Se non avessi conosciuto Angelo Maria Ripellino, non avrei mai pensato di contrapporre il “magico” all’“accademico”. Non ho scelto io questo tema: mi si è imposto, costringendomi a cercarne le ragioni. La prima è che tutti noi che lo abbiamo conosciuto l’abbiamo considerato una perfetta personificazione di un misterioso contrasto tra magia e accademia. Ma anche come un’eccezionale unione: poeta e professore. La seconda ragione è che questo contrasto porta ispirazioni illuminanti riguardo alla profonda crisi culturale che stiamo vivendo oggi.
L’università rappresenta (dovrebbe rappresentare) l’avanguardia culturale della società, e leggere nel presente con la massima attenzione la sua evoluzione è un nostro dovere. La forza e l’originalità del nostro poeta-professore hanno creato nella cultura accademica come onde circolari che si espandono nel tempo e ci parlano di fenomeni di un valore che, con gli anni, si rivela più e più universale ed essenziale. Magica è la forza della poesia grazie alla sua facoltà di tramutare ogni cosa in un fenomeno nuovo, e di liberare, in questo modo, le facoltà creative dell’essere umano. Penso non ci siano benefici più alti. In questo consiste la missione dell’arte e tale è stato anche il compito che Angelo Maria Ripellino si è dato come pedagogo. Tale è stato ugualmente l’effetto del suo impegno nelle varie arti cui ha dedicato la vita.
Gli anni della sua intensa attività universitaria e artistica corrispondono al passaggio sociale da una fiducia quasi completa nella magia della poesia, nella poiesis, nella creatività libera, al suo contrario. Precisamente a un passaggio, profondamente antipoetico, verso il polo opposto della creatività, ossia verso obiettivi freddi e utilitaristici come efficienza, produttività, competenze. Verso un nuovo ordine che il poeta intuisce e teme come un «freddo, / […] vitreo deserto, che uniformità»[1]. È «l’epoca che ha fame di poesia», sottolineerà Giacinto Spagnoletti nella prefazione a Scontraffatte chimere[2].
“Oggi non ci sono più grandi maestri! Invece di leggere poesie, con gli studenti, insegnate loro i nomi delle città, dei fiumi…”. Cito (e ricordo alla lettera) questa dichiarazione pronunciata circa trent’anni dopo Sinfonietta a un Consiglio di Dipartimento di slavistica da una voce sicura di rappresentare una vittoria storica, la vittoria di quell’ordine freddo. La vincita sulla poesia che il grande maestro ben intuiva.
Rubano ai versi figure e cadenza,
pestando, come cavalli di piombo, la vita.
Aridi, tirano in giuoco la scienza,
dal loro squittire il mio cuore è ferito[3].
Penso che non si potrebbe esprimere meglio l’abisso creatosi negli ultimi decenni tra i due poli, l’uno magico, l’altro – diciamo – tecnologico.
Angelo Maria ha intravisto nel futuro l’ascendente importanza del secondo polo, ma non gli si è mai piegato, riuscendo a domare con i versi persino la malattia. Era poeta anche quando scriveva saggi, era poeta quando stava davanti agli studenti, era, sì, una personificazione della luminosa magia della poesia:
Poesia, sii sana e feconda.
Poesia non morire
nell’accigliata baraonda
delle formule governative.
Stangate fiscali, equi canoni, blocchi,
scale mobili ed altre invenzioni recondite
accecheranno i tuoi occhi
come escrementi di rondine.
Fuggi dalla folla di vaniloqui pedestri,
impastati di colla e di sterco,
le frittelle di archivio di peste,
il loro fetido gergo.
Ritaglia gabbiani dal cielo,
continua ad essere magica,
innalzati sullo sfacelo
di un’arida vita letargica[4].
Pur non possedendo ancora i termini tecnologici, o ignorandoli con disdegno, il poeta avvertiva l’alito mortifero di un’esistenza letteraria digitalizzata postumanistica: «[…] che sbaragli / soffiano da quel futuro»[5].
Un rombo
orribile cresce, di innumerevoli
spettri spietati che irromperanno
nel cinguettio violinesco delle nostre commedie […][6].
Angelo Maria intuiva, e Guido Ceronetti notava: «Così un poeta manifesta la sua specifica utilità, di tempestivo annunciatore umano di sciagure»[7]. Aggiungiamo che, se le sciagure sono per lo più opere del destino, le crisi della civiltà conferiscono responsabilità precise.
Testimonianze
Ho conosciuto Angelo Maria Ripellino a Praga nel 1969, alla presentazione di Una notte con Amleto di Holan al teatro di poesia Viola. Sul piccolo palcoscenico si alternavano nella lettura Ripellino e il grande attore Radovan Lukavský. Impossibile dimenticare quella serata per la sua bellezza, struggente e solenne. Non immaginavamo che questo potesse essere l’ultimo soggiorno di Ripellino a Praga: la sublime poesia sembrava immortale. La sapeva più lunga di noi Vladimír Holan, rimasto a qualche centinaio di metri da lì, dall’altra parte della Vltava, nella sua casa di Kampa, che da vent’anni non abbandonava. Alla storica “caduta del muro” mancavano vent’anni.
Le Parche avrebbero dovuto allungare la vita del giovane poeta, scrittore, docente, traduttore e personaggio di teatro di almeno dodici anni, perché potesse ritornare alla città amata. Forse hanno considerato, le Parche, che, in cinquantaquattro anni, Angelo Maria avesse già creato e donato una quantità di frutti più che abbondante, non per una sola vita laboriosa, ma almeno per quattro. O, invece, volevano risparmiargli il dolore dell’evoluzione antipoetica della sua sede accademica.
Negli anni del suo intenso lavoro, gli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta, l’Europa era divisa, scissa in due emisferi. Lobotomizzata: Est/Ovest. Ripellino era uno dei pochi a conoscere la cultura europea nella sua completezza e unità. Era uno dei pochissimi ad avere cognizione e sensibilità riguardo alla distruzione culturale perpetrata nell’Est, nella parte sovietica e in quella cecoslovacca, e non solo. Era ben informato e libero da aggiustamenti ideologici di ogni genere, aveva molti amici poeti e artisti nel mondo appartato oltre la cortina. Non poteva non essere viva in lui nemmeno la memoria della guerra e non potevano mancare nel suo ricchissimo corredo culturale gli avvertimenti riguardanti la crisi della civiltà europea lanciati già nel periodo tra le due guerre dalle avanguardie, da un lato, e, dall’altro, dai grandi scrittori dell’Europa centrale: Kafka, Musil, Broch, Hašek, Gombrowicz.
Con partecipazione e coscienza, egli seguiva gli eventi culturali ma anche le crisi attuali, e non solo quella della Praga invasa da carri armati russi, ma anche per esempio quella della Grecia sopraffatta da colonnelli. “Un calvario su ogni pagina”, dice Ripellino; «Una vera esplosione di mitologie note e ignote», chiosa Ceronetti[8].
I versi che gettano luce sull’attuale malattia sociale sono per lo più gli stessi di quelli che parlano della propria malattia, della prigionia alla Fortezza d’Alvernia, ossia dell’ospedale di Dobříš. Esprimono un’angosciata brama di vivere, non nascondono la paura. Allo stesso tempo, però, mettono in gioco la sterminata ricchezza culturale dell’autore, diventando veicoli di un’autentica vitalità.
Così, La fortezza d’Alvernia, Le notizie dal diluvio e Sinfonietta[9] restituiscono immagini legate all’«infernale contabilità della storia»[10], rendendo presente, anche se non direttamente visibile, un mostro famelico che divora corpi, anche umani: prima di tutto, il proprio. Una forza distruttiva che fa ammuffire, rotolare, dissolvere, sbriciolare oggetti, piante e persino fenomeni naturali. La malattia “imputridisce” perfino la notte; sfilano oscure «vecchiarone e beghine e bertucce […]»[11] e «streghe»[12]. Nelle vie di città dove i «[…] lampioni hanno il volto esangue di Cristo,»[13] e dove «un pugnale di luce trafigge il costato»[14]. Cortei di figure grottesche, straziate, deformi e buffe sfilano instancabili: «[…] un rotolare di maschere, / di cere demoniche e bianchi musi di gesso»[15]. Tra i «laceri monti di ghisa distorta»[16] il poeta non si fa perdere nemmeno lo spettacolo di una «Tresca buccolica»[17]. La sua diagnosi suona così: «nerissima inòpia»[18].
Sopraffatto dalla derelizione, il poeta si ritrova tra gli «oppressi dalla menzogna, dai compromessi»[19], se non direttamente tra quelli che finiscono «messi alla gogna»[20]. Piazzata forse giusto all’ingresso di «un circo trascendentale»[21]. Il mio è un caleidoscopio di frammenti che, in un modo o nell’altro, connotano la crisi. Forse fa pensare a qualche folle film d’orrore della fine del Novecento, a una specie del “giorno dopo” ma non americano bensì europeo, con tanti particolari in cui riconosciamo schegge della grande cultura europea.
Occorre notare che, in mezzo ai paesaggi fatti di rottami, di scheletri e di morti vivi, Ripellino non ha mai perso l’orientamento. Al momento giusto decise di porre domande lucide e dirette:
Chi agisce dietro le quinte? Chi manovra le catastrofi?
Chi corrode le corde? Chi custodisce il bestiame?
Chi ci sbalestra nel fango? Chi si diverte a inventare
il cubismo dei crolli e disastri? Da secoli e secoli
sempre lui, sempre lui, sempre lui,
calmo, inesausto, ligio agli orari, inappuntabile[22].
Di una lucidità ancora più penetrante e coraggiosa testimonia il poeta quando dichiara che nemmeno la poesia basta come riscatto:
Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi
mandano ancora in prigione per divergenza ideologica?
[…]
Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi
immergono gli innocenti in vasche di sterco e di urina
e con cachinni di iena, con frigide smorfie da volpe
dànno agli oppressi giusquíamo e scopolamina,
perché inventino le proprie colpe?[23]
A questo punto sottolineo un gesto paradossale nella poesia di Ripellino: da un lato, la consapevolezza dell’arrivo di un termine, di una fine, di un imminente Diluvio; dall’altro, un’energia degna di una nuova creazione. L’amore per il circo, per il triste arlecchino, per i clown e per i vecchi teatri di periferia costituisce un centro magico tra quello che inevitabilmente dovrà sparire e quello che possiamo creare nuovamente:
Nella mia tristezza entravano masnade
di pierrots, di pagliacci, di stracci sgargianti
ma soprattutto ragazze dal muso di topo,
argentee donnine di pasta lunare,
gentiluzze con occhi come bragia di fuoco,
desiderabili, desiderabili.
[…][24].
Quel che conta e che vive è l’energia che fa sorgere, rinascere, agire. Sarebbe esatto chiamarla poiesis: è la sola, fra tutte le facoltà, che gli dei donarono all’uomo come possibilità di creazione vera, sovrana e libera. Ricordiamoci che la poiesis è il primo obiettivo da distruggere quando si vuole annientare una cultura, una civiltà, una società umana.
Il trucco e l’anima della poesia
Il trucco – e pure l’anima – della poesia di Ripellino si manifestano nel rivelare verità viventi nel nostro mondo spirituale: immagini, spettacoli, eventi lontani nel tempo, personaggi, cose avvenute o solo pensate, immaginate. Di quella stessa vita vive anche la città dell’anima di Angelo Maria, la Praga magica[25]. Se non ci fosse, se non esistesse davvero nell’anima e nello spirito la poesis, e dunque la magia, lo svuotamento della cultura sarebbe ormai completo.
Oltre a tutti i suoi talenti, Ripellino possedeva la qualità, nobile e preziosa, dell’entusiasmo. In quello consisteva il segreto del suo insegnamento magico. La mia collaborazione universitaria con lui durò, purtroppo, poco più di tre anni: ma furono davvero magici.
Nel corso degli anni successivi, dedicati all’università, ho pensato molte volte a quel maestro (grande, spontaneo e sempre vicino agli amici e ai collaboratori) e spesso constatavo perplessa di non poterlo più immaginare lì. Non ce l’avrebbe fatta a resistere nelle maglie della burocrazia computerizzata: ne sarebbe stato semplicemente espulso. La sua arte di calligrafia colorata ora sarebbe considerata un nonsense, la sua poesia un nulla in confronto al perfetto e con precisione calcolato pensiero binario. Ed egli lo presentiva: «Tra due-trecento anni… Perché, scusatemi, posteri, che freddo, / che vitreo deserto, che uniformità / che sbaragli / soffiano da quel futuro…»[26]. Avendo situato la visione così lontana nel tempo, inaspettatamente il poeta ci si presenta persino ottimista.
Un aneddoto significativo
L’evento più significativo, emblematico, drammatico e indimenticabile per il suo enorme valore simbolico me lo ha raccontato, da testimone diretto, una delle sue allieve più congeniali. Siamo all’inizio degli anni Settanta, o forse ancora agli anni ’68-69. A quell’epoca la Facoltà di Lettere esibiva uno dei due volti del male, quello brutale: vandaliche devastazioni, muri rotti, biblioteche rovinate, atti violenti in nome di ideali tanto alti quanto astratti. Il Dipartimento di Studi Slavi, diviso dal resto con una fragile parete di vetro, appariva miracolosamente armonioso, ricco di libri, dotato di modesti studi e improvvisate aulette. Un mondo a sé stante. La parte finale del corridoio serviva da aula principale ed era abilitata a trasformarsi all’occorrenza in uno spazio teatrale. Il Professore, leggendo Holan o Chlebnikov, la mutava in magico palcoscenico.
Un tardo pomeriggio, mentre si stava svolgendo una lezione, alla porta di vetro bussò il capo di una delle squadre di “lotta proletaria”. Elegante come sempre, vestito di una camicia bianchissima sotto il completo scuro impeccabile, il Professore aprì la porta. I rivoluzionari, presi forse di sorpresa alla vista dell’elegante signore e delle file di sedie occupate fino all’ultima dagli studenti, si fermarono alla porta. “Chi siete, cosa fate?” domandarono. Pronto e chiaro, Ripellino rispose recitando una specie di riassunto degli slogan “rivoluzionari” con cui la violenza s’impegnava a tramutarsi in giustizia sociale. Disse pressappoco così: “Noi siamo i morti immersi nella retrograda e putrida cultura del passato, nella poesia, nell’arte…”.
Immagino la scena: gli studenti paralizzati, qualche secondo di silenzio di tomba. Ci si potrebbe chiedere se Angelo Maria Ripellino avesse avuto paura in quei momenti, o invece voglia di ridere. Personalmente credo che avesse semplicemente un’ispirazione poetica, spettacolare e inconfondibilmente sua. La scena non aveva nulla da invidiare a quelle delle sue poesie, della Praga magica o del teatro dell’assurdo. Un vero poeta resta poeta in ogni situazione che la vita gli presenta.
La squadra, spaesata e interdetta, indietreggiò. La distruzione dell’Istituto di Filologia Slava, della sua biblioteca, dei quadri e di altre cose di valore non ha avuto luogo. Sembra che, alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, quello sia stato l’unico istituto a non aver subito devastazioni, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. E, per chi non può ricordare, aggiungo che tra gli aggrediti ci sono stati anche dei docenti, in quei giorni.
Ci vuole genio, talento, presenza di spirito e un grande coraggio per trasfigurare un evento di quel genere in spettacolo rivelatore. Ci vuole un’etica senza compromessi. E la magia della poesia vivente. Sì:
Poesia, sii sana e feconda.
Poesia, non morire
Nell’accigliata baraonda…
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 60, in Id., Sinfonietta, Torino, Einaudi, 1972, p. 74 (si legge anche in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, p. 78). ↑
- A. M. Ripellino, Scontraffatte chimere, a cura di G. Spagnoletti, Roma, Pellicanolibri, 1987, p. 13. ↑
- Ivi, p. 102. ↑
- Ivi, p. 76. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 60, in Id., Sinfonietta cit., p. 74 (si legge anche in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 78, ultimi due versi). ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 3, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 17. ↑
- G. Ceronetti, Ripellino poeta, in «Paragone», 1971, n. 252, p. 15. ↑
- Ivi, p. 21. ↑
- Le citazioni del collage che segue provengono da Sinfonietta (ed. Einaudi 1972 cit.), la quale raccoglie anche le poesie di Notizie dal Diluvio. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 3, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 17. ↑
- A. M. Ripellino, Sinfonietta, 17, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 121. ↑
- Ibidem. ↑
- A. M. Ripellino, Sinfonietta, ed. Einaudi 1972 cit., p. 13 (si legge anche in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 3, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 17). ↑
- Ibidem. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 30, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 44. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 31, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, ura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, op. cit., p. 45. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 10, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, op. cit., p. 24. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 75, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, op. cit., p. 93. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 31, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 45. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 31, in Id., Sinfonietta cit., p. 41 (si legge anche in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 45, ultimi 6 versi). ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, 66, ed. Einaudi 1972 cit., p. 80 (si legge anche in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, ed. Einaudi 2007, p. 84, vv. 1-2, 17-21). ↑
- A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, Torino, Einaudi, 1976, p. 43 (si legge anche in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., n. 39, p. 239, primi 6 versi). ↑
- A. M. Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1973, I ed. ↑
- A. M. Ripellino, Sinfonietta, 60, ed. Einaudi 1972 cit., p. 74. ↑
(fasc. 50, 31 dicembre 2023)