Recensione di Grazia Pulvirenti, “Non dipingerai i miei occhi. Storia intima di Jeanne Hébuterne e Amedeo Modigliani”

Author di Maria Panetta

Jeanne Hébuterne

Grazia Pulvirenti insegna letteratura tedesca all’Università di Catania ed è Presidente della Fondazione Lamberto Puggelli. Ha pubblicato diversi studi sul melodramma del XVIII secolo, sulla poesia tedesca del Novecento e sul teatro moderno. Si è occupata di vari autori a partire dall’espressionista austriaco Trakl, studiato per la tesi di laurea, confluita nella sua prima pubblicazione sulla crisi del linguaggio nella poesia austriaca degli inizi del XX secolo. Del poeta ha curato nel 1999 l’edizione Marsilio delle Poesie tradotte da Enrico de Angelis; fra gli altri libri di cui è autrice, da ricordare Storie menti mondi. Approccio neuro ermeneutico alla letteratura (Mimesis 2018) e La mente narrativa di Heinrich von Kleist (Mimesis 2018) assieme a Renata Gambino.

La germanista si è sempre dedicata parallelamente alla scrittura creativa, ma solo nel 2017 ha iniziato a pubblicare sulla rivista «Soglie» una silloge poetica dal titolo amara_mente, seguita nel 2020 dal racconto Più forte che la morte. Fantasticheria romantica (dedicato a Vincenzo Bellini), edito nella miscellanea Skira dal titolo L’Italia del Père Lachaise. Vies extraordinaires des Italiens de France et des Français d’Italie.

Il romanzo Non dipingerai i miei occhi. Storia intima di Jeanne Hébuterne e Amedeo Modigliani, uscito nel 2020 per Jouvence, è, dunque, la sua opera prima ed è stato proposto da Massimo Onofri per il Premio Strega sia per la capacità di narrare la “storia intima” di Jeanne Hébuterne, la compagna e modella di Modigliani morta suicida a 21 anni, incinta del loro secondo figlio, il giorno dopo la scomparsa del pittore trentacinquenne (il 24 gennaio 1920), e del suo rapporto con l’amato; sia perché si tratta di un libro che «potrebbe essere letto anche come un capitolo eroico della storia della pittura non solo europea a Parigi» (per citare Onofri).

La narrazione, infatti, è organizzata in cinque capitoli (Preludio, Un angelo dal volto severo, Più forte che la morte, L’eco del silenzio, Epilogo) suddivisi in agili paragrafi che hanno ognuno per titolo perlopiù quello di un quadro (reale o talora d’invenzione), più spesso di Modigliani ma anche della protagonista o di altri artisti, oltre che di loro disegni o fotografie. E questi paragrafi si connettono gli uni agli altri con un procedimento che ricorda il sistema delle coblas capfinidas.

I punti di vista nel racconto si alternano, sebbene l’ottica prevalente sia quella della giovane Jeanne («Gli occhi lievemente asimmetrici, due ferite azzurre, uno strappo di cielo», p. 9), disorientata dalla vita affascinante ma caotica di Montparnasse e dagli incontri con tutti gli amici artisti del suo Modigliani, per amore del quale ha abbandonato l’agiata famiglia d’origine, che non approvava la sua relazione con un artista ebreo da loro ritenuto un depravato, trasferendosi con lui in una mansarda fredda e sporca per poi patire una vita di stenti e sofferenze, fra il tanfo della muffa e quello della trementina. A volte il lettore fatica a comprendere immediatamente chi sta narrando, chi dice “io”, ma l’effetto raggiunto è funzionale alla strutturazione di una sorta di romanzo corale, in cui le voci a volte si mischiano perché talora – specie quelle dei due protagonisti – sono quasi sovrapponibili.

Dall’opera emerge sia la competenza di Pulvirenti in materia di storia dell’arte (pittura senese, Rinascimento, Duccio di Buoninsegna etc.) e di critica d’arte nonché di estetica, sia la sua capacità di scavo e indagine psicologica, d’immedesimazione nei caratteri dei personaggi, le cui biografie – si comprende bene – ha studiato con attenzione e nei dettagli per riuscire a restituire le atmosfere dei luoghi che frequentano e, allo stesso tempo, i toni, i motti, le abitudini, le attitudini, le diverse visioni dell’arte e della vita sottese alle loro opere pittoriche. Il tutto, però, senza perdere mai di vista lo scopo principale del romanzo: raccontare e descrivere, insinuarsi nelle pieghe più intime e delicate di un amore che ha fatto parlare di sé allora e che, anche grazie a questo libro, ancora oggi stimola potentemente l’immaginario di ogni lettore per la sua forza totalizzante e per la sua tragicità.

Jeanne Hébuterne, detta Noix de Coco, è stata una donna dalla bellezza «abbacinante» (p. 24): coraggiosa, anticonformista e volitiva, e insieme una pittrice dotata. Pulvirenti ne sa descrivere, però, con delicatezza anche le fragilità e le debolezze di ragazza innamorata, che ha fatto del proprio amore quasi l’unica ragione di vita, al punto da non poter sopravvivere alla perdita dell’amato. Per anni la sua cattolica famiglia borghese non ha permesso che le opere di Jeanne fossero esposte e potessero essere apprezzate dal pubblico: il romanzo di Pulvirenti viene, dunque, anche a risarcire l’artista di decenni di silenzio e di censura, ricostruendo la sua storia sulla base anche di numerose fonti documentarie (tra cui il catalogo Le silence éternel. Modigliani–Hébuterne, 1916-1919, curato da Marc Restillini) che – filologicamente – si possono isolare nel testo grazie all’uso sapiente del corsivo.

Ne emerge il quadro della Parigi folle di quegli anni, «serra in abbandono» (p. 14), della Parigi degli artisti (tra i quali Picasso, Foujita, Cocteau, Matisse, Soutine, Utrillo, Max Jacob), dei poeti (Paul Fort, Alfred Jarry, Guillame Apollinaire etc.), dei disadattati, degli irregolari, che trascinano vite colorate ma spesso al limite della disperazione, fra miseria e fortuiti guadagni subito sperperati in nome anche della condivisione e dell’amicizia, alternando esaltazione e lugubre malinconia, voglia di vivere e depressione, vigore fisico e malattia, alla perenne ricerca di quella Bellezza che può dare un senso alla loro esistenza perennemente in bilico fra la vita e la morte, fra alcol e hashish: «L’amore per me era un piccolo tributo alla bellezza effimera del mio corpo. Ma tu vivevi e crepavi ogni giorno per un’altra bellezza. Estrema. Irraggiungibile. La bellezza è un dovere doloroso. Io sarei stata solo un pegno che pagavi alla debolezza della tua carne e della tua anima fremente. E io non potevo che sfinirmi d’amore per te» (p. 33). E ancora Modì: «Noi artisti abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra – bisogna dirlo e crederlo – della loro morale. Il nostro dovere è di non consumarci mai nel sacrificio. Il nostro dovere reale è di salvare il nostro sogno. La Bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più begli sforzi dell’anima» (p. 63).

Del livornese viene descritta con chiarezza la poetica, ma non con toni cattedratici e poco funzionali allo snodarsi della narrazione: al contrario, la forza di questo romanzo risiede nel fatto che l’autrice riesce a fare in modo che anche le visioni estetiche dei due protagonisti, peraltro contrapposte e complementari, emergano naturalmente dai loro dialoghi. Modì punta all’essenza, non alla verosimiglianza: vuole «penetrare oltre la superficie, oltre l’inganno della visione» (p. 56), vuole raggiungere l’anima della sua Jeanne e di tutte le sue modelle («Ogni tua pennellata è un bagliore», ibidem). Ed è per questo che il titolo scelto per l’opera appare del tutto indovinato; racchiude in sé il “succo” della poetica di Modigliani, ma nello stesso tempo anticipa anche il risvolto drammatico delle vicende raccontate, il tormento dei personaggi coinvolti, ne fa presagire la tragica fine: «No, non dipingerò i tuoi occhi prima di consumare il mio cuore nel colore del tuo mistero. Non dipingerò i tuoi occhi se non possiederò la tua anima. La felicità è un angelo dal volto severo. Mio angelo severo, angelo di vita, angelo di morte. Tu già conosci la miseria della carne, del sangue che urla e mi schianta nella notte. Tu non temi la vita, non temi la morte» (p. 32).

Jeanne, invece, ha obiettivi diversi; dipingendo Baranowski, osserva: «Pochi sanno ascoltare come lui, ormai quasi nessuno. Per questo il mondo va a rotoli, per questo è scoppiata la guerra […] Prepotente e arrogante l’umanità si avvia alla rovina, perché gli uomini e le donne non sanno più parlare e ascoltare, non sanno più scambiare i loro sguardi, non sanno più essere gentili, tolleranti: sono vasi vuoti d’amore che vanno in frantumi. Ma […] [Baranowski: n.d.r.] sa ascoltare e io tento disperatamente di dipingere […] attraverso il suo corpo […] la sua apertura all’altro, la sua capacità di resistere alla malinconia che l’opprime» (p. 76). La profonda solitudine interiore dei protagonisti delle vicende raccontate, infatti, emerge anche dalla particolare struttura del romanzo, in cui persino i dialoghi sono sempre riferiti da una delle due voci, e non c’è vero confronto fra gli amanti, tranne che forse attraverso il contatto fisico e l’unione dei corpi.

Nonostante la propria fama di donnaiolo dal fascino maledetto («Jeanne, io distruggo tutto… per dipingere l’anima. And all men kill the thing they love… Anch’io uccido quel che amo fra i colori sulla tavolozza rosso sangue e fra le viscere nere di vino. Jeanne io sono dannato… non ho tempo… non ho un corpo per attraversare l’angoscia, il mio corpo è tutto marcio, come i miei polmoni»: p. 39) e d’irresistibile seduttore, e nonostante la sofferenza patita da Jeanne nella convivenza con l’estroso e imprevedibile ma anche arrogante, esibizionista e narciso Modì («Ma poi ti vedo e mi strazi di tenerezza. Così piccolo sul selciato come uno scarabocchio, così indifeso nella tua tracotanza», p. 54), dalle intense pagine del romanzo emerge chiaramente l’amore particolare che lo legò a questa figura di esile e insieme volitiva fanciulla, musa ispiratrice e bambina, artista ella stessa e insieme compagna presente e accogliente, mai in concorrenza con l’amato, mai invidiosa del suo talento. «Il vuoto lasciato da un corpo amato non può colmarlo nulla. Il vuoto lasciato da un corpo amato fa impazzire… come fai a non capire? Non posso lasciarti andare via, mai più… Quale sarà il colore del vuoto?» (p. 41), le domanda Modì, dopo un accesso di furia e di violenza.

Sullo sfondo, la Parigi del 1916, stremata dalla guerra in corso, luogo d’incontro di quelli che diverranno i più importanti artisti del Novecento ma che allora sono giovani che sopravvivono scambiando i propri quadri per un piatto di minestra: della capitale dell’arte Pulvirenti sa rievocare i tetti e i caffè, ricostruendo le giornate degli artisti nelle cantine e negli ateliers, le loro mostre nei parterres e le loro cene nelle topaie nelle quali spesso si adattano a vivere.

Modì (o Dedo) non è stato arruolato al fronte perché malato di tisi, ma nel circolo degli artisti è considerato un genio e Jeanne lo ammira già prima di conoscerlo; da un incontro casuale all’Accademia Colarossi, dove Jeanne si è perfezionata come pittrice e disegnatrice, nasce la scintilla del loro amore a prima vista: infatti, «Non ho bisogno di tempo per scrutare il tuo animo, conoscersi è luce improvvisa» (p. 31), le dice Modì. La loro storia è tormentata come la protagonista, dilaniata e combattuta fra il proprio essere donna e il proprio essere artista, oggetto di visione e creatrice a propria volta: «Non sono una modella, sono una pittrice, sono un’artista, chi ti credi di essere, solo perché ti amo mi consideri carne per i tuoi pennelli. Anch’io dipingo, io dipingo la vita come te, come lui. Nessuno può rubare lo sguardo a una donna» (p. 50).

Il destino di questo folle amore sembra essere segnato fin dal principio e numerose sono le anticipazioni che la narratrice dà dell’esito fatale della storia: «Mon amour, io non temo la mia morte e non vivrò nemmeno un istante senza te» (p. 48).

«Jeanne Hébuterne. Nata a Parigi il 6 aprile 1898. Morta a Parigi il 25 gennaio 1920. Di Amedeo Modigliani compagna devota fino all’estremo sacrificio», recita la sua lapide al Père-Lachaise. Grazia Pulvirenti le ha ridato voce, dedicando la propria opera, che si muove fluidamente fra ricostruzione documentaria e invenzione, modernità fulminante dello schizzo e accenti preziosi da romanzo ottocentesco, a tutte le donne «scomparse nell’ombra della storia».

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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