Rec. di Nicolás Bernales, “La geografia dell’esilio” (Ensemble 2023)

Author di Matteo Lefèvre

La geografia dell’esilio è il primo romanzo di Nicolás Bernales, autore cileno dotato di una scrittura duttile e brillante, capace di attrarre il lettore sia per lo spessore dei contenuti sia per lo stile solido, asciutto, immediato. In questo libro, uscito in Italia solo pochi mesi fa, Bernales ci porta avanti e indietro nel tempo e nello spazio, dagli anni Settanta alla contemporaneità, da Santiago a Roma, da Londra alla Sicilia, raccontando una storia inquietante e insieme romantica, tenebrosa e tenera, avvolgente e rabbiosa, a tratti disarmante.

Il protagonista – Nicolás Sánchez, alter ego esplicito dell’autore – ci offre fin dal principio una chiave di lettura del contesto storico e sociale in cui si inquadrano le vicende: «Qui, in Cile, ci è rimasta la nomea del “Paese dei poeti”, ma ormai sopravvive solamente il simbolo e lo slogan. Oggi, l’unica cosa che si celebra con orgoglio, è l’accesso al consumo e al mutuo». Questa breve riflessione, icastica e laconica al tempo stesso, delimita effettivamente le coordinate geografiche e congiunturali del nostro racconto: si tratta del Cile degli anni Novanta, l’epoca della cosiddetta “post-dittatura”, con la svolta democratica seguita al regime del generale Augusto Pinochet, che, come molti ricorderanno, aveva rovesciato il governo di Salvador Allende grazie al golpe del 1973. Nell’opera, peraltro, emergono diversi retroscena su tale trauma collettivo di cui quest’anno ricorre il cinquantenario, che, sia detto per inciso, ha visto fiorire numerose manifestazioni di pubblica contrizione e rivendicazione, revisionismi e cambiamenti. E, a proposito di cambiamenti, la frase che abbiamo riportato rivela altresì il panorama economico nel quale si collocano, a diverso livello, personaggi ed eventi del romanzo; uno scenario che porta in primo piano il trionfo di un capitalismo irruento e capriccioso, perlopiù corrotto, vincolato perniciosamente alle convenienze dei partiti, così come l’avvento di una società del benessere “virtuale”, fondata su rateizzazioni, ipoteche e mutui a tasso agevolato. Per carità, niente di nuovo sotto il sole: tutto ciò è riflesso di una globalizzazione che, al di là di qualsivoglia teoria finanziaria, ha imposto agli individui modelli e aspirazioni, incertezze e fallimenti. E un “fallito”, in un certo senso, è anche il protagonista del libro, come indica il titolo di uno dei primi capitoli: «Buono a nulla». È un’etichetta che non allude soltanto a un bilancio familiare deficitario, ma a un fallimento a tutto tondo – professionale, sentimentale, morale – che investe il soggetto e il suo rapporto con gli altri. In tale affresco, per tornare al pensiero da cui siamo partiti, «simboli» e «slogan» si fanno emblemi di una vacuità sostanziale in cui lo spazio per la sfera intima, per la coscienza critica e per le attività ad esse legate – per esempio, in prima istanza, la letteratura – appare relegato a un piano nettamente secondario, alla marginalità, all’infamia quasi.

In quest’atmosfera fosca prende avvio la storia, in cui Nicolás fin dalla prima comparsa in scena esibisce una lontananza siderale rispetto ai “valori” celebrati dalla sua epoca; anzi, potremmo dire che incarna tutto ciò che la società del Cile contemporaneo tende a rimuovere. È un uomo poco produttivo, un marito altalenante (e “cornuto”, come si scoprirà presto), un padre premuroso e sensibile in un mondo competitivo e machista; fa vita d’ufficio per tirare a campare, ma dedica il meglio delle sue energie a scrivere racconti a cui si interessano giusto riviste di nicchia o piccole case editrici. Non è un uomo senza qualità, sia chiaro: il problema è che i suoi talenti, le sue predilezioni non trovano riscontro in un ambiente ossessionato dal denaro e ancor più dal successo. Tuttavia, l’io narrante sembra sempre lottare contro tale visione utilitaristica: «una vita poteva restare incompleta, essere mal costruita, piena di vuoti e, nonostante ciò, con il tempo, mettendo insieme i pezzi, brillare». La vita, da questa prospettiva, è proprio come la creazione artistica, il solo e unico interesse del protagonista (dell’autore?), o quantomeno il più autentico: l’opera d’arte nasce dallo spunto intellettuale, dal frammento estemporaneo, dal guizzo retorico per poi approdare alla solenne bellezza dell’insieme. D’altronde, il gioco meta-letterario (e, verrebbe da dire, anche “intersemiotico”) è parte integrante del mosaico narrativo: non parliamo soltanto dei già ricordati racconti abbozzati da Nicolás, che – è giusto metterlo in rilievo – occupano intere pagine del libro, ma anche dei numerosi riferimenti intertestuali che ne affollano i capitoli: da quelli più esibiti, con le citazioni esplicite di grandi poeti sudamericani, da Nicanor Parra a Gabriela Mistral e Ida Vitale, agli omaggi ai maestri delle lettere europee – tra gli altri, Dante, Virginia Woolf, Proust, Sciascia ecc. –, del cinema internazionale – per esempio, Orson Welles – e della musica, dai Talking Heads a Iggy Pop.

Tornando al filo principale del discorso, agli elementi che innervano l’intreccio e la scrittura di Bernales, proprio il titolo italiano del libro – La geografia dell’esilio – si fa discriminante per l’interpretazione del testo: la condizione che vive il protagonista, le vicissitudini in cui incappa – ne vedremo ora il dettaglio – lo portano inizialmente a considerarsi una sorta di “esiliato” in patria, un pesce fuor d’acqua in un mare piuttosto agitato. Paradossalmente, sarà quando avrà luogo il suo esilio vero e proprio, cioè quando sceglierà di lasciare il Cile, che si sentirà finalmente a suo agio, nel pieno di una nuova possibilità di esistenza. E il paradosso è ancora più scoperto se si pensa che questi abbandona definitivamente la sua terra ingrata per installarsi nel “nostro” paese in anni altrettanto sinistri per la storia politica e sociale di quest’ultimo, quelli del nuovo, mistificante “miracolo italiano”. L’esilio del personaggio, in ogni caso, non risponde a un mero desiderio di evasione, non è una scelta cosmopolita dinanzi al clima asfittico del proprio mondo: diviene una necessità a fronte del precipitare degli eventi attorno ai quali la trama del romanzo, progressivamente, assume un connotato angosciante, al punto che l’uomo, quasi suo malgrado, si lascia trascinare nell’ingranaggio unto e pericoloso della macchina del potere.

Tutto ha inizio nel pieno di una routine quotidiana in cui Nicolás, con i limiti strutturali sottolineati, conduce un’esistenza stanca in compagnia della moglie Laura, la quale coltiva interessi molto differenti (anche sul piano sentimentale…), e del figlio José, nei confronti del quale egli prova un amore incondizionato, che rappresenta per lui una vera e propria ancora di salvezza. Sullo sfondo delle loro vite aleggia la figura “nera” di Gustavo Infante, incarnazione del lato più oscuro di una politica senza scrupoli, il quale non solo si rivela essere l’amante di sua moglie, ma lo coinvolge in un gioco pericoloso di riciclaggio di denaro. È il classico giro di soldi alla base del finanziamento illecito ai partiti, secondo un costume antico che proprio in Italia ha trovato terreno fertile per decenni e ha dato il via, in quegli stessi anni Novanta, alla stagione inquietante di Tangentopoli. E in effetti quella in cui si trova presto coinvolto il protagonista è una sorta di “tangentopoli” cilena, per cui nella seconda parte del romanzo, intrecciate alle questioni del privato – dagli affetti all’indagine esistenziale –, incontriamo le circostanze classiche del legal thriller, con un aumento crescente della suspense causato dalle situazioni scabrose, dai rischi che l’incauto Nicolás si trova a dover affrontare. Tra faccendieri, “spaccapollici” e altre personalità che si muovono nel sottobosco esistente tra la sfera pubblica e la malavita, egli finisce in una sorta di tritacarne da cui solamente la collaborazione con la magistratura sembra poterlo far uscire. È una scelta difficile, dolorosa, anche perché la stessa Laura è coinvolta in questo vortice di affarismo e corruzione (anzi, la donna alla fine sarà una delle vittime di questo marchingegno); e poi perché le indagini dei tribunali sono tutt’altro che limpide, così come i metodi degli investigatori e dei pubblici ministeri.

Il quadro diviene sempre più teso e drammatico, e alla fine l’unica opzione possibile appare quella della fuga, dell’esilio volontario in un’Italia che l’autore, con un equilibrio non comune, ci presenta con dovizia di particolari e senza mai scadere nello stereotipo o, peggio, in una visione da macchietta: qui, tra Roma, Venezia e la Sicilia, che sarà la sua meta definitiva, un Nicolás Sánchez più libero e consapevole saprà mettersi alle spalle le circostanze avvilenti dei mesi precedenti e tenterà di rifarsi una vita in compagnia del figlio e di pochi amici fidati.

Da precisare che i personaggi del romanzo, pur rappresentando esempi paradigmatici, mostrano un buon coefficiente di autenticità. La dimensione autobiografica, per giunta, consente all’autore di far sentire spesso la propria voce, il proprio giudizio critico sul Cile e sulle sue storture per bocca del protagonista. I pensieri di quest’ultimo, come si diceva, sintetizzano appieno la natura di “esiliato” che entrambi i Nicolás – quello vero e quello fittizio ‒ vivono nel rapporto irrisolto con la propria patria, con una politica e una società che negli anni hanno messo all’angolo le ragioni e gli auspici più veri dell’essere e non hanno neppure rispettato le promesse di uno sbandierato progressismo liberale.

In un mondo – anche in questo caso, reale e letterario – che predilige piuttosto i caratteri risoluti, il romanzo, al contrario, il più delle volte porta in primo piano la psicologia umana nella sua complessità, tra inazione, tradimento, vendetta, pentimento ecc., i meccanismi profondi che diventano i motori della macchina narrativa e alimentano il procedere della storia secondo una consuetudine presente da sempre nella migliore letteratura. E proprio la letteratura, come ci ricorda Nicolás verso la fine del libro, è ciò che dà un senso agli accadimenti, ciò che consente di mettere insieme i frammenti, anzi, i frantumi a cui spesso danno luogo le asprezze dell’esistere, i pezzi di una cronaca ingenua e sentimentale che pare l’unica credibile nel momento in cui uno scrittore è chiamato ad analizzare e ricostruire sé stesso, la sua vita, la sua vocazione: «Quei pezzi erano solo miei: la storia con Laura, il coinvolgimento dei magistrati, […] la colpa e il sospetto. Potevo costruire un’altra realtà con quello che sapevo. Quella era la funzione dell’arte, riordinare l’incontrollabile dall’ansia. Ma non avevo ancora la voglia o la forza. Non ancora». E invece l’autore questa voglia e questa forza le ha trovate eccome: ne sono una prova lampante la «geografia» del corpo e dell’anima, l’«esilio» fisico, morale, letterario, dal quale Bernales ci spedisce un messaggio limpido, ricco di passione e di futuro.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

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