamento di ciascuno in ciascuno e di tutti in tutti: se la parola “libertà” sorride all’animo, quella di “autorità” lo rende serio e severo[56].
Lo Stato diventa sintesi di Stato-potenza e Stato-morale, ossia: lo Stato etico-politico come unica struttura governamentale in grado di risolvere nella sovranità del proprio ordinamento tutte quelle forme di conflittualità politico-sociale (democratismo, giacobinismo, egualitarismo) derivanti dall’opposizione tra forza e consenso, autorità e libertà[57].
Nel saggio La concezione liberale come concezione della vita (1925), la risoluzione della storia in storia etico-politica e dello Stato in Stato etico-politico apriva lo spazio per la critica di tutte le «astrazioni giusnaturalistiche», a cominciare da quella dello stato liberale come «stato ottimo». Nel suo svolgimento ascendente il Dio della storia riconduceva nel proprio viluppo onnicomprensivo ogni forma particolare di ordinamento giuridico-politico. Anche il partito liberale in quanto istituzione storico-politica era soggetto alla sovranità dello Spirito. Eppure, agli occhi di Croce vi era una forza che in quanto essenza dello Spirito aveva il diritto di reclamare per sé l’eternità: la libertà.
La concezione liberale doveva, perciò, superare, risolvendole in sé, sia l’autonomia del politico che la teoria dello Stato, arrivando a imporsi come una vera e propria «concezione totale del mondo e della realtà». Il liberalismo in quanto espressione più alta del totalismo crociano veniva trasfigurato in «concezione metapolitica»[58]. Sul piano concreto della storia, la teoria metapolitica dava la possibilità a Croce di configurare il liberalismo come la forza propulsiva di un contro-movimento speculativo che vedeva necessariamente nella filosofia hegeliana il culmine della modernità. Nella concezione liberale si rispecchiava la «religione dell’età moderna», ovvero l’«idea dialettica», «immanentistica», la quale, superando le varie forme di trascendenza, ricomprendeva in sé «Dio e mondo, cielo e terra»[59]. Per il tramite della teoria metapolitica il contro-movimento della storia etico-politica si trasfigurava nel movimento della storia, assumendo i tratti di una sorta di metastoria del liberalismo, storia della libertà. Specularmente a quanto accaduto nella teoria dello Stato, la teoria metapolitica pacificava in sé ogni forma di conflittualità storico-politica, a cominciare dallo scontro con il socialismo. Era, ormai, chiaro che, dal punto di vista di una teoria puramente metapolitica, il conflitto con il socialismo si apriva nel momento in cui quest’ultimo pretendeva per sé quell’«autorità», quel «carattere religioso» e totalistico proprio del liberalismo. In tal senso, Croce poteva tranquillamente affermare che nei confronti del socialismo e delle sue particolari richieste:
Non sorgerebbe conflitto di principȋ, perché né il liberalismo ha ragione alcuna di avversare il sempre maggiore umanamento e l’ascendente dignità delle classi operaie e dei lavoratori della terra, e anzi a suo modo mira a questo segno, né ha legame di piena solidarietà col capitalismo e col liberismo economico o sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di ordinamento della proprietà e di produzione della ricchezza, col solo limite, col solo patto, inteso ad assicurare l’incessante progresso dello spirito umano, che nessuno dei modi che si prescelgono impedisca la critica dell’esistente, la ricerca e l’invenzione del meglio, l’attuazione di questo meglio; che in nessuno di essi si pensi a fabbricare l’uomo perfetto o l’automa perfetto, e in nessun si tolga all’uomo l’umana sua facoltà di errare e di peccare, senza la quale non si può neppure fare il bene, il bene come ciascuno lo sente e sa di poter fare[60].
In altri termini: il socialismo doveva dismettere ogni velleità di trasformazione politica della realtà storico-sociale per abbracciare la fede liberale.
Il saggio del ’28 Liberismo e Liberalismo, da questo punto di vista, rappresentava l’ultimo atto dell’essenzialismo crociano. Questa volta, però, la teoria metapolitica veniva applicata all’interno dello stesso campo liberale. Il conflitto contro il liberismo scoppiava nel momento in cui da «legittimo principio economico» esso pretendeva di assurgere al rango di «legge sociale». Il liberismo finiva con il convertirsi in un’«illegittima teoria etica, in una morale edonistica e utilitaria», la quale assumeva come principio pratico-politico la massima soddisfazione del «libito individuale». Agli occhi di Croce, il conflitto tra liberalismo e liberismo terminava:
Col riconoscere il primato non all’economico liberismo ma all’etico liberalismo, e col trattare i problemi economici della vita sociale sempre in rapporto a questo. Il quale abborre dalla regolamentazione autoritaria dell’opera economica in quanto la considera mortificazione delle facoltà inventive dell’uomo, e perciò ostacolo all’accrescimento dei beni e della ricchezza che si dica; e in ciò si muove nella stessa linea del liberismo, com’è naturale, posta la comune radice ideale. Ma non può accettare che i beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, dal suo punto di vista, che questi sieno beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana. La “libertà”, di cui esso intende parlare, è indirizzata a promuovere la vita spirituale nella sua interezza, e perciò in quanto vita morale[61].
La teoria metapolitica della libertà rappresentava il punto più alto di conciliazione tra dottrina politica e dottrina idealistica della libertà. Il principio della libertà in quanto forza propulsiva della storia etico-politica doveva acquisire concretezza arrivando a coincidere in tutto e per tutto con le proprie produzioni politiche, le istituzioni liberiste. Tuttavia, la libertà in quanto essenza dello Spirito universale era strutturalmente destinata a non riconoscersi, a non esaurirsi mai del tutto nelle proprie produzioni, fosse anche la più alta istituzione dell’economia liberista: la libera concorrenza. Il liberismo come principio economico veniva, così, riassorbito nel liberalismo come principio etico.
Nella distinzione metapolitica tra liberismo e liberalismo Croce portava a termine il processo di trasfigurazione speculativa del piano economico-politico nel superiore piano etico-politico dello Spirito. Il liberalismo non poteva più essere considerato da Croce come una semplice forza in lotta con le altre forze propulsive della storia, ma doveva incarnare la razionalità stessa del corso storico. A questo punto il liberalismo non poteva non collidere con quel Dio della storia che era l’accadimento, facendosi vera e propria religione, «religione della libertà».
La religione della libertà. La storia come storia del liberalismo
Prima di entrare nel merito delle questioni concernenti la concezione della storia come storia del liberalismo, occorre tornare brevemente al problema dell’accadimento.
Nel corso della prima parte del nostro lavoro è emerso sempre di più come la trasfigurazione delle azioni degli individui nell’ulteriore sintesi dell’accadimento, in realtà, finisca per mettere capo alla dissoluzione di ogni spazio di azione. In nome della propria superiore razionalità, l’Assoluto – Dio della storia – dissolve gli individui. Dunque, la Filosofia dello spirito per il tramite della teoria dell’accadimento approda a uno storicismo ben più hegeliano di quello dello stesso Hegel. È innegabile, infatti, che il sistema crociano non sia una filosofia del conoscere, ma, al pari di quella hegeliana, una filosofia dell’attività e, in quanto tale – almeno nelle intenzioni –, portata a superare ogni dualismo soggetto-oggetto in favore di una piena risoluzione della realtà in soggettività e spiritualità del Soggetto. Con la differenza non marginale che, mentre per Hegel il Soggetto, lo Spirito è la libera attività dell’Idea che, dopo essersi esplicata nel mondo, paga di sé, gode eternamente di sé, per Croce il Soggetto, lo Spirito è, sì, attività, però morale, cioè esplicantesi esclusivamente nella storia come eterna acquisizione che lo Spirito fa di se stesso in quanto libertà[62].
Tornando alla Filosofia della pratica, si può osservare come nella teoria dell’accadimento la frizione tra idealismo e storicismo, tra morale e politica, spirito e individuo si risolva in direzione di un moralismo assoluto. Il totalismo dell’universale giunge, così, al suo naturale approdo, poiché, al pari della storia, che è storia solo in quanto attuazione dello spirito in universale, ossia effettualità storica dell’universale, l’etica è etica solo in quanto attuazione dello spirito in universale, ossia effettualità etica dell’universale. Spiega Croce:
Se ora ci si domanda cosa sia l’universale, dobbiamo rispondere che la risposta è stata già data, e che chi non l’ha intesa finora, anzi che non l’ha intesa da un pezzo, non l’intenderà più mai. L’universale è stato oggetto di tutta la nostra Filosofia dello spirito, ed esso abbiamo dovuto tenere sempre dinanzi nello studiare non solo l’attività pratica, ma qualsivoglia altra attività dello spirito; così come non si può aver l’idea di un ramo di albero senza l’idea del tronco, da cui quello si diparte e senza del quale non sarebbe ramo d’albero. Quel concetto non è, dunque, un deus ex machina, che debba intervenire inatteso sul finire del dramma a chiuderlo frettolosamente; ma è la forza che lo ha animato dalla prima all’ultima scena. Che cosa è l’universale? Ma è lo Spirito; è la Realtà, in quanto è veramente reale come unità di pensiero e volere; è la Vita, còlta nella sua profondità come quell’unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso. Fuori dallo Spirito, niente è pensabile sotto forma veramente universale: L’Estetica, la Logica, questa stessa Filosofia della pratica, sono tutte dimostrazione e conferma di questa impossibilità. Ogni altro concetto che si proponga, si svela […] o finto universale, qualcosa di contingente che è stato astratto e generalizzato, o ipostasi di certi nostri particolari prodotti spirituali […] o nient’altro che il negativo dello Spirito, al quale si conferisce […] valore di positività[63].
Lo Spirito nel suo «perpetuo svolgimento» è attività, «creazione», produzione che, coincidendo in tutto e per tutto con le proprie produzioni, si riconosce nella storia, perché vi riconosce la propria opera. Eppure, a ben vedere, tale coincidenza è apparente, affermata più che dimostrata. Lo Spirito è strutturalmente destinato a non riconoscersi, a non esaurirsi mai del tutto nelle proprie produzioni, nella propria storia. Un Assoluto, un infinito che coincidesse in tutto e per tutto con la storia delle proprie produzioni, con il finito, verrebbe ad essere in contraddizione con se stesso, abdicando di fatto alla sua stessa essenza di assoluta e infinita «Libertà». Nell’ottica crociana, in qualche modo l’Assoluto in quanto libertà sfugge sempre al suo totale compimento nella storia. Un Assoluto, che realizzasse in tutto e per tutto nella storia, equivarrebbe a un infinito che si fa finito: ossia a un Assoluto morto. Del resto, se, come visto, l’Assoluto crociano è tale perché risolve in sé ogni forma di alterità, allora postularne il compimento in qualcosa di altro da sé – fosse anche la più viva delle sue opere, la storia – significherebbe affermare che esso non è il Tutto, l’Assoluto, ma una parte di una Totalità altra che lo sovrasta e lo limita. A nostro avviso, ancora una volta il punto centrale della questione non consiste tanto nel carattere dell’aporia crociana, bensì nella pretesa da parte del filosofo di garantire la specificità concreta delle particolarità storiche, sulla base dell’affermazione di un totalismo essenzialistico di una radicalità tale da non lasciare scampo a nessuna forma di accidentalità esistenziale. Ancora più interessante è il fatto che tale spiritualizzazione totalistica della realtà abbia la pretesa di fondarsi su di un moralismo assoluto. In tal senso osserva Croce:
L’uomo morale, nel voler l’universale, ossia quel che lo trascende in quanto individuo, si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà. Nella sua concretezza l’universale è universale individualizzato, e l’individuo in tanto è reale in quanto è insieme universale; onde (sotto pena di restare a mezzo, dimidiatus vir, cioè di perdersi nel nulla) non può asserire una forma di sé senza asserire l’altra, ma deve porre l’una esplicita e l’altra implicita, per passare a rendere esplicita anche l’altra. Come individuo economico, nel primo atto, se così si può dire, in cui si affaccia alla vita e all’esistenza, egli non può volere se non individualmente: volere la sua propria esistenza individuale […] ma colui che si arrestasse all’affermazione dell’individuale, considerando come luogo di riposo di quello che è il primo passo di uno svolgimento, entrerebbe in contradizione col profondo sé stesso. Egli deve volere non solo il sé stesso individualizzato, ma insieme quel sé stesso che, essendo in tutti i sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo promuove l’attuarsi del Reale, vive la vita piena e fa battere il proprio cuore col cuore dell’universo: cor cordium[64].
In questa dimensione che potremmo definire cosmico-morale, l’eticità non può che consistere nel libero svolgersi dell’individuo in assonanza con lo svolgimento dello Spirito: è la libertà dell’uomo in quanto libertà dello Spirito e la libertà dello Spirito in quanto libertà dell’uomo. Un doppio svolgimento reciproco che conferisce dignità di uomo all’individuo. Ma, ormai, non può sfuggire come questo doppio svolgimento reciproco non sia altro che l’incessante motilità circolare che caratterizza lo Spirito. La libertà dell’uomo finisce per essere riassorbita nell’incondizionata Libertà dell’Assoluto. Certo, va altrettanto sottolineato che per Croce l’uomo morale non si distacca mai del tutto dal piano desiderativo-vitale, perché il suo è un superare che reca in sé il ricordo di quel che un tempo fu; la nostalgia, la strutturale malìa che caratterizza lo svolgimento dello spirito. Sicché, l’homo ethicus pur andando oltre l’utile non cesserà mai di essere immanentemente homo oeconomicus. Nondimeno, l’unica concessione fatta all’azione dell’uomo in carne ed ossa è quella di venire essenzializzata nella spettrale operosità dello spirito, cioè di possedere quanto meno la vaga «coscienza di lavorare pel Tutto». Un simile moralismo assoluto spinge Croce ad affermare che:
Ogni più diversa azione conforme al dovere etico è conforme alla Vita; e sarebbe contraria al dovere e immorale, se invece di promuovere la Vita, la deprimesse e mortificasse. Dove pare che i fatti mostrino il contrario, l’interpretazione dei fatti è sbagliata, perché toglie a criterio di giudizio una vita che non è quella vita vera alla quale, com’è noto, si serve anche morendo; morendo sia come individuo, sia come gruppo, classe sociale o popolo. E il più umile che si possa immaginare degli atti morali si risolve in questa volizione: l’anima di un uomo semplice e ignorante, tutto dedito al suo modesto dovere, e quella del filosofo la cui mente accoglie in sé lo Spirito universale, vibrano all’unisono; ciò che questi pensa in quell’istante, l’altro fa, giungendo, anche lui per la sua strada, a quella piena soddisfazione, a quell’atto di vita, a quel fecondo congiungimento col Reale, a cui l’altro si è venuto per diversa via indirizzando[65].
Questa è l’unica forma di “redenzione” concessa a noi individui; in caso contrario, infatti,
la pallida Cura si assiderà sempre dietro di noi, sulla groppa del nostro cavallo, se non sapremmo strappare al contingente il suo carattere di contingente rompendone la malìa e arrestandoci di colpo in quel progressus ad infinintum, di cosa in cosa, di piacere in piacere, al quale esso ci spinge; se non sapremmo, nel contingente, inserire l’eterno, nell’individuale, l’universale, nel libito il dovere. Allora soltanto si acquista l’interna pace, la quale non è dell’avvenire ma del presente, perché nell’istante è l’eternità, per chi sappia riporvela[66].
L’economicità si contrae nell’universalità di un moralismo che in ultima istanza rimane sempre e comunque moralismo dell’universale. Abbiamo visto come non solo in queste pagine della Filosofia della pratica, ma in tutta la sua produzione filosofica, Croce non ricorra pressoché mai al termine “prassi”, preferendovi piuttosto: «lavoro», «operare», «fare». È indicativo perché mostra come Croce nella Filosofia dello spirito metta in atto un processo di ri-astrazione idealistica del concetto di “prassi”. Tale processo trova forma compiuta nella teoria dell’accadimento, dove la “prassi” viene trasfigurata in vera e propria categoria speculativa: la «pratica». La trasfigurazione speculativa della prassi nel concetto di pratica non è altro che l’essenzializzazione dell’attività umana nella spettrale operosità dello spirito. Per Croce proprio attraverso l’«indefesso lavoro» spirituale della «pratica»
si viene componendo la trama della Storia, alla quale tutti gl’individui collaborano, ma che non è opera, né può essere nelle intenzioni di nessuno di essi in particolare, perché ciascuno è intento al suo lavoro particolare e soltanto nel rem suam agere gestisce insieme gli affari del Mondo. La storia è l’accadimento, il quale, come si è visto, non si giudica praticamente perché trascende sempre i punti di vista particolari, che soli rendono possibile l’applicazione del giudizio pratico […] Questa trama storica, la quale è e non è l’opera degli individui, è opera dello Spirito universale, del quale gl’individui sono manifestazioni e strumenti[67].
Una volta riassorbita ogni forma concreta di attività umana nella spettrale operosità dello spirito, la storia non potrà che compiersi nell’accadimento in quanto storia dell’esplicarsi dell’Assoluto. Un Assoluto che, avendo fagocitato in sé anche il piano della prassi politica, non potrà non apparire che nelle vesti razionali di una storia della Libertà. A ragione Croce può affermare che un simile modo di concepire l’effettualità storica esclude «tacitamente» tutte quelle «dottrine che riportano il corso delle cose al Fato o al Caso e alla Fortuna, ossia al meccanicismo o al capriccio», e che hanno la propria base gnoseologica nelle «insufficienti e unilaterali» concezioni del determinismo e dell’arbitrarismo. D’altra parte, avverte:
La somma razionalità, che guida il corso storico, non deve essere […] concepita come opera di una intelligenza o Provvidenza trascendente, secondo accade nel pensiero religioso e semifantastico, al quale non spetta altro valore che di confuso presentimento del vero. Se la storia è razionalità, una Provvidenza la conduce di certo, ma tale che si attua negli individui e opera non sopra o fuori di loro, ma in loro. E quest’affermazione della Provvidenza è anch’essa non già congettura o fede, ma evidenza di ragione. Senza codesta intima persuasione, chi troverebbe in sé la forza per vivere? Donde trarrebbe la rassegnazione nei dolori, il conforto a resistere e persistere? Ciò che l’uomo della religione dice a sé stesso con le parole: “Lasciamo fare a Dio”, è detto egualmente dall’uomo della ragione con le parole: “Coraggio e avanti!”[68].
L’accadimento si fa religione dell’Assoluto in quanto Dio della storia, razionalità provvidenziale che, riconducendo nel proprio svolgimento ogni forma concreta di prassi, disfa l’uomo nella spettrale operosità dell’individuo.
Tuttavia, sarebbe un grave errore quello di credere che Croce non avesse piena coscienza dei limiti e soprattutto dei rischi insiti nella teoria dell’accadimento. Va detto chiaramente: Croce, sia dal punto di vista filosofico che politico, era tutt’altro che uno “sprovveduto contemplatore” della realtà. Non è, quindi, per puro vezzo filosofico che a partire dal ’17, cioè dalla fine del periodo “sistematico”, Croce cerchi di piegare sempre di più il proprio idealismo in direzione di un crudo storicismo. È impossibile qui ricostruire nel dettaglio la genesi e lo sviluppo di una tale curvatura dello storicismo crociano. Possiamo limitarci a dire che esso si concretizzerà nel tentativo di stringere in unico plesso speculativo libertà e storia, in funzione, però, del sempre maggiore riconoscimento della preminenza della sfera etico-politica dello spirito. Identità fra libertà e storia che raggiunge l’apice nella Storia d’Europa nel secolo decimonono del ’32. In particolare, nel primo capitolo, non a caso intitolato La religione della libertà. Qui il tono usato spazia tra il religioso e il solenne, proprio a conferma della tensione irrisolta tra idealismo e storicismo, tra moralismo e realismo politico, tra pathos ed ethos in cui si muove la riflessione crociana. Nel crescendo vertiginoso dell’analisi crociana, il secolo decimottavo non può che diventate il secolo della libertà per eccellenza, perché, come scrive Croce:
Ricercando il contenuto di quel concetto nella storia a cui appartiene, e che è la storia del pensiero o della filosofia che si dica, la coscienza che allora si ebbe della sua novità si ritrova non essere altro che la coscienza di quel che di nuovo era sorto nel pensiero e per esso nella vita, il nuovo concetto dell’umanità e la visione della via che le si apriva dinanzi, ampia e chiara quale non era apparsa prima. Non si era pervenuti a questo concetto per caso e di un subito, e all’entrata di questa via per un salto o per un volo, ma ci si era arrivati per virtù del lavorìo secolare, che sempre più avevano avvicinato e composto il dissidio tra cielo e terra, Dio e mondo, ideale e reale, e, conferendo idealità alla realtà e realtà all’idealità, ne avevano riconosciuto e inteso l’inscindibile unità, che è identità[69].
Un contro-movimento vertiginoso in cui la storia diventa storia dell’universale libertà, il cui moto ascendente si dipana: sul versante della historia rerum gestarum, a partire da Platone e Aristotele, passando per Galileo e Cartesio, arrivando a Kant e Hegel; mentre sul versante delle res gestae, a partire dalla caduta di Roma e della redenzione cristiana dei barbari, passando per la lotta tra Chiesa e Impero, l’esperienza rinascimentale dei Comuni, il contrasto tra Riforma e Controriforma, arrivando alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e alla Rivoluzione francese. Ragione e storia vengono, così, riconciliate nella superiore effettualità dello svolgimento dialettico della libertà. Con ciò spiega Croce:
L’uomo […] non si vedeva più schiacciato dalla storia o vindice di sé stesso contro di essa e respingente lungi da sé il passato come il ricordo di un’onta; ma, vero e infaticato autore, si contemplava nella storia del mondo come in quella della sua vita medesima. La storia non appariva più deserta di spiritualità e abbandonata a forze cieche, o sorretta e via via raddrizzata da forze estranee, ma si dimostrava opera e attualità dello spirito, e, poiché spirito è libertà, opera di libertà. Tutta opera della libertà, suo unico ed eterno momento positivo, che solo si attua nella sequela delle sue forme e conferisce ad esse significato, e che solo spiega e giustifica l’ufficio adempiuto dal momento negativo della illibertà, con le sue compressioni, oppressioni, reazioni e tirannie, le quali (come altresì avrebbe detto il Vico) paiono “traversie” e sono “opportunità”[70].
Il richiamo a Vico è quanto mai significativo. La storia della libertà, infatti, non è altro che quell’unità differenziata dei concetti distinti che va sotto il nome di storia ideale-eterna. In tal modo, l’incessante ritmo dei corsi e ricorsi dello Spirito universale finisce per sovrastare ricomprendendo nella propria positività ogni opposizione tra res gestae e historia rerum gestarum. La concezione della storia che emerge nei passi appena esaminati non si discosta da quella messa a punto nel sistema. Storia sì, ma sempre e comunque storia dello Spirito; storia della libertà sì, ma sempre e comunque libertà dello Spirito.
Senonché, come accennato, nella Storia d’Europa si presenta un elemento di novità che in qualche modo era già contenuto in nuce nella Filosofia della pratica e parzialmente sviluppato in Etica e politica: il tentativo di saldare in unico indissolubile plesso l’istanza storicistica con il riconoscimento della preminenza della sfera pratico-politica dello spirito in quanto radice della storia. Per Croce la storia come storia della libertà non poteva che trovare il proprio necessario complemento pratico se non nella
libertà stessa come ideale morale: ideale che, infatti, era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi alla libertà come diritto di natura, e da questo astratto diritto naturale alla libertà spirituale della personalità storicamente concreta; e si era fatto via via più coerente e saldo, avvalorato dalla corrispondente filosofia, per la quale quella stessa che è legge dell’essere è legge del dover essere. Negarlo non si poteva se non da coloro che in qualche modo ancora straniavano il dover essere dall’essere […] così, per esempio, quando si obbiettava che l’ideale morale della libertà non permetteva e non prometteva di scacciare il male dal mondo, e perciò non era veramente morale; e in ciò dire non si considerava che, se la moralità distruggesse il male nella sua idea, dissolverebbe sé medesima, che solo nella lotta contro il male ha realtà e vita, e solo mercé essa si estolle. Così parimente quando si lamentava che cotesta affermazione e accettazione della lotta di continuo rinascente precludesse all’uomo la pace, la felicità, la beatitudine a cui egli sempre anela, non considerando che per l’appunto la grandezza del concetto moderno stava nell’aver convertito il senso della vita da idilliaco (e, di conseguenza, elegiaco) in drammatico, da edonistico (e, di conseguenza, pessimistico) in attivo e creativo, e della libertà medesima fatto un continuo riacquisto e una continua liberazione, una continua battaglia, in cui è impossibile la vittoria ultima e terminale, perché significherebbe la morte di tutti i combattenti, ossia di tutti i viventi[71].
Il moralismo assoluto sembra cedere il passo a uno storicismo radicale, fondato cioè sulla negazione di ogni forma larvata di trascendenza. Uno storicismo finalmente in grado di afferrare la contraddizione (es. il male) come molla dello svolgimento dialettico della realtà. A differenza di quanto accadeva precedentemente, Croce poteva qui mettere in discussione le opposte unilateralità dell’ottimismo e del pessimismo, non più sulla base della positività provvidenzialistica dell’Assoluto e della spettrale operosità dell’individuo; bensì, sul fondamento di una concezione pienamente immanente dello svolgimento storico. La libertà, così, viene a perdere la falsa immanenza che la caratterizzava, perché non è più la cifra di un moralismo assoluto, ossia l’impronta eterna dello Spirito nella storia. La libertà non è più acquisto definitivo, ma diventa qualcosa di immanente, che va continuamente riguadagnato attraverso il crudo riconoscimento della sfera pratica in quanto sfera del conflitto, della lotta tra forze avverse. Appunto, non storia della libertà, ma storia di una liberazione. Quanto detto ci porta ad azzardare – forzando certamente i termini del discorso – che, in definitiva, per Croce la «grandezza del concetto moderno di libertà» consiste nell’affermazione del primato della lotta politica come forza propulsiva del corso storico. Non più storia degli individui astratti, non più storia dello Spirito, ma storia degli uomini in carne e ossa. Ecco, dunque, cosa comporta nell’ottica della filosofia crociana il pieno riconoscimento della sfera pratica come radice dello spirito e della storia.
Che la nostra ipotesi non sia del tutto azzardata, però, lo dimostra il fatto che Croce si affretta immediatamente ad aggiustare il tiro delle proprie affermazioni. A chi ancora era attanagliato dai dubbi e andava chiedendosi cosa mai fosse e in che cosa consistesse la libertà, chiedendone addirittura una determinazione di carattere non solo squisitamente filosofico-morale, ma anche attinente al concreto livello dell’attività sociale, Croce replicava che essa
non pativa aggettivi né empiriche determinazioni per la sua intrinseca infinità; ma non perciò non si poneva di volta in volta i suoi limiti, che erano atti di libertà, e così si particolareggiava e si dava un contenuto. La distinzione, molte volte fatta, delle due libertà, di quella al singolare e di quella al plurale, della libertà e delle libertà, si svela antinomia di due astrattezze, perché la libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale. Se non che essa non si adegua mai e non si esaurisce mai in queste o quelle delle sue particolarizzazioni, negli istituti che ha creati; e perciò non solo, come si è notato, non si può definirla per mezzo dei suoi istituti, ossia giuridicamente, ma non bisogna porre un legame di necessità concettuale tra essa e questi, che essendo fatti storici, le si legano e se ne slegano per necessità storica[72].
In questo passo ancora una volta ritorna la teoria della libertà elaborata sul piano filosofico nella Filosofia della pratica e sul piano pratico-economico in Etica e politica. Lo Spirito per acquisire concretezza necessita delle proprie particolarizzazioni, della propria storia. E tuttavia sempre la trascende, perché, essendo infinita libertà, non può mai arrestarsi in nessuna delle proprie produzioni, ma deve sempre necessariamente riassorbirle nel suo superiore svolgimento. Tuttavia, Croce era troppo filosofo per non rendersi conto che un passo indietro era ormai impossibile. Per questo non esita a trovare una mediazione al riconoscimento della forza storicamente propulsiva della sfera pratico-politica dello spirito nel concetto di religione. Una volta considerati tutti i tratti dell’ideale liberale, per Croce non bisogna avere remore nel denominarlo una vera e propria «religione». Religione, però, nel senso
essenziale ed intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, si prescinda dall’elemento mitologico, pel quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie. La concezione della realtà e l’etica conforme del liberalismo erano, come si è mostrato, generate dal pensiero moderno, dialettico e storico; e a conferirgli carattere religioso non vi bisognava altro, perché personificazione, miti, riti, propiziazioni, espiazioni, classi sacerdotali, paludamenti pontificali e simili, non appartengono all’intrinseco e malamente vengono astratti da particolari religioni e posti come esigenze di ogni religione […] laddove quella liberale dimostrò la sua essenza religiosa con le sue proprie forme e istituzioni, e, nata e non fatta, non fu un’escogitazione a freddo e di proposito, tantoché, dapprima, credé persino di poter convivere con le vecchie religioni o di venir loro compagna, complemento ed aiuto. In verità, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso le compendiava in sé e proseguiva: raccoglieva, al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicismo, dell’agostinismo e del calvinismo, e quante altre erano state, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione e potenziamento della vita religiosa dell’umanità[73].
La storia del liberalismo saldandosi con il piano della religione risolve in sé lo spazio del politico come spazio conflittuale. La storia come lacerazione, lotta, liberazione viene a placarsi nel nome di una storia etico-politica che, in quanto storia ideale-eterna, ha il proprio inevitabile esito nel configurarsi di una colossale e religiosa storia dell’universale. La religione della libertà finisce per essere l’ennesima riproposizione di quel Dio della storia che è l’Assoluto crociano.
Declinata da un punto di vista politico, una tale religione non è altro che l’etica conforme a una concezione della realtà, il liberalismo crociano, che pretende di assurgere al rango di Storia d’Europa. Una religione che, al pari di tutte le religioni, non può accontentarsi della miseria delle vicende umane, delle mere particolarità storiche, perché ha qualcosa di meglio da reclamare per sé: l’«eterno»[74].
In conclusione, si può affermare che, per uscire da una simile concezione religiosa del liberalismo, Croce sarebbe dovuto andare in direzione di quel concetto moderno di libertà – affermato e poi rifiutato – consistente nella cruda identificazione della sfera pratica con lo spazio della lotta politica, in quanto forza immanentemente propulsiva del corso storico.
- B. Croce, Considerazioni sul problema morale dei nostri tempi [1945], in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), ora a cura di Angela Carella, Napoli, Bibliopolis. 1993, voll. II, pp. 149-50. ↑
- Per un inquadramento del pensiero e della vita di Croce si vedano: R. Franchini, Note biografiche redatte da Raffello Franchini, Torino, ERI, 1953; C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1955; E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943 (1955), Bari, Laterza, 1959; F. Nicolini, Benedetto Croce, Torino, Utet, 1962; A. Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, 1975; G. Sasso, Benedetto Croce, La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975; P. Bonetti, Introduzione a Croce, Bari, Laterza, 1995; M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 1998; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo [1989], Bari, Laterza, 2002; M. Mustè, Croce, Roma, Carrocci, 2009. ↑
- Sul tema del liberalismo crociano è opportuno considerare: A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1941; G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Napoli, Morano, 1966; G. Pezzino, Il filosofo e la libertà. Morale e politica in Benedetto Croce (1908-1938), Catania, Edizioni del Prisma, 1988; M. Mustè, Libertà e storicismo assoluto. Per un’interpretazione del liberalismo di Croce, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Roma, Editori Riuniti, 1993; G. Sasso, Benedetto Croce e il liberalismo, in Id., Filosofia e idealismo, vol. I, Napoli, Bibliopolis, 2007. ↑
- Per quanto riguarda Hegel si rimanda alla Filosofia della natura, in F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. it. di B. Croce, con intr. di C. Cesa, Bari, Laterza, 2009, §§ 245-376. In particolare, §§ 245-252, §§ 245-246, §§ 247-251, § 350, §§ 367-376, § 368, §§ 369-370, §§ 371-374, §§ 375-376. In merito alla critica crociana al concetto hegeliano di filosofia della natura segnaliamo: B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che morto della filosofia di Hegel [1906], in Id., Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia [1912], a cura di A. Salvatorelli con una nota al teso di C. Cesa, Napoli, Bibliopolis, 2006; Id., Indagini Su Hegel e schiarimenti filosofici [1952], a cura di. A. Salvatorelli, Napoli, Bibliopolis, 1998. ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica [1909], ora a cura di M. Tarantino con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2016, p. 138. ↑
- Ivi, pp. 130-31. Circa la dialettica di condizione e condizionato Sasso spiega che: «L’alternativa dell’acconsentire (“necessità”) e del non acconsentire (“libertà”) in tanto riguarda il volere, in quanto costituisce l’eterno limite costitutivo della sua struttura ed è intrinseco ad essa; che, dunque, come struttura trascendentale dell’alternativa, non può non sottrarsi all’essere e al non essere delle sue determinazioni opposte. Ne deriva che il volere non si divide nei due tempi dell’adeguazione alla necessità e della sua trasformazione; perché, se adeguazione e trasformazione, necessità e libertà costituiscono l’unitario respiro del suo essere, il suo tempo non può essere che unitario, o duplice solo per arbitrio» (G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975, p. 33). ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., pp. 139-40, cit. a p. 140. ↑
- Ivi, p. 66. ↑
- Ivi, pp. 68-69, cit. a p. 69. ↑
- M. Mustè, Croce, Roma, Carrocci, 2009, pp. 102-103. ↑
- B. Croce Filosofia della pratica, op. cit., pp. 50-51. ↑
- B. Croce, Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in «Atti dell’Accademia Pontaniana di Napoli», XXX/1900, ristampa anastatica a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 41. ↑
- Ivi, pp. 7-8. ↑
- Ivi, p. 10. ↑
- Ivi, pp. 10-11. ↑
- Ivi, pp. 11-12. ↑
- Ivi, p. 17. ↑
- Ivi, p. 41. ↑
- Ivi, pp. 17-18. ↑
- Ivi, p. 42. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 43. ↑
- Ivi, p. 46. ↑
- A ragione osserva Sasso come in queste pagine «con mirabile concisione e stringente rigore, la fisionomia dell’attività economica è scrutata così a fondo che solo la più matura trattazione che ne fornì nella Filosofia della pratica aggiungerà al quadro elementi essenziali. […] Nelle lettere a Pareto, il volto dell’utile è ormai individuato con sicurezza» (G. Sasso, La ricerca della dialettica, op. cit., p. 430). ↑
- B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), ora a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001, p. 222. Per quanto riguarda l’incidenza del pensiero marxiano su Croce si veda E. Agazzi, Il giovane Croce e il Marxismo, Torino, Einaudi, 1962. Su di un piano decisamente insostenibile si pone invece il lavoro di M. Ciardo, Marx e Croce. La guerra di religione del nostro tempo, Napoli, Procaccini, 1983. Per un’analisi più recente si veda S. Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000. ↑
- B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 223-24. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 224-25. ↑
- Ivi, pp. 232-35. ↑
- Ivi, pp. 224-225. ↑
- Ivi, p. 226. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 227. ↑
- Ivi, p. 235. ↑
- Ivi, pp. 237-38. ↑
- Ivi, p. 228. ↑
- Ivi, pp. 228-29. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 235-36. ↑
- Ivi, p. 230. ↑
- Ivi, p. 231. ↑
- B. Croce, Il senso politico [1925], in Id., Etica e politica [1931], Bari, Laterza, 1967, p. 171. ↑
- Ivi, p. 172. ↑
- Ivi, pp. 172-73. ↑
- Ibidem. ↑
- B. Croce, L’antieroicità degli Stati [1922], in Id., Etica e politica [1931], Bari, Laterza, 1967, pp. 142-43. ↑
- Ivi, p. 144. ↑
- B. Croce, Lo Stato etico [1922], in Id., Etica e politica [1931], Bari, Laterza, 1967, pp. 145-46. ↑
- Ivi, p. 147. ↑
- Ivi, p. 148. ↑
- B. Croce, Il senso politico, op. cit., p. 174. ↑
- Ivi, p. 175. ↑
- Ivi, p. 178. ↑
- Ivi, p. 178. ↑
- Ivi, p. 179. ↑
- Ivi, pp. 180-83. ↑
- B. Croce, La concezione liberale come concezione della vita [1925], in Id., Etica e politica [1931], Bari, Laterza, 1967, p. 235. ↑
- Ivi, p. 236. ↑
- Ivi, p. 238. ↑
- B. Croce, Liberismo e liberalismo [1928], in Id., Etica e politica [1931], Bari, Laterza, 1967, p. 265. ↑
- A tal proposito si veda G. Calogero, Intorno al saggio del Croce «Giudizio storico e azione morale», in Id., Saggi di etica e di teoria del diritto, Bari, Laterza, 1947; Id., Il carattere della filosofia crociana, in Id., La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze, Sansoni, 1960. ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., pp. 301-302. ↑
- Ivi, pp. 303-304. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 221-22, qui p. 222. ↑
- Ivi, pp. 180-81. Rileva Franchini: «Quanto […] alla cruda espressione secondo la quale gli individui non sono che manifestazioni e strumenti dello Spirito […] può sembrare un puro e semplice ricorso di metafisica storica […] in realtà a ben considerare le cose, risulta evidente il suo carattere metaforico e iperbolico, che va […] interpretato nel senso che gli individui […] sono le componenti di una totalità e solo in questa accezione è lecito […] parlare di una loro sottomissione all’universale, il quale non potrebbe, per il principio stesso della dialettica, attuarsi senza gli individui. D’altra parte occorre pur considerare che la universalità degli individui non è un’entità ipostatica che ad essi si possa aggiungere dall’esterno, ma consiste unicamente in ciò che è più proprio e men peribile, o non peribile, dell’individuo, ossia l’opera. La quale, a sua volta, non consiste, in una finita e astratta universalità, bensì è […] sempre e soltanto opera individua» (R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, op. cit., pp. 63-64). ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., pp. 182-83. ↑
- B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono [1932], Bari, Laterza, 1965, pp. 10-11. ↑
- Ivi, pp. 10-12. ↑
- Ivi, pp. 13-14. A tal proposito, osserva Carbonara che Croce: «Coglie nella libertà il segno che compare nella storia ogni volta che l’orizzonte si slarga, sia nel campo della politica che in quello della cultura largamente intesa. La libertà è il principio della dialettica propria della storia e della razionalità in essa immanente. Quando l’uomo respinge ogni potere precostituito e trascendente […] e si riconosce principio delle sue azioni, come spirito, di fronte al quale non può persistere forza estranea, che a lungo ne impedisca lo svolgimento, ecco insorgere l’ideale della libertà, antitesi del miserevole stato di cose presenti; ecco la lotta per realizzarlo, il compito morale e politico che l’uomo si assume. Come carattere essenziale dello spirito, la libertà è il momento costitutivo della storia […]. Immessa nella dialettica della storia, la libertà è del singolo come dell’universale, dei popoli come dell’umanità intera, delle istituzioni particolari come dello spirito genericamente inteso. Infatti, nella concretezza della storia, di cui la libertà è il lievito perenne, l’individuale e l’universale si congiungono e ciò che appartiene all’uno non può non essere anche dell’altro, tanto più se si tratta della libertà, che è principio ideale, uno e indivisibile» (C. Carbonara, Benedetto Croce, Filosofo della Libertà, in Benedetto Croce, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1967, pp. 14-15, qui p. 15). ↑
- B. Croce, Storia d’Europa, op. cit., pp. 13-14. ↑
- Ivi, pp. 20-21. Il concetto crociano di religione è al centro dei lavori di: A. Caracciolo, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, Genova, Tilgher, 1988, III ed. Si veda anche A. Di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, FrancoAngeli, 2002. Sulla complessa relazione tra religione e storia, si veda M. Della Volpe, La vera religione dell’umanità. Benedetto Croce e la religione dei tempi nuovi, Firenze, Le Cáriti Editore, 2010. In merito invece alle assonanze tra il concetto di religione crociano e quello hegeliano, si veda A. Pirolozzi, Religione, in Lessico Crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro, a cura di R. Peluso, Napoli, La Scuola di Pitagora editrice, 2016. ↑
- B. Croce, Storia d’Europa, op. cit., p. 313. ↑
(fasc. 37, 25 febbraio 2021)