Le «vittime della scure» nell’oikos di Calvino: (proto)ecologia tra distopia e relazioni disforiche da Ombrosa a Leonia

Author di Martina Palese

Per quella fitta connessione che rende il linguaggio e la letteratura figli reciproci di una vasta possibilità di intenti, la personalità di Italo Calvino prescinde dalle fissità di una collocazione cronologica, oltre la quale si erge a pioniere di tempi distanti e vicinissimi. Acuto osservatore nonché promotore ideologico e narrativo di quel filtro sottile tra parola e realtà, serve nell’ombra del dettaglio i paradossi e le attese delle più significative trasformazioni storiche e culturali del suo “stare” nel mondo.

Ascolta l’«inferno dei viventi»[1] non sfuggendogli, abbozzandone le metamorfosi e fluendo con esse in un algoritmo letterario intessuto della relazione tra umano e non umano, reale e ideale, allegorico e fiabesco, lungo una prospettiva storica orientata che lega indissolubilmente passato e presente. La stessa che della disarmonia della modernità fotografa l’assuefazione, maneggia le contraddizioni e accoglie le scosse di un «campo di impulsi magnetici», tra corpi e sensazioni propri di uno spazio che è «inseguimento delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita», ecosistema biologico e sociale, risultante degli «influssi reciproci di fauna e di flora e di clima e di fisiologia»[2].

Nell’atrofia della modernità che incombe, il merito di Calvino, con un approccio anticipato di natura proto-ecologica, risale al ritratto dell’ambiente come di un sistema instabile condannato, effetto tanto di uno spaesamento esistenziale quanto di un’attenzione dai tratti neorealistici alla dimensione locale. Eppure, il paesaggio «per poterlo rappresentare occorreva […] diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie»[3], perché i processi trasformativi dello sviluppo industriale del dopoguerra trasparissero nella completezza dei propri ingranaggi. Se già «l’amore per la natura di Marcovaldo è quello che può nascere solo in un uomo di città», il paradigma nostalgico e controverso di un contorno che soccombe all’urbanizzazione segue una parabola irregolare anche nella scrittura.

Tra le pagine calviniane si staglia un ideogramma di smog, nebbia fumosa e detriti chimici, che assume le sembianze di un mondo «umano e lancinante»[4], fino a precipitare nelle rovine di un «terreno vago ricoperto da immondezzai»[5], che il personaggio di Marco Polo percorre tra le città invisibili, dieci anni prima di Palomar, come ombra di un anonimato cittadino «frenetico e congestionato»[6]. D’altronde, «la cosa che vorrebbe salvare» il “morto scorbutico” è «la più fragile: quel ponte marino tra i suoi occhi e il sole calante»[7], in un universo immaginifico che si scontra con la constatazione del deterioramento, regredendo all’interrogativo esistenziale di quel protagonista «buffo e melanconico» che, «in mezzo alla città di cemento e asfalto», si domandava: «Ma esiste ancora, la Natura?»[8]. Dispettosa, contraffatta, compromessa, da sfumarsi nel Bosco sull’autostrada, contaminarsi degli abbagli dei semafori, perdersi fra salvagenti, barche e canotti in Un sabato di sole, sabbia e sonno.

Così, nel ventennio trascorso dalle novelle delle Stagioni in città alla desolazione «dell’uomo-albero» impigliato nella «trappola messa insieme con snodi di plastica, ossa e […] scotte di nylon»[9], Italo Calvino compone attentamente gli orizzonti di isolamento delle sue creazioni, affidandovi lo scrutamento anonimo, a tratti defilato, ma solerte di quelli che, in fondo, sotto ai rovesciamenti elementari del «fuoco celeste, l’aria in corsa, l’acqua culla e la terra sostegno», non sono altro che i meccanismi più semplici della Terra[10].

Una «geografia dello stile grigio»

«Questo sarebbe un bellissimo tema per un saggio: Il «tono grigio» nella letteratura italiana contemporanea»[11], aveva risposto Calvino al direttore di «Nuova corrente», Mario Boselli, per replicare al rimprovero, tra altri, di «critico stilistico» rivoltogli nel n. 35 della pubblicazione del 1965. L’appunto sprezzante circa la scelta di un lessico «povero e disadorno» gli aveva suggerito una dissertazione epistolare sul valore dell’esemplificazione, abbinata a una «densità verbale» e a una «minuziosità descrittiva» imprescindibili per quella raggiera di relazioni con la quale illustrare il rapporto con il grigiore[12]. In ciascun componimento – ammetteva – «si notano delle parti più scritte e delle parti meno scritte» che, come per lo spaccato del legno, «in cui si possono seguire come corrono le fibre, dove fanno nodo, dove si diparte un ramo»[13], parlano nel silenzio, quanto nel sonoro fitto accostamento di dettagli e tecnicismi:

Torniamo ora al punto di partenza: il povero, il disadorno, lo squallore, il grigiore. Dove lo mettiamo? Lo mettiamo, mi pare, come un contenuto (oggettivo psicologico) che il protagonista (o l’io lirico, o l’autore nella sua proiezione narrativa) vuole eleggere, vuole tenere ininterrottamente sotto gli occhi, vuole identificare in sé, ma (e il tema è già dato dalle prime righe) attraverso un atto di volontà, una scelta[14].

Ed ereditario è il carattere della scelta lessicale e metodologica dell’autore, figlio dell’agronomo Mario Calvino e della botanica e naturalista Eva Mameli, che «non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari»[15], fino a insinuarsi nel linguaggio letterario, eppure scientifico, di una ricercata resa «materialistica dei procedimenti astratti»[16]. La parola diviene strumento conoscitivo e ricostruttivo di un’immagine cosmica cui concorrono i movimenti, il pensiero, le deformazioni percettive, le tinte, lungo una tendenza che culmina nel dittico del 1965[17], quando l’aria color bituminoso della nuvola di smog e la Riviera infestata dalla “formica argentina” preannunciavano l’inversione progressiva che Calvino avrebbe compiuto all’interno delle sue trame narrative.

La fede nel «verde che digrada a strisce per la vallata»[18], prima di disperdersi, corona l’immagine catartica del finale dei due racconti, pubblicati l’uno nel 1952 nel decimo numero del periodico «Botteghe oscure», l’altro nella rivista moraviana «Nuovi Argomenti», prima di costituire il volume unico edito nel decennio a seguire. Residui di futura speranza tratteggiano i “grandi prati” del sobborgo della lavanderia Barca Bertulla, per le campagne fuori dall’abitato, dove il protagonista senza nome di La nuvola di smog si concede il riso della purezza al cospetto di siepi, pioppi, fontanili e lunghe biancherie distese al sole. La vita annebbiata, impolverata dalla «nuvola che abitavo e che m’abitava»[19], assorbe, una figura dopo l’altra, una cieca, inquinata e “ipocrita” routine, che in La formica argentina aveva conosciuto già la collateralità dell’infestazione naturale. Sull’orlo del confine tra spirito progettuale e congetturale, i personaggi di entrambe le storie sono posti al cospetto di una sfida di fondo che ne aspira e riplasma l’identità: moglie, marito e bambino, impauriti dal «nemico concreto, numerabile, con un corpo»[20], confusi dal vicinato e affaticati dal cambiamento, quietano l’agitazione con «un giro […] fino al mare», a riscoprire la “meraviglia”, l’azzurro, i «gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde»[21].

I colori risplendono ancora, in un angolo nascosto delle retrovie, ma si dileguano presto, indietreggiando alla minaccia del «grigio delle terre gerbide», dei “cipressi neri”, del giallo che «a poco a poco spariva come cancellato», quasi «in un socchiudere di palpebre ancora assonnate». Inerte, fra le righe, tutto pare assopirsi. In Ultimo viene il corvo (1949) il grano impallidisce, il gatto è «grigio e magro, di pelo corto e tutto tendini»; sono grigie l’alba, l’aria e la «sensazione di vuoto, intorno»[22].

Talvolta il mondo del Marcovaldo è “grigio e misero”, come la fiamma, gli abiti, i colombi, le montagne e «le cose di tutti i giorni spigolose e ostili»[23]. Le sue “ricchezze nascoste” non sono sufficienti a contrastare il “reame di ville e alberghi”, né «il grigio muro di cemento che piombava nel verde del giardino trasformandolo in un freddo fondo di cortile, in un pozzo senza luce», o i «nodi di radici morte, chiocciole, lombrichi» di La speculazione edilizia (1957)[24].

Le «relazioni dell’area grigia con […] le più colorate»[25] – per riecheggiare la Lettera a Boselli – implodono nei Racconti. Il prisma cromatico delle fotografie testuali sospende il tempo della storia e della storia narrata, aggredendo la “situazione atmosferica”, i pantaloni di flanella, le case, persino lo squallore dei rapporti[26].

Lo sbiadirsi ininterrotto nutre il senso di quella condizione esistenziale di «ombre senza faccia»[27], che si esprime allora nel “tema generale” dell’«impossibilità dell’armonia naturale, con le cose e con gli uomini»[28], spaccatura dell’οἶκος nella «nota stonata dell’artificiale», nonché «il dubbio, il sospetto d’aver sbagliato strada»[29].

Il guizzo del Barone tra La formica e La nuvola

Distante dalla restituzione di una sola realtà, con flessibilità Calvino aveva tentato di muovere sulle orme di una fantasia entusiasta e anti-convenzionale la scrittura felice del Barone rampante[30]. La scacchiera dei suoi numerosi giochi rappresentativi si era distinta per una forma di avanguardismo interpretativo, avvalorato dalla fragilità delle gerarchie sottese all’intera produzione letteraria.

I rimandi interni all’opera stimolano, pertanto, considerazioni inter e intratestuali per una contiguità arricchente che realizza la volubilità della tolleranza tra la dimensione antropologica e quella naturale, afferente a un’idea di antropocene che sostanzia un’incidenza reciproca d’impatto, stabilendo in aggiunta dei riferimenti di partenza e di arrivo. In effetti, gli equilibri delle diapositive calviniane appaiono moderati da un itinerario di combinazioni multiple, grazie alle quali la novità del Barone accoglie premesse anticipate e posticipate quanto a linguaggio, metodologia, contenuto e atteggiamento. Non è un caso che gli ingenui resoconti del fratello di Cosimo Piovasco di Rondò siano collocati sulla linea temporale di quel secolo decimonono in cui “grappoli” e “fucileria” si assommano nel farsi “tutto mosto” dell’aria, delle nuvole e del sole[31]. Lo choc della frattura tra la coscienza umana e le “vittime della scure” è avviato, per giunta veicolato dall’allarme della Formica e condotto fino all’apatia della Nuvola. Nel mezzo, ancora una volta, ansimano scampoli di vita: roveri, gelsi, olivi, pini, talee e «l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo, abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene»[32]. Per quanto vicino al cielo, Cosimo balzella fuori dalla nuvola di smog, in un frangente temporale passeggero in cui la vegetazione sopravvive tanto rigogliosa da percorrervi, di ramo in ramo, inquantificabili chilometri. È l’occasione per l’autore di proiettarsi nel testo, accomodarlo all’esperienza e abbinare l’inchiostro impegnato a quell’«immaginazione scientifico-poetica»[33] che corrobora visibile e invisibile in una svolta epistemologica decisiva. Calvino attinge nuovamente alla sfera botanica e zoologica familiare, che riproporrà nel fragore fantascientifico delle Cosmicomiche (1965), nei paradossi dei racconti di Ti con zero (1967) e nella prosa galileiana di supporto alla conversione del meccanismo osservativo in descrittivo.

Ma di livello enigmatico, in linea con i labirinti semantici e metaforici proposti, è una possibile intessitura di corrispondenze mitopoietiche e narrative incastonate a un’attitudine spasmodica di cura al dettaglio: all’onomastica e alla simbologia vegetale è trasversale un’astrazione del tangibile funzionale all’evoluzione dell’universo ideologico dell’autore. Nel primo caso, il barone di Rondò, assieme a Medardo di Terralba e Agilulfo, protagonisti rispettivamente del Visconte dimezzato (1952) e del Cavaliere inesistente (1959), conservano quell’estro fiabesco che sopravvive in Marcovaldo con Domitilla, Isolina, Fiordaligi, Daniele e Michelino; si storicizza poi in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), per prosciugarsi in Le cosmicomiche (1965), nei nomi di Qfwfq, Vhd Vhd, G’d(w)n, Bb’b, Hnw, così da eclissarsi sul finale, a picco nelle antinomie della modernità.

Nel secondo caso, parimenti, il ritmo di quegli elementi animati, vegetali e animali, cela una rete di significati impliciti, intensificando non solo le specificità delle diverse fasi del racconto, ma generando da sé una concatenazione tale da ispessire di senso e allusioni lo spazio e il tempo della narrazione, nella e con la Natura.

Per uno studio rivolto alla frequenza di menzione delle specie vegetali, l’olmo, il gelso e il frassino scandiscono tre dinamiche cruciali della vita sugli alberi del Barone. Con «le gambe a penzoloni»[34], Cosimo predilige i «tronchi bugnati come ha l’olmo»[35] per attimi di riflessione, apprendimento, sguardo rivolto all’orizzonte verso «il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si perdeva lontano»[36]. Il gelso ne accarezza lo scambio atipico con la socialità, dalla sua Viola al fratello, col quale confabulava senza lasciarsi scalfire dai richiami di casa. Per ultimo, il frassino, «dove allora era il suo rifugio»[37], stabilisce le distanze dal mondo che contempla, misurandovisi con gli abbai di Ottimo Massimo e rifornendo ogni incavo disponibile di «una botticella piena d’orzata, per placare la sete estiva»[38].

Ebbene, il personaggio calviniano è fuori e dentro un’età che prelude le vittime future, e di quel verde, presto grigio, su cui posa, coglie l’occasione di mantenersi umano ed extraumano al contempo. Coltiva sé stesso, rifugge “scintille e fiammelle”, combatte, osserva, racconta e, come l’autore, si ribella, attanagliato dal prospetto del primo «oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa»[39], disabituato ma esposto a «un cielo di corone di nubi e fumo»[40], fino a volare via, con lo scomparire muto anche del suo idillio di fichi, ciliegi, lattughe, verze, foglie di zucca e peschi: «Tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita»[41].

Disforia e distopia: una rilettura ecologica di Leonia

Marcovaldo, Cosimo, Palomar, tra tutti, fluttuano nell’ecosistema che Calvino mette a fuoco abilmente, con un sentire nostalgico e inquieto che anticipa «il tempo della violenza distruggitrice»[42] e che fa luce sulle funzioni delle sue singole componenti.

Le contraddizioni alimentano lo schema illustrativo e oscillano tra parvenze di conciliazione e sanguinanti lotte con l’ambiente. Tuttavia, è con il profilo di Leonia che il delitto si consuma in definitiva, nel momento in cui l’allarme velenoso del rospo, delle vespe, delle formiche, del fischio “umano” dei merli, cede a un posto in cui «più dalle cose che ogni giorno vengono comprate, l’opulenza […] si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove»[43].

La residuale euforia di Ombrosa scade nella distopia delle Città invisibili, come esito di un rilevamento su più piani condotto dall’autore intorno a un momento di crisi della vita urbana. Non per ecologia, ma per coscienza e constatazione delle trasformazioni del mondo; per la “città continua” che «rifà se stessa tutti i giorni», con i resti, sui marciapiedi, «avviluppati in tersi sacchi di plastica» ad attendere «il carro della spazzaturaio»[44]. La malinconia dei verdi orizzonti è sovrastata da un nuovo disegno, puntuale, di “rimasugli indistruttibili”, addossati a Leonia come un «acrocoro di montagne», tanto annichilente da ammettersi indistruttibile[45]. Le nuvole fumose si amalgamano alle bolle dei detersivi, i “crateri di spazzatura” contrassegnano uno stato patologico e «i confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano»[46].

La rilettura di Italo Calvino è spietata e lungimirante, neppure lontana dalla previsione che il pattume di Leonia, a poco a poco, invaderà il mondo. Come fa, ogni giorno, dal decollo della mongolfiera del Barone di Rondò che, in fondo, non desiderava che «sparire verso il mare», salendo in cielo, con amore eterno per la terra.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 119.
  2. F. Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Milano, Garzanti, 1973.
  3. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964.
  4. I. Calvino, Ritratto su misura: Italo Calvino, in «I libri degli altri». Il lavoro editoriale di Italo Calvino, a cura di G. Zagra, E. Cardinale, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 2013, pp. 9-10.
  5. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 73.
  6. I. Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 1994, p. 6.
  7. Ivi, p. 15.
  8. I. Calvino, Marcovaldo: ovvero Le stagioni in città, Milano, Mondadori, 2012.
  9. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 15.
  10. Scrive in Palomar, per esteso, che, «Se non fosse per questa sua impazienza di raggiungere un risultato completo e definitivo della sua operazione visiva, il guardare le onde sarebbe per lui un esercizio molto riposante e potrebbe salvarlo dalla nevrastenia, dall’infarto e dall’ulcera gastrica. E forse potrebbe essere la chiave per padroneggiare la complessità del mondo riducendola al meccanismo più semplice»: I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 8.
  11. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, Milano, Mondadori, 2019, p. 8.
  12. Ivi, pp. 8-9.
  13. Ivi, p. 11.
  14. Ivi, p. 13.
  15. I. Calvino, La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori, 2010.
  16. F. Leonetti, L’eversione costruita, «Il Menabò», VII, 8, 1965, pp. 285-86.
  17. I due racconti, La formica argentina e La nuvola di smog, erano già stati editi separatamente in precedenza, nel 1952 e nel 1958, all’interno della raccolta Racconti. Risale al 1965 il volume congiunto di Einaudi, attorno alla quale Calvino aveva cominciato a orbitare dal 1946.
  18. I. Calvino, Ultimo viene il corvo, Milano, Mondadori, 2013.
  19. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 92.
  20. Ivi, p. 131.
  21. Ivi, p. 159.
  22. I. Calvino, Ultimo viene il corvo, op. cit.
  23. I. Calvino, Marcovaldo: ovvero Le stagioni in città, op. cit.
  24. I. Calvino, La speculazione edilizia, Milano, Mondadori, 1994.
  25. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 9.
  26. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 61 e sgg.
  27. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 87.
  28. I. Calvino, A Pietro Citati, 2 settembre 1958, in Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000.
  29. I. Calvino, Natura. Vocabolarietto dell’Italiano, in Almanacco letterario Bompiani, a cura di V. Bompiani, C. Zavattini, Milano, Bompiani, 1958.
  30. Dal Barone è tratta la citazione del titolo: I. Calvino, Il barone rampante, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 33.
  31. Ivi, p. 204.
  32. Ivi, p. 33.
  33. I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura [1968], in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 186.
  34. I. Calvino, Il barone rampante, op. cit., p. 13.
  35. Ivi, p. 76.
  36. Ivi, p. 139.
  37. Ivi, p. 113.
  38. Ibidem.
  39. Ivi, p. 32.
  40. Ivi, p. 33.
  41. Ivi, p. 160.
  42. Ivi, p. 188.
  43. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 82.
  44. Ibidem.
  45. Ivi, p. 83.
  46. Ibidem.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)