La poesia come patchwork: dal riferimento esplicito alla citazione nascosta nei versi dello “Splendido violino verde”

Author di Umberto Brunetti

Tra le numerose liriche che assumono una funzione di dichiarazione di poetica nel corpus ripelliniano particolare interesse assume la n. 45 dello Splendido violino verde, la penultima raccolta di Ripellino, pubblicata per Einaudi nel 1976. Al suo interno l’autore, prendendo forse spunto dall’Elogio della mano dello storico dell’arte Henri Focillon[1], afferma che, al contrario di quanto immaginato dagli altri, nel lavoro della scrittura non è stato il suo «pensiero» a effettuare il compito più estenuante, ma la «mano», definita in una climax ascendente «ciabatta», «sarta» e «operaia».

Negli otto versi posti a con­clu­sione del componimento, la scrittura viene descritta come un’attività artigianale, a metà fra pittura, falegnameria e operazione sartoriale: il denominatore comune di tutte queste immagini giustapposte è costituito dalla lavorazione di oggetti umili o di scarto, fusi insieme, come in un patchwork, per dar vita al risultato finale, soltanto di rado soddisfacente:

Sotto le sferzate del pensiero
la raggrinzita, la contorta spasima 

su un cavalletto colloso, imbastendo

stracci di sillabe, un rozzo fastello
di trucioli, un patchwork di sbréndoli,
obese parole, scurrili fonemi da fogna,
tra cui solo a volte balena un malioso gioiello, 

come gli occhi di Irina Petròvna[2].

Il patchwork della poesia appare in questi versi essenzialmente di natura linguistica, come evidenziato dagli «stracci di sillabe», dalle «obese parole» e dagli «scurrili fonemi da fogna». Ripellino allude chiaramente all’espressionismo della sua scrittura, a quell’ardita mescolanza di arcaismi, dialettalismi, termini tecnici e vocaboli stranieri, oltre che alla ricerca di effetti sonori pirotecnici tramite l’inesauribile ventaglio di figure di suono, rime insospettabili (si noti qui l’ardita responsione del vocabolo basso «fogna» con l’esotico nome dell’attrice russa «Irina Petròvna») e ricercate cadenze ritmiche, che costi­tui­scono la sua cifra inconfondibile. Si può, tuttavia, estendere legittimamente la metafora del patchwork e quindi della poesia come opera­zione di assemblaggio, di cucitura di materiali differenti, al piano della ric­chissima intertestualità che nutre tanto la prosa quanto la produzione in versi di Ripellino. È l’autore stesso che si premura di rilevare questo tratto distintivo nei due principali scritti di natura auto­ese­getica che ci ha lasciato, il primo del 1967 e il secondo del 1975:

Ogni tessitura poetica è anche un amàlgama e un compendio di citazioni[3].

Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pitto­rica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’eb­bra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura: ombre jiddisch, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáček, splen­dori barocchi, truculenze boeme, vampate di zol­fo vi convergono come in un gran Baraccone dalle luci malate, scon­torto da smorfie di clownerie, scon­quassato da raffiche di ipocondria e di rimpianti[4].

Nella produzione di Ripellino, l’inusuale ricchezza linguistica trova corrispondenza nella vastità dei riferimenti culturali e nel gusto per la comparazione, che deriva da una concezione della scrittura come «processo associativo», «ricerca di rassomiglianze»[5]. Il principio fondante che governa la sua opera è la capacità di avere «gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme», perché, come aveva scritto in una poesia del suo primo libro di poesie, «Non esistono cose lontane, / tutto è racchiuso nei globi degli occhi»[6]. Da questa concezione nascono nei suoi saggi e nei suoi scritti giornalistici le «iridescenze»[7], «le analogie stregherelle»[8] che mettono in dialogo le realtà artistiche e culturali più distanti, come la poesia di Majakovskij e il ritmo del cake-walk, la figura di Pasternak e il cinema di Buster Keaton[9]. Secondo un processo del tutto similare, anche le liriche di Ripellino, come i ritratti degli autori amati, aprono continui scorci su altri testi e diverse forme artistiche, evocati quali testimoni della propria visione del mondo e delle proprie emozioni più profonde.

Per illustrare tale peculiarità della poesia di Ripellino, che Calvino aveva definito nei termini di una «sostituzione assoluta del mondo della cultura a quello della memoria»[10], mi limiterò in questa sede a una singola raccolta di versi dell’autore, Lo splendido violino verde, che costituisce per vari aspetti la summa della sua produzione poetica. Nel volume, composto da ottantasei liriche, si trovano, infatti, numerosi e diversificati esempi di intertestualità, che vanno dalla citazione esplicita al riferimento nascosto, dalla riscrittura al riassemblaggio in forma poetica di materiali artistici differenti. La similitudine è la figura retorica più congeniale all’autore per il richiamo ad altre opere, di frequente enigmatico. Propongo di seguito tre esempi:

Come il padre di Amleto l’angoscia riappare,

impiegato postale accanito su unico timbro.

(n. 18, vv. 10-11)

Come un angelo di Klee dagli occhi cavi

mi corre dietro la consorte del Becchino

(n. 48, vv. 1-2)

C’è solo un filo di ignobile malinconia

che trapela talvolta di sotto una porta,

ma io riesco a tagliarlo, fingendomi ottusa

e decrepita come una mummia di Strindberg.

(n. 67, vv. 7-10)

Nella poesia n. 18 il riferimento al fantasma del padre di Amleto dell’omonima tragedia shakespeariana è arricchito dalla straniante personificazione dell’astratto e dall’accostamento ossimorico tra il personaggio regale del dramma e il prosaico impiegato postale colto nella sua occupazione alienante. Di gusto espressionistico è anche l’incipit della lirica 48, in cui la grottesca personificazione della morte nella «consorte del becchino» è amplificata dalla similitudine con il celebre dipinto di Paul Klee, Angelus novus, che a sua volta rimanda inevitabilmente all’interpretazione che dell’opera ha fornito il filosofo Walter Benjamin[11]. In un crescendo progressivo in termini di difficoltà interpretativa si pone il terzo esempio sopra proposto, dove il riferimento a «una mummia di Strindberg» appare meno immediato dei due precedenti: l’articolo indeterminativo, infatti, trasforma in antonomasia un personaggio del dramma da camera Sonata di fantasmi dell’autore svedese August Strindberg.

Accanto ai rimandi espliciti, come i tre appena analizzati, Ripellino dissemina nello Splendido violino verde, quasi con lo stesso piacere di un enigmista, un numero altrettanto elevato di citazioni nascoste. A titolo di esempio si può leggere il memorabile esordio della lirica n. 7:

Si cruccia della solitudine e aspetta

sempre un cugino dal Paraguay,

un dottor Jazz con la sua Bugatti cachettica

che non verrà mai.

Solo un fortuito ritrovamento nelle agende ripelliniane[12] mi ha permesso in questo caso di rintracciare l’origine del fantomatico cugino del Paraguay, della cui visita l’io lirico resterà in perenne attesa: si tratta, infatti, di un divertito rimando a una lettera inviata da Franz Kafka a Max Brod nel 1906, in cui lo scrittore ceco annuncia con entusiasmo l’imminente visita del suo «interessantissimo» cugino del Paraguay[13].

Oltre alle citazioni che arricchiscono il contenuto della lirica con una similitudine tratta dal mondo della letteratura e i prelievi di personaggi bizzarri che rafforzano la stravaganza delle immagini attorno a cui ruotano spesso le poesie di Ripellino, vi sono poi casi in cui l’intertesto, seppure nascosto, è a tal punto dominante che il componimento si trasforma in una riscrittura non dichiarata, quasi ai limiti del plagio. È quanto avviene nel n. 82 della raccolta, che riporto qui per intero:

C’era un paese che conteneva tutti i paesi del mondo,

e nel paese un villaggio che racchiudeva tutti i villaggi del paese,

e nel villaggio una via che riuniva tutte le vie del villaggio,

e in questa via purulenta una casa che comprendeva tutte le case,

e nella casa una povera stanza, e nella stanza un’enorme sedia, 

e sulla sedia, sparuto, un minuscolo omino in bombetta,

e questo omino era tutti gli uomini di tutti i paesi,

e questo omino rideva, rideva sino alle lacrime.

La poesia è ispirata a una parabola di Rabbi Nachman di Brazlav, uno dei grandi maestri del chassidismo, il movimento sorto fra gli ebrei dell’Europa orientale nel XVIII secolo. La fonte indiretta a cui attinge Ripellino è il saggio Célébration has­si­dique dello scrittore rumeno Elie Wiesel, da lui recensito in un articolo su «L’Espresso» del 1972[14]. In esso si trova, infatti, la citazione alterata dell’apologo di Nachman[15] che costituisce l’avantesto della poesia. La traduzione del passo è appuntata in un’agenda manoscritta di Ripellino:

C’era un paese che conteneva tutti i paesi del mondo; e nel paese una città che incorporava tutte le città del paese; e nella città una via che riuniva in sé tutte le vie della città; e in questa via una casa che conteneva tutte le case della via; e nella casa una stanza; e nella stanza un uomo; e quest’uomo personificava tutti gli uomini di tutti i paesi; e quest’uomo rideva, rideva, e nessuno aveva mai riso come lui (Célébration hassidique, p. 204)[16].

L’intervento sul modello attuato da Ripellino è sottile ma significativo, e si esplica in primo luogo nell’inserimento di un’aggettivazione assente nel testo originale: i cinque attributi «purulenta», «povera», «enorme», «sparuto» e «minuscolo» approfondiscono in senso descrittivo l’immagine allegorica, producendo un allargamento semantico. Nella costruzione a matrioska, sottolineata stilisticamente dall’anafora della congiunzione ripetuta sette volte, è inoltre introdotto un oggetto: l’«enorme sedia», criptocitazione, svelata dall’autore, della «famosa sedia di Nachman»[17], attraverso la quale è suggerita un’identificazione tra il rabbino e l’uomo che ride del suo apologo. L’innovazione più significativa rimane, però, la trasformazione del protagonista della storia nella figura cara a Ripellino dell’«omino in bombetta», simbolo di una borghesia claunescamente irrisa, che trae origine dai soggetti di alcuni dipinti del pittore surrealista René Magritte, ma anche dalla famosa foto con bombetta di Kafka e dall’altrettanto celebre bombetta di Charlie Chaplin, a cui il poeta è legato per il particolare connubio di comicità e malinconia del suo personaggio. Il surrealismo di Magritte e l’assurdo kafkiano non risultano casualmente accostati all’apologo di Rabbi Nachman, ma ne costituiscono un’estensione dell’ori­z­zonte di senso, che sfrutta alcune caratteristiche già insite nel modello di ispirazione. Nell’articolo dedicato al saggio di Wiesel sul chassidismo Ripellino parla, infatti, di «situazioni kafkoidi» presenti nelle «incongrue leggende di Rabbi Nachman»[18]. Sempre dallo stesso articolo traiamo, inoltre, spunti essenziali per comprendere il significato dell’enigmatica risata con cui si chiude la poesia-apologo:

Non la mortificazione ascetica, non la proterva oscurità delle cabale, ma l’allegrezza conduce a Dio e può mutare il ductus degli avvenimenti. Perciò i chassidim si profondono in balli, in profluvi di canti, in capestrerie. […] Eppure i rabbini assertori di gioia soffrivano tutti di depressioni nervose. […] E c’è da pensare che il riso sgangherato, che gorgogliava come un Urschrei dalle viscere di Rabbi Nachman di Brazlav, sgorgasse anch’esso da una tenebrosa tetraggine[19].

Una risata «che sgorga dalla tetraggine» è dunque quella dell’omino in bombetta della poesia n. 82 ed è la stessa risata malinconica in cui si sciolgono numerose liriche di Ripellino: tutto si riconduce alla poetica della «buffoneria del dolore», espressa nel componimento n. 72 e che legittima l’appropriazione dell’apologo nachmaniano da parte dell’autore. Con estrema naturalezza nelle sue poesie Ripellino evoca scrittori e artisti come portavoce della sua medesima visione del mondo, della propria esistenza in bilico tra «ebbrezza e malore»[20]. Qui è evocato Rabbi Nachman, mentre altrove saranno la comicità piangente di Buster Keaton e Il giardino dei ciliegi čechoviano a testimoniare la perenne tensione tra comico e drammatico in cui vive l’autore[21].

Voglio, però, prendere in esame un ulteriore esempio di poesia dello Splendido violino verde, la n. 62, che nasce sotto l’influsso diretto di un testo letterario tacitamente reimpiegato da Ripellino. L’indizio di una citazione nascosta è conferito dalla presenza di una voce femminile in sostituzione del consueto io lirico del poeta. La protagonista del componimento, che senza modestia si pone nel novero delle «più galantine e bellone», si lamenta del marito, impietosamente descritto come vecchio, malato e privo di ogni vigore. Per l’appunto con questa figura si identifica con autoironia l’autore, che nella seconda sezione della silloge assume i panni del suo alter ego Don Pasquale, ossia del vecchio amoroso dell’omonima opera lirica, duramente beffato dalla giovane e seducente Norina[22]:

La notte, sacchetti di crusca al costato,

e ogni momento l’urinale, e i calmanti,

e gli sciroppi sedativi per la tosse:

che disgrazia un asino infreddato.

Col tanfo della bocca, purea di piorrea, 

che cola come quella delle mule,

coi denti appiccicati come cera,

col culiseo rattrappito, col lerciume di ciacco,

a che gli serve ascoltare nel suo padule

le Danze Slave di Dvořák? 

E come posso io, tra le piú galantine e bellone,

da moltissimi giovani donneata,

soffrire questo vecchio tutto pròtesi,

questa pillacchera, questo frittata,

questa grottesca ortopedia, questo orcio rotto, 

dal cui ventre penzola un cencio in pensione,

un tordo moscio,

un porro cotto?

La poesia è armoniosamente inserita all’interno del filone che domina l’intera sezione Don Pasquale: la constatazione, grottesca e amara, della vecchiaia, che tra le sorti più penose porta con sé l’incapacità di vivere appieno, come in giovinezza, il sentimento amoroso. Il modello a cui è ispirato il componimento è una novella cinquecentesca di Pietro Fortini incentrata su un anziano dottore fiorentino che, nel tentativo di insegnare l’arte d’amare a un suo allievo, lo spinge involontariamente fra le braccia della sua bella e giovane moglie. Di fronte ai sospetti del marito la donna risponde con una veemente tirata, riconducibile al topos della “malmaritata”, da cui Ripellino trae spunto per la lirica[23]. Da un rapido confronto con il brano in questione si nota immediatamente come il poeta abbia attinto da Fortini il lessico erotico, che contraddistingue le Giornate delle novelle dei novizi, e quello relativo all’aspetto repellente dell’uomo: «asino infreddato» (v. 4), «col tanfo della bocca […] / che cola come quella delle mule» (vv. 5-6), «pillacchera» (v. 14), «porro cotto» (v. 18). Altri termini ed espres­sioni prosaici, come «urinale» (v. 2), «culiseo rattrappito», «lerciume di ciacco» (v. 8), «frittata» (v. 14), «cencio in pensione» (v. 16) e «tordo moscio» (v. 17), sono accostati con effetto di stridore parodico agli aulicismi «padule» (v. 9), «galantine» (v. 11) e «donneata» (v. 12). A questi ultimi si aggiunge l’esotico nome del compositore ceco Antonín Leopold Dvořák, che forma una preziosa rima imperfetta con «ciacco». È un limpido esempio di quella che Ripellino definiva «poetica della contiguità stridente», finalizzata a produrre un rinnovamento del lessico nella lirica contemporanea tramite il contatto inconsueto di vocaboli fra loro estranei sia per provenienza geografica che per distanza cronologica, come il nome esotico, in questo caso di lingua boema, e l’arcaismo italiano[24].

Se negli esempi finora considerati la creazione poetica si fonda principalmente su un modello letterario che fornisce il terreno per una riscrittura, l’ultimo su cui mi soffermo testimonia la capacità di Ripellino di trasfigurare nei suoi versi altre forme d’arte, come la musica, l’arte visiva e il teatro. Il componimento n. 16 nasce, in particolare, dalla fusione nell’immaginazione dell’autore del dipinto di Magritte Le mois des vendanges con l’immagine dell’attrice e cantante Milva, apprezzata nel ruolo di Jenny delle Spelonche da lei interpretato nell’Opera da tre soldi di Brecht sotto la regia di Strehler. Tale convergenza è apprezzabile nell’incipit della lirica, in cui il nome di Milva compare al v. 2 con l’iniziale minuscola, assumendo valore antonomastico, ed è enfatizzato dall’aggettivo «mille» con cui forma una paronomasia:

Da mille porte dell’orizzonte mi appaiono stasera

mille milve violacee, griderecce, slungate,

con lugubri croste di bistro, le braccia di cera.

Il particolarissimo patchwork di questi primi tre versi amplia inoltre il suo orizzonte intertestuale internamente all’opera stessa di Ripellino, poiché nasce in parallelo a tre distinte recensioni da lui pubblicate; la prima, del 1971, è dedicata ai due saggi su Magritte pubblicati quello stesso anno da Patrick Waldberg e René Passeron, mentre le altre due, del 1973, vertono sulla regia strehleriana dell’Opera da tre soldi di Brecht, che Ripellino potè apprezzare prima al Teatro Metastasio di Prato e poi all’Argentina di Roma. Già nella recensione del 1971 lo scrittore siciliano aveva emulato sulla pagina la fantasia moltiplicatoria dei dipinti di Magritte e in particolare di Les mois des vendanges, nel quale da una finestra aperta appare un numero indefinito di uomini con medesima giacca e bombetta nera e identica espressione sul volto, con inevitabile effetto perturbante:

E se a Mosca andavo al quartiere sud-ovest a cercare il poeta Martýnov, da mille finestre di casamenti tutti uguali mille uguali Martýnov si sporgevano, facendomi perdere la bussola. Se vado per il Lippenslaan di Knokke, questo viale di sfolgoranti vetrine, […] mi imbatto spesso in un crocicchio di anacronistici omini in bombetta e nero stiffelius, tutti uguali, usciti evidentemente dai quadri di René Magritte.

Attorno a noi ogni simulacro si ripete in migliaia di stereotipi, le immagini aspirano all’iterazione, ogni effigie è l’effigie di un francobollo immutabile, ed è già molto se tira al burlesco[25].

Le «mille milve», che nel componimento sostituiscono gli omini in bombetta di Magritte, possiedono l’aspetto preciso del personaggio da lei interpretato nello spettacolo strehleriano, di cui Ripellino offre una particolareggiata descrizione nelle due recensioni teatrali sopra menzionate:

Da una ballata di cabaret, o piuttosto da un torbido quadro di Nolde, sembra uscita la spettrale Jenny di Milva, attillata in un nero lamé, il viso di cera violacea, i capelli laccati e con frangetta alla Brooks, le labbra cinabro, le braccia lunghissime, di un bianco diafano[26].

Milva è una memorabile icona: i capelli alla Louise Brooks, con le punte sulle guance, fasciata di un lugubre nero lamé, le labbra violastre, le braccia lunghissime diafane, di una sepolcrale bianchezza di avorio, che è il bianco con acini neri, il bianco di morte dei mimi[27].

La «spettrale Jenny» di Milva evoca dunque nella fantasia del poeta un presagio funesto e la moltiplicazione del suo simulacro accresce l’inquietudine per la morte incombente, che appare un destino inevitabile a causa della sua salute malferma. Nel cuore della lirica la percezione della fine imminente è sottolineata dall’espressione «È già tardi» e dalla metafora della vita che «scappa via dalle mani» (v. 8). Compare, inoltre, l’immagine chiave della «fiammella», simbolo della poesia, che come un talismano è brandita dall’autore per stornare l’angoscia della morte. Quest’ultima in maniera ossimorica è definita «trastullo», a segnalare il rapporto ambiguo intrecciato con essa da Ripellino, che da un lato la teme e la rifugge, dall’altro, assieme alla propria malattia, la evoca e la corteggia, in quanto elemento essenziale della propria ispirazione poetica[28]:

Come un topo di fazzoletto la mia vita negra,

assieme alla mia dappocaggine di sciocco filosofante,

mi scappa via dalle mani. È già tardi

per tener desta la fiacca fiammella di giallo limone,

che abbarbagliava sinora la morte, 

mia píttima, mio nauseante trastullo,

che prende parvenze stereòtipe da cartellone.

La conclusione della poesia, che ripropone i versi iniziali con alcune varianti, conferisce alla stessa una perfetta struttura ad anello tramite gli artifici dell’anafora e del chiasmo (la frase «Da mille porte… mi appaiono… / mille milve violacee» è ripetuta al contrario al v. 13). La clausola finale propone sotto forma di similitudine un terzo riferimento colto, che va a completare il patchwork della poesia e consiste nell’allusione alla fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen, L’usignolo[29], successivamente musicata da Stravinskij in Le rossignol:

Mille milve violacee mi appaiono da mille porte,

non c’è scampo: e perciò le vezzeggio, le aspetto

con guerci sorrisi e selvatici inchini, fasullo 

come un dignitario di Andersen, come un Do di Petto.

Compare qui un altro tema portante della raccolta e di tutta la poesia di Ripellino, ossia la clownerie: per non soccombere senza colpo ferire, lo scrittore ribatte all’inquietante teatralità della morte con altrettanta teatralità, rivolgendo alle mille milve gli ipocriti gesti di una contraffatta galanteria («guerci sorrisi e selvatici inchini»). La buffoneria, con la sua capacità di trasformare l’angoscia in ilarità, assume allora una valenza metafisica: di fronte alla percezione tragica dell’esistenza, non resta che esorcizzare con il riso il dolore, prendendolo in contropiede, teatralizzando la vita e trovando in questo gioco sofisticato – costantemente in bilico tra finzione e realtà ­– una fonte di gioia. Per dirla con altre parole di Ripellino, «Viviamo nella caduta. / E che almeno sia gaia» (n. 43).

  1. Cfr. H. Focillon, Elogio della mano. Scritti e disegni, a cura di A. Ducci, Roma, Castelvecchi, 2014, p. 14: «La mano è azione: prende, crea e talvolta si direbbe che pensi».

  2. A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, edizione introdotta e commentata da U. Brunetti, con due scritti di C. Bologna e A. Fo, Roma, Artemide, 2021, p. 188.

  3. A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia e altre poesie, Congedo, Milano, Rizzoli, 1967, ora in Id., Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2006, p. 203.

  4. A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, in «L’ozio» I, 1, 1986, p. 11, ora in Id., Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, p. 294.

  5. Le citazioni sono tratte da una prosa di Ripellino su Pasternak. Cfr. A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941- 1976), a cura di U. Brunetti e A. Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2020, p. 447.

  6. A. M. Ripellino, Non un giorno ma adesso, Non esistono cose lontane, Roma, Grafica, 1960, ora in Id., Poesie prime e ultime cit., p. 102.

  7. Il termine è usato da Ripellino nella Lettera agli «anziani». Vd. A. Fo, A. Pane, Storia di Ripellino (seconda parte), in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Siena», vol. XI, 1990, pp. 239-40: «Il fragoroso schianto della vecchia Università ha travolto per sempre anche il nostro lavoro di isolani, ha vanificato le nostre sollecitudini per la poesia, la nostra stessa concezione dell’arte e del mondo. I giuochi di rimandi, di analogie, di richiami alla pittura, alla musica, al folclore, al teatro, il nostro apel’sinstvo (per usare una parola di Blok!), le premurose analisi, le tele di malinconica rêverie, il febbrile scavo nelle immagini: tutto è diventato inutile – e del resto era troppo fragile, troppo privo di sostrati ideologici, troppo onirico per poter durare. E ora? Ora torneranno gli schemi, le secchezze dei dati, la Vecchia Scuola, il Manuale dalle gambe corte, il liceo. Bicchieri di piombo invece di vetri di Tiffany, lezioni protocollari, e non più iridescenze».

  8. La citazione è tratta dalla poesia n. 21 di Sinfonietta. Vd. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde cit., p. 125.

  9. Le due fulminee e stravaganti associazioni sono effettuate nell’articolo Poesia russa del ’900 in A. M. Ripellino, Iridescenze cit., p. 798, e nello scritto intitolato Pasternàk-Keaton in Id., Saggi in forma di ballate. Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca, Torino, Einaudi, 1978, pp. 171-73.

  10. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 2000, p. 493.

  11. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 142: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi».

  12. Agenda manoscritta 1971, in Archivio di Angelo Maria Ripellino e di Ela Hlochová, presso Archivio del Novecento, Università degli Studi di Roma «La Sapienza», Scritti, Appunti, “Kaufhof 1”, c. 325: «un cugino del Paraguay visita Kafka [all’inizio dell’Epistolario]».

  13. F. Kafka, Epistolario, I, in Tutte le opere di Franz Kafka, 4 voll., a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1964, p. 34: «Caro Max, il mio interessantissimo cugino del Paraguay del quale ti ho già parlato, e che durante il soggiorno europeo è stato alcuni giorni a Praga in un periodo in cui stavi per dare l’esame di stato, è di nuovo a Praga sulla via del ritorno».

  14. A. M. Ripellino, Iridescenze, op. cit., pp. 761-64.

  15. Nachman di Breslav, La principessa smarrita, a cura di G. Limentani, Milano, Adelphi, 1981, p. 70.

  16. Agenda manoscritta 1971 cit., c. 232.

  17. Cfr. G. Limentani, Un Angelo per amico, in Id., Scrivere dopo per scrivere prima. Riflessioni e scritti, Firenze, La Giuntina, 1997, p. 155.

  18. Vd. A. M. Ripellino, Iridescenze cit., p. 763.

  19. Ivi, p. 762.

  20. La citazione è tratta sempre dalla poesia n. 72 dello Splendido violino verde.

  21. Si tratta della poesia n. 25, che riproduce su pagina una celebre scena del film di Buster Keaton Sherlock jr., e della n. 71, che rievoca la regia strehleriana del Giardino dei ciliegi.

  22. Specialmente nei versi finali della poesia (vv. 11-18) è possibile avvertire un’eco delle parole rivolte da Norina a Don Pasquale nell’opera di Donizetti (Don Pasquale, II, 5): «Un uom qual voi decrepito, / qual voi pesante e grasso / condur non può una giovane / decentemente a spasso».

  23. Vd. P. Fortini, Le giornate delle novelle dei novizi, 2 voll., a cura di A. Mauriello, Roma, Salerno Editrice, 1988, I, VI, p. 143: «O non maraviglio che già due sere siate tornato a casa tanto abbuon’ora, e l’altre solavamo stare a quatro o sei ore, che v’eravate avezo, e vi so dire che una donna n’ha voglia di cotesto porro cotto! È ben pazza quella che volentieri vi tiene a canto che almanco la gioia è bella: che non è recoglitrice che non se le voltasse lo stomaco a vedervi cotesta bocca puzzolente con quella barba tacolosa e la camicia depinta a panni di raza, e fra l’altre gentileze ha tuttavia una tosse che pare uno asino infreddato, e colali la bocca come una mula stanca. La v’ha pur fatto il dovere già due sere a serrarvi di fuori; e se la sarà punto savia, vi farà dell’altro, che quello fino a ora v’ha fatto è nonnulla, vecchiaccio ritroso, fastidioso, geloso, sospettoso, affannoso, pillacaroso, bavoso!». Il motivo letterario della “malmaritata” è trattato anche nel saggio di Ripellino su Kolař, in Saggi in forma di ballate, op. cit., pp. 242-45.

  24. Vd. A. M. Ripellino, Sul trapezio del linguaggio, in M. Lunetta, Sintassi dell’altrove. Conversazioni e interviste letterarie, Poggibonsi, Lalli, 1978, ora in A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire: interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), a cura di A. Pane, Messina, Mesogea, 2008, p. 47: «Io voglio realizzare un impasto tra cultura europea e cultura italiana sfruttando la parola italiana antica o desueta in senso moderno, mediante (ad esempio) il contatto di fonèmi di diversa provenienza. Il fonèma straniero o ‘esotico’ riscatta così per contiguità la parola italiana, e il rinnovamento del lessico va visto nel mio caso come prodotto attivo di questa poetica della contiguità stridente».

  25. A. M. Ripellino, Iridescenze cit., p. 729.

  26. A. M. Ripellino, Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti («L’espresso» 1969-77), a cura di A. Fo, A. Pane e C. Vela, prefazione di A. Lombardo, Roma, Bulzoni, 1989, p. 159.

  27. Ivi, p. 239.

  28. Cfr. A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire, op. cit., p. 36: «E gran parte della mia scrittura è diventata il vezzeggiamento di questo eterno malessere, da me trasformato in feticcio, in oggetto prezioso come un pezzo di rame».

  29. H. C. Andersen, L’usignolo, in Id., Fiabe, trad. di A. Manghi e M. Rinaldi, Torino, Einaudi, 2017, pp. 172-80. Nella fiaba gli ottusi dignitari di corte dell’imperatore cinese, incaricati di trovare l’usignolo, non riconoscono la bellezza del suo canto e, in seguito, rivelano la loro ipocrisia abbandonando l’imperatore in punto di morte per guadagnarsi i favori del nuovo sovrano.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)