Lasciamoci il futuro alle spalle. La concezione del tempo fra antichi e contemporanei

Author di Salvatore Alessandro Scibetta

at ego in tempora dissilui,
quorum ordinem nescio, et tumultuosis
varietatibus dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae[1]

Passato, futuro ed eterno presente

Cosa ci rende diversi dagli antichi, dagli antichi greci e romani di cui ci diciamo eredi? Quanto le nostre concezioni e la nostra Weltanshaung risultano in linea con quelle espresse dal corpus di testi della filologia classica? Quanto le nostre abitudini culturali risultano direttamente legate al nostro passato classico? Quanto di quel passato sopravvive in noi, nella nostra cultura? La questione è annosa, ma certamente non risolta. Da un lato, assistiamo, e abbiamo assistito in passato, a utilizzi strumentali di valori e tratti culturali spesso facilmente attribuiti al passato, al “nostro” passato, per dar forza e supporto ideologico a concezioni e orientamenti socio-politici tutti contemporanei. L’affannosa ricerca di identità a cui ci costringe il nostro presente liquido rischia di farci frettolosamente ripescare dal passato presunte verità delle quali servirci per asseverare le nostre. Dall’altro lato, la questione oggi rischia di rimanere definitivamente irrisolta: nel presente post-moderno in cui viviamo, la perdita di ogni storicismo ci dà l’illusione, sempre più accettata come vera soprattutto dalle nuove generazioni, di vivere in un eterno presente[2] nel quale non c’è spazio per una riflessione sul futuro, del resto sempre più enigmatico e foriero di presagi negativi, né tantomeno sul passato, sempre più noioso e demodé.

Rilanciare ora tale questione ha un duplice scopo. Uno specialistico, indirizzato primariamente agli studiosi di cultura classica, e uno più generale, a beneficio degli umanisti tutti e soprattutto, mi auguro, degli studenti dei nostri licei e delle nostre università. Il primo servirà a consolidare quel senso di distanza che il filologo classico deve mantenere dal proprio oggetto di studi per poter formulare nel modo più oggettivo possibile le sue ipotesi e verificare le sue tesi. Il secondo mira a far fare esperienza di “alterità culturale”[3] tramite un confronto motivato della nostra con le culture del passato. Questa esperienza, qualora il mio contributo riuscisse nel suo intento, avrebbe poi come scopo ultimo e positivo quello di far prendere consapevolezza della relatività di alcuni tratti salienti della nostra contemporaneità. Ciò nella prospettiva di un auspicato cambiamento che permetta all’Occidente e alla sua cultura di sopravvivere a se stesso e alle sfide globali alle quali è chiamato.

Un buon punto di partenza per approcciarsi alla questione consiste, secondo il mio parere, nel riflettere sulla concezione del tempo. Il mio contributo prenderà quindi le mosse da un’analisi linguistica delle espressioni latine che servivano agli antichi per orientarsi nel tempo[4]. Dall’analisi dovrebbe emergere la particolarità della concezione del tempo presso i latini, sulla base della quale potremo, poi, effettuare un raffronto con la nostra. Ho deciso di limitare la questione alla sola cultura latina per ovvi motivi di spazio, da un lato, e, dall’altro, per sfatare con più effetto la presunta continuità culturale di noi europei con l’eredità culturale latina. La vicinanza linguistica tra “noi” e “loro” in qualche modo ci aiuterà a rimanere più stupefatti di quanta distanza ci sia tra il loro modo di pensare e il nostro.

Post e ante: dallo spazio al tempo

Cominciamo nel modo più semplice possibile, dall’analisi del valore di due delle più frequenti determinazioni temporali latine: post e ante. Attestati con alta frequenza in tutto il corpus della letteratura latina, da quella arcaica alla tardo-imperiale, i due termini sono usati come avverbio[5] o come preposizione; in entrambi i casi mantengono lo stesso significato. Questo mostra un’alternanza tra un valore spaziale e uno temporale.

Spazio Tempo
post dietro dopo
ante davanti prima

Partiamo dal loro significato spaziale. Le due parole organizzano lo spazio secondo un asse davanti/dietro, sia in modo assoluto (in relazione cioè a chi parla) sia in modo relativo (nella relazione fra oggetti, fatti o persone). Il significato spaziale dei due termini risulta particolarmente familiare a noi, parlanti una delle lingue neolatine più vicine alla lingua madre. Il ricordo di una coppia di aggettivi quale “posteriore/anteriore’”, considerati appunto nella loro accezione spaziale e nella loro chiara etimologia, ci conforta in questo senso.

Nessuna difficoltà ci crea, poi, il significato temporale, che organizza la temporalità secondo un asse dopo/prima, anche in questo caso assoluto (rispetto al presente) o relativo (nella relazione fra diversi eventi collocati nel tempo passato o futuro). La stessa coppia di aggettivi italiani “posteriore/anteriore”, nel loro senso temporale, ci conforta ancora una volta della continuità linguistica che gli esiti etimologici dei due termini hanno nella nostra lingua. A questi si aggiungano i sostantivi “posteri” e “antenati”, che nel nostro linguaggio individuano in modo univoco coloro che sono nati dopo e prima di noi, abitanti del presente.

A questo punto è utile, al fine del discorso che voglio condurre, chiedersi quale relazione intercorra tra il valore spaziale e temporale di post e ante. Accettando, con le dovute cautele, il principio del determinismo linguistico[6] secondo il quale le strutture del linguaggio riflettono la percezione cognitiva che una comunità di parlanti ha del mondo, ci rendiamo conto di quale sia l’importanza della riflessione che stiamo conducendo. Il fatto che, per orientare nel tempo eventi e accadimenti, i latini utilizzino una metafora spaziale[7] così netta ci deve per forza dire qualcosa sulla loro percezione cognitiva del tempo, ci deve per forza illuminare sulla metafisica che prelude la loro visione della realtà[8].

È bene chiarire in che senso intenda che le determinazioni temporali latine sono delle metafore spaziali. Chi ci assicura, si potrebbe obiettare, che le cose non stiano viceversa, che cioè post e ante abbiano un valore prettamente temporale prestato poi all’orientamento cognitivo spaziale? La risposta ci viene dalla psicologia dell’età evolutiva, la quale ci insegna come, nella formazione delle categorie cognitive, il bambino sviluppi primariamente le nozioni di spazio e solo in seguito quelle di tempo[9]. Ora, dando per buona la relazione tra ontogenesi cognitiva dell’individuo e filogenesi del linguaggio umano, è facile supporre come nell’evoluzione del linguaggio le determinazioni di spazio si siano potute manifestare con una certa precedenza rispetto a quelle di tempo. Una precedenza che giustificherebbe l’utilizzo da parte dei nostri antenati di coordinate linguistiche spaziali per dare voce a un orientamento temporale[10].

Tornando, quindi, ai nostri latini, ci accorgiamo del fatto che, a partire da un hic et nunc nel quale ancora una volta è persistente l’idea di tempo definito mediante una metafora spaziale (hic vale in ‘in questo luogo, qui’ ma anche ‘ora, in questo momento’), si diramano due direzioni temporali nette: l’una che va indietro e definisce la posteriorità di un evento rispetto al presente del parlante o rispetto a un altro evento; l’altra che va in avanti e definisce l’anteriorità di un evento rispetto al presente del parlante o rispetto a un altro evento. In altre parole, ciò che viene dopo nel tempo trova una collocazione nella sfera semantica del “dietro”, ciò che viene prima si colloca nel “davanti”. Insomma, per i latini il futuro è qualcosa che sta dietro chi parla, mentre il passato gli si pone davanti; non solo, nel mettere in ordine temporale degli eventi, quelli più recenti vengono collocati dietro quelli più remoti. La cosa dovrebbe provocare adesso un certo disorientamento a noi moderni, così convinti della linearità progressiva di un tempo che ci sospinge in avanti verso un futuro di prosperità e abbondanza tecnologica[11]. Ma, al momento, teniamoci questo vago senso di confusione, di disagio percettivo e continuiamo a indagare, a cercare di stanare i presupposti metafisici della Weltanschaung degli antichi latini in relazione al tempo. Vediamo, dunque, quali espressioni usavano i nostri per riferirsi al futuro e al passato e tentiamo di metterle in relazione con quanto emerso sul significato delle determinazioni post e ante.

Partendo dal passato, notiamo anzitutto come i latini non posseggano un sostantivo che indichi l’asse temporale dell’anteriorità, un termine unico col quale si riferiscano a tutto ciò che è stato ante. A questo scopo usavano il sostantivo tempus, a volte sottointeso, connotato da una parte aggettivale. La maggiore frequenza nei testi spetta a praeteritum tempus, in cui è il participio passato del verbo praetereo a venir aggettivato per indicare quella parte del tempo che è letteralmente ‘passata oltre’.

Se ci pensiamo bene, anche per noi il “passato” è proprio una porzione di tempo che ha subito un “passaggio”, che è oggetto di uno “spostamento” indicato anche per noi dal participio passato di un verbo di movimento: “passare”. Ora, i latini utilizzano il verbo eo, che di suo indica movimento, ma connotano questo movimento del tempo in un senso chiaro con il preverbo praeter- che indica con evidenza un movimento in avanti. Il tempus praeteritum è, quindi, il tempo passato nel senso che è ‘andato oltre’, ‘in avanti’, che ci ha “oltrepassato”, staccandosi in avanti e lasciandoci indietro.

La corrispondenza con il significato di ante è in pieno confermata, e confermata ne risulta la concezione antica di un passato che ci sta davanti. Più semplice risulta cogliere la stessa impostazione cognitiva nelle altre espressioni che i latini usavano per riferirsi al tempo che fu, meno frequenti ma significative per il discorso che stiamo facendo. Una di queste, generalmente usata al plurale, accosta a tempus l’aggettivo antiquus. Gli antiqua tempora, i ‘tempi antichi’, rivelano la loro collocazione nell’asse dell’anteriorità (in senso sia temporale sia spaziale) nell’etimologia chiaramente connessa ad ante. Antiquus è qualcosa che sta davanti, che viene prima nel senso che ci precede, anche in termini di importanza. Così è per il sostantivo antiquitas, frutto di un processo di astrazione sull’aggettivo, che indica tutto quel complesso di cose che rappresentano, anche moralmente, ciò che ci sta dinnanzi, ci guida e ci fa da esempio[12].

Per quanto riguarda il futuro, invece, i latini facevano ricorso a tre aggettivi, posterus, reliquus e futurus, che connotano il sostantivo tempus, anche sottointeso, o si sostantivano al neutro. Per quanto riguarda posterus, non penso sia necessario notare altro se non il chiaro riferimento etimologico a post. Il tempus posterum è letteralmente ‘il tempo che sta dietro’ e il futuro, il posterum, è appunto ‘ciò che è dietro’. Interessante, poi, l’esito del maschile plurale sostantivato posteri, letteralmente ‘quelli che sono dietro’, di cui parleremo avanti. Su tempus reliquum non vorrei soffermarmi di più, essendo un’espressione che fa uso del participio passato di un verbo, relinquo, che significa letteralmente ‘lascio indietro’ (il prefisso re- vale appunto ‘indietro’ ma anche ‘di nuovo’). Il tempo ‘lasciato dietro’, il tempo ‘che resta’ è ancora etimologicamente avvertito come posto dietro e quindi in piena coerenza con l’idea di posteriorità che ruota intorno all’avverbio post.

Un discorso particolare si deve fare per tempus futurum. Qui la determinazione temporale è affidata al participio del verbo sum, con un procedimento semantico estraneo a quello delle espressioni fin qui analizzate. La locuzione risulta, infatti, scevra da alcuna determinazione spaziale e vale appunto ‘il tempo che sarà’, così come futurum vale appunto ‘ciò che sarà’. Qui è da rilevare un’interessante differenza nell’uso della locuzione in posterum e in futurum, che ci aiuterà a collocare l’espressione tempus futurum un po’ a latere rispetto al nostro discorso.

Prendiamo due passi esemplificativi dall’opera di Tito Livio in cui entrambe le locuzioni sono utilizzate in contesti nettamente differenziati:

satisque iam etiam in posterum uidebatur prouisum ne quid ab repentinis eorum excursionibus periculi foret[13].

nostra victoria est, milites, inquit, si quid di vatesque eorum in futurum vident[14].

Nel primo caso il contesto è caratterizzato da una dimensione molto pragmatica e la previsione che viene effettuata a proposito del futuro, espressa dalla finale negativa ne… foret, è ponderata sulla base delle azioni militari descritte nel testo che precede e condotte proprio con quel fine. Nel secondo caso, invece, viene chiamato in causa un futuro incerto, quale può essere l’esito di una battaglia imminente, come quella che i romani stavano per combattere contro i Volsci. Futuro talmente poco prevedibile che i romani decidono di trarre gli auspici. Gli àuguri presagiscono un buon esito e il comandante può rinserrare le fila dell’esercito, affermando di avere in pugno la vittoria, a condizione che gli dei e i loro vati abbiano visto giusto nel futuro.

L’analisi di passi consimili in altri autori parrebbe confermare un uso specifico del participio futuro di sum a caratterizzare un tempo futuro che non rientra nella sfera umana, nella quale è comunque possibile prevedere in una certa misura eventi, come conseguenze di azioni passate. Il tempus futurum rientra nella sfera del sacro, del divino, in quanto impossibile da decifrare per gli uomini, tempo sul quale solo gli dei e i loro vati possono azzardare qualcosa. Ciò apre interessanti questioni, che tuttavia non ho intenzione di trattare qui nel breve spazio di questo contributo. Al fine del discorso che stiamo facendo ci basti quanto messo in luce per tenere da parte la questione sul futurum e focalizzare l’attenzione su quanto la concezione del futuro fosse per i latini connessa con la metafora spaziale afferente al campo semantico di post.

Posteri e antenati: chi segue chi?

Quindi per i latini, almeno a giudicare da un’analisi linguistica ed etimologica, il futuro si pone nell’asse spaziale della posteriorità e il passato in quello dell’anteriorità. Se le cose stanno così e accettiamo le premesse del nostro discorso, la Weltanschaung dei latini dovrebbe risultare coerente con una tale impostazione del loro linguaggio. Cerchiamo, allora, nella cultura romana antica, nella sua antropologia, qualcosa che ci dia conferma della vitalità in essa di tali premesse metafisiche. Troveremo ciò che cerchiamo nell’antica morale ed etica romana, quella del cosiddetto mos maiorum. Questa, tra le altre cose, prescriveva a ogni buon cittadino, da una parte, un rapporto molto particolare con i propri morti; dall’altra, un impegno decisivo nei confronti dei propri successori.

Partiamo dal rapporto che gli antichi romani intrattenevano tradizionalmente con i propri antenati, e facciamolo partendo dalle parole che i latini usavano. I progenitori, gli avi, in latino sono detti maiores, letteralmente ‘quelli che sono più importanti’, essendo il termine un plurale maschile sostantivato del comparativo di magnus. Non c’è bisogno qui di soffermarsi più di tanto sull’importanza sociale e culturale che rivestono i maiores all’interno dell’orizzonte antropologico romano, in particolare arcaico e repubblicano. Le fonti ci restituiscono con pregnanza l’assoluta preminenza della riflessione latina sugli antenati, considerati come punto di riferimento etico-morale assoluto. Il termine ci conferma etimologicamente questa impostazione di pensiero che fa degli avi appunto coloro ‘che valgono di più’.

Il latino tardo sviluppa poi un altro termine, a noi davvero familiare, antenatus, sicuramente a partire da espressioni che affiorano nelle fonti tardo-repubblicane[15] e che oppongono appunto all’idea di coloro che postea nascentur l’idea degli avi come ante nati. Gli antenati, quindi, sono coloro che stanno ante, sia in senso temporale che in termini di importanza etico-morale, essendo maiores appunto. Lo stesso concetto di preminenza si trova nei già ricordati antiquus e antiquitas. Tutto ciò che viene prima nel tempo, quindi, viene “prima” anche in termini di importanza, e di ciò abbiamo un’altra conferma nell’alto valore che i latini attribuiscono agli antenati, che si pongono quindi come guida del vivere civile[16].

Se gli antenati sono degli esempi da seguire, è perché la cultura latina attribuisce loro una preminenza morale e una temporale che ne sottende una spaziale. Tutto ciò che è più importante sta davanti, viene posto prima. Gli avi stanno davanti in senso spaziale, vengono prima di noi nel senso che ci precedono e noi seguiamo le loro orme, attribuendo loro il compito di guidarci. Questa anteriorità spaziale dei progenitori si può rintracciare in modo significativo nella nota pratica funeraria, riservata inizialmente solo ai patrizi (e ciò a conferma dell’estrema importanza che rivestiva il culto dei propri antenati), riguardante l’esposizione pubblica dei calchi di cera dei volti degli antenati illustri, membri della classe senatoria[17]. Ciò aveva il senso di testimoniare l’antichità della discendenza e di contrapporre appunto i patrizi agli homines novi, i quali non potevano vantare avi appartenuti alla classe dirigente romana.

Le imagines maiorum sono quindi esposte, messe in vista, in un davanti spaziale che è funzionale ad attribuire loro l’importanza che meritano. I propri antenati vanno posti davanti, proprio in senso spaziale, perché, tramite il nostro porci a seguito loro, traiamo dalla loro preminenza l’importanza sociale che ci spetta. Questa visione risulta significativa ai fini del nostro discorso: il passato per la mentalità latina è sempre davanti gli occhi di chi vive nel presente, anche nella fisicità dell’immagine realistica di una maschera di cera, e si conferma quindi come preminente, anteposto non solo in senso etimologico, ma anche morale, sociale e culturale. Su questo il confronto con noi contemporanei sarà particolarmente istruttivo.

Il discorso che dobbiamo fare sui successori, su coloro che nasceranno dopo, è in qualche modo speculare a quello appena fatto sugli antenati. I latini in questo caso fanno uso dello stesso aggettivo posterus che abbiamo analizzato sopra, sostantivato al maschile plurale. I posteri sono inequivocabilmente ‘quelli di dopo’, ‘quelli di dietro’. Nella mentalità romana tutta orientata alla preminenza del passato e della sua autorità sul presente, i posteri risultano giustamente venire dopo, collocati in una posizione di subalternità che li rende o semplici spettatori degli errori del presente[18] o futuri imitatori degli esempi del passato[19]. A loro spetterà l’ardua sentenza, come si dice, perché sono loro che, venendo dopo, seguendoci alle spalle, saranno in grado di guardarci, come noi guardiamo i nostri antenati, e giudicarci degni di essere considerati degli esempi o meritevoli di oblio.

La questione della memoria che si lascerà di sé presso i posteri, tema presente in modo prepotente nelle fonti, è anch’essa in qualche modo rivolta al passato. Nel senso che la preoccupazione per ciò che i nostri successori penseranno di noi, secondo i latini, non corrisponde a un’ansia di precorrere il tempo in avanti, ma ad una consapevolezza dell’inevitabile giudizio al quale i posteri ci sottoporranno. Questo giudizio inevitabile è lo stesso che chi vive nel presente applica guardando avanti al proprio passato, ponendo davanti a sé gli esempi illustri, ispirandosi ai quali sente la necessità morale ed etica di diventare tale per coloro che seguiranno. L’attenzione rivolta ai posteri, insomma, scaturisce di nuovo da un’alta considerazione del passato, da una preminenza di questo sull’asse temporale del futuro, che, in quanto posteriore, non può far altro che seguire noi, divenuti ormai passato.

È la questione dell’exemplum, della condotta esemplare del vir romanus che esplica tutta la sua moralità e la sua eticità nel confronto costante con gli esempi del passato, nella consapevolezza di poter sopravvivere al proprio tempo solo divenendo esso stesso exemplum per i posteri[20]. Questi non potranno disinteressarsi, in quanto dovranno necessariamente confrontarsi col loro passato, essendo questo l’unico orizzonte di riferimento certo che l’uomo possieda sulla terra. In cielo gli dei, come già detto, possono tentare di indovinare le cose future e tramite i loro vati comunicarle, nei modi ambigui della profezia e del vaticinio, agli uomini. Dinnanzi a questi c’è solo ciò che si è manifestato ante ed è a questo che essi si rivolgono per orientarsi con una qualche certezza nel presente.

Emerge, quindi, una grande consapevolezza da parte dei latini di un tempo passato posto innanzi a guida, a riferimento dell’agire umano, ad exemplum appunto per i posteri, per chi verrà dietro dal futuro, potremmo dire. Questa consapevolezza, che di nuovo risulta coerente con il sitema linguistico e semantico che la esprime, offre poi un’interessante prospettiva in grado di spiegare l’alto valore sociale e culturale attribuito dai romani al suicidio. La morte esemplare, il porre fine alla propria vita volontariamente, vengono intesi come esercizio di virtù morali ed etiche. L’esempio più noto e più antico ce lo riportano le fonti[21] a proposito di Publio Decio Mure, console nel 340 a. C. e protagonista di un estremo atto di eroismo. Nel corso della battaglia del Veseri che vede i Romani contrapposti ai Latini, in un momento di incertezza e di sbandamento delle fila romane, il console pone in atto una devotio, pratica religiosa che consisteva nel donarsi in sacrificio agli dei Mani per propiziare un esito favorevole della battaglia.

L’atto di devotio è antico ed è espressione di una religiosità arcaica al confine con la magia. Il fatto che questo suicidio esemplare venga compiuto all’interno di una cornice religiosa di questo tipo ce lo rende ancora più interessante. Publio Decio Mure si vota ai Mani, alle anime dei defunti, ed è solo ponendo loro nella sfera dell’anteriorità, come abbiamo visto, che assume senso il suo gesto. Il suo sacrificio, compiuto per tutto il popolo romano, lo pone in una dimensione di preminenza etico-morale presso i posteri. Egli stesso diventa exemplum da anteporre in situazioni simili nelle quali i posteri incorreranno. In questo senso l’esempio di Publio Decio Mure è paradigmatico di un’abitudine culturale al pensare la morte per suicidio come a un’espressione somma di virtù da imitare. Il figlio omonimo, infatti, del console, anch’egli console nel 295 a. C., nella battaglia del Sentino contro i Galli, invocando il nome del padre[22], compie lo stesso gesto, chiudendo il cerchio che dall’exemplum paterno porta al suo stesso divenirlo per i posteri.

Molti altri esempi di suicidi che le fonti antiche ritennero degni di essere ricordati potrebbero farsi: da quello illustre di Catone l’Uticense, che potremmo definire politico, alla lunga serie di suicidi riportati da Tacito nella narrazione del nefasto principato di Nerone, tra cui quello, potremmo dire filosofico, di Seneca e quello ormai di maniera di Petronio. Tutti esempi di come persista nella mentalità latina un’idea del fine vita orientata alla consapevolezza della preminenza che la propria vita, divenuta ormai passata, avrà agli occhi di chi resta o di chi verrà. Preminenza che si guadagna con il gesto esemplare di volgere le spalle al proprio futuro individuale, alla propria aspettativa di vita, per consegnarsi a un passato che verrà posto innanzi a guida delle generazioni future.

Da tutto ciò che abbiamo detto sin qui dovrebbe, quindi, emergere con chiarezza quanto il sistema linguistico con cui i romani descrivevano la loro idea di tempo fosse coerente con il loro assetto di valori morali, etici e sociali. Ciò almeno fino a un certo punto della storia di Roma, diciamo fino a quando quel sistema di valori resse all’impatto delle grandi trasformazioni a cui la società romana fu sottoposta a partire dalla conquista del Mediterraneo. Ma lo strato più profondo della cultura romana, quello legato alle sue forme di pensiero arcaico, alla sua antica sapienza, resta legato alla visione di un passato che si sviluppa in avanti e un futuro che resta dietro. Per rispondere, dunque, alla domanda che introduce questo paragrafo, possiamo dire che per i nostri latini gli antenati avanzano, sicuri del loro exemplum, verso un passato che si offre alla vista dei posteri: sono questi a seguire, venendo dietro dal futuro.

Il passato è alle spalle?

Proviamo adesso a fare un piccolo esperimento mentale che, se riuscirà, ci consentirà di fare un salto percettivo fuori dalla nostra concezione del tempo e di comprendere più a pieno quella appena descritta. Entriamo dentro una metafora e immaginiamo la nostra vita come un cammino. Noi camminiamo attraverso la nostra esistenza. Dentro la metafora ovviamente il nostro cammino sarà orientato al futuro. Andremo avanti, passo dopo passo, verso il futuro. Il passato, il nostro passato, ce lo stiamo lasciando alle spalle. Ritengo che tale metafora descriva in modo abbastanza chiaro la nostra visione del tempo e la percezione comune che abbiamo degli assi temporali, con un passato dietro e un futuro davanti.

Ma questa metafora risulta inadeguata a descrivere la concezione del tempo che i nostri antenati, dei quali ci professiamo eredi culturali, espressero attraverso il loro linguaggio e che percepiamo ormai come opposta alla nostra.

Proviamo, dunque, ad uscire dalla metafora, con un procedimento simile a quello che serve per comprendere la relatività di Einstein. Adottando il punto di vista relativo dell’osservatore in metafora, vediamo il tempo scorrere come se fossimo noi a muoverci attraverso esso. Ma quando adottiamo un punto di vista più generale, ci accorgiamo che è il tempo a muoversi, a divenire, e noi restiamo fermi ad assistere e a subire questo svolgimento. Ciò comporta una vera e propria inversione della metafora che possiamo utilizzare per descrivere la nostra esistenza. La vita non è un cammino attraverso il tempo; la vita è un essere attraversati dal tempo. In questa nuova visione il passato non è più alle spalle, ma si manifesta davanti a noi osservatori esplicandosi in fatti di realtà. Il futuro nel suo essere probabile, non realizzato, sgorga da un abisso inosservato, da un dietro che rimane oscuro e che man mano si dispiega davanti a noi in un passato che lascia sensazioni e ricordi.

Come quando, su un treno fermo alla stazione, un osservatore seduto al finestrino vede muoversi un altro treno sul binario accanto e ne ricava l’impressione del movimento del mezzo su cui si trova, così l’uomo (moderno), vedendo scorrere il tempo di fronte a lui, ne ha tratto l’impressione di muoversi in avanti attraverso esso. Quest’inganno percettivo è alla base della nostra visione del tempo ed è ciò che l’ha resa diametralmente opposta a quella degli antichi, i quali avevano visto bene e avevano organizzato in modo coerente il loro universo linguistico, collocando nella posteriorità il futuro e nell’anteriorità il passato, decretando di fatto una preminenza, una priorità del secondo sul primo.

Noi moderni, noi contemporanei, abbiamo fatto esattamente l’opposto, relegando il passato in secondo piano e proiettandoci in avanti verso un futuro guardato ormai a vista, decretando di fatto un’incoerenza insanabile tra la nostra cognizione del tempo e il linguaggio che la esprime. Incoerenza che determina lo sfasamento tra le determinazioni spaziali etimologicamente connesse agli avverbi latini post e ante, e le rispettive determinazioni temporali, sulle quali abbiamo applicato nuove metafore spaziali diametralmente opposte.

Ma quando è successo tutto questo? Quando il senso profondo del tempo, residuo di un’antica saggezza ancora presente nelle forme linguistiche e di pensiero dei latini, si è trasformato in questa visione antropocentrica dell’uomo che guarda in faccia il proprio futuro? Quando ci siamo lasciati il passato alle spalle? La risposta a queste domande meriterebbe una trattazione che una monografia non riuscirebbe a contenere: figuriamoci l’angusto spazio di questo contributo. Tenterò di offrire alcuni spunti di riflessione che possano aiutarci a impostare il discorso, aprendo a delle ipotesi interpretative piuttosto ampie e generali ma in qualche modo esplicative.

Partiamo dagli stessi latini e dalle fasi più tarde della repubblica, quando gli antichi valori e l’antica morale è seriamente messa in discussione dagli influssi culturali provenienti da Oriente. Le filosofie materialistiche e individualiste che nascono in seno al nuovo orizzonte culturale ellenistico da un lato spaventano i rappresentanti della classe dirigente romana, dall’altro fanno breccia nelle fervide menti di intellettuali più aperti e sensibili. Se ancora nel II secolo a. C. assistiamo alla cacciata dall’Urbe di filosofi greci come Carneade, nel I sec. l’Epicureismo e lo Stoicismo si fanno definitivamente strada all’interno del panorama culturale romano.

La mentalità fortemente collettivista del civis romanus, che caratterizza tutta la prima fase della storia repubblicana, a partire dal II sec. a. C. subisce un progressivo indebolimento a favore di concezioni esistenziali individualiste. Il protagonismo politico, così aspramente condannato ancora ai tempi di Scipione, nel I sec. a. C. esplode nelle lotte di potere che portano alle guerre civili e alla fine della stessa res pubblica. Emerge sempre più forte la personalità del singolo a scapito di una visione collettivista della società e l’antica morale che sosteneva quella visione si trasforma in un’adesione formale a riti e dettami religiosi. L’individuo romano è adesso in grado di percepire la propria dimensione esistenziale su un piano di autodeterminazione che lo porta a rapportarsi in modo nuovo al proprio destino.

Qui sta a mio parere un primo momento di svolta significativo che porta gli stessi romani, i romani della tarda repubblica e più ancora gli intellettuali che vivranno sotto il principato e in età imperiale, a percepire il tempo in modo diverso. All’antica concezione che pone il passato avanti e il futuro alle spalle si affianca una nuova visione in cui si comincia a percepire un’inversione delle metafore spaziali utilizzate per orientare il proprio stare nel tempo. Le fonti testimoniano in modo chiaro questo cambiamento: non a caso, a partire dal I sec. a. C. espressioni come providere/prospicere futurum, providere/prospicere in posterum[23], nelle quali è evidente l’idea sottesa dello sguardo che si proietta in avanti per indagare il futuro (il preverbo pro- vale ‘davanti’, ‘di fronte’), cominciano a essere utilizzate dai maggiori autori.

Di interesse particolare per questo discorso risulta, poi, la riflessione filosofica di Seneca, che porta la cultura romana a confrontarsi con un orizzonte etico ormai del tutto alieno da quello collettivista della società repubblicana. Alla metafora del futuro verso il quale ci si sporge in avanti[24] si accompagna quella del passato verso il quale si può guardare solo rivolgendosi indietro[25]. Le affermazioni di Seneca assumono un peso particolare se si pensa alla sua riflessione sul tempo, che permea in qualche modo tutta la sua opera. L’individuo posto a confronto con se stesso, nella sfida rappresentata dal controllo sulle sue passioni, elabora nuove maniere di rapportarsi con la propria interiorità e con ciò che percepisce, a partire dallo scorrere della vita stessa e quindi del tempo.

In seno alla stessa latinità, dunque, da un certo momento in poi, convivono due visioni del tempo: una antica, legata alle forme della saggezza arcaica e alla morale tradizionale, quella che vede il passato in una posizione di preminenza su un futuro che resta indietro e imperscrutabile; e una frutto di nuove tendenze culturali, spesso in conflitto con quelle tradizionali, che ribaltano l’ordine delle metafore spaziali dell’altra, senza però, c’è da dirlo, mettere in discussione la preminenza del passato sul futuro. La cultura ellenistica, quindi, apre la romanità a forme di pensiero individualista che mettono in discussione il collettivismo tipico della Roma arcaica e repubblicana e che lasciano spazio a una visione del sé più autonoma e in grado di confrontarsi faccia a faccia col proprio destino.

Determinante per l’abbandono della visione del tempo legata all’antica sapienza e alla morale tradizionale è poi l’avvento del Cristianesimo, che permea la società romana, a tutti i livelli sociali, minando dalle fondamenta la sua morale ‘pagana’. È noto come la cultura cristiana abbia elaborato una concezione molto strutturata del tempo, di cui fa parte la concezione lineare dello stesso che dalla creazione porta dritto alla fine dei tempi, all’apocalisse. Nella dialettica fra pensiero cristiano e pagano, in particolare a partire dalla riflessione di Agostino, la visione di tempo lineare in cui si esplica la storia dell’uomo, come espressione della volontà di Dio, si oppone alla concezione circolare, fallace e tipica del pensiero pagano. Il tempo cristiano, potremmo dire di concezione giudaico-cristiana, che si pone come ecumenico, portatore di verità rivelata, s’impone sulla dimensione temporale tipica del mondo greco-latino surclassandola, almeno a livello istituzionale[26]. Ciò contribuisce in modo netto all’affermazione di una visione del tempo proiettata decisamente in avanti, in un futuro che da un lato è ‘al di là’, attesa della salvezza, della vita eterna, dall’altro è certezza della futura fine dei tempi, del termine ultimo verso il quale inesorabilmente la storia dell’uomo avanza.

Un’altra suggestione utile a capire come noi contemporanei abbiamo acquisito quella dissonanza cognitiva che ci fa nominare la posterità con un termine che semanticamente ce la pone dietro, mentre la sentiamo tutta spostata in avanti, è la riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento. La grande riconciliazione tra pensiero religioso cristiano e cultura greco-latina, voluta fortemente e teorizzata da Erasmo, rilancia l’uomo rinascimentale verso un futuro di rinascita e di prospera ripresa delle dimenticate scienze antiche. Il passato viene reinterpretato alla luce di una nuova intensa forza vitale e culturale, e diviene un trampolino dal quale spiccare un salto in avanti nella storia. La massima homo faber fortunae suae condensa la nuova visione dell’uomo che si affaccia alla modernità, consapevole di sé, che affronta il suo destino ponendolo dinnanzi a se stesso, in una sfida con il fato che mette in discussione l’incertezza reverenziale del futuro tipica delle società arcaiche e tradizionali. Ed è forse questo il momento cruciale, il momento in cui l’uomo inaugura la fase storica della modernità, il momento in cui l’uomo moderno europeo abbandona la visione tradizionale del tempo, che aveva condiviso per millenni con tutte le altre civiltà apparse sulla terra, e di cui quella romana rappresenta una persistenza in ambito tardo-antico. Ha ragione Eliade quando dice che

La differenza principale tra l’uomo delle società arcaiche e tradizionali e l’uomo delle società moderne, fortemente segnato dal giudeo-cristianesimo, consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il cosmo e con i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente con la storia[27].

La folle corsa in avanti

E la storia ormai procede solo in un senso e quel senso è proprio dritto davanti a noi. Nessu dubbio in merito: nulla può incrinare questa certezza positiva. L’Illuminismo e il Positivismo danno all’uomo contemporaneo la certezza che la sua visione del tempo è inequivocabilmente reale. La stessa idea di progresso scientifico proietta l’umanità in avanti, sempre oltre se stessa, fino ai limiti dell’umano stesso, verso il cosidetto trans-umano. Siamo ormai entrati in una fase cruciale della nostra storia. Lo sviluppo tecnologico, strettamente intrecciato col progresso scientifico, ci ha portati a dominare il pianeta a tal punto da arrecarvi danni da molti considerati irreparabili. Ma l’incrollabile fede positivista ci spinge a pensare che sarà proprio lo sviluppo tecnologico a salvarci dai danni che esso stesso ha creato. Ciò forse oltre i limiti dell’umano appunto, oltre i limiti del nostro corpo biologico, oltre i limiti delle nostre menti individuali, in un abbandono speranzoso alla gestione dei problemi da parte delle intelligenze artificiali.

Abbiamo smesso di essere solidali col cosmo per divenire tuttuno con la storia, con l’idea positiva di storia che ci costringe a una folle corsa in avanti. Il nostro rapporto con i nostri antenati si affiovolisce e si esaurisce, da un lato, in una sterile retorica fatta di commemorazioni che si ripetono sempre uguali di anno in anno; dall’altro, in una commiserazione compassionevole del loro stato di arretratezza tecnologica. Abbiamo perso la consapevolezza antica, che ancora i nostri cugini romani sentivano operante nel loro liguaggio, riguardo al nostro essere immersi in un divenire che non ci consente altro orizzonte conoscitivo se non quello passato. Non seguiamo più i nostri antenati, né tantomeno ci sentiamo posteri, posti dietro a chi ci ha preceduto.

E di converso non consideriamo i posteri come coloro che verrano dietro di noi. Non ci sentiamo osservati dai nostri successori. Anzi, tendiamo a pensare che loro siano collocati già nel futuro, che siano ‘troppo avanti’, che non riusciamo a star loro dietro. In questa visione del mondo, diametralmente opposta a quella che abbiamo analizzato, rinunciamo a qualunque senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future. È come se, ponendo i posteri in avanti nel tempo, percependoli come avanzanti davanti a noi verso il futuro, smettessimo di preoccuparci dell’esempio che noi possiamo rappresentare per loro. Loro non ci vedono, non ci guardano le spalle come nella concezione antica. Siamo noi che li vediamo correre e ci sentiamo tristi per il fatto di non poter stare al loro passo.

Queste semplici considerazioni, se da un lato potrebbero apparire banali, dall’altro sono esplicative della grande crisi culturale e sociale nella quale si trova coinvolto oggi l’Occidente. Si continua a parlare ossessivamente di mancanza di educazione delle nuove generazioni ma non ci si preoccupa dell’esempio che le generazioni precedenti danno loro. Ci si stupisce dell’assenza di profondità storica degli alunni delle nostre scuole, ma non si coglie il senso profondo della trasformazione della nostra concezione del tempo. Ci affanniamo nella ricerca di resposabilità riguardo ai grandi danni ambientali che la tecnologia ha causato ma continuiamo ad affidarci a essa quotidianamente per rendere più confortevole il nostro presente, rimandando al domani, al futuro, alle nuove generazioni la soluzione ai problemi che noi abbiamo creato. Un senso di impunità si è impossesato dell’essere umano a partire dalla conquista della visione moderna del tempo: un senso di impunità nei confronti del mondo e delle persone che lo abiteranno. Una mancanza di responsabilità sociale, ambientale e generalmente umana che caratterizzano in modo, purtroppo, così pervasivo il nostro tempo.

È impietoso il quadro che ne emerge, soprattutto per noi che scriviamo, per noi che insegniamo, per noi umanisti che dovremmo rappresentare l’ultimo legame con il nostro passato culturale e quindi con quella Weltanschaung che è emersa dalla nostra analisi. Nostro, forse, il compito di mettere in risalto quanto relative siano la nostra visione del mondo, la nostra visione del tempo, la nostra fede nel progresso e nel futuro, nella speranza che l’uomo contemporaneo sia in grado di aprirsi a una riflessione profonda sulla sua dimensione temporale e magari a una revisione dei presupposti che ci hanno portato fin qui.

Ritorno al passato

In fondo era proprio questo l’intento del mio contributo: confrontare la nostra visione del mondo con quella antica, coglierne le differenze per relativizzare le nostre convinzioni. Ciò al fine di trovare spunti di riflessione utili ad affrontare le sfide della contemporaneità. Sfide che appaiono giorno dopo giorno sempre più decisive e inevitabili. Sfide alle quali dobbiamo provare a rispondere con l’apporto non solo delle scienze esatte e della tecnologia, ma con tutta la nostra umanità, tentando di recuperare il senso profondo del nostro posto nel mondo, delle nostre relazioni, della nostra cultura, attraverso la riattivazione di quelle forme di sapienza che rendevano la visione del mondo degli antichi una visione, se non più, altrettanto chiara e coerente della nostra[28].

Sia chiaro: non sto proponendo qui un ingenuo quanto inutile ritorno al passato. Propongo una riflessione sull’utilità di una riconnessione culturale con gli aspetti più profondi e arcaici del nostro essere umani, con quelle verità sapienziali che hanno guidato l’umanità fino alla soglie della modernità, per poi essere definitivamente ripudiate da un orizzonte epistemologico dominato esclusivamente dall’empirismo[29]. Nella convinzione che la filologia sia cosa viva e ricerca appassionata della verità[30], propongo qui di riconnettere il nostro sapere alle radici della sapienza antica, per farne cosa profondamente umana, al servizio degli uomini e della terra che abitiamo. E tale riconnessione è possibile solo se riusciamo a creare dei cortocircuiti cognitivi come quello che ho proposto in questo contributo, dei piccoli shock culturali che ci permettano da un lato di relativizzare le nostre convinzioni e dall’altro di riattivare convinzioni e visioni del mondo antiche.

Quando proposi ai miei alunni liceali l’impianto argomentativo che sta alla base di questo contributo, decisi di consolidare quel senso di dissonanza cognitiva che ero riuscito a ottenere mostrando loro questa immagine.

Dicendo loro che si trattava di Hubble, il telescopio spaziale lanciato in orbita nel 1990 e ancora attivo, chiesi loro se questo oggetto e la sua immagine rispondessero alla loro idea di “futuro”. Con entusiasmo mi risposero di sì. E nella stessa maniera risponderemo noi. Si tratta di uno dei prodotti più raffinati dell’ingegno umano, frutto del connubio fra scienza e tecnologia, il loro risultato più alto al servizio della conoscenza. Inoltre, nel suo riconnettersi idealmente al telescopio di Galileo, la sua immagine ci rimanda tutto il forte senso di conquista, da parte dell’uomo, dell’ignoto e dello spazio profondo. Questo oggetto, insomma, con i suoi pannelli solari ad alta efficienza, con il logo della NASA in evidenza, con la lucentezza dei suoi materiali resistenti al freddo spaziale e alle radiazioni solari, ci trasmette chiara l’idea di quale futuro ci aspetta. Un futuro di sempre nuova scoperta, un futuro in cui la tecnologia ci porterà a oltrepassare i limiti gravitazionali del nostro pianeta e magari del nostro sistema solare, un futuro di radiosa conquista dei misteri dell’universo, un futuro di ulteriore rinascita dell’umanità oltre le frontiere stesse dell’umanità. Avendo raccolto quest’idea positiva di ciò che si lascia prefigurare nelle nostre menti dopo la contemplazione di Hubble, ho mostrato ai miei alunni quest’altra immagine:

Si tratta di una delle più famose immagini riprese dal nostro telescopio spaziale nel corso della sua attività in orbita attorno alla terra, un’immagine di rara bellezza, di tale potenza evocativa da meritarsi il titolo di I pilastri della creazione. Ritrae, infatti, colonne di gas e polveri interstellari all’interno delle quali è nettamente riconoscibile, nei suoi vari stadi, il processo di nascita e formazione di nuove stelle. Queste nascenti stelle fanno parte di un ammasso ben più grande chiamato Nebulosa Aquila, che si stima trovarsi a una distanza dalla Terra di 7000 anni luce.

E a questo punto interviene il piccolo cortocircuito, il piccolo shock culturale che dovrebbe indurre anche il lettore a mettere in discussione quelle che pensava essere categorie immutabili del proprio orizzonte conoscitivo. L’immagine appena analizzata (cioè il frutto del lavoro della più avanzata ingegneria umana, lo stimolo a una conoscenza scientifica sempre più approfondita del nostro universo, il risultato massimo della tecnologia al servizio della scienza) altro non è che un’istantanea dal passato. La luce che il telescopio spaziale Hubble ha catturato con la sua potente ottica ha impiegato, inftti, ben 7000 anni luce per raggiungerci. L’immagine dei Pilastri della creazione è insomma letteralmente vecchia di 7000 anni. E allo stesso modo tutte le altre immagini che noi esseri umani siamo in grado di riprendere dallo spazio profondo, che utilizziamo la luce o altri raggi non visibili all’occhio umano, non sono altro che fantasmi provenienti dal passato dell’universo che ci circonda. Così fino al limite di circa 13,8 miliardi di anni luce, oltre i quali non è più possibile interrogare lo spazio interstellare visibile, per la semplice ragione che lo spazio e la luce non esistevano prima di quel limite.

Quel limite è anche il limite del nostro orizzonte conoscitivo riguardo all’universo. Non ci è dato, infatti, conoscere nulla di ciò che precede quello che la fisica contemporanea chiama Big Bang, se non per ipotesi non verificabili da alcuna osservazione. Il nostro orizzonte conoscitivo si esurirebbe, quindi, in un punto nel passato che è anche l’origine del tempo stesso. Tutto il nostro sforzo conoscitivo, tutto il nostro proiettarci in avanti alla scoperta dello spazio profondo forse non è altro che un affacciarci sul passato, un cogliere di quel passato indizi e prove di cosa ci ha portato fin qui, nel presente. Il cielo stellato sopra di noi, il simbolo stesso della conoscenza oggettiva esterna a noi, il campo di prova dell’uomo del futuro e delle sue future esplorazioni è il riflesso del passato dell’universo stesso, e forse è solo a questo passato che possiamo guardare per costruire la nostra conoscenza del cosmo.

Per quanto provocatorio possa apparire, questo punto di vista ha il vantaggio di costringerci a pensare a quanto il passato in realtà ci stia davanti. Il nostro orizzonte conoscitivo stesso, la nostra più elevata forma di conoscenza, quella cosmologica, è tutta rivota al passato e fa uso di indizi provenienti dal passato per costruirsi. Il passato, insomma, se nel nostro sentire comune è percepito come ormai dimenticato e lasciato indietro dalla nostra folle corsa in avanti, nei livelli epistemologici più elevati forse è ricollocabile in una sfera diversa, in un davanti che è appunto ricerca positiva di segni che ci aiutino a ricostruirlo. In questo senso astrofisica e filologia forse fanno la stessa cosa: si rivolgono alle manifestazioni del passato nel tentativo di ricostruirne il senso, per dare senso al nostro presente, nella consapevolezza che solo nell’osservazione del passato è data conoscenza.

Alla fine dei giochi sentiamo, quindi, la concezione del tempo degli antichi romani meno distante dalla nostra o, meglio, avvertiamo l’esigenza di mettere in discussione la nostra per recuperare qualcosa di quella. Ciò nella speranza che il riflesso di quell’antica sapienza che sapeva collocarci nel cosmo nella giusta maniera riesca ancora oggi a indirizzarci dalla ‟parte giusta” della Storia e del Tempo.

  1. Agostino, Confessiones XI, 29, 39.
  2. Cfr. il concetto di “presentismo” proposto da G. De Rita, A. Galdo, Prigionieri del presente, Torino, Einaudi, 2018.
  3. Cfr. M. Bettini, A cosa servono i Greci e i Romani, Torino, Einaudi, 2017, pp. 81-94.
  4. L’analisi più esaustiva in merito si trova in M. Bettini, Antropologia e cultura Romana. Parentela, tempo, immagini dell‘anima, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1986, pp. 128-202, alla quale rimando per ulteriori conferme delle premesse del mio discorso.
  5. Anche nelle sue varianti postea, antea, posthac, antehac.
  6. Cfr. E. Sapir, B. L. Whorf, Linguaggio e relatività, a cura di M. Carassai ed E. Crucianelli, Roma, Castelvecchi, 2017.
  7. Oltre che, naturalmente, il complesso sistema di paradigmi verbali e il suo apparato morfologico, per il quale si veda l’interessante contributo di M. Centanni Il cambio di paradigmi e di percezione dalle grammatiche classiche al nostro presente in Il senso ritrovato, a cura di E. László e P. M. Biava, Berlin, Springer, 2013. Sulla questione semantica legata al sitema verbale e al suo peso all’interno della filosofia del linguaggio si veda A. Bonomi, A. Zucchi, Tempo e Linguaggio, Milano, Mondadori, 2001.
  8. Cfr. B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, pp. 42 e sgg.
  9. Cfr. J. Piaget, Psicologia dell’intelligenza, Milano, Giunti, 2011.
  10. La linguistica considera comunque assodato il fatto che i sistemi di tempo e le sue determinazioni dipendono da una base semantica locativa. Cfr. ad esempio D. C. Bennet, Spatial and temporal use of English Preposition: an essay in stratificational semantics, Londra, Longmans Group, 1975.
  11. Lo stesso senso di disorientamento che provai io, da studente universitario, quando il prof. Salvatore Nicosia all’Università degli Studi di Palermo nei corsi di letteratura greca, anno accademico 1998/1999, mi colpì con una piccola notazione sull’avverbio ὀπίσω, che vale sia ‘dietro’ che ‘in futuro’, giustificando questa apparente stranezza con una nota esplicativa sull’atteggiamento greco verso il futuro, il quale può solo essere oggetto di divinazione e quindi collocarsi nel lato opposto a quello in cui lo sguardo può indagare: dietro, appunto. Ritrovai poi la stessa notazione in E. Zolla, Archetipi, Aure, Verità segrete, Dionisio errante, Venezia, Marsilio, 2016, p. 55, grazie alla segnalazione di un mio allievo liceale, Oscar Bonghi, che mi preme qui ringraziare. Per quanto riguarda la specifica questione cfr. M. Bettini, A cosa servono i Greci e i Romani, op. cit., p. 167 e le sue contrarietà in merito.
  12. Sul valore etico-morale del passato si veda il prossimo paragrafo.
  13. Livio, Ab Urbe Condita, 25, 26, 6.
  14. Livio, Ab Urbe Condita, 6, 12, 8.
  15. Cfr. Cicerone, De Republica, 6, 23 (Quid autem interest ab iis, qui postea nascentur, sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sunt?).
  16. Almeno nella fase arcaica della società romana e in quella della prima repubblica. A partire dal II sec. a.C., sotto l’influsso ellenizzante di parte della classe dirigente romana, le cose si complicano, fino a quando nella tarda repubblica il mos maiorum non viene irrimediabilmente messo in discussione da nuove pratiche sociali e culturali. Se il principato restaurerà poi gli antichi valori, questi permarrano attivi nella società più a livello formale che sostanziale, di fatto aprendo la società a nuovi orizzonti etici e culturali.
  17. L’esposizione avveniva in contesti rituali specifici, come il funerale di un membro della gens; altrimenti le imagines restavano custodite, ma sempre ben visibili, nell’atrium della casa, all’interno di appositi scrigni. Cfr. C. De Filippis Cappai, Imago mortis: l‘uomo romano e la morte, Napoli, Loffredo, 1997.
  18. Cfr. Seneca, Naturales Quaestiones, 7.25.5 (Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur).
  19. Cfr. Valerio Massimo, Facta et Dicta Memorabilia, 5.8.3.31 (ut eorum uirtutes posteri non solum legerent, sed etiam imitarentur).
  20. Cfr. Cicerone, In Verrem, 2.3.41.10 (Magna est laus si superiores consilio vicisti, posterioribus exemplum atque auctoritatem reliquisti); Id., In Sallustium, 5.8 (ut ego sim posteris meis nobilitatis initium et virtutis exemplum); Livio, Ab Urbe Condita, 8.7 (triste exemplum sed in posterum salubre iuuentuti erimus); Quintiliano, Declamationese minores, 253.1 (Ita dii faciant ut magnum exemplum posteritati etiam poena dare possim).
  21. Livio, Ab Urbe Condita, 8, 9.
  22. Livio, Ab Urbe Condita, 10, 28 (patrem P. Decium nomine compellans).
  23. Si riscontrano soprattutto nella prosa e con una frequenza significativa in Cicerone. Unica eccezione precedente a Cicerone è costituita da Terenzio, Adelphoe, vv. 386-88 (istuc est sapere, non quod ante pedes modost videre sed etiam illa quae futura sunt prospicere).
  24. Seneca, Dialogi, 6.9.5.9 (Aufert uim praesentibus malis qui futura prospexit); Id., Epistulae Morales ad Lucilium, 66.35.3 (Non potest ferre sententiam nisi in rem praesentem perductus est; nec futuri providus est nec praeteriti memor; quid sit consequens nescit).
  25. Seneca, De beneficiis, 3,3,4 (Deinde quia nemo nostrum novit nisi id tempus, quod cum maxime transit, ad praeterita rari animum retorquent); Id., De brevitate vitae, 10,2 (Hoc amittunt occupati; nec enim illis uacat praeterita respicere, et si uacet, iniucunda est paenitendae rei recordatio).
  26. Le persistenze della visione ciclica del tempo sono ben note agli antropologi e agli etnografi di tutti i tempi, compresi quelli che oggi studiano le tradizioni popolari in chiave simbolica e vi ritrovano archetipi millenari.
  27. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, prefazione alla traduzione italiana, Torino, Lindau, 2018, p. 5.
  28. Cfr. Whorf a proposito delle categorie grammaticali che noi occedentali usiamo per organizzare la realtà e di quanto risultino relative e poco coerenti rispetto a quelle di popolazioni cosidette ‟primitive”. B. L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, pp. 172-73 (ciò che sorprende di più è lo scoprire che varie grandi generalizzazioni del mondo occidentale, come il tempo, la velocità e la materia, non sono essenziali alla costruzione di un quadro coerente dell’universo).
  29. Ciò anche sulla scorta dell’interpretazione colliana del pensiero di Nietzsche. Cfr. L. Boi, Il mistero dionisiaco in Giorgio Colli. Linee per una interpretazione, Roma, Stamen, 2020, pp. 277 e sgg.
  30. Cfr. G. Colli, Apollineo e Dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010, pp. 27 e sgg.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)

• categoria: Categories Letture critiche