La storia raccontata da Matteo Righetto in I prati dopo di noi è quella di due viaggi: quello di Bruno, un bambinone «alto come un ontano» cresciuto un po’ troppo, senza mai fermarsi e che «pareva sognare sempre a occhi aperti», e quello di Johannes, un vecchietto che, assieme al suo mulo, al carretto e a una damiera, si dirige di villaggio in villaggio portando con sé una bara, chissà per chi. Le storie si congiungeranno con quella di Marlene, o Leni come vuole essere chiamata, una solitaria bambina muta, trovata a vagabondare senza meta da Bruno, scappata dalla nonna e, prima ancora, abbandonata in un monastero dalla madre.
Il racconto evoca paesaggi di montagna, dove la natura è incontaminata e la vita è semplice. Tuttavia, sono luoghi e momenti appartenenti solamente ai ricordi dei protagonisti, perché la verità è che la naturalezza e la tranquillità sono stati sostituiti dal caldo innaturale, opprimente e attanagliante, sempre presente nelle descrizioni del paesaggio reale, trasformatosi da panorama verdeggiante in arido e angoscioso.
Il viaggio di Bruno è un’epopea epica per riuscire a portare «le ultime api del mondo» sulle vette delle montagne dietro il monastero di Marienberg, «dove è rimasta l’ultima neve del mondo». Si incontrerà con l’enigmatico viaggio intrapreso da Johannes che, dopo la morte dei figli e della moglie, decise di incamminarsi verso la cima di quelle stesse montagne per «compiere ciò che andava compiuto, prima del loro arrivo» (ovvero quello dei barbari delle città e delle pianure), con una bara, considerata fonte di iatture e tragedie per chiunque lo incontrasse nei villaggi lungo il percorso, e una damiera, per sfidare gli abitanti delle taverne e cercare «la persona che cerca».
I due viaggi scorrono in parallelo e si incontreranno solo verso l’epilogo, ma la brevità dei capitoli dona forza propulsiva al racconto e il saltare da una scena all’altra, come nei cambi di inquadratura dei film, dà l’impressione di star leggendo un’unica grande avventura. I personaggi sono descritti come delle allegorie dell’amore per l’ambiente; i paesaggi sono un vago ricordo di quello che erano in passato e il caldo, simbolo del cambiamento climatico, è fonte della distruzione del pianeta. Il libro è un presagio per il futuro e la sua lettura un monito di avvertimento per quello che potrebbe accaderci, se non ci occupiamo da subito di tutelare il nostro pianeta e di difenderlo dalle continue deturpazioni.
Le api devono essere salvate perché rappresentano simbolicamente l’ultima speranza e solo Bruno riesce a parlare con loro e a cogliere la loro bellezza; Johannes è il vecchio saggio che avverte tutti del pericolo imminente, ma non viene ascoltato e creduto pazzo; Leni è la gioventù a cui non viene data fiducia per il futuro e che è abbandonata al suo destino. Le montagne rappresentano l’ultimo baluardo di salvezza per il mondo, un luogo misterioso non scalfito dalla distruzione dell’uomo, e il monastero di Marienberg un luogo di sosta momentaneo, un caravanserraglio dove Bruno, grazie al suo maestro padre Isak, impara a prendersi cura delle api e viene a conoscenza del suo destino.
L’avventuroso viaggio non comincia in questo luogo di culto, ma con le battute iniziali di Uto, il dispotico fratello di Bruno, che poco tollera il suo dolce far nulla e non vede l’ora di sbarazzarsene: «Adesso dobbiamo andare».
(fasc. 37, 25 febbraio 2021)