Introduzione
L’assalto delle neoavanguardie ci mise un po’ tutti, se non in crisi, in controversia. In me provocò una doppia reazione: una in sede critica, ravvisabile in qualcuno dei saggi di Contestazioni, l’altra in sede creativa, in quella specie di sfida che è Il cane sull’Etna, un tentativo di mostrare che si poteva riuscire sperimentali e battere strade eccentriche salvaguardando tuttavia sia la significatività delle vicende, che volli anzi dense, a forte polisemia, sia le valenze del linguaggio e della sintassi narrativa, che mi riuscì rinsaldata e quasi sontuosa. Fu la porta d’accesso al particolare sperimentalismo dei libri successivi[1].
È Mario Pomilio stesso, abbozzando una cronologia della sua produzione narrativa, a riconoscervi una profonda «frattura» alla metà degli anni Sessanta, tra una fase ancora legata a «richiami al realismo» e le sperimentazioni successive: unico momento di quell’itinerario, tra l’altro, in cui l’attività di critico militante e quella di scrittore «si sono toccate»[2]. Difficile sopravvalutare, allora, il rilievo dei saggi radunati in Contestazioni[3], e in particolare dei due dedicati al confronto con i primi risultati teorici prodotti dal Gruppo 63, Avanguardismo come naturalismo e La grande glaciazione, pubblicati tra il 1964 e il 1965[4] e in dialogo rispettivamente con La barriera del naturalismo di Renato Barilli e con Avanguardia e sperimentalismo di Angelo Guglielmi[5].
Lasciata alle spalle l’esperienza delle «Ragioni narrative», Pomilio si muoveva in quegli anni dalle cattedre superiori a quelle universitarie, su invito di un Salvatore Battaglia allora impegnato in una lotta contro la «deumanizzazione» della narrativa il cui primo prodotto sarebbe stato, di lì a poco, la monumentale Mitografia del personaggio[6], pubblicata nello stesso anno di Contestazioni. La ricerca e la difesa di un «tema dell’uomo» nella produzione artistica degli anni Sessanta è del resto il nucleo di interesse attorno al quale ruotano tutti i dieci saggi di Pomilio[7], pur orientati solo cronologicamente in un «diario critico» del decennio privo di ulteriori strutture[8]. L’eredità dell’insegnamento universitario, e di Battaglia in particolare, opera però anche su altri livelli, a partire dal rigore storico-filologico che Pomilio oppone sistematicamente alle speculazioni teoriche di Barilli prima e di Guglielmi poi.
Leggendo Avanguardismo come naturalismo e La grande glaciazione, si può osservare inoltre come lo scrittore abruzzese sia in grado di disinnescare la retorica chiassosa di certa neoavanguardia per favorire invece lo spostamento dell’interrogazione su un piano estetico-filosofico. Tutto Contestazioni dà del resto la possibilità di costatare che tale appello all’approfondimento filosofico è una caratteristica dello stile critico di Pomilio; infatti, anche in contributi che precedono le sue risposte alla neoavanguardia come Dialetto e linguaggio e Metodologia critica e critica metodologica[9], lo scrittore di Orsogna, ponendo sotto lente d’ingrandimento rispettivamente l’uso strumentale della lingua dialettale nella letteratura italiana contemporanea e l’estetica adottata dalla critica di ispirazione marxista, manifesta chiaramente la volontà di soprassedere a dichiarazioni poetiche roboanti e ortodossie metodologico-ideologiche per decostruire le ragioni estetico-filosofiche che muovono certe Weltanschauungen presenti all’interno del campo letterario italiano del dopoguerra.
In Contestazioni Pomilio si inserisce quindi a buon diritto nella prassi critica inaugurata dalla filologia europea dall’inizio del Novecento, tradizione che ha formato intellettuali in grado di coniugare il paziente lavoro filologico-stilistico sul testo letterario con una riflessione filosofica di ampio ma rigoroso respiro che, pur affondando le radici nello storicismo e nell’umanesimo, si dimostra sempre aperta al confronto e al raffinamento delle proprie categorie ermeneutiche per impegnarsi responsabilmente nel presente in cui vive[10].
Dal naturalismo della Neoavanguardia al «reale storicizzato»
In Avanguardismo come naturalismo, Pomilio individua nelle differenti impostazioni storiografiche adottate la divergenza tra la sua idea di naturalismo e quella difesa nella Barriera del naturalismo di Renato Barilli. I saggi lì raccolti, per la verità, non sono preceduti da alcun particolare chiarimento relativo alla categoria di naturalismo che campeggia nel titolo[11]: come nota Pomilio, «quel concetto, nelle pagine di Barilli, appare ora curiosamente stretto, ora curiosamente largo, e ora sommario, ora tendenzioso»[12]. Di fatto, mancando una vera e propria precisazione, è decisivo quanto si legge nel risvolto:
Una barriera invisibile si innalza fra noi e la realtà. Essa è sorta nel secolo scorso, ad opera della grande narrativa ottocentesca, che ha creduto di poter ricondurre la condotta umana a poche cause essenziali, e di poterci consegnare alcune chiavi sicure per leggere nei volti e nelle psicologie. Cause e chiavi tanto efficaci, da apparire come le uniche possibili, le uniche «naturali». L’impegno fondamentale del nostro secolo, invece, è stato quello di andare al di là di questa «natura», di predisporre nuove possibilità di lettura del reale. Gli studi di questa raccolta si propongono appunto di esaminare quali autori, nell’ambito della nostra narrativa contemporanea, siano riusciti a sfondare il muro del dato naturalistico, e quali al contrario ne siano rimasti al di qua. Ecco la gloriosa breccia aperta da Svevo e da Pirandello, allargata poi da Moravia. Ecco le tormentose ambiguità di Gadda. Ecco il velleitario recupero del muro ad opera di molti giovani scrittori del dopoguerra. Ed ecco infine Sanguineti, esponente ultime tendenze, che mostra di averlo ormai alle spalle, di poterlo ignorare. Si tratta di una rapida traccia della nostra narrativa contemporanea, polarizzata attorno all’idea di una meta urgente da raggiungere e da doppiare.
I nomi elencati (Svevo, Pirandello, Moravia; qualche riserva è su Gadda; enfin Sanguineti vint), il riferimento alla «grande narrativa ottocentesca» e le riserve sul naturalismo configurano plasticamente l’ormai classica opposizione fra tradizione da un lato e modernità letteraria (o modernismo) dall’altro[13]. Tutt’altro l’approccio storiografico di Pomilio, già autore di uno studio accademico Dal naturalismo al verismo[14], che tende intanto a distinguere tra le letterature nazionali, per cui «se il naturalismo rappresentò una chiusura di capitolo, e in Francia dopo Zola si cessò di parlarne, il verismo fu invece da noi un’apertura di capitolo»[15]. Lo stesso naturalismo, tra i materiali universitari, non è che un fenomeno in certa misura epigonale rispetto alla ricerca tutt’altro che stabilizzata dei fratelli de Gouncourt e soprattutto di Gustave Flaubert: «un naturalismo tutto dispiegato e programmatico», scrive Pomilio, «si avrà solo con Zola»[16].
Numerosissimi luoghi di Dal naturalismo al verismo confluiscono del resto pressoché immutati nel saggio su Barilli. Quando per esempio Pomilio vi sottolinea la dipendenza delle teorie di Zola da quelle di «positivisti puri tipo Taine o Claude Bernard»[17], già ha trovato quei due nomi accostati in un passo degli «Ismi» contemporanei di Luigi Capuana di cui si è servito nei suoi corsi[18]; se l’accenno ai due positivisti francesi nelle Contestazioni serviva poi a sottolineare l’hegelismo di un Francesco De Sanctis, già in Dal naturalismo al verismo «Ciò che forse più d’ogni altra cosa vale a distinguere la teorica del verismo italiano da quella del naturalismo francese è che a far da supporto al primo c’è stato De Sanctis anziché Taine»[19]. Quanto al giudizio sullo stesso Capuana, che è «anello di congiunzione tra De Sanctis e Croce» in entrambi i volumi[20], dipende sicuramente da un articolo di Gaetano Trombatore su «Belfagor», in cui «si può vedere nel Capuana l’anello di congiunzione fra l’estetica del De Sanctis e quel canone di poesia e non poesia di cui il Croce fa così larga applicazione»[21]. E, se dal lavoro accademico vengono anche le due citazioni dai Romanzieri naturalisti di Zola accolte in Contestazioni[22], quella da Arte e scienza di Pirandello, che chiude il saggio su Barilli, confluirà pochi anni più tardi nella Formazione critico-estetica di Pirandello[23].
La svolta argomentativa di Avanguardismo come naturalismo avviene allorché, così distinti naturalismo e verismo anche quanto all’impronta lasciata sulla narrativa italiana da quest’ultimo («da D’Annunzio alla Deledda e da Pirandello a Tozzi»[24], scrive Pomilio, ancora una volta calcando la serie sugli elenchi simili in Dal naturalismo al verismo e dall’approfondito studio sulla Fortuna del Verga)[25], Pomilio può attribuire alla neoavanguardia le rigidità programmatiche del primo, e in particolare della teorizzazione zoliana. Abbandonato il terreno della metacritica per quello della critica (nelle Contestazioni complessivamente meno esplorato), la partita si gioca nelle ultime pagine sul Capriccio italiano. Ancora una volta Pomilio segue da presso Barilli, che concludeva La barriera del naturalismo con il fortunato saggio sulla Normalità «autre» di Sanguineti. Possibile che il giudizio di Barilli (il Capriccio non segue più la «falsariga del naturalismo»)[26] dipenda direttamente da quello che Giacomo Debenedetti preparò nel 1963 per la presentazione del romanzo, lasciandolo poi inedito: secondo il critico, infatti, la «figura del protagonista […] distrugge meticolosamente i connotati del personaggio naturalistico»[27]. Non così Pomilio, che vi intravede invece una «resa di tipo naturalistico» (parlava in proposito Calvino di «resa al labirinto», immagine poi ripresa da Pomilio stesso nella Grande glaciazione)[28] data dalla «meccanizzazione della vita onirica»[29]. E, per obbedire intanto alle leggi di verosimiglianza, Sanguineti finisce per ricadere nel mimetismo di una lingua che scade in «un parlato basso, perfino gergale», soprattutto «in sede di dialogo»[30]: segno di un irrigidimento e di un’istituzionalizzazione del fermento neoavanguardistico che Pomilio, sorprendentemente, coglie a meno di due settimane dal secondo convegno, a Reggio Emilia, del Gruppo 63[31].
Ancora più sorprendente allora che il terzo incontro, di nuovo a Palermo, fosse aperto dai due interventi di Barilli e Guglielmi, presto raccolti in un volume feltrinelliano dal significativo titolo Il romanzo sperimentale[32]. E, se le parole di Barilli sviluppano le posizioni già proposte nel saggio su Sanguineti, nel segno della «normalizzazione» e dell’«abbassamento» propri del romanzo contemporaneo[33], quelle di Guglielmi sono improntate a una certa autocritica: «il grado di leggibilità delle nostre opere sperimentali è inferiore a quello che presentano opere dello stesso genere tuttavia nate in diversi contesti culturali e letterari»[34]. Le critiche di Pomilio sulla «meccanizzazione» in Sanguineti non furono del resto forse estranee a tali conclusioni, che in Guglielmi prendono le mosse proprio dal Capriccio, un «meccano costruito con tutti i pezzi giusti», ma tale da lasciare l’impressione «di dimostrazione non tanto di una tesi quanto di una possibilità»[35].
Tra Barilli e Guglielmi, è però quest’ultimo a subire le più aspre critiche da parte di Pomilio. Il suo Avanguardia e sperimentalismo è secondo lo scrittore di Orsogna materiale più romanzesco che critico, retto da «opinioni» del tutto «spoglie d’antefatti logici»[36], a cominciare dalla proposta centrale di un barthesiano «grado zero» della scrittura, cui sarebbe demandato il compito di rappresentare in via immediata la realtà[37]. A pochi mesi dal rovesciamento delle tesi di Barilli, anche nella Grande glaciazione la poetica di Guglielmi è ricondotta a un naturalismo di fondo, al quale Pomilio oppone l’idea di una letteratura che abbia come oggetto «il reale storicizzato, passato cioè attraverso l’intero spessore della nostra umanità»[38] e, ancora, un’ipotesi storiografica del tutto antitetica rispetto a quella del critico neoavanguardista:
Il suo punto di vista è più sottile e insieme più rischioso, e separa di netto l’Ottocento dal Novecento e situa la sua apocalisse tutta all’interno del Novecento: con questo d’inadeguato (un fianco scoperto cui non vediamo come possa rimediare), che egli assume la crisi del positivismo non solo come un momento non ancora esaurito, ma al contrario come un fatto che sovrasterebbe all’intera struttura culturale del nostro secolo, continuando a segnarla, di caduta in caduta, fino all’odierna definitiva glaciazione[39].
Responsabilità filosofica e storicismo
Già nel Discorso interrotto, che anticipa di qualche mese la polemica con la neoavanguardia[40], Pomilio descriveva del resto una generazione di intellettuali «congelati, non più sicuri di sé», «orfani delle ideologie» e votati a comunicare esclusivamente il proprio alienato (ma compiaciuto) «solipsismo», in un mondo privo di certezze ideologiche[41]. Di fatto, lo scrittore abruzzese denunciava l’impatto su molti intellettuali della perdita di fiducia in quel marxismo che promuoveva l’«azione sociale» e «l’intervento politico», quell’«impegno, in altri termini, di modificare la realtà»[42]. Per Pomilio, l’errore di molti intellettuali impegnati è stato l’aver creduto ingenuamente di sostituire «il termine “realtà” con “società”», nella certezza che quest’ultima, «una volta modificata […] sarebbe rientrata nel perfetto dominio della ragione»[43]. Tuttavia, il fatto di aver perduto la possibilità di essere «creatori di civiltà» non deve condurre gli intellettuali a misconoscere la responsabilità del mandato conferito loro dall’umanesimo, quella visione del mondo che per Pomilio si fa promotrice «d’una difesa e di uno sviluppo delle qualità riflessive e interiorizzanti, e delle qualità morali dell’uomo più che delle sue capacità tecniche»[44]. Da qui, l’appello agli intellettuali a prendersi la loro responsabilità: «L’umano oggi non si nega con la scusante che il mondo è fatto di “cose” e la società di masse meccanizzate. Che è un modo, per l’intellettuale, di darsi un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità»[45].
L’appello nelle pagine finali del Discorso interrotto è quindi un invito agli intellettuali e agli scrittori a comportarsi come soggetti responsabili (prima che impegnati) anche nell’adozione di una postura sorvegliata, consapevole e razionale nell’utilizzo delle categorie filosofiche ed ermeneutiche. L’invito all’approfondimento filosofico spesso presente nei saggi di Contestazioni è però, allo stesso tempo, una mossa argomentativa di Pomilio in grado di far osservare al lettore la serpeggiante superficialità concettuale che attanaglia gli intellettuali degli anni Sessanta, in particolare quei neoavanguardisti che, trincerandosi in quella che Franco Brioschi definiva come un’assiologia del «Nuovo»[46], liquidavano interi sistemi filosofici senza avere la pazienza di metterli approfonditamente in discussione. L’esempio più chiaro di tale atteggiamento è costituito dalla dismissione del magistero di Benedetto Croce. In Metodologia critica e critica metodologica, Pomilio osserva che la neoavanguardia riporta inconsapevolmente in auge certe posizioni estetiche di stampo crociano discutibili, rifiutando invece, al contempo, l’impianto storicista del filosofo:
Ci siamo domandati spesso, assistendo alla liquidazione in atto della storiografia e dalla critica di stampo idealistico, che vediamo ormai sopravvivere in uno stanco accademismo, che cosa, in ultima analisi, si intendesse contrapporvi. E la nostra contrapposizione scaturiva e scaturisce dal fatto che i vari attacchi non si limitano, troppo spesso, a mettere in giudicato il crocianesimo e i suoi aspetti contingenti e caduchi, ma tendono a liquidare, attraverso il Croce, lo storicismo in quanto tale, spalancando le porte alle più diverse tentazioni irrazionalistiche, prime fra tutti quella rappresentata dalle applicazioni operative che si fanno della critica di tipo spitzeriano, che sembrano avvallare e incoraggiare (caso tipico d’influsso d’una metodologia critica su una poetica in atto) certi nostri sperimentalismi, e anzi i più vistosi. Ripetere infatti con Spitzer che «l’indagine stilistica… riposa sul postulato che a qualsiasi emozione, a qualsiasi allontanamento dal nostro strato psichico primario normale, corrisponde, nel piano espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale» è, sì, suggestivo, a patto che non si rovescino le parti, a patto ciò che, invece di restare nel capo suo proprio, che è quello della ricerca critica, quella premessa non divenga articolo di fede per scrittori troppo disposti a crearsi, anteriormente al piano emotivo, un corso linguistico forzoso […] come se l’applicazione aprioristica d’un piano linguistico anormale fosse atta di per sé a suscitare un piano emotivo autentico, o a testimoniarne la presenza[47].
Pomilio, come farà poi in maniera sistematica il teorico e filologo Costanzo di Girolamo[48], intuisce come lo “spettro” del crocianesimo persista all’interno della koiné semiologico-strutturalista, la quale, ritinteggiando la già contestabile tesi dell’écart linguistico per inserirla all’interno del problema teorico della letterarietà[49], forniva una legittimazione estetica al movimento neoavanguardista. Tuttavia, lo strutturalismo «grammaticale» (quello di Roman Jakobson o di Umberto Eco)[50] ha passato più tempo a fregiarsi della sua supposta scientificità che a riflettere sui suoi presupposti filosofici: affermare l’esistenza di uno scarto tra lingua standard e lingua letteraria o il ruolo di dominante della funzione poetica in un testo letterario significa attribuire un’(irrazionale) sostanzialità al linguaggio.
Tale concezione del linguaggio viene ulteriormente interrogata da Pomilio nella Grande glaciazione, seguendo però altri tipi di riferimenti filosofici. Nella requisitoria contro Guglielmi sono, infatti, presenti espliciti rimandi alla filosofia di Ludwig Wittgenstein, Bertrand Russell, Alfred N. Whitehead e Otto Neurath, dal momento che lo scrittore abruzzese intravede una goffa assimilazione dei dettami neopositivisti nel rifiuto della neoavanguardia di concedere alla sfera soggettiva un ruolo nell’attività creativa e conoscitiva:
Non ci è stata molto fruttuosa neppure una ricognizione verso Wittgenstein o gli altri teorici della logica neopositivista, benché proprio lì siano le matrici di Guglielmi, nella misura in cui la sua pretesa di far della parola «la cosa stessa» sembra trovar conforto nel principio di Wittgenstein secondo il quale «le proposizioni sono raffigurazioni della realtà». È vero sì che Wittgenstein insiste sull’inutilità del soggetto come supporto del pensiero […]. Ma, a parte le obiezioni che potrebbero muoversi, e di cui Giuseppe Vaccarino ci ha fornito di recente un buon estratto, a parte anche il fatto che il Tractatus logico-philosophicus arriva tra noi con quarant’anni di ritardo, […] non bisogna dimenticare che, per sopprimere ogni intervento del soggettivo, Wittgenstein è costretto a postulare la creazione d’un linguaggio artificiale affatto distinto dal quotidiano, d’una lingua scientifica del tipo di quella dei Principia mathematica di Whitehead-Russell, con la conseguenza, com’egli deduce, che quanto non può essere espresso per mezzo di essa ha carattere metafisico-soggettivo e dev’essere respinto. E sta bene così[51].
I neoavanguardisti hanno ridotto quindi a slogan (la morte del soggetto) il dibattito vasto e complesso che si è sviluppato in seno allo stesso Neopositivismo. Ma ancor più grave, come nota Pomilio, è il fatto che la Neoavanguardia è stata posseduta dal demone dell’analogia, che non le ha permesso di riconoscere la differenza capitale tra i linguaggi artificiali (creati con lo scopo di rispondere a domande epistemologiche che sorgono in campi regionali del sapere) e il linguaggio quotidiano di cui si servono tutti gli scrittori. Infatti, per Pomilio, se i letterati neoavanguardisti davvero professassero l’abolizione dell’elemento soggettivo nella comunicazione, dovrebbero utilizzare il linguaggio dei logici e dei matematici e non certo quello che ereditano dalla tradizione:
perché non il rifiuto definitivo e globale (se davvero Guglielmi vuole abolire il soggettivo) di tutti i tipi di linguaggio ad eccezione del solo linguaggio logico […]? E perché insomma partire dal principio che l’arte serve unicamente a recuperare il reale allo stato puro, nella sua intattezza, al di qua d’ogni modo d’essere, e non optare per un criterio d’assoluta unidirezionalità e riduttività linguistico-stilistica, per un linguaggio logico a livello paramatematico, il solo dove non tanto e non certo la parola è la cosa, ma dove la pronunzia della parola risulta più spoglia di inflessioni soggettive, più extraindividuale? […] Perché, in sintesi, come proposta stilistica, il pastiche di Gadda e non invece “le proposizioni atomiche” e le “tautologie” del Tractatus?[52]
Per correggere quindi il punto di vista superficiale delle neoavanguardie, Pomilio invita ad adottare una posizione storicista che non costituisca una ripresa acritica della tradizione neokantiana o neoidealista del passato, e sia piuttosto capace di un dialogo non ideologico con il marxismo (numerosi, non per caso, i riferimenti ad Antonio Labriola, Antonio Gramsci e György Lukács nelle Contestazioni). Tale rigore metodologico dovrebbe essere preservato dalle banalizzazioni del marxismo proposte da numerosi esponenti della cultura di sinistra, a partire dallo stesso Guglielmi:
Ma l’argomento più decisivo intorno all’incoerenza di Guglielmi […] viene dal modo in egli stesso tira fuori il concetto di “diritto naturale” e lo appoggia direttamente al marxismo: trascurando e dimenticando che lo sforzo del marxismo è stato da sempre teso a mostrare l’assoluta storicità del diritto (allo stesso modo della morale) e il suo carattere di sovrastruttura; né sussistano, per uno storicismo del tipo di quello marxista, «esigenze insopprimibili e quasi istintive e non come portato della speculazione intellettuale», e cioè della Storia. Semmai preoccupazioni siffatte sono proprie del pensiero cattolico, e basta ricordare appena San Tommaso, secondo il quale Dio, creando l’uomo, gli conferisce un habitus naturale a intendere il buono e giusto, o Manzoni, le cui Osservazioni sulla morale cattolica non rigettano affatto, al contrario, l’idea dell’esistenza d’una morale naturale, solo però per riportarne l’origine a Dio[53].
Una difesa del marxismo è anche nel saggio Dialetto e linguaggio, in cui Pomilio contesta a Pier Paolo Pasolini la strumentalizzazione letteraria del dialetto di Casarsa, la quale nasconderebbe un desiderio inconfessato di ritornare a una concezione iniziatica, aristocratica e classista della poesia[54]. Non solo: il rifiuto ideologico della lingua standard – speculare al rifiuto della transitività del linguaggio proposto dai teorici delle neoavanguardie – può anche celare un attempato decorum, e un’attardata poetica della divisione degli stili incapace di fare i conti con la modernità e, specialmente, con il genere del romanzo[55]. A sostegno della sua argomentazione, Pomilio cita provocatoriamente dei passi tratti da Sul marxismo nella linguistica di Iosif Stalin[56], nei quali il dittatore sovietico considera la lingua come un costrutto creato e parlato da tutte le classi sociali e non da una sola[57]: considerare la lingua come una sovrastruttura è, insomma, materia controversa e dibattuta anche in seno al marxismo stesso.
Tuttavia, in Contestazioni c’è spazio anche per un corpo a corpo con l’epistemologia a cui obbediscono i critici letterari che si rifanno all’ideologia comunista: è il saggio Metodologia critica e critica metodologica, dedicato al volume di Carlo Salinari Miti e coscienza del decadentismo italiano[58], di cui Pomilio contesta la non chiarezza attorno alla nozione di rappresentazione. Per Salinari, l’opera letteraria è una totalità che il critico deve scomporre facendo emergere i legami sistemici tra aspetti formali, ideologici, culturali, storici e psicologici[59]. Questo metodo sarebbe votato all’oggettività, in quanto dovrebbe espellere la sensibilità impressionistica e il giudizio di gusto, al fine di esprimere una valutazione sul grado di conoscenza della realtà storica che l’opera ci consegna[60]. Pomilio però non accetta l’equivalenza tra sensibilità e impressionismo: la sensibilità per lo scrittore abruzzese «non ha nulla a che fare con le inclinazioni impressionistiche», dal momento che essa è sempre un «prodotto di cultura, e in questo senso capacità di ambientazione e di dimensionamento storico dell’opera, atto sintetico in grado di cogliere, all’interno stesso della sintesi offerta dall’opera d’arte, e cioè nella pienezza della vita dell’arte, le implicazioni in esse contenute»[61].
Pomilio nota quindi che la metodologia della critica marxista oblia il fatto che la scomposizione di un’opera letteraria è, prima di tutto, un volere di scomposizione attuato da una «coscienza strutturante», per dirla con Jean Starobinski[62]. In altri termini, la scomposizione di una totalità è una forma particolare di sensibilità critica storicamente situata in una pratica ermeneutica:
Se si può, in sede di ricostruzione critica, […] attenersi ai tempi indicati da Salinari, ci sarà stato pure un momento, anteriore e globale, nel quale, sia pure in embrione, sono stati compresenti i motivi giudicanti che costituiranno il tessuto del ripensamento critico. Altrimenti, chi ci metterà in sospetto d’essere in presenza d’un fatto poetico da accertare e chiarire nelle sue ragioni storiche, chi soprattutto stabilità le premesse del nostro piano di ricerca? E, insomma, la rinunzia al momento della sensibilità, il porsi del critico in posizione agnostica, non rischia di consegnarlo legato mani e piedi all’indistinto dei dati oggettivi (laddove la presenza di quel momento vale almeno a stabilire una prima direzione di ricerca)?[63]
L’opera letteraria, per Pomilio, non è quindi essenzialmente una totalità già data: siamo noi a considerarla aprioristicamente come tale, adottando delle precise ipotesi di lettura. Ma, anche al netto di ciò, il problema per Pomilio rimane aperto: che cosa rappresenta questa totalità? Salinari propende per considerare la rappresentazione come (ri)costruzione, in quanto essa ci dà comprensione dello sfondo storico-culturale che ha permesso l’esistenza di un artista e di un oggetto estetico. Pomilio respinge tale soluzione contestualista: in essa non è chiara «la questione capitale del rapporto – e distinzione – tra la forma di conoscenza artistica e la forma di conoscenza storica», e quindi tra «arte e documento»[64]. Per mostrare l’insufficienza del metodo di Salinari, Pomilio si chiedere allora se, leggendo l’opera di Gabriele d’Annunzio, acquisiamo un’obbiettiva conoscenza storica del fascismo. La risposta dello scrittore di Orsogna è lapidaria: «lungi da noi l’idea di condividere simili assurdità»[65]. Per Pomilio, ci interessa scomporre un’opera di d’Annunzio perché essa esemplifica una certa prospettiva (poetica) sulla realtà, e non la realtà oggettiva (se mai questa esistesse veramente); afferma cioè che rappresentare significa, diltheyianamenete e auerbachianamente, «fornire rappresentazione»[66]. In altri termini, ciò di cui un’opera letteraria ci dà rappresentazione e conoscenza sono quei «momenti insopprimibili e universali dell’umana esperienza»[67] che riconosciamo confrontandoli con quelli che viviamo durante la nostra esistenza. Per Pomilio, dunque, non c’è una differenza netta tra un’estetica della conoscenza e un’estetica della ricezione: solo esemplificando un punto di vista personale sulla realtà un’opera diventa transitiva, in quanto esibisce la «possibilità di continuare a comunicare indipendentemente dal tempo, dalle poetiche, dai gusti, dalle ideologie che l’hanno condizionata»[68].
Sull’opera letteraria intesa come dispositivo che rappresenta un punto di vista personale sulla realtà Pomilio tornerà di frequente nei saggi che compongono Contestazioni, anche all’infuori della disamina sul metodo della critica letteraria marxista. Ancora nella Grande glaciazione, riferendosi a Emilio Garroni (probabilmente al suo lavoro sulla Crisi semantica delle arti)[69], afferma che «il “mondo” d’uno scrittore consiste per l’appunto nella somma delle sue opinioni, anche se poi tendono ad assestarsi in una regolare visione del mondo e possono perfino indurre a parlare d’una sua forma di filosofia»[70]. Tale mondo, di fatto, è poi comunicabile anche grazie all’utilizzo di un linguaggio comprensibile, capace di dare però voce alle volizioni, alle emozioni e ai desideri complessi e urgenti di una soggettività.
Conclusioni
«La mia propria esperienza, e non soltanto quella scientifica, è responsabile per la posizione dei problemi, per le enunciazioni, il procedimento ideale e il fine dei miei scritti»[71]: come l’Auerbach della seconda metà degli anni Cinquanta, così Pomilio sembra insomma accostarsi alla scrittura, e non solo a quella critica. Non va dunque dimenticata l’effettiva situazione che lo scrittore di Orsogna fronteggiava al momento dell’uscita di Contestazioni, come descritta nell’Avvertenza al Cane sull’Etna:
Era il 1967 ed io da parecchio ero quel che in parole povere si suol definire uno scrittore in Crisi. Correvano, chi li ricordi, tempi bui per la narrativa, tempi in cui la morte del romanzo, divenuta nel frattempo, piuttosto provvidenzialmente, argomento per tesi di laurea, veniva decretata con accenti da apocalissi. Suppongo che un’intera generazione di scrittori, in varia misura, ne fosse dissestata. Quanto a me, pur contrastando in sede critica a quella sentenza con dei saggi che crebbero fino a formare un volume, in sede creativa ero ridotto quasi a pezzi. […] Questo finché non ebbi pubblicato, nel 1967 appunto, il volume di saggi ai quali ho accennato. Il fatto a suo modo divenne liberatorio, mi spinse a riguardare con una specie di autoironia a una parte di me stesso e a un’epoca della mia vita. Non era, s’intende, un commiato, era piuttosto un guardare le cose con la lente rovesciata, un considerare la mia crisi alla stregua d’una malattia che, visto che la stavo vivendo, poteva benissimo esser narrata[72].
Il progettato «romanzo intorno al romanzo che non si lasciava scrivere»[73], poi lasciato nello stato frammentario del Cane sull’Etna, è dunque soprattutto il doppio (narrativo) di Contestazioni. La parola dell’altro, contestata sul piano della disputa teorica, è assorbita da Pomilio ed esteticamente rappresentata nei racconti coevi: l’X del primo frammento, in particolare, convinto di vivere in un mondo «senza rimedio»[74], è prossimo a quel personaggio «duramente congelato nelle sue negazioni» immaginato polemicamente nel saggio su Guglielmi[75], mentre proprio due categorie della koiné neoavanguardista e strutturalista («guerriglia semiologica» e «straniamento») scatenano tra l’altro la crisi di X con cui il frammento si chiude.
Il particolare «dono»[76] della forma concesso da Pomilio all’altrui opinione nel Cane sull’Etna sembra declinare in maniera artistica le capacità ampiamente accoglienti e inclusive della tradizione filologica europea. Per dirla infatti con Auerbach (e Vico): «noi giudichiamo i processi storici e in generale interumani (privati, sociali, politici) in un modo particolare, immediato, secondo la nostra interna esperienza; ossia in quanto noi cerchiamo [come sostiene Vico] di “ritrouvare i loro principî dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana”»[77]. Il ritorno alla narrativa di Pomilio sembra però mostrare che l’esercizio attivo e responsivo della comprensione estetico-filosofica dei concetti, delle parole e delle Weltanschauugen altrui può farci scoprire l’insufficienza espressiva del genere saggistico, specialmente quando essa assume la forma di una tagliente requisitoria come in Contestazioni. Allora solo l’arte permette in maniera concreta all’artista di essere contemporaneamente sia dentro di sé sia fuori da sé; Pomilio ha dunque creato il dissestato personaggio X per rappresentare sia l’éthos dell’alterità sia il suo sforzo di comprendere e interiorizzare le ragioni altrui all’infuori della polemica, sperimentandole quindi direttamente su sé stesso nell’atto creativo. Il rigoroso e appassionato percorso critico conduce quindi Pomilio a ritornare all’invenzione narrativa con una rinnovata consapevolezza artistica[78].
- C. Di Biase, Intervista a Mario Pomilio, in «Italianistica», XVI, 1, gennaio-aprile 1987, p. 123. ↑
- Ibidem. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, Milano, Rizzoli, 1967. ↑
- Pubblicati originariamente su «La Fiera Letteraria» del 15 novembre 1964 e del 24 gennaio 1965. ↑
- R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano, Mursia, 1964; A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964. ↑
- M. Pomilio, Militanza e agonismo in Salvatore Battaglia, in S. Battaglia, Mitografia del personaggio, Napoli, Liguori, 1991, p. XVIII. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 145. L’orientamento di Pomilio è sorprendentemente prossimo a quello della raccolta L’uomo come fine di Alberto Moravia, singolarmente vicina a Contestazioni anche a livello cronologico: «L’uomo come fine non vuole affatto essere una difesa di questo umanesimo tradizionale ormai defunto; bensì un attacco all’antiumanesimo che oggi va sotto il nome di neocapitalismo; e un cauto approccio all’ipotesi di un nuovo umanesimo» (A. Moravia, L’uomo come fine e altri saggi, Milano, Bompiani, 1964, pp. 5-6). ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 7. Etichetta, questa di «diario critico», che può almeno lontanamente ricordare i saggi del Diario in pubblico di Elio Vittorini, pubblicati dieci anni prima (E. Vittorini, Diario in pubblico, Milano, Mondadori, 1957). ↑
- Pubblicati entrambi nel 1960, rispettivamente nel secondo e nel quarto numero delle «Ragioni narrative». ↑
- Sul rapporto tra filosofia e filologia novecentesca, cfr. M. Mancini, Stilistica filosofica. Spitzer, Auerbach, Contini, Roma, Carocci, 2015. Eric Auerbach è tra l’altro esplicitamente citato negli Scritti cristiani, a proposito dei Vangeli: «In questo senso è stato benissimo detto che essi rappresentano “quanto non era stato mai rappresentato né dalla poesia né dalla storiografia antica: la nascita d’un movimento spirituale nella profondità della vita spirituale del popolo, che con ciò acquista un’importanza mai prima raggiunta” (Auerbach)» (M. Pomilio, Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979, pp. 108-109). ↑
- C’è un’Avvertenza, per la verità più simile a una nota editoriale, relativa alle originarie sedi dei saggi. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 92. ↑
- Per Fredric Jameson, «realism vs. modernism» è l’antinomia «most frequently rehearsed of all» (F. Jameson, The Antinomies of Realism, London-New York, Verso, 2015, p. 2). ↑
- M. Pomilio, Dal naturalismo al verismo, Napoli, Liguori, 1966. Una prima edizione provvisoria era uscita già nel 1962 per la stessa casa. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 92. ↑
- M. Pomilio, Dal naturalismo al verismo, op. cit., pp. 25-26. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 92. ↑
- Zola «Aveva bisogno d’un motto, di una bandiera per mettere in vista l’opera sua; e, trovatasi tra le mani la Scienza sperimentale di Claudio Bernard, visto l’esempio di Taine […] imbastì in fretta e furia la teoria del romanzo sperimentale e la predicò ai quattro venti» (M. Pomilio, Dal naturalismo al verismo, op. cit., p. 44). ↑
- M. Pomilio, Dal naturalismo al verismo, op. cit., p. 79. ↑
- Ivi, p. 122; e M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 92 (qui con lieve variazione: «anello tra De Sanctis e Croce»). ↑
- G. Trombatore, Luigi Capuana critico, in «Belfagor» IV, n. 4, 31 luglio 1949, p. 419. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 97, e Id., Dal naturalismo al verismo, op. cit., pp. 52-54. ↑
- M. Pomilio, La formazione critico-estetica di Pirandello, L’Aquila, Marcello Ferri, 1980, p. 88, e Id., Contestazioni, op. cit., p. 101. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 92. ↑
- L’influenza di Giovanni Verga si estende «dai veristi suoi coetanei o vicini al D’Annunzio regionale o a Pirandello e alla Deledda» (M. Pomilio, Dal naturalismo al verismo, op. cit., p. 85). Ai nomi «di Pirandello e della Deledda» (M. Pomilio, La fortuna del Verga, Napoli, Liguori, 1963, p. 21) Pomilio aggiunge quello di Federigo Tozzi nel parziale rimaneggiamento degli anni Ottanta (M. Pomilio, Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di M. Volpi, Novate Milanese, Prospero, 2017, p. XLIX). ↑
- R. Barilli, La barriera del naturalismo, op. cit., p. 296. ↑
- Il testo di Debenedetti è integralmente edito in G. Policarpo, Sanguineti, Palermo, Palumbo, 2009, pp. 171-77. ↑
- I. Calvino, La sfida al labirinto, in Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 122. Nella Grande glaciazione, Pomilio sottolineerà l’uso dell’«immagine del caos» rappresentata dal labirinto già nel Pirandello del 1893, preoccupato per la «fine dell’umanesimo» (M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 108). ↑
- Ivi, p. 99. ↑
- Ivi, p. 100. ↑
- L’informazione è tolta dagli Apparati del volume Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli, A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 363. ↑
- Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, Milano, Feltrinelli, 1966. ↑
- Ivi, p. 11. ↑
- Ivi, p. 37. ↑
- Ivi, p. 36. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 104. ↑
- «È dunque in questo senso che si dice che l’arte di oggi è un’arte di ricerca. L’oggetto della ricerca è la realtà. Abbiamo visto che l’arte se riesce nei suoi scopi e ritrova la realtà non la ritrova e non la può ritrovare che allo stato brado, al grado zero, come materia fisica. E una volta trovatala il suo compito è finito» (A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, op. cit., p. 82). ↑
- Il passo merita di essere riportato per intero: «Perciò, se dovessimo a questo punto riproporci l’eterna questione dei rapporti arte-realtà, diremmo che l’oggetto della ricerca artistica non è “la realtà” secondo l’accezione naturalistica di Guglielmi (cosa impossibile oggi, lo si è detto, ammesso che mai sia stato possibile), ma il reale storicizzato, passato cioè attraverso l’intero spessore della nostra umanità, con quanto questa comporta in fatto di strutture psicologiche, culturali, ideologiche, morali» (M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 115). ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 109. ↑
- Pubblicato originariamente sul «Mattino» del 7 marzo 1963, con diverso titolo (Impegno e disimpegno nella letteratura d’oggi). ↑
- Ivi, pp. 85-87. ↑
- Ivi, p. 86. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 88-89. ↑
- Ivi, p. 89. Sarebbe interessante confrontare l’idea di responsabilità di Pomilio con la declinazione che tale concetto assume nel saggio del 1919 Arte come responsabilità di Michail Bachtin; cfr. S. Sini, Michail Bachtin. Una critica del pensiero dialogico, Roma, Carocci, 2011, pp. 38-40. ↑
- F. Brioschi, Critica della ragion poetica e altri saggi di letteratura e filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 32. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., pp. 63-64. ↑
- F. Brioschi, C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Napoli, Principato, 1978, pp. 64-65. ↑
- Per una critica efficace del concetto di letterarietà proposto dallo strutturalismo, cfr. C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Milano, Il Saggiatore, 1978, pp. 48-55; F. Brioschi, La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura, Milano, Net, 2006, pp. 16-17, 57-62, 136-40 e passim. ↑
- G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura?, Torino, Einaudi, 2005, pp. 99, 111-18. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., pp. 122-23. Pomilio sembra essere debitore del lavoro di Giuseppe Vaccarino, epistemologo pioniere negli studi di filosofia della mente (fonda insieme a Silvio Ceccato e Vittorio Somenzi la Scuola Operativa Italiana). Pomilio potrebbe aver letto il saggio Il problema della conoscenza nel neopositivismo e nell’analisi del linguaggio (in «De Homine», 7-8, 1963, pp. 73-102). ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 123. ↑
- Ivi, p. 118. ↑
- Ivi, p. 39. ↑
- Ivi, pp. 49-50. ↑
- I. Stalin, Sul marxismo nella linguistica, Roma, Edizioni Italia-URSS, 1950. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., pp. 37-39. ↑
- C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli, 1962. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 73. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 74. ↑
- Strutturalismo e critica, a cura di C. Segre, Milano, Il Saggiatore, 1985. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 74. ↑
- Ivi, p. 76. Ci sembra che Pomilio, denunciando negli anni Sessanta la mancata chiarezza della critica della distinzione tra arte e documento, intraveda una questione teorica problematica. Infatti, con l’affermazione nelle accademie americane del new historicism e del culturalismo durante gli anni Novanta, i confini tra il lavoro dello storico e quello del critico letterario diventano sempre più porosi. Per un sommario dibattito sul tema, cfr. S. Fish, Professional Correctness: Literary Studies and Political Change, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1999, pp. 41-92. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 77. ↑
- Ivi, p. 78. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- E. Garroni, Crisi semantica delle arti, Roma, Officina, 1964. Pomilio aveva senz’altro in mente le pagine garroniane dedicate al problema dell’opinione (pp. 23-24 e 290-91); la lettura di Crisi semantica delle arti, in cui Garroni interroga anche la teoria neoavanguardista di Guglielmi, deve aver fornito molti spunti alle tesi di Pomilio (questione che potrà essere materia di un futuro studio). ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 104. ↑
- E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, p. 27. ↑
- M. Pomilio, Il cane sull’Etna, Milano, Rusconi, 1978, pp. 8-9. ↑
- Ivi, p. 10. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- M. Pomilio, Contestazioni, op. cit., p. 103. ↑
- M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 2000, pp. 81-82. ↑
- E. Auerbach, Lingua letteraria, op. cit., p. 15. ↑
- I paragrafi Introduzione e Conclusioni sono di Carlo Caccia e Gioele Cristofari. Il paragrafo Dal naturalismo della Neoavanguardia al «reale storicizzato» è di Gioele Cristofari. Il paragrafo Responsabilità filosofica e storicismo è di Carlo Caccia. ↑
(fasc. 49, 31 ottobre 2023)