Le apocalissi infrastoriche di Belyj e Rozanov nella prospettiva di A. M. Ripellino

Author di Renata Gravina

Ripellino e l’apocalisse infrastorica

Nel commentare Foglie cadute[1] di Vasilij Rozanov (1856-1919) e Pietroburgo di Andrej Belyj[2] (1880-1934) Angelo Maria Ripellino ritrovava il Leitmotiv escatologico, l’ansia di sradicare il male dell’individualismo, quello che egli definiva come «il tormento della seconda generazione simbolista»[3]. Il nichilismo tragico di Rozanov e quello di Belyj apparivano a Ripellino come due forme opposte di reazione alla crisi del mondo moderno. D’altra parte, nella loro diversa appartenenza al fenomeno artistico simbolista, Rozanov e Belyj avevano tradotto in arte quella sfera destinale e transitoria della simbologia russa. Se entrambi furono epigoni di una visione anti-utopica del fenomeno rivoluzionario russo, Rozanov lo condannava da un’ enigmatica prospettiva spiritualista e a tratti pseudo conservatrice[4], quale epifania di una catastrofe che annientava la vita; Belyj, viceversa, assisteva alla rivelazione rivoluzionaria secondo una visione simbolista e futuristica, interpretandola quale sintomo di una crisi che preparava a una rinascita.

Il pensiero apocalittico, dimensione profonda e nascosta della storia nella quale si manifestano le forze irrazionali, mitiche e simboliche che agiscono sul destino degli uomini e delle civiltà, ha animato gli scrittori e i filosofi russi di fronte alle grandi crisi storiche, quali quelle vissute nel 1905 e nel 1917, quando la storia dell’impero russo sperimentò l’intreccio di guerra e rivoluzione. All’alba del nuovo secolo il paradigma apocalittico era stato riportato alla superficie delle coscienze dalla diffusa percezione dell’imminenza della fine di un’epoca e dagli eventi rivoluzionari percepiti come straordinari e, in quanto tali, come signa temporum annunciatori di un cataclisma che si approssimava[5].

All’epoca della cosiddetta “Età d’argento” della poesia russa l’impero russo visse quella che Aleksandr Blok aveva definito «una notte insonne e pullulante di spettri» (Ja pomnju čas gluhoj, bessonnoj noči)[6]. L’ “Età d’argento”[7] (definita in origine da Nikolaj Ocup, poeta del tardo acmeismo vicino a Gumilëv) si fondava sull’idea che in Russia esistessero epoche più o meno dotate di stichija poetica: l’“alleato irrazionale” che consente al talento di elevarsi alle altezze vertiginose della creazione geniale[8]. Nell’ambito dell’“Età d’argento”, l’umanesimo tragico peculiare del Rinascimento russo si dilaniava vivendo un dilemma intrastorico che si era autoannunciato attraverso la trasformazione del socialismo in una nuova religione[9]. In bilico tra Decadentismo e Simbolismo, il momento insonne della storia aveva assunto su di sé gli effetti della finis Europae[10]. Per il filosofo religioso Nikolaj Berdjaev (Kiev, 1874-Parigi, 1948), come nella leggenda del Grande Inquisitore, l’“era dostoevskiana” dell’ “Età d’argento” aveva transitato la Russia dal messianesimo religioso al messianesimo rivoluzionario, in quella definitiva rivelazione della guerra civile europea[11]. La “fatale necessità” della rivoluzione era stata prevista come un gigantesco “neciaevismo” che aveva pervaso la Russia[12].

Tale epoca di apocalisse infrastorica che si riferisce al binomio di guerra e di rivoluzione iniziato all’indomani dello scoppio della guerra russo-giapponese del 1904 fu più volte descritta nell’Arte della prefazione di Angelo Maria Ripellino[13]. Secondo Ripellino, l’apocalisse infrastorica era una forma di resistenza e di critica al potere, alla violenza, alla modernizzazione forzata e alla perdita di identità della Russia zarista e sovietica. L’atmosfera apocalittica non era una profezia di un futuro remoto, ma la rivelazione di un presente angoscioso e tragico: la Russia si trovava a vivere una crisi spirituale, politica e sociale senza precedenti. Come Ripellino rilevava attraverso la lettura di Dostoevskij, «il popolo russo, apocalittico nella struttura del suo spirito, non aspira ad un regno di diritto nel senso europeo ma è rivolto verso la fine della storia, in cammino per la realizzazione del regno di Dio, o, del suo contrario, il regno dell’Anticristo»[14]. Attraverso l’indagine sul significato dell’apocalisse nell’“itinerario nel meraviglioso”[15] della letteratura russa, Ripellino esprimeva una sorta di pietà nell’argomentare il carattere russo.

L’ambivalenza proteiforme dell’apocalisse come fonte di conoscenza e quale emblema di una “trasfigurazione nell’abisso”[16] abitava il Ripellino recensore, letterato, poeta, saggista, sperimentatore letterario ed esistenziale in una condizione caduca: l’Alvernia[17]. D’altra parte, nella critica di Ripellino (la “professura”), il desiderio di partecipare “militantemente”[18], ispirato da un’esperienza totalizzante (quale quella dell’apocalisse)[19], corrispondeva alla proiezione di un personale ulissismo intellettuale[20]. Come scriveva Olivier Clément, «la ricerca dell’Adamo smarrito che è in ciascuno di noi fa esplodere in tutto il suo splendore l’amore di Dio per l’uomo [..] La crocifissione è il grado più basso della discesa del Verbo incarnato. Ma [l’apostolo] Giovanni, per designarla la indica come innalzamento; il fondo stesso della discesa è innalzamento»[21].

L’apocalisse in Rozanov (1856-1919)

Ripellino mette in luce la complessità e la contraddittorietà del pensiero rozanoviano che si muove tra il cristianesimo ortodosso e il paganesimo, tra il conservatorismo e l’innovazione, tra il razionalismo e il misticismo. Ripellino attribuiva la straordinarietà del pensiero rozanoviano al fatto che questi, nonostante fosse stato influenzato in particolare dal pensiero di Fëdor Dostoevskij, di Friedrich Nietzsche e di Vladimir Solov’ëv, avesse elaborato una visione originale e personale della realtà. Rozanov fu uno scrittore controverso, che espresse la propria russicità tra teologia, filosofia, critica letteraria, sessuologia, autobiografia e satira. Nell’interpretazione ripelliniana, l’apocalisse di Rozanov non era solo un evento storico, ma una dimensione interiore, una piena crisi esistenziale dell’uomo del sottosuolo[22] che poneva interrogativi sul senso della vita, della morte, dell’amore, della famiglia, della natura.

Foglie cadute, una raccolta di appunti, aforismi, riflessioni e confessioni scritte da Rozanov tra il 1893 e il 1918, esprimeva il pensiero apocalittico rozanoviano, basandosi sul dilemma tra il Golgota della sofferenza e della morte del Salvatore, e l’ipostasi della santità, il matrimonio, Betlemme[23].

Rozanov criticava il cristianesimo per aver negato la corporeità e la sessualità dell’uomo, per aver imposto una morale astratta e repressiva, per aver separato Dio dal mondo. A tale castrazione Rozanov opponeva la riscoperta del legame tra il sacro e il profano, tra il divino e l’umano, tra il cielo e la terra[24]. La contrarietà di Rozanov al cristianesimo derivava dalla sua convinzione che la religione fosse una risposta naturale e fisica alla Creazione piuttosto che il prodotto delle sue istituzioni formali. L’apocalisse rozanoviana era rappresentata sia dall’inabilità, da parte dei cristiani, a soccorrere il genere umano, dalla mestizia e dalla negazione della carne, sia dal socialismo materialista, il cui frumento (foraggiamento) è nella terra. Nel febbraio 1917, dopo che aveva riposto negli accadimenti politici russi un primo barlume di speranza, Rozanov vide nella rivoluzione bolscevica dello stesso anno l’apice del senso di morte, un movimento nichilista che distruggeva il principio della vita incarnato dalla Chiesa ortodossa e dalla tradizione russa. Nell’Apocalisse del nostro tempo del 1918[25], Rozanov giunse all’apice della critica al cristianesimo e al nichilismo materialista; rifiutando di aderire al nuovo regime, morì, povero e disperato, nel 1919.

Secondo Jacques Michaut, Rozanov accoglieva il simbolismo apocalittico come un segno negativo del tempo. La prospettiva apocalittica rozanoviana[26] era riassunta in una lettera che Rozanov il 26 ottobre 1918, tre mesi prima di morire, aveva scritto a Gollerbach:

La Russia ora brucia di una fiamma, di un fuoco stranieri, brilla di una luce che non ha nulla di russo e scalda assai male le stanze… su questo ormai pieno di dolori, di lacrime, su cui si piange e che simboleggia da solo l’ormai del niente e del vuoto, del nihil assoluto, si leva la preghiera immateriale

Tenebre della storia

Fine di tutto

Silenzio. Sospiro

Preghiera. Crescita

La civiltà europea sarebbe finita per compassione: una paralisi totale, un’insensibilità e infine il cedimento ai facinorosi avrebbero fatto a pezzi l’Europa che si sarebbe disfatta in un percorso inevitabile[27]. Il ruolo della rivoluzione era quello di stabilire il regno dell’Anticristo, un mix demoniaco tra mongolo ed europeo[28]. La Russia soccombeva all’apocalisse dalla calma. All’improvviso il diavolo avrebbe rimestato il fondo. Secondo Rozanov, si sarebbero levate correnti torbide, bolle paludose, sarebbe apparsa nella confusione, nell’ansietà la cattiveria e l’habitat sarebbe stato occupato da uomini superflui, tediati, malvagi[29]. L’impero in briciole, rovinoso appariva a Rozanov come:

Una cortina di ferro cade sulla Storia Russa, stridendo, cigolando, sbattendo.
– La rappresentazione è finita.
Il pubblico si alza.
– È ora di infilare la pelliccia e di rientrare a casa.
Ci si volta.
Non vi sono più pellicce, né case[30].

Ma la lettera di Rozanov a Gollerbach finiva con la chiosa: «Dalla mia negazione nasce l’Aurora, l’Aurora dalle dita di fata»[31]. D’altra parte, secondo Rozanov «tutta la struttura dell’uomo muore e viene a risorgere di nuovo»[32].

Rozanov viveva il percorso apocalittico in itinere, investito, come gli altri simbolisti, dalla coscienza della fine di un’epoca. Tuttavia, il processo decadente approdava al suo culmine e nonostante tutto, verso la luce: l’aurora[33]. Come in un processo dialettico hegeliano, dopo la prima fase basata sul fondamento teorico, la produzione rozanoviana aveva attraversato una seconda fase di analisi del mondo materiale alienato dall’elemento divino ed era, infine, approdata alla ricerca di un umanesimo, quale risposta pratica e religiosa alla necessità del divino nella vita dell’uomo[34]. «Va da sé che morrò, dopo tutto, nella chiesa»[35], diceva Rozanov, ammettendo che con il passare degli anni la Chiesa gli divenne «assai più necessaria della letteratura»[36]. Rozanov reagiva alla tristezza del cristianesimo mortificatore e alla falsità del nichilismo materialista rivoluzionario attraverso la riaffermazione della dignità dell’umanesimo spiritualista. Anche se l’esaltazione della persona aveva un’accezione diversa nella prospettiva di Rozanov e di Berdjaev[37], l’urgenza di fuoriuscire dal sottosuolo accomunava molti critici del filisteismo russo.

Come aveva esortato Berdjaev, gli intellettuali (intelligenty) dovevano «sforzarsi di diventare uomini»[38]. Ebbene, secondo Belyj, attraverso la propria geniale letteratura, attraverso la ricostruzione artistica di quei simboli infuocati della storia russa che la rendevano universale, Rozanov aveva compiuto tale sforzo. Per Belyj le immagini folgoranti di Rozanov non soltanto avevano emblematizzato la storia della vera Russia, ma l’avevano avvicinata alle altre nazionalità e universalizzata[39]. Nonostante la contraddittorietà e in alcuni casi la marginalità del pensiero rozanoviano, esso aveva incarnato a pieno l’arte e il dramma della Russia apocalittica. In effetti, come rileva Rubins, molti aspetti del programma poetico del fenomeno artistico modernista della Montparnasse russa[40] si rifecero a Rozanov (la rozanovščina)[41].

Tra i caratteri peculiari del fenomeno modernista dell’emigrazione nella prospettiva rozanoviana vi è la sostituzione del romanzo letterario con l’io-documento e la predilezione per la persona privata[42]. L’esaltazione dell’io uomo, spirito nell’arte appare la stessa esaltazione tragicamente umana e spirituale che nella crocifissione, nell’esperienza dell’abisso (apocalisse), esperisce anche l’innalzamento (rinascita)[43]. Ciò che in definitiva appare rilevante nella lettura apocalittica di Rozanov (confermata attraverso la lettura ripelliniana) è lo sforzo perpetuo di un’intima salvezza; la rivolta personale avverso le evidenze sia della rivoluzione sia della tradizione. Non a caso, Rozanov dichiara in Foglie morte di usare la letteratura come «bara, dolore, disgusto»[44].

L’apocalisse in Belyj (1880-1934)

Seppur articolato in direzioni diverse, il tema dell’umanesimo (gumanizm) divenne uno dei fulcri nella ricerca simbolista[45]. Come simbolista russo, scrittore e teosofo, Belyj[46] cercò di esprimere nelle sue opere una visione mistica e cosmica della realtà. Per Ripellino, Belyj usava il linguaggio come uno strumento per creare immagini suggestive e significative che rivelavano una realtà nascosta e misteriosa. Nel suo libro di memorie, L’inizio del secolo[47], Belyj descriveva la nascita del Simbolismo in antitesi al Decadentismo (rispetto al cui tramonto i simbolisti si sentivano capaci di rinnovarsi)[48]. Belyj sentiva il crollo dell’umanesimo pesare come un macigno sul destino dell’Europa e, di riflesso, della Russia[49]. In Apocalisse della poesia russa, pubblicato per la prima volta nel 1905[50], Belyj aveva affermato che il contenuto di ogni tragedia fosse la lotta fra unità e universalismo. Secondo Belyj, gli intellettuali russi, attraverso la “ricerca di Dio” (bogoiskatel’stvo), volevano dare una risposta che sarebbe dovuta partire dall’individuo e dalla sfiducia nel sacro manifestatasi in Occidente. Attraversando il ponte con la religione, la poesia russa rappresentava quell’anello di congiunzione tra la visione tragica del mondo dell’umanità europea e l’ultima chiesa di credenti, uniti per la “lotta con la Bestia”[51].

L’idea apocalittica di Belyj aveva un carattere epifanico, secondo la concezione mutuata dal maestro e filosofo Vladimir Solov’ëv. Per Solov’ëv, al di là della linea binaria di materia e spirito, si sarebbe spalancato il regno della rivelazione, sarebbe trionfata la “tuttunità” all’insegna dell’eterno femminino, della saggezza della Sofija. Ma in Belyj la rivelazione apocalittica era ambivalente. L’apocalisse, a lungo annunciata dal fenomeno rivoluzionario, sarebbe corrisposta a un crollo fragoroso e al successivo e quasi subitaneo avvento di giorni nuovi: alla morte avrebbe fatto seguito una nascita[52].

Riflettendo sul Simbolismo, Belyj scriveva:

Viviamo in un mondo di crepuscolo, né luce né oscurità: crepuscolo grigio; una giornata senza sole o una notte per niente nera. L’immagine di una vita vittoriosa, come l’immagine della morte, non è ugualmente contenuta nel contenuto della nostra coscienza. Ricreando la pienezza della vita o la pienezza della morte, l’artista moderno crea un simbolo; ciò che ti fa esagerare, creare combinazioni di vita inedite, è l’imperativo categorico della lotta per il futuro (morte o vita). Per le persone con un’esperienza media, un simile atteggiamento nei confronti della realtà sembra irrealistico; non sentono che la questione “essere o non essere per l’umanità” sia reale. Mancano di realismo interiore nel loro approccio alla vita; Non sono in grado di ascoltare nelle loro anime le voci del futuro. Sono illusionisti[53].

D’altra parte, Belyj aveva anche assunto il dogma apocalittico nietzschiano della creazione attraverso la distruzione[54]. Per Ripellino Belyj concepiva l’apocalisse come un processo di trasmutazione spirituale dell’uomo e della società. Nel fenomeno rivoluzionario del 1905, in effetti, Belyj vedeva il preludio di una trasformazione spirituale della Russia e del mondo, una purificazione dal male e dalla violenza[55]. Secondo Belyj o il misticismo si sarebbe asservito all’estetica o, al contrario, si sarebbe combinato con l’estetica nell’unità teurgica della creatività religiosa. In quest’ultimo caso, una nuova religione, ancora sconosciuta al mondo, sarebbe nata dalle profondità della poesia[56].

In Pietroburgo, un romanzo pubblicato nel 1916 e rielaborato nel 1922, Belyj descriveva la città di Pietroburgo come il luogo nel quale si scontravano le forze occulte determinanti per il destino della Russia e dell’umanità tutta. Pietroburgo, definito da Ripellino “poema d’ombre”, era per il critico letterario palermitano un «romanzo nero»[57]. Secondo Ripellino, sullo sfondo della Russia rivoluzionaria del 1905, lo scatenamento dell’apocalisse in Pietroburgo era rappresentato dallo scontro tra l’Idealismo metafisico, simboleggiato dal giovane Nikolaj Apollonovič Ableuchov, e il Positivismo incarnato dal padre Apollon Apollonovič Ableuchov. Il giovane fatuo Nikolaj, idealista, kantiano, era idiosincratico al padre, incarnazione abietta della burocrazia imperiale petrina[58]. Così, il nucleo del romanzo era l’azione terroristica che metteva di fronte a un alto funzionario governativo il proprio figlio, al quale era stato dato l’ordine di uccidere il padre. Guardando delinearsi la fine definitiva di ogni religione, con la Russia preda di echi del radicalismo politico nello stile di personaggi quali Nikolaj Nekrasov[59], Belyj cantava lo sbigottimento e l’infelicità pari all’epoca reazionaria di Pëtr Stolypin[60]. Per ricostruire l’ambiente dell’epoca della decadenza morale e spirituale della vita russa del principio del secolo, Belyj alternava immagini contrastanti come nei quadri di Vrùbel[61]. L’apocalisse corrispondeva a quella rivelazione sublime della lotta tra bene e male: se l’Oriente apportava un viluppo di tenebre, un rovesciamento di significati, l’Occidente era una secca impalcatura meccanica, un plesso di prospettive monotone, una vuota serie di case numerate[62]. Il contesto allusivo della rivoluzione del 1905 si traduceva, per Ripellino, nella lotta tra luce e ombra, tra il sottosuolo del podpol’e, il sottosuolo, e la superficie dei palazzi, delle prospettive della realtà visibile. D’altra parte, l’esplosione incompiuta dell’ordigno-bomba destinata al padre e scagliata dal figlio adombrava tutta la storia russa. Belyj osservava la rivoluzione come un cataclisma di reazionari, socialisti, terroristi, tutti nichilisti[63]. In Pietroburgo si sviluppavano in forma di metafora gli eventi e le conseguenze della guerra russo-nipponica del 1904-1905: gli atti di terrorismo, gli scioperi delle ferrovie e delle fabbriche, le cariche dei cosacchi, gli scontri. Nel disprezzo della Russia cancelleresca di Pietro il Grande, Belyj sciorinava, come Rozanov, anche malaugurati pronostici su orde di asiatici che avrebbero imporporato di oceani di sangue i campi europei e sul destino di Pietroburgo, sulla quale i cinesi avrebbero costruito un tempio[64]. Pietroburgo era un brulicare di ceffi di mongoli che balenavano tra la caligine, con mostaccio e sangue orientale[65]. Come per Rozanov, il terrore panmongolico si gonfiava nell’urbe e nella mente di Belyj come in una sorta di incubo cosmico. La rivoluzione coincideva col trionfo delle orde di Tamerlano, con la calata degli asiatici[66]. D’altra parte, come discusso tra gli attori del romanzo Pietroburgo: «tutti i russi hanno sangue mongolo»[67]. L’epoca dell’esausto Umanesimo era terminata; la storia era una marna in continua erosione: stava per cominciare l’epoca della barbarie, la chiamata dei Mongoli[68].

Come scriveva Belyj nell’epilogo, Aleksandr Ivanovič, nuovo Eugenio (e dunque ulisside), capì che tutto il passato e l’avvenire erano solo un’illusoria sequela di travagli in attesa che squillasse la tromba del Giudizio[69].

Eppure, anche Belyj serbava una speranza, come aveva anticipato nel saggio Apokalipsis[70]:

il vortice che si è alzato sulla Russia contemporanea, con un gran turbine di polvere, deve creare inevitabilmente lo spettro del terrore rosso, nuvole di fuoco e di fumo, poiché la luce, nel filtrare attraverso la polvere, la infiamma. Occorre ricordare che il drago rosso che avanza verso di noi dall’Oriente è un fantasma: si tratta di nuvole e nebbia e non già della realtà. Neppure la guerra esiste: essa è il prodotto della nostra immaginazione malata, il simbolo esteriore della lotta delle nostre anime contro le chimere e le idre del caos.

Anche nell’idea apocalittica di Belyj era presente un opaco seme di rinascita[71]; tuttavia, secondo Berdjaev, l’amore di Belyj per la Russia era contraddittorio e distruttivo, perché Belyj auspicava una rinascita russa solo mediante la rovina[72]. Ripellino nella sezione VII di Pietroburgo di Belyj individua esattamente nella costante e ineluttabile dualità la cifra della complessità beliana: da un lato il caos, «farragine amorfa di fiamme d’inferno, di melma, di nebuli, di incandescenti spirali, baratro [..] dall’altro, il gelido e circoscritto microcosmo del raziocinio. La metodologia e la dialettica sono per Belyj l’unica salvezza dal magma dilagante del caos»[73].

Come sottolinea anche Ripellino, ciò che riassume il valore della prospettiva apocalittica beliana è l’ammissione di un’inconciliabilità tra luce e ombra. Dal punto di vista dell’apocalisse infrastorica, essa si tradurrà nello scivolamento da parte di Belyj (Ariel) nel solco dell’esoterismo puro (come seguendo la più lontana luce)[74].

Conclusioni

A partire dal 29 novembre 1901, per due volte al mese e fino al 1903, si erano tenute in una Sala della Società Geografica alla Fontanka le riunioni filosofico-religiose (religiòzno-filosòfskie sobrànija). Belyj e Rozanov vi parteciparono con numerosi scrittori, filosofi eminenti e teologi (come Konstantin Leont’ev, Vladimir Solov’ëv, Nikolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, Pavel Florenskij) perché tutti erano dolorosamente interessati al mistero dell’esistenza e ne cercavano la soluzione nella religione e nella comunicazione con persone che si dedicavano a ricerche simili.

Le riunioni filosofico-religiose avevano lo scopo di discutere i problemi della società, della cultura e della fede russa. Come ricorda anche Rozanov in Foglie cadute[75], l’idea delle religiòzno-filosòfskie sobrànija era venuta nell’autunno del 1901 a Dmitrij Merežkovskij e a Zinajda Gippius come incontri tra i rappresentanti dell’intelligencija pietroburghese e quelli del clero per un libero esame dei rapporti tra chiesa ortodossa e cultura laica che si appassionava ai problemi religiosi[76]. Ripellino sosteneva che le società filosofico-religiose avessero espresso il senso di una crisi profonda e di una trasformazione radicale della Russia, sia sul piano spirituale sia su quello storico. Nate dall’esigenza di ristabilire la giustizia accentuata dall’indisponibilità a sacrificare la “vita vissuta” a favore di “altri mondi”, nella Russia della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo i dibattiti delle religiòzno-filosòfskie sobrànija andarono sviluppandosi lungo due percorsi sempre più divergenti: il percorso della lotta rivoluzionaria per la giustizia sociale e l’ulteriore costruzione, basata su principi esclusivamente atei, di una società perfetta e di un “uomo nuovo”; e il percorso alternativo della rivitalizzazione e della riforma della coscienza religiosa, del cambiamento della visione del mondo (cioè dell’umanizzazione e dell’universalizzazione della visione del mondo).

Nel 1909 uscì, su iniziativa di Geršenzon, una raccolta di articoli intitolata Pietre miliari (Vechi), in cui vari autori, interrogandosi sul fallimento della rivoluzione russa del 1905, portavano l’attenzione sull’intelligencija russa, ne tracciavano il profilo storico e ne definivano il carattere e le responsabilità. Nel suo articolo sulla coscienza creatrice, Geršenzon attribuiva alla responsabilità morale degli intellettuali la causa prima di quel fallimento. A suo giudizio, l’intellettuale russo era afflitto da una malattia che egli stesso ignorava, ossia la dissociazione dell’io, la separazione tra l’io autentico e la coscienza, cosa che gli impediva di agire in maniera controllata ed efficace. Per Geršenzon la coscienza s’era indirizzata all’esterno, alla vita sociale o politica, abbandonando la vita personale e volitiva e diventando «prigioniera della società»[77]. Viceversa, l’intellettuale doveva riconquistare la saldezza dell’unità personale e ristabilire la libertà con un’adeguata formazione del suo spirito individuale.

Il lungo momento del fenomeno rivoluzionario aveva rivelato il trionfo delle orde di Tamerlano[78], ma alcuni cantori della coscienza infelice della Russia avevano tentato, seppur spesso maldestramente, di avvertire la comunità dell’imminente avverarsi della catastrofe dettata dall’assenza di spiritualismo. In L’apocalisse del nostro tempo Rozanov aveva criticato l’intelligencija perché «da Pietro il Grande» era cresciuta allo stato brado e perché la sua letteratura si era preoccupata solo di sapere «come quei tali si amassero e cosa dicessero»[79]. D’altra parte, commentando Pietroburgo, Ripellino scriveva che, per Belyj, tanto il regime autocratico quanto gli intellettuali e le masse erano le due facce dello stesso “principio mongolico”.

Il richiamo da parte dell’intelligencija all’unità della persona nasceva dalla consapevolezza che non potesse esserci una responsabilità sociale fuori o al di sopra della responsabilità morale e che i problemi sociali non potessero risolversi senza l’impegno della totalità della persona che, nella sua opera di trasformazione sociale, doveva portare all’attuazione dei valori della persona in cui risiede la coscienza morale[80]. Era la grande lezione di Dostoevskij, ampiamente citato anche dagli intellettuali dell’emigrazione. Tale lezione era stata differentemente ma parimenti assunta da Rozanov[81] (Dalla mia negazione nasce l’Aurora)[82] e da Belyj, il cui percorso verso la rinascita della vita, come esplicitato nel manifesto del Simbolismo, passava attraverso il rinnovamento del linguaggio[83].

Nonostante le polemiche tra le varie accezioni della persona, ovverosia la sua natura spirituale o fisica (carnale), per coloro che erano straziati dalla coscienza del cadavere della Russia e insieme dell’Europa[84] la ricomposizione della persona nella sua integrità appariva come l’antidoto all’orda mongola, foriera di privare la Russia della sua identità europea e slava. La ricomposizione era altresì la soluzione, quella che Berdjaev definiva “una Chiesa che contenga la pienezza dell’esistenza”, alla secolarizzazione laicizzante e anticipatrice di quell’americanizzazione livellante e occidentalizzante che avrebbe lasciato indietro l’unità del credo.

In Notizie dal diluvio, anche Ripellino aveva delineato in una sorta di catarsi l’immagine apocalittica universale: «Signor Universo, Mister Supremo Armonico / [..] Tutti i sogni dell’armonia kepleriana si spaccano / con uno schianto di branchi di casseruole / rotolate per gli schinieri di un monte […]»[85] e l’apocalisse religiosa: «La pigrizia del Cristo che si sveglia dal sepolcro / [..] La nausea di perdonare, di fingersi forte, / la nausea di essere Cristo […]»[86]. Alla rievocazione dell’apocalisse come notizia dal diluvio Ripellino aveva, tuttavia, affiancato il monito da artista, da critico, da uomo che ne lo Splendido violino verde voleva allontanare il il filisteismo e l’individualismo spersonalizzante: «Guai a chi si costruisce il mondo da solo. [..] Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi»[87].

Come per Rozanov e per Belyj, al diluvio apocalittico si opponeva lo splendore (anche quando illusorio e rifranto) di una qualche spiritualità collettiva che transitasse oltre la “notte” russa, verso il Cristo: oltre la terribile oscurità e il caos russi[88].

Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo[89].

 

  1. A. M. Ripellino, Ròzanov: ricognizione del sottosuolo, in V. Rozanov, Foglie cadute, trad. it. a cura di A. Pescetto, Milano, Adelphi, 1976, pp. 480-88. Il saggio di Ripellino che chiude il volume traccia un ritratto vivido e appassionato dello scrittore russo, mettendone in luce le contraddizioni e le provocazioni, ma anche la profondità e l’originalità. Ripellino mostra come Ròzanov sia stato un precursore di molti movimenti culturali del Novecento, come l’esistenzialismo, il surrealismo, l’ermeneutica, il postmoderno. Ripellino definisce Foglie cadute come «un libro che non ha eguali nella letteratura mondiale e che non si può leggere senza rimanerne scossi» (p. 480).
  2. A. Belyj, Pietroburgo, prefazione e traduzione di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1961. Si ricordi che Andrej Belyj è uno pseudonimo.
  3. A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), voll. I-II, a cura di U. Brunetti, A. Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2020, vol. I, p. 108.
  4. Per una recente analisi sulla contraddittorietà del rapporto tra Ròzanov e il cristianesimo, cfr. H. Mondry, Synthesizing Religions: Vasily Rozanov’s “Phallic Christianity”, in «Religions», 12, 2021, p. 430. Cfr. l’URL: https://doi.org/10.3390/rel12060430.
  5. Cfr. R. Giuliani, Leonid Andreev e la rivoluzione d’ottobre. La rivoluzione come apocalisse, in «Europa Orientalis», 12, 1, 1993, pp. 213-33: 215.
  6. A. Blok, Polnoe sobranie sočinenij i pisem v 20-ti tomah, Tom I. Moskva, Nauka, 1997. Cfr. l’URL: https://ilibrary.ru/text/1945/p.1/index.html.
  7. Serebrjanyj vek.
  8. Per Ocup, l’“Età d’argento” era qualunque periodo vedesse affievolirsi o spegnersi questa energia creatrice impersonale e insondabile. Rispetto all’epoca aurea, l’età argentea era da definirsi come un’arte a misura umana, in cui «tutto è più asciutto, povero, essenziale, ma tutto è conquistato a più caro prezzo, più autentico»: citazione da N. Ocup in D. Rizzi, L’inafferrabile, in «Europa Orientalis», 15, 2, 1996, pp. 77-96: 78.
  9. R. Valle, Il tramonto dell’Europa e la doppia identità della Russia: guerra e rivoluzione nel pensiero politico russo dell’età d’argento, in La dialettica esaurita?100 anni dalla rivoluzione d’ottobreInterpretazioni politiche, filosofiche, estetiche, Roma, Drengo, 2017, pp. 491-507.
  10. Sulla fine dell’Europa e l’idea che la Prima guerra mondiale aveva svelato il lato cruento e “satanico” della Belle Epoque di inizio Novecento. Dietro le illusioni socialiste e l’opulenza capitalista si muovevano forze sotterranee che prefiguravano l’eclissi della modernità e l’avvento di un nuovo Medioevo: cfr. N. Berdjaev, Novoe srednevekov’e. Razmyšlenie o sud’be Rossii i Evropy [1923], Moskva, Feniks, 1991.
  11. N. Berdjaev, Russkaja ideja: (Osnovnye problemy russkoj mysli XIX veka i načala XX veka), Paris, YMCA Press, 1946.
  12. Cfr. V. Strada, La rivoluzione svelata. Una lettura nuova dell’Ottobre 1917-2007, Roma, Liberal edizioni, 2007.
  13. A. M. Ripellino, L’arte della prefazione, a cura di A. Pane, Pisa, Pacini Editore, 2022.
  14. A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), voll. I-II, a cura di U. Brunetti, A. Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2020, vol. II, p. 608.
  15. A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968.
  16. O. Clément, I visionari, trad. it. di A. Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 1986, p. 9.
  17. «Il toponimo Alvernia» avverte Ripellino nel Congedo, «è una parola composita, un portemanteau word, nella quale si assommano inverno, averno, verna, e inoltre il ricordo dell’Auvergne francese e la Chanson pour l’Auvergnat di Brassens, che spesso udivo da un disco di Juliet Gréco: un orroroso labirinto di malattia, di sofferenza, di paura, illuminato, talora, dalla flebile-tiepida luce di una speranza smorzata subito dall’irrimediabile gelo di morte incombente»: A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli, 1967, in F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro. Piccolo-Cattafi-Ripellino, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 154 e sgg.
  18. Ed eruditamente alle opere analizzate, con spirito da studioso e al contempo con la vivacità del giornalista. Cfr. A. M. Ripellino, Iridescenze, op. cit., vol. I, pp. XIII, XIV.
  19. Il riferimento più esplicito alla quale è presente in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Torino, Einaudi, 1969.
  20. Cfr. Angelo Maria Ripellino e altri ulissidi, a cura di N. Zago, A. Schininà, G. Traina, Enna, Euno Edizioni, 2018.
  21. O. Clément, I visionari cit., p. 9.
  22. V. Rozanov, Foglie cadute, op. cit., p. 416.
  23. Ivi, p. 443.
  24. Rozanov esprime la sua ammirazione per alcuni aspetti del comportamento religioso ebraico, in particolare il modo in cui l’ebraismo ha conservato ciò che egli considera una lettura autentica dell’Antico Testamento. Cfr. V. Rozanov, Izrail’: intimnye rasskazy, Petrograd, Userdie, 1916; Id., Izrail’: intimnye rasskazy, Petrograd, Userdie, 1916, vol. II; Id., Iz vostočnyh motivov, Petrograd, Sirius, 1916; Id., Iz vostočnyh motivov, Petrograd, Sirius, 1917.
  25. V. Rozanov, L’apocalisse del nostro tempo, trad. it. e a cura di A. Pescetto, Milano, Adelphi, 1979.
  26. Ivi, p. 30.
  27. V. Rozanov, Foglie cadute cit., p. 255.
  28. G. Baffo, The Titled Pillar: Rozanov and the Apocalypse, in Shapes of Apocalypse: Arts and Philosophy in Slavic Thought, a cura di A. Oppo, Boston, USA, Academic Studies Press, 2013, p. 35.
  29. Ivi, p. 231.
  30. V. Rozanov, L’apocalisse del nostro tempo cit., p. 140.
  31. Ivi, p. 33.
  32. S. D. Cioran, The apocalyptic symbolism of Andrej Belyj, The Hague, Mouton, 1973, p. 19.
  33. R. C. Williams, The Russian Revolution and the End of Time: 1900-1940, in «Jahrbücher für Geschichte Osteuropas», 43, 1995, pp. 364-401: 372.
  34. A. Ure, Rozanov, the Creation, and the Rejection of Eschatology, in «The Slavonic and East European Review», 89, 2, 2011, pp. 224-47.
  35. V. Rozanov, Foglie cadute cit., p. 270.
  36. Ibidem.
  37. L’emigrazione russa a Parigi accolse con forte critica le posizioni rozanoviane sul cristianesimo. V. M. Rubins, La réception de Vasilij Rozanov des deux côtés de la frontière, in «Modernités Russes», 13, 2012, pp. 59-78: 62.
  38. N. Berdjaev, La svolta Vechi: l’intelligencija russa tra il 1905 e il 1917, trad. it. di U. Floridi, Milano, Jaca Book, 1970, p. 75.
  39. Come quando Dostoevskij era apparso come precursore della vicinanza dell’Egitto alla civiltà russa: A. Belyj, Na perevale, Moskva, Izdatel’stvo Z.I. Gržebina, 1923, cap. VI. Otcy i deti russkogo simvolizma.
  40. M. Rubins, Russian Montparnasse: Transnational Writing in Interwar Paris, NY, Palgrave Macmillan, 2015.
  41. Rozanoviana, in «Čisla», 1, 1930, cit. in M. Rubins, La réception cit., p. 63.
  42. Ivi, p. 64.
  43. O. Clément, I visionari, op. cit., p. 9.
  44. V. Rozanov, O sebe i žizni svoej, Moskva, Moskovskij rabočij, 1990, p. 214. Cfr. anche M. Rubins, La réception cit., p. 76.
  45. Cfr. T. Gudelyte, La riflessione sul crollo dell’umanesimo nella cultura letteraria russa del primo Novecento, in «Quaderni di Palazzo Serra», 23, 2013, pp. 211-29: 214.
  46. Per Georges Nivat, il primo grande movimento culturale moderno a cercare di superare l’antagonismo tra la visione nazionalista e quella cosmopolita, aprendosi alle nuove esperienze artistiche europee e tentando di conciliarle con il “carattere massimalista del sogno escatologico”. Cfr. T. Gudelyte, La riflessione cit., p. 213.
  47. A. Belyj, Načalo veka, Moskva-Leningrad, Gos. ozdatel’stvo chudožestvennoj literatury, 1933.
  48. Ivi, pp. 111-12.
  49. T. Gudelyte, La riflessione cit.
  50. A. Belyj, Apokalipsis v russkoj poėzii, in «Vesy», 5, 1905, pp. 11-28.
  51. R. C. Williams, The Russian Revolution cit., p. 372.
  52. Ibidem.
  53. A. Belyj, Na perevale cit., cap. I. Simvolizm.
  54. S. D. Cioran, The Apocalyptic cit., p. 48.
  55. G. Giuliano, Andrej Belyj da Pietroburgo a Mosca: dalla prosa ornamentale alla lingua oscura, in 20/Venti. Ricerche sulla cultura russa e sovietica degli anni ’20 del XX secolo, a cura di A. Accattoli e L. Piccolo, Roma, RomaTre Press, 2022, pp. 113-38.
  56. A. Belyj, Apokalipsis cit.
  57. Ivi, p. 180.
  58. S. D. Cioran, The Apocalyptic cit., p. 58.
  59. A. M. Ripellino, Iridescenze cit., vol. I., p. 109.
  60. Ibidem.
  61. A. M. Ripellino, Iridescenze cit., vol. I., p. 108.
  62. A. Belyj, Pietroburgo cit., p. 30.
  63. Ivi, p. 25.
  64. A. M. Ripellino, Iridescenze, op. cit., vol. II, p. 621.
  65. Ivi, p. 620.
  66. A. Belyj, Pietroburgo, op. cit., p. 29.
  67. Ivi, p. 79.
  68. Ivi, p. 283.
  69. Ivi, p. 295.
  70. A. Belyj, Apokalipsis v russkoj poėzii, cit., pp. 11-28.
  71. In Nikolaj Apollonovič Ableuchov la coscienza tendeva a riconciliarsi nell’universo.
  72. Quest’amore (per Berdjaev) è tipico della natura russa: N. Berdjaev, Astral’nyj roman, trad. it. di G. Di Paola, in «eSamizdat», 13, 2020, pp. 449-54: 453.
  73. A. M. Ripellino, «Pietroburgo»: un poema d’ombre. Saggio introduttivo, in a A. Belyj, Pietroburgo cit.
  74. Cfr. G. Nivat, Prospero et Ariel: Esquisse des rapports d’Andrej Belyj et Vjačeslav Ivanov, in «Cahiers du monde russe et soviétique», 25, 1984, pp. 19-34: 33.
  75. V. Rozanov, Foglie cadute cit., pp. 436-37.
  76. Ad esse si accompagnava la pubblicazione della rivista «Novji Put’». «La Nuova Via» (1903-1904) nasceva come sviluppo diretto dell’idea delle Assemblee religioso-filosofiche e dell’indagine religiosa sia all’interno sia all’esterno della Chiesa, secondo la convinzione di Merežkovskij.
  77. M. Geršenzon, Tvorčeskoe Samoznanie, in Vechi. Sbornik statej o russkoj intelligencii, Moskva, Tipografija V. M. Sablina, 1909, p. 348.
  78. A. Belyj, Pietroburgo, op. cit., p. 29.
  79. V. Rozanov, L’apocalisse cit., p. 45.
  80. In Foglie cadute Rozanov sentenziava, in effetti, come solo Geršenzon e Bulgakov non lo avessero deluso. V. Rozanov, Foglie cadute, op. cit., p. 72.
  81. La posizione di Rozanov fu complessa e in alcuni casi ritenuta inaccettabile (tanto da determinare la fuoriuscita dello stesso dal gruppo transitato alle riunioni pietroburghesi). Il risultato della ricerca religiosa e filosofica di Rozanov fu la religione dell’essere, che eliminava parzialmente la contraddizione tra le idee cristiane e pagane, caratteristica della fase di sviluppo delle idee filosofiche del dualismo. E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa contemporanea, Milano, Nuova accademia editrice, 1963, 2. Ed. p. 190 e ss.
  82. V. Rozanov, Foglie cadute, op. cit., p. 255.
  83. Cfr. A. Belyj. Počemu ja stal simvolistom (1928), in Simvolizm kak miroponimanie, Moskva, Respublika, 1994, pp. 418-460.
  84. D. Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, trad. it. di C. Cesa, Torino, Einaudi, 1980.
  85. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pace, C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, n. 45, p. 63.
  86. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, ed. 1969 cit., n. 62, p. 76.
  87. A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, Torino, Einaudi, 1976, n. 2.
  88. N. Berdjaev, Astral’nyj cit., p. 453.
  89. A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde cit.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)