La notte, il nero e l’alcool nelle prose spagnole di Vittorio Bodini

Author di Lorenzo Cittadini

Gli studi approfonditi sulla figura di Vittorio Bodini (Bari, 6/01/1914-Roma, 19/12/1970) che si sono succeduti dalla seconda parte del secolo scorso fino ai giorni nostri rivelano un’identità multiforme, un artista non solo della parola ma un vero esperto d’immagine, pittura, architettura e antiquariato. La sua nota e intensa attività di traduttore della letteratura spagnola in italiano e le relative opere pubblicate, tra le altre Teatro di Federico García Lorca (1952), il Don Chisciotte di Cervantes (1957), numerose poesie di Rafael Alberti, Pedro Salinas e Vicente Aleixandre, sono da considerarsi ancora oggi un modello per gli esperti del campo traduttologico. Allo stesso tempo fu un grande poeta, ma questo suo aspetto fu sempre poco illuminato a causa del suo incessante e ben più conosciuto lavoro di traduttore.

Ancora meno, forse, delle sue raccolte poetiche, come La Luna dei Borboni (1952), Dopo la Luna (1956), Metamor (1967), si ricordano gli scritti in prosa, dai romanzi a una serie di racconti, elzeviri, articoli di giornale «contagiati da un’estrema sensibilità letteraria»[1]. Eppure si tratta di una parte molto rilevante della produzione artistica e della stessa vita del poeta salentino, che seppe canalizzare sotto varie forme l’amore verso la scrittura, il cui obiettivo era la «conoscenza e l’esplorazione di sé»[2].

In particolare, questo studio intende mettersi in viaggio attraverso le prose spagnole di Bodini, raccolte nella pubblicazione postuma chiamata Corriere Spagnolo (Lecce, Besa Edizioni, 2013), sottolineando l’importanza fondamentale della tappa in terra iberica (1946-1949), così come sosteneva il suo amico e collega Oreste Macrì, quando diceva che la dimora madrileña «riattivò e formalizzò l’ancestrale-inerte sostrato salentino»[3]. I temi delle prose spagnole «compongono difatti un taccuino di viaggio, in cui la progressiva esplorazione del paese straniero va di pari passo con la riscoperta della propria terra, che diventa il termine fisso di raffronto e di verifica delle impressioni bodiniane»[4]. Pubblicati in momenti diversi su quotidiani e settimanali, questi viaggi nel viaggio confermano la spiccata competenza e un’accesa originalità di Bodini nel genere del reportage narrativo-giornalistico, anche se «del reportage tradizionale lo scrittore leccese accetta solo apparentemente le convenzioni»[5]. L’opera, come è possibile intuire, affronta gli aspetti più caratteristici della Spagna, quali il flamenco, le corride, i serenos, i combattimenti tra galli, le processioni della Semana Santa. L’interesse di Bodini, però, non è rivolto a questi aspetti in quanto normali manifestazioni del folclore spagnolo, che altri già hanno narrato, ma

in quanto gli permettono di scoprire l’altra faccia della Spagna, la sua dimensione invisibile e sconosciuta. Spesso, anzi, esse sono un semplice pretesto per penetrare «nell’intimo colore» di quella nazione, alla ricerca del suo «spirito nascosto», per usare un’espressione di García Lorca che diverrà la guida ideale di Bodini in questa ricognizione della realtà profonda del paese iberico[6].

La nostra intenzione in questa sede è quella di rileggere il Corriere Spagnolo applicando alcuni filtri specifici, andando nel profondo dell’analisi narrativo-simbolica, facendo emergere tre aspetti che sino a ora sono stati poco approfonditi da parte della critica. Facciamo riferimento allo spazio della “notte”, in cui si sviluppano gran parte delle prose bodiniane; il colore “nero”, aspetto cromatico che ritorna frequentemente a descrivere molte delle realtà e dei sentimenti presenti nelle narrazioni; in ultima battuta, un altro tratto caratteristico che marchia fortemente l’esperienza artistica e sociale di Bodini in Spagna è l’“alcool”. Questi tre elementi compongono qui un mosaico originale degli spazi e dei sentimenti, delle suggestioni e delle visioni, che il viaggio nel profondo della realtà spagnola fa emergere. L’obiettivo di questo studio è la lettura in prospettiva etnografica della realtà vissuta dall’autore, «assumendo cioè la pagina letteraria come documento della cultura tradizionale»[7]. Gli elementi utilizzati come filtri narrativi sono i mezzi per «riconoscere la funzione del dato popolare nella letteratura, in quanto aspetto rilevante del significante, per giungere ai significati assegnatigli dagli autori in coerenza con la loro poetica»[8]. Bodini «osserva, scruta, indaga e si chiede la ragione di ciò che vede. Rielabora poi sempre tutto attraverso un processo d’interiorizzazione e di graduale traslitterazione, utilizzando un alfabeto che è, in definitiva, letterario e poetico»[9]. Risulta evidente che l’esperienza di spaesamento e straniamento che vive Bodini non è altro che ciò che da sempre appartiene al viaggio, il quale «si configura allo stesso tempo come scoperta e riconoscimento […] la sensazione del viaggiatore è di vedere “in un modo nuovo cose che mi sono note”»[10].

La rilettura del Corriere Spagnolo attraverso queste categorie è una confessione del desiderio di Bodini, poeta-viaggiatore, di scendere negli inferi, di intraprendere un viaggio tra le cose che stanno sul fondo, azioni e convinzioni del mondo vissuto. La notte, il nero e l’alcool permettono in questo senso la riscoperta delle sue radici meridionali, più precisamente salentine, della sua terra d’origine, che diventa, dopo un primo momento in cui vengono esaltate le differenze tra i due paesi e le due culture, «termine di raffronto e di verifica delle sue impressioni»[11]. Questi filtri concedono a Vittorio Bodini di vedersi allo specchio, di recuperare la dimensione invisibile e sconosciuta della Spagna e di conseguenza del suo Salento, fino a quel momento non capito, vissuto come una sorta di peso, non degno di essere raccontato.

Bodini meditò molto su quale fosse la funzione, a metà degli anni ’40 dello scorso secolo, della letteratura e degli stessi intellettuali, protagonisti di una realtà mutata com’era quella italiana dopo la Seconda guerra mondiale. L’esperienza di inoltrarsi nell’anima profonda spagnola presuppone una fase di riflessione e di rinnovamento del suo messaggio poetico. Questa situazione

ripropone la doppia natura di Ulisse, di viaggiatore-narratore: i tanti disagi del viaggio contano poco, se la «distanza dalla patria» è condizione della «esaltazione poetica», e quest’ultima trasforma le esperienze, le visioni, le avventure del viaggio in una «riserva di felicità»[12].

Certamente la felicità di Bodini è da porre in relazione con il contesto socio-politico dell’epoca, un regime franchista nel pieno del suo potere e censura. Il poeta salentino era un convinto antifascista, combattuto da «forze e spinte centrifughe, che [diedero] vita ad ardite ‘terze pagine’ che facevano risuonare in provincia i nomi di Proust, di Joyce, di Kafka»[13]. L’esperienza poetica, letteraria e culturale di Vittorio Bodini va di pari passo con la coscienza politica e l’impegno civile durante anni non semplici in Spagna. Ecco che il rapporto con il paese che lo accoglie

diventa negli anni successivi sempre più intenso, starei per dire “organico” nel senso che, pur strutturandosi su piani diversi, persegue l’obiettivo di richiamare gli ideali di libertà del popolo spagnolo, dando voce a quella cultura critica che matura all’interno del regime e diffondendolo e traducendo le principali opere delle vittime della dittatura[14].

Questa mescolanza di sentimenti contrastanti e situazioni culturali (ricordiamo che Bodini era un insofferente a ogni tipo di costrizione) conduce Bodini a guardare le cose con stupore nuovo. In Spagna, come scrisse in una sua poesia, «trova il suo Sud»[15], quel termine di paragone, quel tassello mancante che gli permette di «penetrare nell’«intimo colore» di quella nazione, alla ricerca del suo «spirito nascosto»[16]. È intenzione di questo studio, alla luce di quanto presentato sinora come premessa che contestualizza il lavoro, far emergere come i filtri applicati della notte, del nero e dell’alcool si rincorrano, si uniscano, si mescolino, caratterizzando fortemente l’impalcatura scenografico-simbolica che sta dietro alle prose di Corriere Spagnolo. Si procederà, quindi, all’esposizione di alcuni dei racconti di Bodini, legando gli aspetti presi in esame, riportando frammenti dei testi e contestualizzandoli, tentando di dare un senso a queste catene concettuali che ritornano nei capitoli.

Capo d’anno a Puerta del Sol

Particolarmente significativo di come i concetti di notte, nero e alcool siano collegati, e si sfidino quasi in un combattimento corpo a corpo, è la lettura del primo racconto: Capo d’anno a Puerta del Sol. Bisogna specificare che Vittorio Bodini era un grande esperto di pittura, un critico d’arte autodidatta, recensore di molte mostre pittoriche. Sonia Schilardi ci ricorda la sua presenza durante le esposizioni dei «conterranei e amici Mino delle Site e Lino Suppressa, alle personali di Giuseppe Capogrossi, Giovanni Omiccioli e Sante Monachesi a Roma»[17]. La critica rinviene modelli e influenze pittoriche nelle prose bodiniane, come per esempio «gli azzurri di Chagall»[18] fino «al nero di Rouault»[19]. Stando a ciò, è significativo riportare che questo scritto venne intitolato Capo d’anno con Goya nella rivista «Libera Voce»[20]: infatti

la realtà viene osservata ancora in prevalenza attraverso il filtro della illustre tradizione artistica spagnola, e continui sono i riferimenti alle opere di Goya e Vélazquez, nel tentativo di un più immediato coinvolgimento dei lettori, ai quali lo scrittore si rivolge spesso direttamente con la seconda persona plurale[21].

Allo stesso modo, sottolineando il forte interesse di Vittorio Bodini per la pittura, anche Luca Isernia sostiene che «il riferimento al pittore spagnolo starebbe ad indicare proprio l’estrema tensione espressionistica dei cittadini iberici, colti nella fantasmagoria della notte in piazza, nella loro disumana deformazione, frutto, a sua volta, di una lacerante disperazione dell’anima»[22]. Questo racconto è un ottimo esempio per capire come si uniscono i tre concetti di notte, nero e alcool; infatti, la Noche Vieja (termine che indica l’ultimo giorno dell’anno) risulta essere il primo contatto, impatto, scontro addirittura, con la realtà demoniaca e traumatizzante spagnola. L’atteggiamento di Bodini rispetto a quanto vive a Madrid l’ultimo giorno dell’anno è di distacco e di differenziazione rispetto al suo paese d’origine, l’Italia. L’autore, di fronte al movimento folle della gente in piazza che pare sconvolta e priva di senno, paragona questi momenti alle scene carnevalesche di Goya. Si rivolge, quindi, al lettore, chiedendogli di immaginarsi «questa folla dall’aspetto disumano che si muove, che si agita, scompostamente, correndo, se trova il posto per farlo, e anche se non lo trova, e urlando, suonando trombette, battendo nacchere, tamburi, utensili da cucina»[23]. Una notte a cui non partecipano le signore spagnole, sottolinea Bodini all’inizio del racconto; più in generale, dice che «le signore spagnole non escono di casa la notte: se lo fanno per qualche evenienza insolita, i loro passi e gesti sono esagitati o al contrario rigidi e fatali […] Se incontrate di notte delle signore eleganti e sicure di sé, e ne incontrerete, non illudetevi: non sono señoras de bien»[24].

Possiamo dedurre quindi, sin dal primo capitolo del Corriere Spagnolo, che la notte identifica uno spazio ben preciso nella cultura spagnola, o perlomeno nella visione del viaggiatore-narratore Bodini in Spagna. Infatti, il genere letterario del reportage narrativo, a cui può essere ascritto questo taccuino di viaggio, ha la caratteristica intrinseca di essere la prima pennellata (per rimanere in tema pittorico) che lo scrittore dà del luogo visitato e percepito. La notte come momento riservato a una determinata fascia di popolazione, la notte come luogo distante dalla trasparenza del giorno, in cui emergono le paure e le angosce, dove si manifestano esuberanze ed eccessi, come quello descritto per la festa della Noche Vieja. Un turbinio di gente che pare perdere il senno, si spoglia delle inibizioni del giorno e si lancia nella confusione di corpi che puntano dritto alla trasgressione, alla mescolanza. Nello spazio buio della ragione, un momento cupo e nero come la notte, emerge il principale responsabile di questo atteggiamento oltranzista, che porta verso uno stato deformato, ovvero l’alcool e i suoi effetti. Bodini racconta che

passavano di mano in mano le bottiglie di anice, spuntavano bottiglie di anice e di vino da ogni tasca; la cadenza del raqueteo e delle nacchere si faceva ossessiva, e si cominciava a vomitare […] Cominciarono le risse: volavano bottiglie, i tamburelli, infilati con forza nelle teste, restavano appesi al collo come gorgiere[25].

Dal nero della notte Bodini ci fa capire che emerge una gioia che metteva paura, descrizione di un «fondo oscuro dell’anima, in pieno capricho»[26].

Notti di Spagna

Un’altra notte madrileña, del tutto differente rispetto a quanto presentato in Capodanno a Puerta del Sol, è quella che viene descritta nel racconto Notti di Spagna, in cui cambiano del tutto le scene e il registro stilistico della prosa. Protagonista è di nuovo la notte e le sue tinte cupe, un terreno scomodo da attraversare ma indispensabile per Bodini, intento a perdersi nello strato più profondo della vita spagnola, così mutevole. Infatti cambia il vestito della notte che ci viene presentata, dedicata ad alcuni strani mestieri, come per esempio quello del “sereno”. Antonio Lucio Giannone afferma infatti che

al clamore assordante, al chiasso infernale, al turbinio parossistico di gesti urla movimenti della gran folla festante di Madrid, fa riscontro il glaciale silenzio delle notti spagnole, squarciato, di tanto in tanto, dalle terribili grida dei serenos e dei ciechi che vendono i biglietti della lotteria, simili a latrati di cani nelle notti di plenilunio[27].

Il riferimento alle notti di luna piena (la luna fu uno dei simboli principali per García Lorca e di conseguenza per Bodini in La luna dei Borboni) e alle urla dei serenos e dei ciechi conduce inevitabilmente al parallelismo con il mondo della licantropia. Come narra l’antica leggenda indiana, una mamma lupo, avendo smarrito il piccolo, chiese più luce per ritrovarlo, ululando proprio alla luna. Ecco che le grida incessanti e assordanti di questi “vagabondi” per i vicoli di Madrid, serenos e ciechi, sembrano essere dirette alla luna, con la speranza di avere anche loro più luce, ovvero di poter ricevere ascolto, di poter essere utili e di lavorare. Nella descrizione che dà Bodini possiamo scorgere questa doppia vita dei protagonisti, vittime di una metamorfosi che avviene dal giorno alla notte, come i licantropi. Racconta Bodini che

passa il sereno tutta la notte gelando, sotto la neve o la pioggia, durante gli inverni che in regioni come la Castiglia sono ben più rigidi dei nostri, ad aprire porte ad ogni chiamata, ricevendo una mancia che si aggira in media sui due reali (cinquecento libre all’incirca)[28].

Il tempo della notte rivela quello che il trambusto del giorno nasconde: è questa la condizione dei venditori ciechi di biglietti della lotteria nazionale. Le loro urla di notte sono come lame affilate, la luce del giorno nasconde gran parte della loro presenza, mentre nel nero della notte trovano il momento giusto per angosciare le anime dormienti delle città, con urla acute e tormentose, presagio di un nero che non è solo l’assenza di luce, ma la vera paura della Morte, stigmatizzata al massimo nella cultura spagnola. A tal proposito Bodini sostiene che le urla aguzze e sottili di questi uomini sono «il verso luttuoso e presagio di sventura delle Arpie virgiliane»[29].

Flamenco

Ritorna la notte che accompagna le narrazioni spagnole di Bodini, ritornano i canti, i balli, le grida e le suppliche, gli sfoghi. Da questo racconto possiamo già trarre una conclusione circa la «comprensione degli spagnoli di dare sfogo al tormento delle loro anime […]»[30]. Il modo con cui manifestano questo intimo sentimento è evidentemente proprio il flamenco. Bodini, già in apertura di racconto, rinnova la scenografia: l’ambientazione notturna viene riproposta e inquadra lo sviluppo delle azioni, il continuo peregrinare del poeta-viaggiatore che intende perdersi tra le maglie fitte dell’oscuro che caratterizza questo rito. Il flamenco riconduce inevitabilmente al nero della notte, al nero mistero aggrovigliato nel cuore di ballerini e cantanti, di musicisti e di chi, come Bodini, naviga nel mare dell’incertezza, ritrovando anche in questa situazione uno specchio della realtà salentina, nodi culturali e storici che tengono insieme il cuore pulsante dell’Andalusia con la terra arida del Sud d’Italia. Bodini, accompagnato dal grande ballerino di flamenco José Greco (curiosa la storia di questo italiano, illustre referente del flamenco in tutto il mondo) mette subito le cose in chiaro: l’artista con cui si accompagna il poeta sostiene che «il flamenco non è né un canto né un ballo, è una cosa della loro anima»[31]. In modo molto lucido e preciso, Luca Isernia, in Bodini Prosatore, riprendendo quanto dice l’autore salentino subito dopo l’affermazione di Greco, afferma che

il ballo Andaluso è assimilato al canto dei carrettieri salentini nella notte, un canto che Bodini ricorda di aver udito da bambino. Le ragioni di quel canto sono comuni a madrileni e leccesi. Bodini ne rintraccia origini e genesi. Intuisce esservi nel flamenco, quanto in quei canti lamentosi dei salentini, la speranza di esorcismo di pene antiche, e da ultimo Bodini fa risalire quello storpiare le canzoni dei carrettieri a remote discendenze arabe, alla lorchiana presenza “del moro che tutti noi portiamo dentro”[32].

Il parallelismo con le urla del precedente capitolo è netto: questi uomini deliranti attraversano il nero della notte, il silenzio e la cecità della notte, e le loro urla sono ululati alla luna affinché possa alleviare le loro pene, le fatiche e le ferite di una vita pesante e carica, come i carretti che sono obbligati a portare di notte a causa del caldo soffocante del giorno. Cercano di allontanare la durezza del lavoro che è toccato loro in sorte con canti e urla smorzate dal dolore della mansione. Ed è evidente che

come le grida dei serenos e dei ciechi della lotteria, infatti, anche il canto dei carrettieri pugliesi e le urla lamentevoli degli ubbriachi e dei braccianti meridionali, che ritornano a casa di notte e storpiano per disperata necessità marcette e inni militari, hanno per Bodini qualcosa di angoscioso e di indecifrabile[33].

È proprio il ricordo della fanciullezza che fa tornare in mente a Bodini uno dei tanti canti che riusciva a percepire durante la notte, alzandosi dal letto, ascoltando attentamente: il canto in questione era Faccetta Nera, inno fascista che però Bodini al tempo non riconosceva; infatti

in quegli anni tornai a sentire qualche altra volta quel lamento; chi lo cantava erano ubriachi nella notte, o braccianti di ritorno a sera dai campi. Nessuno sapeva che cosa fosse, pareva un gergo segreto di cui alcuni avevano la chiave e altri no. E io dicevo ridendo: Staranno cantando la Marcia reale o l’Inno di Garibaldi[34].

Questo racconto, riletto con i filtri selezionati, ci fa capire l’intimo desiderio di Bodini di poter aprire una breccia nel mondo spirituale e culturale spagnolo. Il suo intento, come è stato possibile sinora intuire, è quello di scoprire la Spagna nera, «così restia a farsi guardare dallo straniero e che parte degli spagnoli vorrebbe aborrire o tenere segreta, come si fa con un vizio»[35]. È lo stesso Bodini che cerca di dare una definizione di Spagna nera, nel suo contributo Lazarillo de Tormes, su «La Gazzetta del Mezzogiorno»[36]: «È Spagna nera tutto ciò che è popolare, cioè spagnolo, nelle sue manifestazioni più caratteristiche. Spagna nera l’Andalusia, il flamenco, il titanismo, e Spagna nera la chitarra e i canti popolari assistiti da una densa grazia poetica»[37]. Anche l’amico di Bodini Oreste Macrì afferma che l’intenzione di scendere nel segreto del mondo popolare spagnolo è la volontà di farsi coinvolgere emotivamente e passionalmente «col paese e nel lare iberico di Américo Castro […] nelle fibre del sanguigno, orgiastico, isterico, inconscio singolo e collettivo»[38].

Un paradiso per Hemingway

In questo racconto Vittorio Bodini presenta alcuni dubbi riguardanti la reale conoscenza da parte degli spagnoli dei libri di Ernest Hemingway: in particolare, sono due i punti sui quali lo scrittore salentino pare avere delle riserve, ovvero l’uso-abuso di alcool dei personaggi spagnoli descritti dall’autore americano, e la figura della donna spagnola, la sua psicologia e la comprensione della stessa. La nostra attenzione, è evidente, si focalizza sul primo aspetto, che mette Bodini in uno stato di incomprensione e di diffidenza rispetto alle descrizioni alcoliche di Hemingway: l’autore di Corriere Spagnolo sostiene che

non avevo nulla in contrario che i personaggi di Hemingway bevessero tanto, ma mi pareva che l’autore, inserendo nel costume spagnolo sue private abitudini di giornalista americano, venisse a dare al lettore indicazioni sbagliate sulla Spagna. Ebbene, debbo ricredermi: non ci sarà altro paese in cui andare bevucchiando di qua e di là rappresenti un piacere più grato e fantastico[39].

Più avanti Bodini continua dicendo che «persino a Madrid, nascosto fra le pieghe delle più importanti vie del centro, vi è un intero quartiere dove non v’è porta che non sia d’una taverna e ogni taverna una tappa del più comodo e delizioso dei viaggi»[40]. Stando a queste considerazioni circa l’iniziale scetticismo di Bodini sul particolare costume degli spagnoli di essere grandi bevitori, risulta interessante riflettere su uno degli aspetti più importanti del concetto di viaggio, ossia quello del pregiudizio. Bodini, leggendo Hemingway, sviluppa una determinata idea del popolo spagnolo, così come accade per ogni lettura che porti con sé una descrizione o una visione personale dell’autore su certi popoli, usi o costumi. Molto probabilmente ciò che mancava a Bodini era l’esperienza diretta del viaggio, che gli ha fatto, nel caso dell’alcool, confermare la visione data da Hemingway. Chiarendo il concetto, le nostre idee sugli altri hanno una base culturale legata

allo spirito dei popoli, il carattere delle razze, il temperamento delle nazioni, e altre considerazioni nate dall’antropologia, dai racconti di viaggio, dalla filosofia politica, ma anche da una specie di consolidato buon senso popolare […] Andare da qualche parte equivale, per la maggior parte del tempo, a esporsi all’incontro coi luoghi comuni associati da sempre alla destinazione prescelta[41].

Per questo motivo l’esperienza spagnola di Bodini, la decisione di abbandonarsi al colore locale, è frutto della precisa volontà di crearsi una propria idea di quel popolo. Grazie a questa inclinazione, l’atteggiamento di Bodini, leggendo Hemingway, è di onestà intellettuale, perché attende la possibilità del viaggio per costruirsi la propria idea, confermando o demolendo le convinzioni che altri autori, in altri momenti storici, hanno dato della stessa realtà. Il viaggio ha questa forte connotazione personale; i luoghi e le persone, pur rimanendo gli stessi, cambiano agli occhi e al cuore del viaggiatore: è ciò che è successo a Bodini, il quale non si è fermato alla descrizione consegnata dai romanzi di Hemingway, ma ha voluto andare a verificare di persona determinati usi e costumi. Bodini conferma quanto è stato detto, poiché «mi occorse di fare delle riserve, prima che mi recassi in Spagna»[42]. Prosegue con alcune considerazioni sui romanzi di Hemingway: «il diluvio di bevute che vi consumano i suoi personaggi, entrando e uscendo da un bar all’altro. Le parole dei dialoghi sguazzano nell’alcool come scarpe bagnate nella pioggia […]»[43]. Michel Onfray, in Filosofia del viaggio, conferma che

esiste una via di mezzo, che presuppone un’arte del viaggio ispirata al prospettivismo nietzschaino: nessuna verità assoluta, ma verità relative, nessuna unità di misura ideologica, metafisica od ontologica con cui misurare le altre civiltà, nessuno strumento comparativo che imponga la lettura di un luogo attraverso i punti di riferimento di un altro, ma la volontà di lasciarsi riempire dal liquido locale, alla maniera dei vasi comunicanti[44].

Bodini prosegue descrivendo l’architettura delle taverne di Madrid, i patii in stile, le mattonelle multicolori, le tappezzerie e le varie stampe. Poi, passa a un’analisi attenta e comparatistica delle tipologie di vini spagnoli e italiani, prova della volontà (e del piacere!) d’immergersi nella realtà che va scoprendo. Bodini è un attento osservatore, utilizza tutti i sensi, scrive con i sensi, amplificando al massimo la propria percezione dell’intorno. Apparentemente sembrerebbe che si lasci andare al folclore tipico spagnolo, ma in realtà le sue descrizioni sono acute e profonde: il tipico gli serve come porta di accesso per scendere nel profondo della mentalità segreta del paese che lo ospita. In riferimento al vino, l’autore afferma che

i vini di qui assai poco hanno in comune coi nostri, i quali, in fondo, anche quelli che passano per i più traditori, sono concilianti e amano la tavola e i cibi, o in difetto di questi ultimi le carte da gioco, e a un certo punto si ritirano discretamente davanti al sonno. I vini spagnoli sono sottili e irrequieti e non tollerano altra compagnia fuorché quella di ciò che qui viene chiamato ‘l’aperitivo’ e dovrebbe chiamarsi al contrario: una quantità di cosine che vengono servite in un piattino a scelta a ogni bevuta[45].

Bodini vive soprattutto la notte, la scrittura degli episodi è figlia di riflessioni notturne, del silenzio insonne che lo accompagna. Non fa distinzioni nemmeno questa prosa: a confessarlo è sempre l’autore, che conferma di aver scritto quelle note alle quattro di notte. Risulta importante per Bodini la scenografia dei suoi racconti, brevi e intensi cortometraggi, potremmo definirli, che comprimono in poche righe, seppur sempre in modo chiaro, tratti salienti per il consolidamento della sua poetica. Alla fine, come anticipato, Bodini dà ragione al collega Hemingway circa il gran bere spagnolo:

Si beve in piedi, e in piccolissime quantità: un chato è una misura aurea, un bicchiere di vermut. Si beve d’un fiato e si esce, e si entra a bere in un altro posto. Questo lo scopersi per intuito, la prima volta. Dopo due ore che rincorrevo quel paradiso bacchiano, alternando, avido di conoscenza, Montilla e Jerez, Manzanilla e Moriles, mi diedi con la mano alla fronte: «Ma allora, ha ragione Hemingway!»[46].

Un inglese a Madrid

Come volete che vada? Va come a S. Quintino, che invece delle campane suonava a messa coi tegoli. Vorrei bere un cognac, e trovarmi con la barba rasata; un altro cognac, ed essere vestito di blu a righine bianche; un altro, e trovarmi a Madrid, e star seduto su uno sgabellino al banco del Molinero o del Chicote, e dire al barman: «Mi dia un cognac»[47].

Le notti di Vittorio Bodini sono descritte senza filtri, liberando la coscienza e vivendo appieno quello che gli succede attorno. Quella del poeta salentino è un’immersione, un’immedesimazione con il corpo culturale spagnolo. In Un inglese a Madrid Bodini comunica la propria partecipazione e la passione a questo spazio notturno, dove fa le conoscenze più bizzarre, ma certamente anche le più interessanti. Si alza il sipario su un set di personaggi che il giorno non prevede, il nero del flamenco e delle luci soffuse dei locali, i segreti delle cocotte (prostitute) si uniscono al delirio e alla potenza evocativa dell’alcool, strumento estetico e artistico per generazioni di scrittori e artisti in genere. Da un bar all’altro, i cafè si trasformano di sera in luoghi d’incontro e di condivisione, di follia e stravaganza. Questo è il caso in cui Bodini fa amicizia con un tale John, conosciuto proprio al Chicote, che l’autore menziona a più riprese come uno dei bar che

ha creato nelle cantine uno dei più completi musei di vini e liquori d’ogni parte del mondo, con la partecipazione di inviati speciali spagnoli e stranieri che frequentano il bar […] non è raro che si scoprano con emozione i vini più oscuri del proprio paese, quelli che si credeva d’essere in pochi a conoscere […][48].

La sensazione che accompagna la lettura di queste prose è quella di una vera compenetrazione del viaggiatore-narratore con il luogo che frequenta. È ciò a cui fa riferimento Claudio Magris, quando sostiene che «la meta del viaggio sono gli uomini; non si va in Spagna o in Germania, ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi»[49]. Anche l’intuizione guida Bodini nella sua avventura spagnola, quell’idea di essere sulla strada giusta per riscoprire la propria terra e riscoprirsi come autore e intellettuale del suo tempo, dopo anni e anni di varie esperienze in movimenti culturali differenti, città e ideologie. La Spagna è uno di quei luoghi «che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere, è spesso, platonicamente, riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio»[50].

Leggendo il contributo di Giovanni Caprara Tra la Sicilia e la Spagna, un trattato sull’impostura. «L’antimonio» di Leonardo Sciascia[51], questa visione viene confermata anche per ciò che riguarda l’opera di un altro autore, anch’egli amante della Spagna, e in più amico e collega di Bodini, proprio Leonardo Sciascia. In Ore di Spagna, lo scrittore siciliano sostiene che

andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze, di «cristallizzazione». E bastano i nomi: di paesi, di strade. Che sembra sentirli suonare, nella lontana eco del tempo, dalla voce dei banditori, il viceré duca d’Ossuna, il viceré duca di Medinaceli, il viceré duca di Maqueda, il viceré marchese di Villena […][52].

L’incontro con John è per Bodini l’ennesima esperienza che, seppure guidata dal caso, lo riporta a quello specchio culturale che la Spagna è dell’Italia. Infatti, racconta dei brindisi che venivano dedicati all’Italia da parte di John, un inglese la cui presenza in Spagna Bodini ignorava. Si narra di vari incontri, delle ubriacature, dei comportamenti molesti tenuti da questo John che «spingeva la gente, si faceva posto a urtoni, dando fastidio, rovesciando i bicchieri»[53]. Incontri apparentemente senza senso, scollegati dalla realtà, dalle logiche, come la «generazione perduta»[54] dei giovani americani in Fiesta (1926) di Hemingway: parevano protagonisti di un gioco, una conoscenza distaccata e definita solamente dai ripetuti appuntamenti di Bodini con John nei bar di Madrid. Fino a scoprire, da un amico di Bodini, che quel tale di nome John viveva anch’egli una doppia vita, o perlomeno indossava una maschera: «Quello – disse Charles L. – è il nostro migliore specialista di diritto internazionale. Il Foreign Office manda sempre lui dove c’è da risolvere qualche questione inestricabile»[55].

Miele d’Italia e limoni di Spagna

Con questo racconto Bodini torna tra le anime segrete del nero del flamenco, vivendo lo spirito e il sangue gitano che scorre tra i ballerini e i cantaores. Questo è il caso di Silverio Franconetti, «il più grande siguiriyero dei suoi tempi, e oggi viene ricordato come il ‘divino Silverio’ con un attributo che non deve dividere se non con Lope de Vega e col torero Manolete»[56]. Celebrato dallo stesso Federico García Lorca, viene riportata la poesia del granadino da parte di Vittorio Bodini:

Fra italiano
e flamenco
come avrà cantato
quel Silverio!
Il denso miele d’Italia
con il limone di Spagna […][57].

Bodini torna sul tema del flamenco con una potenza inaudita. L’autore percepisce un’aura attorno alla figura di Franconetti, d’origini italiane, notando che «essere italiano non vuol dire nulla, è un ostacolo in più, e lo dimostra quell’intruglio di miele e limone, contro ogni intenzione di Federico»[58]. Capiamo quindi, attraverso l’esempio dell’amico di Bodini, un siguiriyero chiamato El Pili, che i lamenti che accompagnano l’esibizione di flamenco, sono «un sismografo capace di registrare il flusso di sentimenti aggrovigliati, del fascio di paure, delle tristezze e delle passioni risalenti a lui da un ipocentro posto nelle cavità terrene»[59]. Ciò che vuole ispezionare l’autore è quella pasta nera, gonfia di segreti e tenebre, che risiedono nelle notti e nelle note di flamenco che si alzano dalla terra, facendo tremare la conosciuta paura della morte che avvolge tradizionalmente l’ambiente spagnolo: è la Spagna nera «che una buona metà della Spagna aborre profondamente e cerca di tenere occulto agli stranieri e a sé stessa come un vizio segreto»[60]. L’ambientazione è quella delle notti afose madrileñe, soffocate dai vicoli e dagli occhi delle persone; i locali e i bar sembrano isole, porti dentro i quali salvarsi o spazi di delirio in cui mettere a nudo la propria persona: Bodini ricorda l’amico El Pili, il cui nome

non sorpassa quel rettangolo di trenta o quaranta taverne che s’aprono solo di notte, a contatto di gomito, nel cuore di Madrid, in straducce che la maggior parte dei madrileni scansa, passate le sette di sera, come la sede stessa dell’Avversario. Lì egli canta a noleggio per industriali catalani o turisti stranieri avidi di colore, in salette riservate, ma non tanto che fra un’ora e l’altra della notte non vi sguscino dentro altri gitani per accompagnarlo con le palme e far aumentare sul tavolo il numero delle bottiglie vuote[61].

Vicoli bui, il nero della notte che allontana la gente, quasi fosse un divieto uscire per addentrarsi nella notte spagnola, dove le taverne e i bar invitano a consumare; specchio dell’azzardo e del presagio del nero della morte, che torna con la sua cupezza in queste prose e nei pensieri di Bodini. Questi atteggiamenti sembrano quasi esorcizzare la presenza incombente e inevitabile della morte stessa. Proprio a questo fa riferimento Antonio Lucio Giannone, quando sostiene che «viene affacciata l’ipotesi dell’esistenza di una comune radice di morte e di oscuro pericolo che starebbe alla base del flamenco e della corrida»[62]. Bodini, guidato dalla presenza-assenza di García Lorca, è consapevole di trovarsi di fronte a situazioni che assumono una diversa natura, tradiscono la loro ultima identità, si modificano. Bodini nelle notti spagnole penetra le cose per dar loro un’anima, riconoscendo loro una dinamicità e una vita segreta che muta di continuo. Ciò a cui assiste Bodini è quello che, per certi versi, afferma Italo Calvino quando sostiene che

la realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo. Ciò che conta per noi nell’opera letteraria è la possibilità di continuare a sfogliarla come un carciofo infinito, scoprendo dimensioni di lettura sempre nuove[63].

È interessante quanto sostiene Calvino poiché il presente studio nasce proprio dalla curiosità di rileggere il Corriere Spagnolo affidandosi ai numerosi piani narrativi e simbolici che costruiscono la struttura della raccolta. In questo caso il pretesto del flamenco ci conduce in stanze e ambienti poco considerati precedentemente, atteggiamenti e abusi visti come tabù, come qualcosa da allontanare, da purificare. Bodini sceglie di farne parte, di essere protagonista fra i protagonisti per avvicinare il lettore alla comprensione dei molti aspetti trattati, che spesso rimangono legati a giudizi superficiali e a tratti esotici, facendone perdere l’essenza.

Ritratto di Don Giovanni

Il nero della sera che cala sulla città di Madrid, il due novembre e la fobia di Fina, amica di Bodini, per la morte. Bodini decide di passeggiare da solo verso il cimitero di San Isidoro, all’imbrunire. Altra ambientazione cupa e tetra, legata alla volontà dell’autore di ritornare ancora su queste tematiche, come gli aspetti più importanti della sua esperienza spagnola. Questi trasformano la base poetica sulla quale successivamente edifica i suoi migliori lavori in versi. Accompagnando virtualmente la passeggiata serale di Bodini, ci ritroviamo di fronte al «più pauroso tramonto che mai avessi veduto»[64]. Pare confermata l’ipotesi che questo studio porta avanti, ovvero che le taverne, i bar, gli spettacoli e l’abuso di alcool al loro interno si trasformano in luoghi franchi, dove rifugiarsi e trovare quelle distrazioni che allontanano i pensieri cupi che si vivono all’esterno, tra i vicoli bui delle città, tra le urla e i deliri dei serenos e dei ciechi, che riportano con la mente l’autore ad antichi ricordi salentini. Bodini si serve di questi momenti per descrivere «il categorico rifiuto dei morti da parte degli spagnoli, l’isolamento assoluto da cui sono circondati i defunti in Spagna […]»[65].

Bodini intravede un lume in lontananza uscendo dal cimitero; è un locale affollato da uomini intenti a giocare a carte, con visi inquieti e tenebrosi. Anche qui si esorcizzano i pensieri neri della sera, bevendo. Così descrive il suo ingresso nel bar:

Sospeso il gioco, taverniere e avventor osservavano senza una parola il nuovo venuto. Chiesi del vino. “Ne abbiamo solo di rosso”. “Va bene rosso”. M’empì un bicchiere di liquido amaro e corrotto. È la sola volta che io non abbia potuto vuotare un bicchiere di vino in Spagna. Pagai. “Buenas noches”. Non rispose nessuno[66].

Così, tra gli odori di cibo arrostito, i ciechi della lotteria, il sapore del vino bevuto d’un fiato e le ragazze dagli occhi neri, Bodini comincia a camminare. Possiamo dedurre dal suo atteggiamento, che si adagia e si conforma agli usi spagnoli, una certa inquietudine, che si ritrova in alcuni comportamenti che gli spagnoli assumono. Prosegue il suo girovagare fino a un teatro: è il 2 novembre e in ogni città e villaggio sperduto della Spagna si recita il Don Giovanni.

La luna e Pedro Domecq

Basta citare la prima parte di questo racconto per evidenziare, ancora una volta, la commistione di notte, nero e alcool con cui abbiamo analizzato e riletto l’intero Corriere Spagnolo. Si percepiscono l’esigenza e la naturalità di Bodini nel raccontare la sua esperienza a partire da un lessico preciso, da riferimenti altrettanto attenti e puntuali, in cui i filtri selezionati si mescolano, creando momenti allegorici di vita quotidiana. L’autore si lascia trascinare da questo vortice di simbologia che egli utilizza per descrivere il profondo dell’anima spagnola. In questo caso Bodini si trova in Andalusia, dalle parti di Jerez de la Frontera, provincia di Cadice. L’incipit del racconto, come detto, è rivelatore:

A Jerez sarebbe stato meglio andarci su cavallucci arabi, al piccolo trotto. Il sole, già invisibile, era presente più che mai nel cielo d’un alcool verdino, che spumava sugli orli arricciolati della valle. Tremolavano incerti degli alberelli e il calice della sera continuava a splendere […] Che fossimo presso Jerez pareva doversi indovinare da quella ebbrezza frizzante dell’aria e il suo verde da spirito troppo recentemente distillato […][67].

Risulta palese che la descrizione dell’arrivo a Jerez, di sera, quando il nero comincia a calare, è strutturata attraverso una scelta lessicale che appartiene al mondo vinicolo, dell’alcool più in generale. Bodini è consapevole di essere ospite di una famosa terra di vini e distillati, e per questo anticipa il corpo centrale del racconto con una descrizione dai numerosi riferimenti vitivinicoli. L’autore trova il piacere di abbandonarsi all’elencazione dei prodotti di questa terra: è diventato un esperto grazie alla frequentazione di taverne e amici spagnoli. Questa è la Spagna distante e appartata di Bodini, lontano dai centri, è l’Andalusia dei colori, delle donne e del vino. Infatti, quest’ultimo risulta essere «causa di insolite alterazioni della coscienza. Esso favorisce incontri fantastici, fantastiche trasfigurazioni»[68]. Bodini, esperto, intravede subito alcuni stabilimenti vinicoli

a cui Jerez deve la sua gloria: Terry, Bobadilla, Osborne, Del Mérito, Gonzales Byass, Domecq, l’aristocrazia dei vini e dei cognac spagnoli. Ma soprattutto Domecq. Pedro Domecq emerge su tutti come una specie di Goffredo di Buglione; lo mette Lorca al seguito della Vergine, fra le gerarchie celesti scese in soccorso della città dei gitani che la Guardia Civile ha messo a ferro e fuoco[69].

Lorca, il Virgilio di Bodini, inserisce il cognac Domecq in una sua poesia, ma Bodini non intuisce il perché, o meglio cerca di farsi un’idea seguendo i segreti della sua poesia. Eppure, si sente in dovere di riportare questo fatto perché l’autore salentino vuole rivivere l’intensità lorchiana, seguire i passi del suo maestro, punto di riferimento di una poetica che scava nel profondo dell’umano, quasi a portare alla luce segreti e misteri. Il vino a cui si appella Bodini è l’anima di chi vive quei luoghi, «piena di contraddizioni d’intime dissonanze svarianti dalla perversità ai più delicati ritegni»[70]. La lettura del racconto rivela che l’assunzione del vino nel locale di Pepito è come una pozione per Bodini, viene rapito ed è egli stesso che afferma: «non ero io a berlo, ma era piuttosto come se mi bevesse; gli orli del bicchiere su cui posavano con avidità le mie labbra erano le sue labbra posate sugli orli di me bicchiere»[71]. Un «capovolgimento e scambio di bevitori e bevuti», sostiene Luca Isernia, aggiungendo che «è la Spagna, in altre parole, che lo assorbe, lo fagocita nelle sue viscere»[72]. I sensi si allentano all’assumere il vino, vengono ribaltati i piani razionali e Bodini vede in questo una sorta di via di fuga dal reale. L’autore, gustando i famosi uccelletti di Pepito, afferma che «il Jerez mi dava una mano»[73]. Torna il buio della sera, gli effetti dell’alcool cominciano a farsi sentire e Bodini, nel nero andaluso, scorge donne vestite di nero, presagi di morte. Ebbro si incammina per la città che, se prima era ordinata e precisa, ora è un «luogo animato da presenze mutevoli ed ambigue»[74]. L’autore è catturato dall’anima della Spagna, è ciò che vuole, è il motivo per cui ha intrapreso il viaggio: l’intuizione che accompagna l’artista-viaggiatore si rivela in queste pagine. Attraverso l’ignoto e l’incertezza cerca la propria casa, il suo posto nel mondo, un’identità che però è formata da tanti aspetti, anche contrastanti tra loro. Questa caratteristica rimanda agli studi e ai concetti sul territorio del Mediterraneo, così diverso culturalmente ma simbolo di un’unità che risiede proprio nelle differenze. È quel «pluriverso» a cui fanno riferimento Franco Cassano e Danilo Zolo in L’alternativa mediterranea[75]: Bodini, nel suo viaggio mediterraneo

si sente, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara[76].

Spaesato dagli effetti dell’alcool, Bodini racconta come cambia la percezione del luogo attorno a sé:

Attraversavo la piazza barcollando, e cercavo di scansare la folla che mi veniva sopra da tutte le parti. Quanta gente a Jerez. Pareva una cittadina, un paese razionale e pulito, e invece s’era mostruosamente moltiplicata. La gente di moltiplicava trasformandosi; ma non tanto bene che io non riuscivo a riconoscere qualcuno […]

Vidi anche degli arabi che penetrati di soppiatto nella città, e ora confusi fra la folla non aspettavano che la notte per impadronirsene con un colpo di mano. Un’ombra mi chiamò per un vicolo […][77].

Si potrebbe sostenere che queste narrazioni siano il prodotto di una semplice e comune sbronza e che l’autore abbia voluto rendercene partecipi. Secondo le intenzioni di questo studio, però, possiamo affermare che è volontà di Bodini di prender parte a questi momenti, di farsi rapire, per conoscere e conoscersi. Il viaggio si fa rivelazione, è un viaggio attraverso il diverso che diventa familiare e si trasforma in specchio per capire chi siamo veramente. Vivere questa diversità mediterranea equivale a spogliarsi delle tante strutture che Bodini si porta dietro (ricordiamo le numerose adesioni ai movimenti della sua epoca: Futurismo, Ermetismo, Surrealismo) e riconoscersi in questo incontro-scontro di cui è protagonista.

Conclusioni

La selezione di alcuni dei racconti contenuti in Corriere Spagnolo di Vittorio Bodini e la relativa analisi, applicando i filtri della notte, del nero e dell’alcool, sono stati utili per comprendere l’esigenza dell’autore salentino di essere parte e protagonista di uno spazio-tempo culturale e artistico che andava cambiando. Il contesto storico-sociale europeo, un’Italia che cercava di ripartire curando le ferite di un ventennio di dittature e guerre, unito ai numerosi esempi di rinascita culturale, furono senza dubbio le motivazioni che spinsero Vittorio Bodini a chiedersi quale fosse il ruolo dell’intellettuale e, più in generale, quale fosse il ruolo della letteratura.

Un periodo di forti tensioni e cambiamenti lo portò ad aderire a numerose correnti ideologiche, fino a seguire il suo amore per la Spagna, supportato dall’intensa attività di traduttore della letteratura spagnola. Il rapporto con numerosi protagonisti del mondo culturale spagnolo dell’epoca e la possibilità di trasferirsi a Madrid per un periodo rafforzarono il legame fra la sua terra, il Salento, e la Spagna. Come già anticipato nell’analisi dei racconti, l’iniziale rifiuto di essere figlio di un Sud considerato provincia e non degno di appartenere alla storia sociale e culturale dell’Italia fu successivamente ribaltato, grazie alla scoperta di una Spagna che era lo specchio della realtà che Bodini aveva vissuto nel proprio paese. Ritrova quei nodi culturali e storici che legano le due terre in uno scambio continuo di similitudini e di differenze, di contraddizioni e di segreti che fanno parte di un preciso mondo meridionale, colmo di simbologia. Proprio la simbologia ha guidato le intenzioni di questo studio: infatti, i filtri della notte, del nero e dell’alcool hanno permesso a Bodini di penetrare attraverso il racconto nelle dinamiche sociali e culturali, ritrovandosi protagonista.

La rilettura di quest’opera ci ha permesso di studiare in modo più attento il genere del diario-reportage di viaggio come un vero e proprio «documento storico, e quindi antropologico»[78]. La scrittura di viaggio permette, infatti, di fotografare e comprendere la realtà in un momento storico preciso. Ed è ciò che ha fatto Bodini con questi scritti spagnoli: è riuscito a trovare il modo per riscoprire la centralità di una poetica “sudista” e, allo stesso tempo, consegnare ai lettori la visione di un determinato spaccato culturale. La rilettura di Corriere Spagnolo ripropone ciò che ha sostenuto Pino Fasano: «L’esperienza antropologica del viaggio segue esattamente [questo] percorso: allontanamento dal noto e dal familiare, confronto con l’altro e il diverso, e, attraverso questo confronto, conquista dell’identità, visione di sé»[79].

Il presente studio intende gettare le basi per strutturare una ricerca futura che unisca due campi specifici: quello della scrittura di viaggio e l’analisi antropologica che ne deriva. Le realtà vissute dall’autore salentino hanno permesso di descrivere un mondo fatto di usi e costumi, sentimenti e paure, segreti e sogni. Anche l’antropologo Antonino Buttitta ha affermato:

Quale antropologo, ma anche sociologo, storico ha restituito la società russa o centro e sudamericana, di un preciso tempo, come Gogòl e Tolstoj, Carpentier e García Márquez? Nessuno può sostenere che, leggendo le loro pagine, non si apprenda della condizione, dei sentimenti, dei pensieri e degli atti di quelle realtà umane più di quanto studi e saggi ci abbiano mostrato[80].

Quindi, prendendo come esempio le narrazioni spagnole di Vittorio Bodini, possiamo affermare che la metafora del viaggio e della scrittura del viaggio «è divenuta per le scienze umane uno strumento essenziale entro cui ripensare una modernità che, proprio per l’estrema mobilità, è stata definita ‘liquida’, ‘globale’, ‘in viaggio’»[81].

In conclusione, risulta interessante vedere come questi scritti, a distanza di oltre settant’anni, possano servirci per ampliare l’analisi del genere della letteratura di viaggio, aiutandoci nella comprensione dell’evoluzione dello stesso genere e inserendolo in quella che viene chiamata

spatial turn’, che basi l’esame della complessità del mondo contemporaneo sulle sue dinamiche territoriali. Le trasformazioni che hanno investito l’idea, le pratiche e le rappresentazioni del viaggio nella tarda modernità appaiono così il terreno ideale per comprendere un’epoca in cui il rapporto tra l’uomo e lo spazio va assumendo forme nuove, in larga misura imprevedibili[82].

  1. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, Ravenna, Longo Editore, 2005, p. 8.
  2. Ivi, p. 7.
  3. O. Macrì, Introduzione a V. Bodini, Poesie (1939-1970), Milano, Mondadori, 1972, p. 76.
  4. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), in Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, Atti dei convegni di Roma (1-3 dic. 1980), Bari (9 dic. 1980), Lecce (10-12 dic. 1980), a cura di O. Macrì, E. Bonea e D. Valli, Collana di testi e ricerche «IL NOVECENTO», vol. V, Galatina, Congedo Editore, 1984, pp. 351-93.
  5. V. Bodini, Corriere spagnolo, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa Editrice, 2003, p. 11.
  6. Ibidem.
  7. A. Buttitta, E. Buttitta, Antropologia e letteratura, Collana «Nuovo Prisma», n. 96, Palermo, Sellerio Editore, 2018, p. 144.
  8. Ibidem.
  9. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 50.
  10. P. Fasano, Letteratura e viaggio, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1999, p. 40.
  11. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 9.
  12. P. Fasano, Letteratura e viaggio, op. cit., p. 42.
  13. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 34.
  14. A. L. Denitto, Bodini e la battaglia contro la dittatura franchista negli anni Sessanta, in Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014), Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce-Bari 3, 4, 9 dicembre 2014, Tomo I, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa Editrice, 2017, pp. 258-73.
  15. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 10.
  16. Ivi, p. 11.
  17. S. Schilardi, I cromatismi nell’opera di Vittorio Bodini, in Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014), op. cit., pp. 322-36.
  18. Ivi, p. 323.
  19. Ibidem.
  20. Cfr. V. Bodini, Corriere spagnolo/Capo d’anno con Goya, in «Libera voce», a. V, 1947, n. 2.
  21. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), op. cit., p. 374.
  22. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., pp. 50-51.
  23. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 43.
  24. Ivi, p. 42.
  25. Ivi, p. 44.
  26. Ibidem.
  27. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), op. cit., p. 376.
  28. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 50.
  29. Ivi, p. 51.
  30. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 52.
  31. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 53.
  32. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 52.
  33. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), op. cit., p. 376.
  34. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 53.
  35. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 54.
  36. Cfr. V. Bodini, Lazarillo de Tormes, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1951.
  37. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 54.
  38. Cfr. O. Macrì, Poesia grafica di Vittorio Bodini, in «L’albero», fasc. XX, 1974, n. 51.
  39. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 58.
  40. Ibidem.
  41. M. Onfray, Filosofia di viaggio, Poetica della geografia, trad. it. di L. Toni, Milano, Adriano Salani Editore, 2017 (ed. orig.: Théorie du voyage: poétique de la géographie, Paris, Librairie Générale Française, 2007), p. 53.
  42. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 58.
  43. Ibidem.
  44. M. Onfray, Filosofia di viaggio, Poetica della geografia, op. cit., p. 55.
  45. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 59.
  46. Ibidem.
  47. Ivi, p. 70.
  48. Ivi, p. 71.
  49. C. Magris, Infinito viaggiare, Milano, Mondadori, 2019, p. XX.
  50. Ivi, p. XXI.
  51. G. Caprara, Tra la Sicilia e la Spagna, un trattato sull’impostura. “L’antimonio” di Leonardo Sciascia, in «Analecta malacitana: Revista de la Sección de Filología de la Facultad de Filosofía y Letras», Vol. 38, Nº 1-2, 2015, pp. 111-31.
  52. L. Sciascia, Ore di Spagna, Roma, Contrasto, 2016, p. 95.
  53. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 72.
  54. Cfr. E. Hemingway, Fiesta, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1981.
  55. Ivi, p. 73.
  56. Ivi, p. 74.
  57. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 74.
  58. Ivi, p. 75.
  59. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 53.
  60. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 75.
  61. Ibidem.
  62. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), op. cit., p. 380.
  63. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, p. 216.
  64. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 88.
  65. A. L. Giannone, Momenti della prosa di Bodini. II. Il Corriere Spagnolo (1947-1954), op. cit., p. 384.
  66. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 90.
  67. Ivi, p. 93.
  68. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 58.
  69. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 93.
  70. Ivi, p. 95.
  71. Ibidem.
  72. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 59.
  73. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., p. 93.
  74. L. Isernia, Vittorio Bodini prosatore, op. cit., p. 59.
  75. Cfr. F. Cassano, D. Zolo, L’alternativa mediterranea, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2007.
  76. C. Magris, Infinito viaggiare, op. cit., p. X.
  77. V. Bodini, Corriere spagnolo, op. cit., pp. 95-96.
  78. A. Buttitta, E. Buttitta, Antropologia e letteratura, op. cit., p. 24.
  79. P. Fasano, Letteratura e viaggio, op. cit., p. 10.
  80. A. Buttitta, E. Buttitta, Antropologia e letteratura, op. cit., p. 26.
  81. L. Marfè, Introduzione, in Id., Sulle strade del viaggio. Nuovi orizzonti tra letteratura e antropologia, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2012, p. 17.
  82. Ivi, p. 18.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)