Calvino e il paesaggio sanremese. La lettura anarchica di Piero Ferrua

Author di Cecilia Spaziani

Chissà quale sarebbe stato il modo migliore per parlare di lui, degli anni formativi, del battesimo del fuoco, dei debutti, delle scorrazzate sanremesi! Questo proto-Calvino per noi inizia il 2 ottobre 1925, data del suo arrivo a San Remo da Cuba, e si conclude il 7 luglio 1949 quando lo scrittore elegge residenza nel comune di Torino, cessando di essere sanremese e diventando universale.

Di San Remo non aveva più bisogno: la sua retina, la sua mente, il cuore ne erano imbevuti per sempre[1].

Il passaggio conclusivo con il quale Piero Ferrua (1930-2021) – intellettuale e anarchico recentemente scomparso – chiude il volume dedicato all’Italo Calvino sanremese testimonia la presenza di prospettive d’indagine passibili di importanti ampliamenti nel ricco panorama degli studi sull’autore. Italo Calvino a San Remo (1991)[2] di Ferrua si colloca nel novero delle indagini calviniane ingiustamente dimenticate, il cui recupero permette invece di integrare con informazioni nuove e uniche nel loro genere la già dettagliata ricostruzione biografica e letteraria sull’intellettuale. All’interno della vastissima bibliografia e tra la moltitudine di progetti di ricerca a lui dedicati – pari probabilmente solo a quelli pasoliniani – il volume di Ferrua dimostra sin dalle prime pagine l’eccezionalità della prospettiva adottata per l’indagine sui luoghi d’origine di Calvino, collocandosi dunque tra le ricostruzioni più significative degli ultimi decenni: il carattere testimoniale della ricerca, la prossimità dell’autore alla famiglia Calvino-Mameli, la sua provenienza sanremese e la vivace partecipazione alla vita e alle dinamiche del giardino di Villa Meridiana sono solo alcune delle questioni che provano la necessità di un recupero della ricerca di Ferrua, lucida e approfondita ricostruzione spaziale quasi dimenticata di uno dei classici della letteratura italiana del Novecento che molto deve alla città che lo ha cresciuto.

Con tali premesse, la riflessione che segue intende riscattare la particolare e profonda analisi che Ferrua dedica al rapporto tra il paesaggio sanremese e Calvino, provando la costante e durevole influenza del primo sul secondo, sulle sue opere e sulla sua poetica sulla base di una bibliografia di impronta paesaggistica e naturalistica collegata alla Storia del giardino e del paesaggio, che a mio avviso permette di integrare le indagini letterarie sull’autore e sui suoi luoghi elettivi. Conferendo adeguato valore all’educazione familiare e al retroterra culturale entro cui si formò Calvino, sostenendo la centralità della professione dei genitori – agronomo e botanica – nella sua formazione e nondimeno attraverso il recupero dell’originale personaggio del giardiniere Libereso Guglielmi, Ferrua getta infatti nuova luce, negli anni Novanta, sul persistente dualismo tra il carattere universale della scrittura dell’autore del Sentiero dei nidi di ragno (1947) e la specificità dei richiami all’ambiente natale; oltre a essere portatore di una simbologia che attraversa l’intera produzione, il substrato sanremese si erge a strumento di poetica e di riflessione critica sulla società, chiave interpretativa e lente sul mondo.

Docente universitario e di scuola, scrittore, anarchico e obiettore di coscienza, Piero Ferrua nasce a Sanremo, osservatore dunque privilegiato nel racconto di un Calvino spesso inedito. Il volume Italo Calvino a San Remo, da questa prospettiva, sviluppa un discorso locale con riferimento a luoghi, ambienti e personaggi ma, con affondi sul percorso scolastico e professionale, sull’attività politica e resistenziale e sui legami familiari e d’amicizia, riesce a integrare e arricchire il profilo di un Calvino già molto studiato, assumendo i toni di una biografia commentata, a tratti autobiografia dell’autore stesso che spesso incrocia la vita del giovane intellettuale e della famiglia. Ne nasce così un libro autentico, nel quale gli episodi raccontati nei brevi capitoli che lo compongono acquisiscono un alto grado di eccezionalità conferita dal confronto diretto con gli eventi e con i personaggi. Lungi dal ripercorrere in questa sede gli studi dedicati al ruolo del contesto spaziale nella produzione letteraria di Calvino, su cui molto ormai si è detto negli anni[3], l’obiettivo delle pagine che seguono vuole essere una riflessione più specifica sulla «sanremaschità» e sulla «liguritudine»[4] di Calvino – per introdurre una prima terminologia ferriana – a partire dal sostrato autobiografico e relazionale degli anni di Villa Meridiana, che con Renato Guglielmi, il figlio Libereso e con Piero Ferrua stesso costituisce una componente essenziale dell’opus dello scrittore.

Sebbene infatti le immagini di città, di campagna, di montagna e di mare[5] nella produzione letteraria dell’autore si siano dimostrate rappresentative di una particolare attenzione all’ambiente naturale e di un’eccezionale sensibilità intellettuale nei confronti dei mutamenti antropologici e sociali del secondo Novecento, per dirla stavolta con Pasolini[6], tali individuazioni testuali non colmano il vuoto di notizie relativo alla formazione calviniana, soprattutto ai motivi della competenza agronomica sottesa alla letterarietà dell’opera. Motivata tale sensibilità con alcuni significativi passaggi biografici riletti dalla particolare prospettiva ferriana, si intende infine riflettere sulla tensione di Calvino a trasporre letterariamente tali competenze, facendo di esse il sostrato della propria poetica.

Le competenze agronomiche di Calvino. “Paesaggi dell’esperienza”

Calvino possiede una profonda conoscenza dei luoghi che hanno ispirato le sue opere. Ne sono una prova non solo i bollettini di guerra, le locomotive a vapore della Riviera, l’esodo verso i centri industriali, il Giro d’Italia o la corsa ciclistica Milano-Sanremo minuziosamente descritti, ma anche i paesaggi sanremesi trasfigurati in esotiche moschee, minareti od oasi delle Città invisibili: «Italo si siede nottetempo, all’aperto […] e trasforma l’antenna della radio di San Martino in minareto, i giardini di Villa Ormond in tregende di palmizi, Villa Meridiana in un’oasi da respirare»[7]. Egli appartiene del resto, come afferma Alberto Asor Rosa, alla fragorosa e illuminata generazione di scrittori e scrittrici nati negli anni Venti del Novecento[8]. Con Pier Paolo Pasolini, Beppe Fenoglio, Carmelo Samonà, Mario Tobino, Natalia Ginzburg[9], solo per citarne alcuni, egli vive il passaggio da una struttura economica agricola o marinara, come si diceva, a una invece prettamente industriale che, attraverso il progresso tecnologico, l’intensificazione dell’attività produttiva e il consumismo, modifica irrimediabilmente l’immagine della società, su un piano tanto antropologico quanto culturale. «Sanremo fino a un secolo fa era un paesotto con un quartiere di marinai […]. Gli abitanti vivevano della raccolta e della vendita collettiva dei limoni, di cui a quel tempo il paese era circondato, quelli della marina navigando dal piccolo porto e pescando nel mare povero», denuncia nel 1946 dalle pagine del «Politecnico»[10]. Con il sopravvento dell’industria turistica e la riapertura del Casinò tale cambiamento si rende manifesto; scrive a tal proposito Benussi:

Sanremo, il suo paesaggio antico e il suo consumismo moderno, Sanremo come luogo dell’interiorità, della mente, da cui deve partire per descrivere qualsiasi altro (la Venezia di Marco Polo nelle Città invisibili), è comunque sempre al centro della memoria e della storia di questo scrittore in cui possiamo ancora ritrovare, seppur affrontati in modi ormai vicini a chi si sente cittadino di un villaggio planetario, gli ultimi temi cari a una cultura […][11].

Estendendo il discorso a tutta la Riviera di Ponente, nell’articolo egli descrive con minuzia di dettaglio le «piaghe della natura»[12], scrive Ferrua, dall’abbandono culturale alla difficoltà di comunicazione con la città, dalla presenza dei parassiti alla scarsità dei concimi per combatterli, dalla mancanza di attrezzi al problema dell’erosione, proponendo così, allo stesso modo dei genitori, una forma alternativa di denuncia al progresso sociale dalla prospettiva privilegiata di chi (ri)conosce e padroneggia le questioni ed è in grado di proporre valide soluzioni. Si legge ancora nell’articolo Riviera di Ponente:

La storia della Riviera di Ponente si può raccontare in due maniere: una che tratta della lotta degli uomini tra loro, del popolo e della piccola borghesia prima contro i saraceni, poi contro i nobili, poi contro i vescovi, poi contro i genovesi, poi contro i Savoia, poi contro i fascisti. L’altra che racconta la lotta degli uomini contro la terra, di come i terreni coltivati a segale o a fave tornarono incolti, di come agli agrumeti succedettero le piantagioni di rose o di garofani, di come gli uliveti deperirono e furono abbandonati o distrutti[13].

Si tratta di una lettura del contesto urbano e naturale indubbiamente connessa alla cultura agronomica e botanica ereditata dai genitori e assorbita negli anni sanremesi di villa Meridiana[14], come provato dai contenuti e dai toni perfettamente aderenti agli studi sulle città e sull’ambiente, alla Storia del giardino e del paesaggio. Attraverso le riflessioni sulla «lotta degli uomini contro la terra», Calvino anticipa dunque una prospettiva di indagine che sarà propria – nei decenni a venire – di studi di settore relativi al connubio città-natura, come quelli di Gilles Clément sui Giardini, paesaggio e genio naturale[15], di Luigi Zangheri sulla storia del «verde nella cultura occidentale»[16], di Alvaro Standardi, docente di Arboricoltura all’Università di Perugia, secondo cui «la corsa verso le città e l’espandersi di queste, hanno determinato l’allontanamento dalla natura dell’uomo il quale forse inconsapevolmente continua a desiderarla vicina»[17].

A fronte dei «numerosi ritratti parziali»[18] dei genitori che Calvino traccia nel Barone rampante, nella Speculazione edilizia, nel Visconte dimezzato e, ancora, tra gli altri, nei racconti L’occhio del padrone e Pranzo con un pastore – «talora appena velati dal gioco di trasposizioni […] talora decisamente criptici, calati in un contesto che volutamente distoglie il lettore dalla tentazione di procedere a identificazioni certe»[19] –, le riflessioni ambientali e urbanistiche rappresentano secondo chi scrive la più concreta e sincera testimonianza di un’eredità morale e culturale, «intellettuale e civile»[20], di una fedeltà intima all’interpretazione del mondo «delle erbe e dei venti», del mondo dell’opaco[21] – scriverà poi Italo – di Mario Calvino ed Eva Mameli:

Fin dall’adolescenza, Italo optò per i romanzi d’avventura, per le riviste umoristiche, i fumetti, il cinema: poi rifiutò di laurearsi in Agraria, decise di vivere in una grande città…Ma proprio mentre rinunciava a seguire le orme solenni dei suoi, mentre si avviava a seguire fino in fondo la propria vocazione, non trascurava l’essenza degli insegnamenti ricevuti[22].

Pur nella decisione di non intraprendere la professione dei genitori, svincolandosi dunque dalla rigidità delle strutture intellettuali di stampo scientifico, egli mantiene comunque salda l’adesione nei confronti di un modus vivendi di origine familiare di cui Sanremo, villa Meridiana e le sue attività sono il fulcro: «Egli diceva di non aver saputo far tesoro del sapere dei suoi e di essere la pecora nera della famiglia: al contrario, il mondo vegetale e la mentalità scientifica di Mario ed Eva Calvino rappresentarono una fonte di riferimento fondamentale per la sua ispirazione letteraria»[23]. Si tratta di un modo di recepire la realtà circostante che si traduce in un’ostinata attenzione ai contesti e nella trasposizione letteraria degli ambienti naturali e cittadini della sua giovinezza, «in una finale assimilazione affettiva della vegetazione naturale, cara ai genitori botanici»[24], sino a divenire cifra stilistica dell’intera sua produzione. Come ricorda Ferrua, infatti, «Calvino portò sino all’ultimo San Remo nel cuore e nella mente. […] Sanremesi sono i paesaggi, le abitudini, il cibo, il linguaggio, i personaggi. Anche i più fantasiosi, che tali appaiono, fanno tutti parte della nostra realtà quotidiana»[25]. Si dimostrano in tal senso esemplificativi di tale adesione al reale, alla sincerità dei luoghi e alle topografie le descrizioni degli ambienti in cui si muovono i partigiani del Sentiero dei nidi di ragno, scrupolosamente ricostruiti all’interno di Italo Calvino a San Remo nel capitolo dedicato al Partigiano «inesistente»[26], «immersi nell’ambiente» ed «estensione della natura»[27]. San Giovanni e Colabella – «dove accompagnava il padre sin da ragazzo»[28] –, Saccarello – dov’era stato nell’estate del 1940 –, Triora Upega, Mongioia e i luoghi dove trascorre i mesi estivi del 1941 o Monte Ceppo l’anno seguente possiedono il fascino storico e memoriale di quanto descritto nelle opere resistenziali del Sentiero e dei racconti di Ultimo viene il corvo (1949) di cui Ferrua – diversamente dalle indagini più canoniche sul Calvino in guerra – propone però una lettura “altra”, ricca di testimonianze dirette di amici e partigiani da lui stesso intervistati: Antonio Montini, Gino Napolitano, Eugenio Carugati e Rinaldo Ferrero, tra gli altri, permettono di colmare vuoti cronologici, forniscono notizie inedite e interessanti smentite relative, ad esempio, alla presenza di Calvino in montagna in alcune battaglie chiave, mentre egli invece «se ne stava tranquillamente a Torino e frequentava l’Università», sostiene Montini[29]. Le trattazioni del Calvino «badogliano», nelle SAP e del Garibaldino comunista si dimostrano dunque significative nel nostro discorso sul substrato spaziale sanremese, a riprova di quanto lo scrittore possieda una conoscenza profonda e intima degli ambienti che gli permettono di stabilire una connessione tra l’elemento identitario e familiare cui desidera rimanere ancorato e l’iter professionale:

Oltre a tutto e forse al contrario di altri partigiani di abitudini urbane o addirittura forestieri, Italo aveva una profonda conoscenza dei luoghi che percorreva durante l’epopea partigiana: a San Giovanni e Colabella, […] a Triora, Upega, Viozene, al Mongioia, al Marguareis (nell’estate del 1941 con Maiga, Pigati e Cossu); alle Beulle e a Monte Ceppo (estate del 1942)[30].

Consegnato all’editore nel 1987, il manoscritto originale del volume di Ferrua portava originariamente il titolo di Calvino Inedito, ma la scoperta dell’impossibilità di riprodurre gran parte dei testi e dei documenti iconografici ed epistolari, inediti o rari, lo ha costretto a ridurre consistentemente il corpo del libro, a modificarne di conseguenza anche l’intestazione – volta poi nell’attuale Italo Calvino a San Remo – e a pubblicarlo quattro anni dopo, nel 1991, con l’editore Famija Sanremasca[31]. «Scavando negli archivi si son trovate delle date precise e pian piano si sono raccolte testimonianze»[32], scrive Ferrua, talvolta suffragate da documenti inoppugnabili di cui nel volume fornisce, quando possibile, le preziose riproduzioni. La domanda di ammissione all’ANPI, la dichiarazione del C.L.N. che conferma la sua partecipazione alla brigata cittadina “Matteotti” «distaccamento “Leone” dal 1 ottobre al 15 novembre, cioè allo scioglimento», la Tessera del partigiano, la Scheda e il Registro di smobilitazione[33] sono un’ulteriore prova del rapporto di Calvino col “paesaggio dell’esperienza”, di cui Ferrua ricostruisce e racconta gli aspetti meno noti. «Partendo da questo presupposto di vita vissuta e di comunità», scrive il comandante partigiano Gino Napolitano, «la sua formazione si arricchisce nel tempo, anche culturalmente»: a Calvino va dunque, in questo senso, «il grande merito di aver saputo presentare la Resistenza non in maniera così patriottica, ma in maniera reale…»[34].

«Calvino della prassi»[35] e non più della poesia, come lo definisce Ferrua al ritorno dalla Resistenza, fino all’aprile del 1945 ha lasciato ai genitori il tempo per riflettere sul suo futuro. «Carmina non dant panem», dicevano delle sue inclinazioni letterarie, come egli stesso racconta nel breve estratto del testo inedito Il treno degli illusi che Ferrua fa confluire nel volume: «Devo scegliere la mia carriera… Sono convinto che qualunque professione io intraprenda rimarrò nella mediocrità! Se, invece, mi riesce di pubblicare qualcosa… I miei non vorrebbero… “Carmina non dant panem” dicono…»[36]:

Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia[37].

Avremmo dovuto imitarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s’era capito da una parte e dall’altra che non avremmo imparato niente, e l’idea di educarci all’agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un’età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d’infanzia[38].

Nel giardino di Villa Meridiana – dal 1934 adibito a Centro Sperimentale di Floricoltura e Frutticoltura diretto da Mario Calvino – i giovani Calvino acquisiscono i primi rudimenti di botanica e di ibridazione attraverso le lezioni impartite dalla madre. Al loro fianco Libereso Guglielmi (1925-2016) – dall’età di quindici anni alle dipendenze della Stazione Sperimentale in qualità di giardiniere – rappresenta l’anello di congiunzione tra il giovane Italo e Piero Ferrua. «Pittore ligure, studioso di botanica», così raccontato dalla «Cronaca di Calabria» (1972), Libereso era figlio di Renato Guglielmi, noto attivista anarchico, animatore del gruppo «Alba dei Liberi» (da cui la specie di rosa rosso-nera Alba dei Liberi, appunto, che sviluppò col figlio), naturista, vegetariano, pacifista e ibridatore floreale. Mentre il figlio dipingeva fiori su quadretti che poi regalava agli amici, componeva poesie sui nasturzi e sulle sterlizie dedicandole alle ragazze, in costante e simbiotico contatto con ogni specie naturale e animale, il padre, ricorda Ferrua, «distribuiva opuscoli e giornali rivoluzionari e, di domenica, sostituiva alla messa la passeggiata proselitistica, ostentando il nodo a farfalla degli anarchici della vecchia generazione. Aveva chiamato il figlio Libereso che, come Calvino fa osservare nel racconto, significa Libertà in esperanto»[39]. Amico dello scrittore e fonte d’ispirazione per il racconto Un pomeriggio, Adamo, Libereso è un profondo conoscitore di piante e animali e ricopre un ruolo decisivo nel discorso relativo alle competenze di Calvino in ambito botanico, zoologico, entomologico e micologico:

dove altri scrittori parlerebbero confusamente di alberi, lui elenca con gusto tutte le specie arboree della sua Liguria… e dove altri andando in campagna, o portandovi il protagonista, hanno tutt’al più il presentimento di una vita animale, lui ha l’occhio sempre ai ghiri, alle vespe, alle gazze, ai lombrichi, alle ghiandaie, alle farfalle, agli scriccioli, ai rampichini, alle rane; e agli scoiattoli, ai cardellini, alle cince, alle larve…[40].

Calvino, al contrario, «preferisce modestamente schernirsi di questa sua supposta scienza linneana e travestendo la verità, dichiara»[41]:

Io non riconoscevo né una pianta né un uccello. Per me le cose erano mute… mentre continuavo a seguire in silenzio mio padre, che additava certe foglie di là da un muro e diceva: “Ypotoglaxia jasminifolia” (ora invento dei nomi; quelli veri non li ho mai imparati), “Photophila wolfoides” diceva, (sto inventando; erano nomi di questo genere), oppure “Crotodendron indica” (certo adesso avrei potuto pure cercare dei nomi veri, invece di inventarli, magari riscoprire quali erano in realtà le piante che mio padre andava nominandomi)…[42]

Le lezioni casalinghe della madre botanica e la frequentazione del primo anno della Facoltà di Agraria – prima a Torino, poi a Firenze[43] – provano al contrario le sue competenze agronomiche e motivano sia i puntuali riferimenti scientifici a piante e arbusti all’interno dei suoi appunti privati – si pensi al taccuino del 1934 (fino agli anni Novanta in possesso di Libereso Guglielmi), nel quale accanto al nome si legge a matita “Acer platanoides” – sia le ambientazioni naturali fedelmente riprodotte negli scritti dichiaratamente sanremesi della Strada di San Giovanni ma anche nella narrativa più sperimentale.

I frequenti riferimenti botanici, la centralità letteraria di Sanremo e «l’aspirazione a un Umanesimo non antropocentrico» di cui gran parte della sua produzione è testimonianza «ben prima che l’ecologismo diventasse di moda»[44] costituiscono la rappresentazione più tangibile e concreta del retaggio di Mario Calvino ed Eva Mameli. Confermandosi quale «cittadino di un “villaggio planetario”», Italo mantiene i genitori, Sanremo e i suoi protagonisti, Libereso Guglielmi, Renato, Ferrua e gli altri al centro della memoria e della storia, salvando «ciò che non esiste più»[45]. Luogo interiore e della mente, ispirazione per la Venezia di Marco Polo nelle Città invisibili, la tangibilità di Sanremo e la concretezza del suo ambiente entro i confini della finzione letteraria si ergono nella sua produzione a un livello superiore, come egli stesso spiegherà più tardi negli Appunti sulla narrativa come processo combinatorio (1975):

la macchina letteraria può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale; ma il risultato poetico sarà l’effetto particolare di una di queste permutazioni sull’uomo dotato di una coscienza e d’un inconscio, cioè sulla società, sull’uomo storico, sarà lo shock che si verifica solo in quanto attorno alla macchina scrivente esiste una società con i suoi fantasmi nascosti[46].

  1. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, Sanremo, Famija Sanremasca, 1991, p. 192. Al passaggio si ritiene interessante aggiungere l’ultima nota del volume, significativa tanto sul piano della relazione Ferrua-Calvino quanto relativamente all’autenticità delle intenzioni dell’autore, profondo conoscitore sanremese e calviniano: «I frequenti spostamenti di Italo Calvino possono essere desunti dalle numerose iscrizioni nelle schede anagrafiche del Comune di Torino. Se avesse avuto agio di conoscere questo ufficio, in cui l’efficienza elettronica è abbinata alla cortesia, lo scrittore gli avrebbe dedicato un racconto»: P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 193.
  2. A causa della difficoltà di reperimento del volume, si ritiene utile dare contezza della già di per sé esplicativa articolazione interna dei capitoli: I suoi antenati; All’ombra di Valdo; Lo scolaro rampante; Arte, primo amore; La vena poetica; Il debutto teatrale; Il critico cinematografico: prime collaborazioni giornalistiche; I primi racconti inediti; Lo studente «dimezzato»; La sua evoluzione politica; Attività pubblicistiche di Calvino in campo politico; Il partigiano «inesistente»?; Sanremaschità e liguritudine; I personaggi si tolgono la maschera; In memoriam; Il mare della soggettività.
  3. Oltre ai volumi già citati nel saggio, tra gli studi più recenti su Calvino e Sanremo si vedano anche L. Guglielmi, Dal fondo dell’opaco io scrivo. Calvino da Sanremo a New York, Genova, De Ferrari Editore, 1999; Ead., Italo Calvino e Sanremo, Genova, Il Canneto Editore, 2023; Italo Calvino, Sanremo e dintorni. Un itinerario letterario (1923-2023), a cura di L. Guglielmi, V. Pesce, Palermo, Il Palindromo, 2023. Si leggano anche M. Bucciantini, Pensare l’universo. Italo Calvino e la scienza, Roma, Donzelli, 2023; E. Ferrero, Italo, Torino, Einaudi, 2023.
  4. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 127.
  5. Il riferimento è a Scrittori di terra, di mare, di città di C. Benussi (Cinisello Balsamo, Pratiche editrice, 1998).
  6. Sul rapporto Calvino-Pasolini si legga C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Si segnala anche l’ultima ristampa del volume con una nuova prefazione dell’autrice (Torino, Bollati Boringhieri, 2022), pubblicata in occasione dei cento anni dalla nascita dello scrittore di Casarsa. Sul confronto tra i due intellettuali in merito ai linguaggi della scienza e della letteratura, si veda M. Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, Venezia, Marsilio, 2019 (in particolare il capitolo Riflessioni sulla lingua (tra scienza e letteratura), pp. 141-49). Il volume di Paino propone riflessioni interessanti anche relativamente al discorso autobiografico dello scrittore sanremese e degli ambienti naturali da lui frequentati: «C’è un padre che, nella sua quotidianità votata agli alberi e alla natura, si risolve in tal modo esclusivamente per un’esistenza indirizzata “all’in su”, e un figlio che trova senso solo nella vita “laggiù”, di sotto, nella dimensione di tutti» (M. Paino, Il Barone e il Viaggiatore, op. cit. Il capitolo Alberi, giardini e dinamiche autobiografiche è alle pp. 39-57. La cit. è a p. 40).
  7. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 45.
  8. Asor Rosa inserisce Calvino tra «gli ultimi “classici”» (A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, III. La letteratura della nazione, Torino, Einaudi, 2009, in particolare il riferimento agli «ultimi “classici”» è alle pp. 550-51).
  9. Nonostante sia nata nel 1916, Ginzburg può dirsi tra le esponenti più rappresentative del giovane gruppo intellettuale che negli anni del dopoguerra partecipa attivamente alla ricostruzione politica, sociale e culturale dell’Italia.
  10. I. Calvino, Sanremo città dell’oro, in «Il Politecnico», 21, 16 febbraio 1946, p. 2.
  11. C. Benussi, Scrittori di terra, di mare, di città, op. cit., p. 195.
  12. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 144.
  13. I. Calvino, Riviera di Ponente, in «Il Politecnico», 21, 16 febbraio 1946, p. 2. Sullo stesso tema si veda anche Id., Terra di Liguria… terra mia, in «A Gardiora du Matussian», II, 1, 1983, pp. 1-4.
  14. Sul ricco parterre di pubblicazioni scientifiche raccolte nell’arco di oltre settant’anni dagli stessi genitori dello scrittore e sulla bibliografia dei coniugi Calvino-Mameli, si veda L. Marchi, Nozze di fiori. Per una biografia scientifica di Eva Giuliana Mameli Calvino (in Il giardino segreto dei Calvino, a cura di P. Forneris, L. Marchi, Genova, De Ferrari, 2004, pp. 45-64) e, nello stesso volume, Il fondo Mario Calvino – Eva Mameli Calvino della Biblioteca civica di Sanremo, pp. 17-22.
  15. G. Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, Macerata, Quodlibet, 2013.
  16. L. Zangheri, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Città di Castello, Leo S. Olschki, 2003.
  17. A. Standardi, Albero e città ovvero La natura in trincea, Roma, Albatros, 2019, p. 75.
  18. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, in Il giardino segreto dei Calvino, a cura di P. Forneris, L. Marchi, op. cit., pp. 11-14. La cit. è a p. 11.
  19. Ibidem. Per il dettaglio dei personaggi dietro i quali si celano il padre e la madre, si veda la puntuale ricostruzione di Ferrua: entrambi hanno i caratteri di alcuni personaggi delle opere Gli avanguardisti a Mentone, L’entrata in guerra, I figli poltroni, del Barone Rampante e di Pranzo con un pastore. Le notti dell’UNPA, La strada di San Giovanni, Uomo nei gerbidi e L’occhio del padrone sono dedicati al padre; ispirata alla madre è invece, oltre alle precedenti, anche la signora Anfossi nella Speculazione edilizia. «Il primo ritratto tipico del padre è forse questo: “Mio padre aveva attorcigliato petto e schiena di sciarpe, mantelline, cacciatore, gilecchi, bisacce, borracce, cartuccere, in mezzo a cui nasceva una bianca barba caprina; alle gambe aveva un vecchio paio di schinieri di cuoio tutti graffiati (Uomo nei gerbidi, 1946)”» (P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 185).
  20. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 12.
  21. Il riferimento è a I. Calvino, Dall’opaco, in Id., Romanzi e racconti, vol. III, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, C. Milanini, Milano, Mondadori, 1994. Su Dall’opaco – nel quale Boselli rintraccia «alcune caratteristiche fondamentali dei […] modi [di Calvino] di immaginare ed esprimere la realtà» (M. Boselli, Italo Calvino: l’immaginazione logica, in «Nuova Corrente», 78, 1979, p. 150) si veda il capitolo «Che forma ha il mondo?». Dall’opaco in L. Spera, Geografie della memoria. Italo Calvino, Pisa, Pacini, 2020, pp. 41-46. Tra le descrizioni più belle di Mario Calvino, c’è il seguente passaggio: «bastava che dall’alto di una fascia qualcuno che poteva o che dava il solfato delle viti lo interpellasse e gli chiedesse un consiglio sulle miscele dei concimi sull’epoca migliore per gli innesti ed egli rasserenato…si fermava a spiegargli il perché e il percome, non aspettava altro che un segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile mossa da una passione di miglioramento» (I. Calvino, La strada di San Giovanni, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit.).
  22. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 13.
  23. L. Marchi, Nozze di fiori. Per una biografia scientifica di Eva Giuliana Mameli Calvino, op. cit., p. 45.
  24. M. Paino, Calvino, Cosimo e l’«altra vegetazione», in «Oblio», VIII, 32, 2018, pp. 151-66: 165.
  25. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 128.
  26. Ivi, pp. 89-126.
  27. F. Migliaccio, Il paesaggio nella narrativa di Italo Calvino. L’immagine della natura, l’esperienza della camminata, in Convocare esperienze, immagini, narrazioni. Dare senso al paesaggio, a cura di S. Aru, M. Tanca, vol. 2, Milano, Mimesis, 2015, pp. 99-110.
  28. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 90.
  29. Ivi, p. 89. Antonio Montini è il compagno di stanza universitario di Calvino a Torino, intervistato da Ferrua a Sanremo, il 31 maggio 1986.
  30. Ivi, p. 90.
  31. Per il dettaglio dei documenti omessi non autorizzati, si rimanda alla Premessa dell’autore (pp. 11-13); di questi Ferrua offre i dati bibliografici suddividendoli in Inediti assoluti, Scritti anonimi, acefali o adespoti attribuiti a Italo Calvino (per evidenza interna, analisi stilistica, circostanze storiche, ricordo personale, ecc…), Scritti siglati I.C. attribuiti a Italo Calvino, Scritti pubblicati in giornali a tiratura limitata, di diffusione locale, e scritti di soggetto partigiano o sanremese usciti sulla stampa nazionale. Di ciascuna sezione sono scrupolosamente riportati i riferimenti.
  32. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 90.
  33. Provenienti dalle collezioni dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia, le riproduzioni di tali documenti si trovano alle pagine 102117 di Italo Calvino a San Remo.
  34. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., pp. 99-100. Sul rapporto di Calvino con la Resistenza, si legga il brano estratto da Calvino: quel che la Resistenza ha dato alla letteratura (p. 124).
  35. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 49.
  36. Ivi, p. 67.
  37. Ivi, p. 69.
  38. Ibidem.
  39. Ivi, p. 133.
  40. Ivi, p. 130. Di Guglielmi si legga Mario Calvino nei miei ricordi (in Il giardino segreto dei Calvino, op. cit., pp. 133-35) e il volume-intervista Libereso, il giardiniere di Calvino (a cura di I. Pizzetti, Padova, Franco Muzzio, 1993), poi negli anni ristampato da Tarka Edizioni.
  41. P. Ferrua, Italo Calvino a San Remo, op. cit., p. 130.
  42. Ibidem.
  43. Sostiene Ferrua che lo spostamento di Calvino dalla Facoltà di Agraria di Torino a quella di Firenze ha comportato problemi nella ricostruzione della sua carriera accademica. Dell’esperienza piemontese rimane testimonianza dei seguenti esami sostenuti e relative votazioni: Zoologia generale, voto 25; Botanica generale, voto 25; Chimica generale inorganica, voto 24; Matematica, respinto una prima volta, poi 21. Più precisi sono invece i riferimenti fiorentini, con annesse date: Mineralogia geologica, voto 23 (24 febbraio 1943); Botanica sistematica, voto 21 (13 giugno 1943); Entomologia agraria, respinto (19 giugno 1943).
  44. C. Milanini, El hijo de Carbino y de Eva, op. cit., p. 14.
  45. L. Spera, Geografie della memoria. Italo Calvino, Pisa, Pacini, 2020, p. 38. Sulle implicazioni memoriali degli spazi, si rimanda anche, tra gli altri, a M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007; G. Sandrini, Le linee d’una mano: Italo Calvino e la memoria ne «Le città invisibili», in «Studi Novecenteschi», XVIII, 42, 1991, pp. 357-93 e A. Battistini, Le città visibili e invisibili di Italo Calvino, in «Esperienze letterarie», 26, 2, 2001, pp. 21-37.
  46. I. Calvino, Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in «Nuova corrente», 46-47, 1975, pp. 414-25.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Calvino e la pena «per la propria incompletezza». Attualità del “Visconte dimezzato”

Author di Paola Culicelli

Negli anni ’50 Calvino è alla ricerca del romanzo sulla contemporaneità. Nel 1947 ha esordito come romanziere con un’opera neorealista, Il sentiero dei nidi di ragno, che però già nel titolo sembra richiamare un immaginario fantastico e che, raccontando la Resistenza come «una favola di bosco», gli vale la definizione di «scoiattolo della penna»[1] da parte di Pavese.

In quegli stessi anni Giuseppe Berto, precisamente nel dicembre 1946, dà alle stampe Il cielo è rosso con l’editore Longanesi. Entrambi raccontano l’esperienza del conflitto non attraverso gli occhi dell’adulto ma dalla prospettiva dell’adolescente. Si tratta di romanzi sulla guerra picareschi, in cui i ragazzi che si muovono tra le macerie, isolati, orfani, ricordano i bimbi sperduti nell’isola che non c’è raccontati da Barrie nelle Avventure di Peter Pan[2]. Qual è la guerra dei bambini? È quella che nessuno, in genere, racconta. E il Novecento è stato il secolo in cui in maniera più urgente gli scrittori si sono posti questo interrogativo.

Risulta fondamentale lo scenario delle città distrutte, ridotte in macerie, che appaiono emblematiche. La letteratura si origina dalle macerie, il bisogno di scrivere nasce da lì, dalla distruzione, con l’intento di salvare, simile al graffito nella caverna della preistoria. In merito alle macerie, si rivela particolarmente significativo un racconto di Calvino, inserito nella raccolta Un dio sul pero, dal titolo E il settimo si riposò, in cui ritroviamo l’immagine delle rovine e delle case da riedificare[3]. Risulta icastica all’interno della narrazione la ricostruzione di un tetto sormontato dalla bandiera italiana, dove la casa che viene riedificata sembra rappresentare l’Italia che si ricostruisce all’indomani della guerra, quando lo scorrere del tempo non si misura più «a domeniche, ma a case»[4]: «Ora Pin vede già il tetto finito con la bandiera sopra, e loro muratori seduti sulle tegole, vestiti a festa, e altri tetti con altri muratori vestiti a festa, da tutte le parti della città, una festa di tetti fiammeggianti di bandiere»[5]. È significativo che il protagonista sia un ex partigiano divenuto muratore: finita la guerra, è giunto il tempo di riedificare. Le macerie, così come la ricostruzione, riguardano le case, le cose, ma anche le persone.

Nel Visconte dimezzato le macerie riguardano l’individuo, l’uomo nella sua interezza e complessità. In esso Calvino, fuor di metafora, parla dell’impatto che la guerra può avere su una persona, del suo essere stato un partigiano, della guerra civile che ha insanguinato l’Italia, della guerra fredda che poi ha dilaniato l’Europa, tagliandola in due di netto con un muro. Sugli anni del secondo dopoguerra in Europa sotto il segno di un «dilaniamento sordo», citiamo lo stesso Calvino:

Certo risentivo, pur senza rendermene ben conto, dell’atmosfera di quegli anni. Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza[6].

Dunque, la guerra che effetto ha sull’individuo? Come quel colpo di cannone che dopo poche pagine deflagra nel Visconte dimezzato, letteralmente lo divide in due[7]. È come se Calvino ci volesse dire in forma fiabesca quello che succede con la guerra. La scissione non è all’esterno, manichea, ma è dentro ognuno di noi. A proposito di come si originano le sue opere e prende avvio la sua scrittura, Calvino osserva:

All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo – ma i due processi sono spesso paralleli e indipendenti – mi convinco che essa racchiude qualche significato. Quando comincio a scrivere però, tutto ciò è nella mia mente ancora in uno stato lacunoso, appena accennato. È solo scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto[8].

Riguardo a questa immagine che in qualche modo potrebbe averlo ossessionato nella scrittura del Visconte dimezzato, citiamo questo passo che è tratto da un’intervista a Calvino con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983:

Avevo questa immagine dell’uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non un’altra[9].

Il tema dell’uomo «tagliato in due» risulta significativo perché assurge a simbolo dell’uomo contemporaneo. L’immagine, oltre a svolgere una funzione narrativa – rappresenta la rottura dell’equilibrio da cui prende avvio la storia –, affonda le radici nella sentenza di Salomone, nel calderone delle fiabe italiane raccolte da Calvino e nella letteratura romantica. Nel Primo libro dei re, si narra della sentenza proverbiale di Salomone che come stratagemma, per capire tra due madri che si contendevano lo stesso bambino a quale realmente appartenesse, stabilì di tagliare in due il neonato con una spada. All’interno di Fiabe italiane, invece, annoveriamo Il dimezzato, una sorta di variante al maschile di Raperonzolo che, conteso tra la vera madre e una strega, viene tagliato in due e, mentre una metà vivrà con la donna, l’altra apparterrà alla megera. Infine, un altro antecedente è rappresentato dai contrasti messi in scena da Stevenson nei suoi romanzi, Dr Jeckyll and Mr Hyde e Master of Ballantrae, citati da Calvino nella Nota 1960, che vedono l’individuo contrapporsi a sé stesso o al proprio fratello.

Ritorniamo alle nostre premesse, a quello che avevamo affermato all’inizio. Calvino è alla ricerca della sua storia, della sua voce di scrittore e del romanzo sulla contemporaneità, sui conflitti della contemporaneità all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco che, sedimentando in lui queste suggestioni, trova la chiave del fiabesco, una lente per staccarsi dalla brutalità della guerra quasi fosse uno schermo protettivo, un antidoto per non caderne vittima nel maneggiarne i veleni.

Quel colpo di cannone che dilania Medardo all’inizio del romanzo sembra fare eco e rispondere ad altre bombe, ad altri colpi di pistola che risuonano in altre narrazioni dell’autore. Sono le esplosioni, le fucilazioni, le deflagrazioni cui Calvino ha assistito durante la guerra, che lo hanno suggestionato e che si sono depositate sulla pagina. L’immagine della pistola è presente nel Sentiero dei nidi di ragno ma anche altrove, sotto forma di fucile, di cannone, di mina, o di arma tout court, senza specifiche connotazioni. Alla radice di tutto ci sono le scene di guerra cui ha assistito, un evento rimosso la cui memoria è depennata nei racconti, ma che come un sasso, una volta inghiottito da un’acqua profonda, lascia traccia di sé nelle vibrazioni della superficie[10].

L’evento autobiografico cui facciamo riferimento consiste nella prima volta in cui Calvino, alias Santiago, assistette all’uccisione di alcuni fascisti, rimanendone traumatizzato. Una scena di fronte alla quale perse i sensi. Fu quello il momento in cui, pur trovandosi dalla parte giusta della storia, mettendosi nei panni dell’altro, sentì di essere, anche solo per un attimo, dalla parte sbagliata, a perdere la bussola tra nord e sud, giusto e sbagliato, un po’ come fa Natale, il protagonista demente del racconto Come un volo d’anitre: «perché lui fosse di qui, nel giusto, loro di là, nello sbagliato: questo Natale non lo capiva: era il volo d’anitre; questo era, nient’altro»[11]. Un frullare d’ali nella testa, simile a un susseguirsi di spari.

Questo trauma nella sua esperienza resistenziale affiora in alcuni racconti per poi essere rimosso e trasfigurato[12]. Le sequenze in cui compare sono puntualmente depennate e gli stessi racconti vengono espunti dalle raccolte[13]. In Come un volo d’anitre a sentirsi sbagliato, abbiamo visto, è Natale, mentre in Andato al comando come un fiume carsico, epurato dei detriti autobiografici, alla fine l’episodio riemerge, seppure narrato in chiave surreale e a tratti favolosa. In quest’ultimo racconto, i due personaggi rimangono anonimi; designati dal narratore semplicemente come «l’armato» e «il disarmato», sono contraddistinti unicamente dall’essere muniti o no di un’arma. L’azione si svolge in un bosco: l’uomo armato, un partigiano, deve condurre quello disarmato, «grande kamarad», come si definisce in una fantasticheria, al comando, o almeno così dice. Altri prima di lui sono stati portati via e non sono più tornati ‒ il segretario, i fratelli del mulino e la maestra ‒, perciò l’uomo inerme domanda di loro, nel tentativo di intuire quale sarà la sua sorte. Al di là degli schieramenti, della parte sbagliata o della parte giusta della storia, sembra che la guerra dilani e porti distruzione. Anche il bosco appare deturpato, segnato dalle tracce dei combattimenti: «Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo»[14]. La guerra miete vittime nel bosco, così come nelle città, e anche gli alberi non sono semplicemente bruciati dagli incendi, ma «uccisi», per cui il participio «caduti» assume uno spettro più ampio di significato e si carica di connotazioni: «Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra di rami caduti»[15]. Alla fine del racconto l’uomo armato sparerà alle spalle all’uomo disarmato, che fino all’ultimo si illuderà di potersi salvare. Lo sparo del racconto, nel folto della vegetazione, fa eco, nel ricordo dello scrittore, alle fucilazioni che in quel periodo avvenivano nella boscaglia o sul limitare dei boschi, cui Calvino assistette, uno sparo cui probabilmente seguiva il frullo degli uccelli messi in fuga, che ritorna – abbiamo visto – nel racconto Come un volo d’anitre.

Un altro racconto in cui si assiste a una fucilazione di tre uomini nudi e inermi, che pure hanno dato fuoco a un paese e ucciso, è Uno dei tre è ancora vivo. Anche lì la differenza è tra chi imbraccia i fucili e chi è disarmato, e tra gli stessi uomini della Resistenza ci sono «angeli buoni con corde e angeli cattivi con bombe e fucili»[16]. Come in Andato al comando, Calvino sul finire del racconto, e in particolare dopo la fucilazione, fa coincidere il punto di vista con chi è dall’altra parte della barricata; se prima si trattava di un fascista, che finiva a terra ricoperto di formiche, ora si tratta di un nazista, che rocambolescamente si sottrae a una pioggia di spari, dopo essersi gettato in una grotta verticale, chiamata Culdistrega. La guerra è un inferno, quale che sia il punto di vista, come arriva a concludere il narratore mettendosi nella pelle del «nudo», in un passo che anticipa quello delle città invisibili: «La vita, pensò il nudo, era un inferno, con richiami d’antichi felici paradisi»[17].

Anche nel Sentiero dei nidi di ragno Lupo rosso racconta della fucilazione di Pelle. Nella memoria familiare di Calvino, è particolarmente rilevante, com’è noto, un episodio dell’ottobre 1944, in cui i tedeschi, dopo aver catturato i genitori, avevano inscenato per tre volte di fucilare il padre, di fronte agli occhi della madre, per estorcere loro informazioni[18].

Nel 1943, quando viene firmato l’armistizio, Calvino ha vent’anni. Il suo nome di battaglia come partigiano garibaldino era Santiago e alcuni documenti ne attestano il prezioso contributo dato alla Resistenza, tuttavia, nei suoi racconti di guerra non c’è spazio per una narrazione agiografica ed edulcorata degli avvenimenti. Prendendo in prestito le parole di Gianluca Cinelli riguardo alla memorialistica di guerra, possiamo dire che l’aver preso parte alla Resistenza ha rappresentato per Calvino un rito di passaggio, iniziatico, e nel racconto che fa di quanto esperito emerge «la coscienza di una frattura, di una crisi, a seguito della quale non ci si orienta più con i criteri precedenti»[19]. Si tratta di un’esperienza traumatica, che accomuna molti autori, come lui, appartenenti alla “generazione degli anni difficili”[20], i quali si fecero portatori nella loro scrittura di un «sentimento della colpa», vero e proprio «archetipo narrativo»[21].

Solo chi si sente in difetto, chi si sente incompleto, chi avverte la propria fragilità e le proprie colpe, può perdonare l’imperfezione negli altri, rivolgendo loro uno sguardo pietoso. La pietas provata dal Medardo buono nei confronti dell’altro, perfino del gramo, si carica di connotazioni evangeliche e rappresenta uno degli aspetti e delle riflessioni presenti nel romanzo che scavano più in profondità nell’animo umano. Il sentimento dell’imperfezione che ci accomuna gli uni agli altri rappresenta il collante dell’esperienza umana[22].

Nel Visconte dimezzato all’inizio, com’è noto, si combatte una guerra. Si tratta di una guerra contro i Turchi. Calvino, dunque, si stacca dalla realtà della Seconda guerra mondiale, operando uno spostamento letterario analogo a uno spostamento onirico. Trova la propria voce di scrittore a metà tra realismo e favola. Per parlare di ciò di cui intende parlare, con urgenza, si allontana, discostandosi sia a livello temporale sia a livello spaziale. Si allontana in altezza perché racconta dalla rarefatta leggerezza aerea della fiaba, così come si allontana lungo la linea del tempo perché fa retrocedere la propria storia collocandola nella cornice di una cavalleresca chanson de geste. C’è un fondale cavalleresco che, ovviamente, come ha già registrato la critica, complici le dichiarazioni dello stesso Calvino, presuppone l’influenza di Ariosto, così come di Tasso[23]. Si ravvisa anche un’atmosfera da teatro dei pupi che attinge sempre le radici nel fantastico ariostesco che suggestiona Calvino. C’è una guerra, dunque, e questa guerra che effetto ha sulle persone, gli animali, le cose? Produce macerie[24]. Quando Medardo attraversa il campo, il deserto prodotto dalla guerra, per raggiungere il campo, lo scenario che si prospetta ai suoi occhi risulta icastico. Rileggendo le prime pagine, viene in mente Guernica di Picasso. Si descrivono cadaveri e carcasse, quindi resti di uomini e di animali. È evidente, anche in questa occasione, l’attenzione al mondo animale e a quello vegetale, che rappresenta una cifra della scrittura di Calvino. Lasciando trasparire una grande sensibilità per la sorte della flora e della fauna, siano esse minacciate dalla guerra, dall’inquinamento o dalla violenza perpetrata dall’uomo, lo scrittore accomuna tutti in questo suo sguardo pietoso ed empatico, che si rivolge alla carcassa del cavallo così come al cadavere dell’uomo. In maniera emblematica si offrono alla vista agglomerati di animali, uccelli e cavalli in particolare, e uomini, confusi tra di loro, per cui risulta labile il confine tra zoomorfia e antropomorfia.

Attraversato questo scenario bellico dalle tinte apocalittiche, appena giunto in prossimità del fronte, Medardo viene investito da una cannonata. E qui c’è tutta la leggerezza di Calvino nel trasfigurare le cannonate della sua guerra. La guerra è come quel colpo di cannone: quando ti travolge ti segna irrimediabilmente, ti divide in due, ti dimezza, e tu non puoi più sentirti completo, non puoi più sentirti intero e perfetto come individuo. I tre romanzi del ciclo dei nostri antenati sono romanzi di formazione sull’imperfezione, o meglio sul percorso e sulla ricerca che ci permettono di capire, di accettare la nostra imperfezione e quella degli altri. In questi romanzi della contemporaneità, l’eroe, sia esso il visconte, il barone o il cavaliere, non è qualcuno che si forma nell’accezione canonica del termine, ma è qualcuno che fa un percorso di consapevolezza, di coscienza, attraverso il quale si capisce di non essere perfetti e si accetta questa imperfezione come qualcosa che è connaturato con l’umano, con l’esistenza, e riguarda tutti, le cose, le case, gli uomini e gli animali: «Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a sé stesso è l’uomo contemporaneo»[25].

Dopo il secondo conflitto mondiale, dopo la Shoa, si dice che l’idea stessa di Dio sia morta. Quando il visconte viene travolto dal colpo di fuoco, sembra che sopravviva alla guerra solo la metà oscura, malvagia, mentre sembra che abbia dovuto soccombere irrimediabilmente la metà buona. In apparenza, è come se la guerra non potesse lasciare dietro di sé niente se non reduci segnati per sempre, mutilati della propria umanità. A poco a poco, seguendo gli sviluppi della storia, invece, si capisce che è sopravvissuto anche il bene. Si scopre che, in realtà, ci sono due visconti, il buono e il gramo. Ci sono queste due metà, che sono agli antipodi, diversissime, ma in realtà sono la stessa persona, come in fondo torna a ricordarci il titolo. Chi si accorge che sono la stessa persona nel romanzo? Le figure legate alla crescita, alla formazione e all’amore: i personaggi della balia e di Pamela. È l’amore che può ricomporre le nostre parti. Il Medardo buono e il gramo sono stati cresciuti dalla stessa donna e amano la stessa giovane. È significativo che la balia si trovi a rimproverare, in maniera apparentemente assurda, il Medardo buono delle malefatte commesse dal gramo, mentre Pamela ride perché ha capito ciò che «fa andar matti tutti gli altri», «che voi – dice al Visconte – siete un po’ buono e un po’ cattivo»[26].

In quegli anni in cui si ha l’impressione che il mondo sia «fatto a pezzi», nella vita reale, a Calvino sembra che Elsa Morante, sempre una figura femminile, abbia la capacità di ricondurre le cose a unità e di «far tornare sempre i conti», come le scrive in una lettera del 2 marzo 1950:

tu ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati […]. Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti[27].

Rivolgendosi a Pamela, la donna di cui si è innamorato, il Medardo buono afferma: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro»[28]. Solo chi è dimezzato, chi sa di esserlo, risulta capace di vedere quello che gli altri non vedono, può provare compassione, avere uno sguardo pietoso nei confronti degli altri e insieme curare la propria ferita. Il dimezzato in fondo chi è? Un essere fragile, imperfetto, con una disabilità, ma paradossalmente è quello che con un solo occhio vede più degli altri, è quello che, proprio perché consapevole della propria imperfezione, è in grado di capire e di strappare il velo della presunta perfezione. Viene in mente Svevo, quando afferma che solo chi sperimenta la malattia arriva a sapere qualcosa di sé stesso.

Ritorniamo all’empatia di Calvino nei confronti degli animali, che lo accomuna, come altri aspetti, al Leopardi delle Operette morali, per cui possiamo dire che favoloso è quell’autore che, con l’atteggiamento aurorale del bambino, sa dare parola agli animali. Penso, in particolare, al Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro, e al Dialogo tra un cavallo e un bue, animali parlanti, che dialogano davanti ai resti di un esemplare umano, domandandosi di che animale si tratti, in un tempo in cui l’uomo è ormai estinto, come se gli uomini si trovassero a parlare di un mammut, effetto che in un’annotazione lo stesso Leopardi si prefigge di raggiungere. C’è lo stesso ribaltamento antropocentrifugo innescato nell’episodio del gorilla albino, all’interno del capitolo Palomar allo zoo[29], in cui lo sguardo pietoso di Calvino si rivolge alla diversità e alla solitudine di Copito de Nieve, «unico esemplare al mondo di una forma non scelta»[30]. Mentre tutti gli altri lo guardano dall’esterno, è come se Palomar assumesse il suo punto di vista e partecipasse della sua imperfezione, del suo essere «considerato un fenomeno vivente»[31].

Anche osservando la corsa delle giraffe, affascinato dalla disarmonia dei loro movimenti, sembra che Palomar si concentri sul loro essere imperfette. Le loro gambe gli appaiono come fossero di legno, simili a «stampelle che arrancano» e sembra non sussista in loro la minima coordinazione. Il corpo della giraffa, pur funzionando perfettamente, sembra essere il risultato di un agglomerato di parti anatomiche di diversa origine, «pezzi provenienti da macchine eterogenee», una sorta di creatura del dottor Frankenstein degli animali. Tuttavia Palomar, forse per il desiderio di cogliere nei movimenti disarmonici del mondo intorno a lui una segreta armonia, un disegno, anche nella corsa sgraziata e scoordinata delle giraffe coglie una grazia complessiva, che si configura come il risultato di molteplici imperfezioni:

Il signor Palomar, continuando a osservare le giraffe in corsa, si rende conto d’una complicata armonia che comanda quel trepestio disarmonico, d’una proporzione interna che lega tra loro le più vistose sproporzioni anatomiche, d’una grazia naturale che vien fuori da quelle movenze sgraziate. L’elemento unificatore è dato dalle macchie del pelo, disposte in figure irregolari ma omogenee, dai contorni netti e angolosi; esse si accordano come un esatto equivalente grafico ai movimenti segmentati dell’animale. Più che di macchie si dovrebbe parlare d’un manto nero la cui uniformità è spezzata da nervature chiare che s’aprono seguendo un disegno a losanghe: una discontinuità di pigmentazione che già annuncia la discontinuità dei movimenti[32].

È il neo, la macchia, l’imperfezione, a conferire paradossalmente armonia al disegno complessivo. Come ha osservato Pierangeli, entrambi gli episodi, quello del gorilla albino e quello della corsa delle giraffe, «esplorano l’armonia aritmica e il disagio di “forme sempre in qualche modo imperfette”»[33].

L’ultima immagine che voglio richiamare alla memoria è quella presente nell’episodio Il marmo e il sangue, che fa parte del capitolo Palomar fa la spesa, dove è presente il bue dimidiato, e c’è l’occhio, la riflessione dell’uomo sulla macellazione dell’animale. E siamo a un nodo cruciale della riflessione di Calvino, quello della catena alimentare di violenza e sopraffazione che è alla base del nostro essere carnivori, dominati da un istinto trofico:

Occorre dire che la simbiosi uomo-bue ha raggiunto nei secoli un suo equilibrio (permettendo alle due specie di continuare a moltiplicarsi) sia pur asimmetrico (è vero che l’uomo provvede a nutrire il bue, ma non è tenuto a darglisi in pasto) e ha garantito il fiorire della civiltà detta umana, che almeno per una sua porzione andrebbe detta umano-bovina (coincidente in parte con quella umano-ovina e ancor più parzialmente con l’umano-suina, secondo le alternative d’una complicata geografia d’interdizioni religiose). Il signor Palomar partecipa a questa simbiosi con lucida coscienza e pieno consenso: pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, nel taglio della lombata la ferita che mutila la propria carne, egli sa d’essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immaginare osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita[34].

Un sentimento non esclude l’altro: lo stato d’animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto. Di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d’animo che forse altri esprimono nella preghiera.

Quel sentimento di pietas che il Medardo buono estendeva a tutti, persino al gramo, la propria metà malvagia, è lo stesso che il signor Palomar prova per la carcassa del bue, ravvisando in lui il «proprio fratello squartato», dimidiato e mutilato al pari del Visconte dimezzato. La guerra è una macelleria e la macelleria in Palomar è come uno scenario di guerra; simboleggia quel teatro della violenza che è la storia in ogni tempo, e il bue è la vittima sacrificale di fronte alla quale il sentimento di Palomar, che pure è in fila per cibarsi delle sue carni, è simile a quello che si può provare nel ritiro della preghiera. Il bue dimidiato si presenta come un’immagine gemella e speculare del Visconte dimezzato, incarna quella grande compassione nei confronti dell’altro, qualsiasi forma di vita esso assuma, e riteniamo che questa sia la grande eredità di Calvino, che ne dimostra la grande attualità, tanto che arriva a mettersi nei panni di una pietra nel breve scritto Essere pietra. Anche la pietra, come il visconte, è una parte di un tutto dal quale si è separata:

Ma il mio essere pietra implica pure l’esser parte d’una pietra più grande da cui mi sono distaccata, montagna o falesia o catena rocciosa o strato basaltico o mantello terrestre, cioè il partecipare della natura di tutto ciò che è pietra, appartenere alla pietra unica che continua a esistere pur nella frantumazione delle singole pietre[35].

L’ultima immedesimazione, l’ultima metamorfosi, l’ultima forma di empatia e di fratellanza vede Calvino regredire allo stato minerale di una pietra.

  1. C. Pavese, Calvino, in «L’Unità», 26 ottobre 1947; ora in Id., Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1973, pp. 245-47.
  2. Per un approfondimento sulla guerra raccontata da una prospettiva infantile e adolescenziale in Berto e in Calvino, si veda C. Nocentini, L’ottica infantile sulla guerra e sulla violenza, in «Cahiers d’études italiennes», vol. 3, 2005, pp. 23-28. Nel racconto La stessa cosa del sangue i due personaggi, due fratelli dietro la cui sagoma si nascondono Italo Calvino e il fratello minore Floriano, dall’esperienza della guerra sono «colpiti nella loro parte bambina» (I. Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, p. 222).
  3. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, a cura di B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2023; già in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 3, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 833-39. Si rimanda anche all’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  4. I. Calvino, E il settimo si riposò, in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, op. cit., p. 37. Il racconto era uscito sulle colonne dell’«Unità» il 9 giugno 1946.
  5. Ibidem. Pin è il nome con cui poi Calvino – è noto – avrebbe battezzato il protagonista del Sentiero dei nidi di ragno. Secondo l’auspicio di Falcetto, i racconti di Calvino compresi in Un dio sul pero, unitamente al corpus delle precedenti raccolte, permettono di «estendere lo sguardo», di «guardare meglio Calvino “dall’inizio”» (ivi, p. 37).
  6. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 1210.
  7. Sulle figure di eroi «appiedati, disarcionati, dimezzati, senza esercito», si veda B. Sica, I paladini di Calvino, Gianini e Luzzati, e Monicelli: memoria del fascismo, storia delle emozioni, parodia, in «Cahiers d études romanes», vol. 40, 2020, pp. 141-56. Sulle deformazioni della figura umana nella letteratura italiana, si rimanda anche a P. Gervasi, Anger as Misshapen Fear: Fascism, Literature, and the Emotional Body, in «Emotions: History, Culture, Society», vol. 2, 2018, pp. 312-36.
  8. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960) cit., p. 1210.
  9. I. Calvino, Intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, 1987, p. 9.
  10. Riteniamo significativo che Calvino avrebbe voluto raccogliere sotto il titolo Le memorie difficili alcuni racconti di guerra autobiografici, come scrisse a Citati in una lettera (I libri degli altri. Lettere 1947-1981, nuova ed. a cura di G. Tesio, Milano, Mondadori, 2022, p. 258). Se consideriamo che egli stesso in una lettera a Milanini del 1985 avrebbe definito «nevrotico» il suo rapporto con l’autobiografia (I. Calvino, Lettere 1940-1985, nuova ed. a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, p. 1008), possiamo dedurre che quell’esperienza privata fatta della guerra e della violenza abbia rappresentato per lo scrittore un magma di difficile elaborazione.
  11. I. Calvino, Prima che tu dica «Pronto», con uno scritto di P. Citati, Milano, Mondadori, 2010, p. 39; ora in Id., Un dio sul pero, op. cit. Il racconto era uscito in rivista nel 1947 («Il settimanale», 3 maggio 1947).
  12. Per una ricostruzione dell’inabissamento e della riemersione di quest’episodio nelle opere di Calvino si rimanda a B. Falcetto, Prove di immaginazione, in Id., Un dio sul pero, op. cit. Per un’attenta rilettura dell’esperienza resistenziale dello scrittore attraverso i racconti degli anni Quaranta, si veda anche E. Barghini, Le memorie difficili del partigiano Santiago: note sui racconti di guerra di Calvino, in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 101-44.
  13. I. Calvino, Andato al comando, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 260.
  14. Ivi, p. 261.
  15. Ivi, p. 272.
  16. I. Calvino, Uno dei tre è ancora vivo, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., p. 279.
  17. Cfr. I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 2746: «Non posso tralasciare qui di ricordare […] il posto che nell’esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e di coraggio in una Resistenza intesa come giustizia morale e virtù familiare, […] nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militi, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi». Cfr. anche l’articolo del 1985 Tante storie che abbiamo dimenticato (ivi, p. 2913) e infine l’intervista del 1983 agli studenti di Pesaro (Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2012, pp. 540-41).
  18. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, Roma, Sapienza, 2016, pp. 37-38.
  19. L’etichetta “generazione degli anni difficili” si deve al titolo di un’inchiesta condotta nel 1960 dalla rivista «Il Paradosso», raccogliendo le testimonianze di intellettuali e politici cresciuti sotto il Fascismo, poi confluite in un volume (Bari, Laterza, 1962).
  20. G. Cinelli, «Viandante, giungessi a Sparta…». Il modo memorialistico nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 38.
  21. Sul tema dell’imperfezione si rimanda all’intervista di F. Pierangeli a M. Belpoliti, «L’incompiutezza non ci esime dal desiderare di compierci», in «Studium», vol. 4, 2023, pp. 657-62, ma anche all’intervento di Pierangeli dal titolo Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  22. In merito ai legami tra Calvino e Ariosto, rimandiamo a R. Maggiore, «Egli si ostina a disegnare una fiaba». L’Ariosto di Italo Calvino e il suo dialogo con Roberto Battaglia, in «Bollettino ’900», nn. 1-2, 2020; L.W. Petersen, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Romane», vol. 26, 2, 1991; G. R. Cardona, Fiaba, racconto e romanzo, in Italo Calvino. Atti del convegno internazionale,
    Milano, Garzanti, 1988, pp. 187-201. Per la presenza di Tasso nel Visconte dimezzato rimandiamo a L. Carpanè, Medardo liberato e ricostruito: per una lettura del Visconte dimezzato attraverso Tasso, in «Studi novecenteschi», vol. 36, n. 77, 2009, pp. 119-35.
  23. Si rimanda ancora agli Atti del convegno sopra citato per l’intervento di B. Falcetto, «Il mondo è fatto a pezzi». Lessico e emozioni del costruire in Calvino.
  24. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), op. cit., p. 1211. Questi nobili dimidiati, rampanti, inesistenti lo sono in un’accezione ancora più profonda, se pensiamo che Calvino scrive in un tempo in cui in Italia i titoli nobiliari sono decaduti.
  25. I. Calvino, Il visconte dimezzato, op. cit., p. 420.
  26. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, op. cit., p. 272.
  27. I. Calvino, Il visconte dimezzato, in Id., Romanzi e racconti, vol. 1, op. cit., pp. 421-22.
  28. Si rimanda ancora a F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione.
  29. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 942.
  30. Ivi, p. 943.
  31. Ivi, pp. 940-941.
  32. Il sintagma è estrapolato da Pierangeli da un frammento non entrato nell’edizione definitiva del volume del 1983 dell’Osservatorio di Palomar, Palomar e Michelangelo (F. Pierangeli, Le forme «sempre in qualche modo imperfette». Dallo zoo di Palomar, in Atti del convegno Calvino guarda il mondo. Pluralità, coesione, metamorfosi, Roma, 19-21 ottobre 2023, in corso di pubblicazione).
  33. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., pp. 938-39.
  34. I. Calvino, Essere pietra, in Id., Romanzi e racconti, vol. 3, op. cit., p. 419.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Carlo Emilio Gadda e altri anniversari ineludibili

Author di Maria Panetta

Contrariamente a chi li considera con un certo sospetto se non dispregio, ritengo che gli anniversari rappresentino un’ottima occasione sia per celebrare personalità ampiamente riconosciute e studiate sia per ricordare figure a torto dimenticate o comunque non adeguatamente valorizzate dalla critica. Per questa ragione ho accolto con piacere la proposta di Sebastiano Triulzi, co-curatore assieme a me di questa seconda parte del fascicolo n. 49 di «Diacritica», di dedicare un monografico a un gigante del Novecento quale Carlo Emilio Gadda, scomparso il 21 maggio 1973, esattamente cinquant’anni fa.

Al primo nucleo di saggi che lo omaggiano, però, si è deciso di affiancare, oltre ad altri studi (su opere che vanno dalla metà dell’Ottocento alla più stretta attualità), anche una serie di contributi collegati fra loro. Quest’anno ricorrono, infatti, anche i cinquecentocinquant’anni dalla nascita di Niccolò Copernico (1473-1543), i quattrocento dall’uscita del Saggiatore (1623) di Galileo e ‒ il più celebrato dei tre ‒ i cento anni dalla nascita di Italo Calvino, ricorrenze che hanno fornito lo spunto per una trilogia di saggi dedicati a un tema attualissimo e pressante: quello dei rapporti fra cultura scientifica e cultura umanistica.

Per non dimenticare, infine, che ottant’anni sono passati anche dalla nascita di Luigi Ghirri, uno dei geni della fotografia contemporanea, si è pensato di accogliere pure un suggestivo studio che traccia dei paralleli fra il grande fotografo e una prosa incompiuta di Virginia Woolf.

Non ci resta che leggere (e scrivere).

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

Italo Calvino lettore dell’”Autre monde ou Les États et Empires de la Lune” di Cyrano de Bergerac

Author di Nunzio Allocca

Quando individua, in apertura delle incompiute Norton Lectures, nella leggerezza il primo dei valori letterari da salvaguardare nel Terzo millennio, Italo Calvino chiama in causa, tra i numerosi autori passati in rapida rassegna dall’antichità all’età contemporanea, una delle figure più originali nel panorama filosofico-scientifico dell’età galileiana, Savinien Cyrano de Bergerac (1619-1655)[1]. Elogiato da Calvino come «scrittore straordinario», l’autore di L’autre monde ou Les États et Empires de la Lune e di Les États et Empires du Soleil ‒ usciti postumi (ed espurgati dei passi ritenuti più sconvenienti) rispettivamente nel 1657 e nel 1662[2] ‒ è ricordato nelle Lezioni americane come «il primo scrittore del mondo moderno che fa esplicita professione d’una concezione atomistica dell’universo nella sua trasfigurazione fantastica»[3].

Entusiasta frequentatore delle conferenze parigine del canonico Pierre Gassendi (1592-1655)[4], le cui opere erano ammirate dai dotti e dagli eruditi libertini, rinnovatore in Francia del naturalismo materialistico e dell’epicureismo tornati prepotentemente alla ribalta nel secondo Cinquecento, Cyrano aprì la filosofia clandestina a esplorazioni narrative che mettevano alla prova del demone del paradosso e della ludica imprevedibilità dell’immaginazione i discorsi del senso comune e quelli dell’autorità scolastica[5].

Cyrano è personalità “comique” opposta e complementare a quella tragica di Blaise Pascal, il quale in un noto ed emblematico passaggio dei Pensées ‒ «Le silence éternels de ces espaces infinis m’effraie»[6] ‒ aveva espresso il proprio sgomento di fronte al crollo post-copernicano dell’antica immagine del Cosmo, un tutto ordinato e conchiuso in cui si rispecchiava una scala assoluta di valori (armonia, significato, finalità) secondo la gerarchia al contempo fisica e ontologica fissata dalla cosmologia aristotelico-tolemaica, che risaliva dall’oscura e pesante Terra (immobile al centro dell’universo, regno della generazione e della corruzione) all’inalterabile perfezione dei pianeti, delle stelle e delle sfere celesti[7].

La piena adesione alla tradizione filosofica e letteraria del materialismo fisico-etico epicureo divenne in Cyrano ‒ prolifico autore di mordaci Mazarinades nonché di brillanti commedie e tragedie improntate alla critica della religione, della spiritualità dell’anima e della sua immortalità ‒ fertile sfondo teorico e strumento per piegare lo spazio infinito spalancato dalla cosmologia secentesca alla sperimentazione narrativa non antropocentrica della navigazione interplanetaria. Questa nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune e negli États et Empires du Soleil assumeva, con libero e giocoso reimpiego delle fonti letterarie e mitologiche classiche, forma di esplorazione romanzata dell’inesauribile variabilità materiale dell’universo e dei suoi abitanti quale prodotto dell’incessante e precaria combinatoria di particelle indivisibili inosservabili, gli atomi, celebrando la fraternità di tutti gli esseri inanimati e animati, plasmati dalla stessa materia[8].

Nel commentare un brano di particolare efficacia polemica antifinalistica contenuto nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune[9], così Calvino scrive:

In pagine la cui ironia non fa velo a una vera commozione cosmica, Cyrano celebra l’unità di tutte le cose, inanimate o animate, la combinatoria di figure elementari che determina la varietà delle forme viventi, e soprattutto egli rende il senso della precarietà dei processi che le hanno create: cioè quanto poco è mancato perché l’uomo non fosse l’uomo, e la vita la vita, e il mondo un mondo[10].

Il continuo avvicendarsi degli esseri in un universo post-copernicano à part entière materiale, quello descritto nell’Autre monde ou Les États et Empires de la Lune, che non conosce più gerarchie ontologiche e rigetta ogni dualismo spirito-corpo, porta Cyrano a proclamare, osserva Calvino, la fraternità degli uomini con i cavoli in un divertente e spiazzante brano anticartesiano sull’intelligenza sensitiva dei vegetali, ritenuti capaci di avvertire dolore dagli abitanti della Luna, i quali non si nutrono di carne o verdure «se non sono morte da sole»[11]. Si legge nelle Lezioni americane:

Se pensiamo che questa perorazione per una vera fraternità universale è stata scritta quasi centocinquant’anni anni prima della Rivoluzione francese, vediamo come la lentezza della coscienza umana a uscire dal suo parochialism antropocentrico può essere annullata in un istante dall’invenzione poetica. Tutto questo nel contesto di un viaggio sulla luna, dove Cyrano de Bergerac supera per immaginazione i suoi più illustri predecessori, Luciano di Samosata e Ludovico Ariosto. Nella mia trattazione sulla leggerezza, Cyrano figura soprattutto per il modo in cui, prima di Newton, egli ha sentito il problema della gravitazione universale; o meglio è il problema di sottrarsi alla forza di gravità che stimola talmente la sua fantasia da fargli inventare tutta una serie di sistemi per salire sulla luna, uno più ingegnoso dell’altro: con fiale piene di rugiada che evaporano al sole; ungendosi di midollo di bue che viene abitualmente succhiato dalla luna; con una palla calamitata lanciata in aria verticalmente ripetute volte da una navicella[12].

In un articolo apparso il 24 dicembre 1982 su «la Repubblica», che sarebbe servito da materiale preparatorio per la lezione sulla leggerezza delle Norton Lectures, Calvino si era soffermato più in dettaglio sull’analisi del contenuto dell’Altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna e sul suo significato per la modernità[13]. «Qualità intellettuale e qualità poetica convergono in Cyrano, e ne fanno uno scrittore straordinario, nel Seicento francese e in assoluto», scrive con entusiasmo Calvino: polemista libertino «coinvolto nella mischia che sta mandando all’aria la vecchia concezione del mondo», partigiano del sensismo di Gassendi e dell’astronomia copernicana, sebbene in primo luogo nutrito della filosofia naturale del Cinquecento italiano, da Cardano a Bruno e Campanella, Cyrano è sì uno scrittore «barocco», capace di «pezzi di bravura» nei quali stile e oggetto descritto sembrano identificarsi, ma soprattutto

scrittore fino in fondo, che non vuole tanto illustrare una teoria o difendere una tesi quanto mettere in moto una giostra di invenzioni che equivalgano sul piano dell’immaginazione e del linguaggio a quel che la nuova filosofia e la nuova scienza stanno mettendo in moto sul piano del pensiero. Nel suo Altro mondo non è la coerenza delle idee che conta, ma il divertimento e la libertà con cui egli si vale di tutti gli stimoli intellettuali che gli vanno a genio. È il conte philosophique che comincia: e questo non vuol dire racconto con una tesi da dimostrare, ma racconto in cui le idee appaiono e scompaiono e si prendono in giro a vicenda, per il gusto di chi ha abbastanza confidenza con esse per saperci giocare anche quando le prende sul serio[14].

Sono considerazioni importanti, queste, che misurano la profonda simpatia e affinità avvertita nei confronti dell’«immaginoso cosmografo»[15] Cyrano da parte dell’autore delle Cosmicomiche, racconti, ricorda Calvino in un testo retrospettivo del 1975, «nati dalla libera immaginazione d’uno scrittore d’oggi sollecitata da letture scientifiche, specialmente d’astronomia», racconti aventi per oggetto

l’origine del mondo e della vita, e la prospettiva di una loro possibile fine, […] temi così grossi, che per riuscire a pensarci dobbiamo far finta di scherzare; anzi raggiungere una tale leggerezza di spirito da riuscire a scherzarci davvero è l’unico modo per avvicinarci a pensare in scala “cosmica”. […] Gli antichi partivano dai miti per avvicinare e comprendere i fenomeni della terra e del cielo; lo scrittore contemporaneo prende spunto dalla scienza attuale per ritrovare il piacere di raccontare, e di pensare raccontando[16].

Nel viaggio sulla Luna di Cyrano, sottolinea Calvino nelle Lezioni americane, si trova uno dei nuclei generatori dell’immaginazione letteraria illuministica, influenzata dalla teoria newtoniana della gravitazione universale, concepita come «l’equilibrio delle forze che permette ai corpi celesti di librarsi nello spazio»[17]:

L’immaginazione del XVIII secolo è ricca di figura sospese per aria. Non per nulla agli inizi del secolo la traduzione francese delle Mille e una Notte di Antoine Galland aveva aperto alla fantasia occidentale gli orizzonti del meraviglioso orientale: tappeti volanti, cavalli volanti, geni che escono dalle lampade. Di questa spinta dell’immaginazione a superare ogni limite, il secolo XVIII conoscerà il culmine con il volo del Barone di Münchausen su una palla di cannone, immagine che nella nostra memoria si è identificata definitivamente con l’illustrazione che è il capolavoro di Gustave Doré. Le avventure di Münchausen, che come le Mille e una Notte non si sa se abbiano avuto un autore, molti autori o nessuno, sono una continua sfida alla legge della gravitazione: il Barone è portato in volo dalle anatre, solleva sé stesso e il cavallo tirandosi su per la coda della parrucca, scende dalla luna tenendosi a una corda più volte tagliata e riannodata durante la discesa[18].

In rapporto alle teorie della gravitazione di Newton vanno anche situati i «miracolosi» versi sulla luna di Leopardi[19], autore ancora adolescente, ricorda Calvino, di un’eruditissima storia dell’astronomia, poeta la cui ispirazione non era soltanto lirica: «quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava»[20]. Nelle Lezioni americane, destinate a divenire il proprio testamento poetico, è ribadito con forza quanto Calvino aveva affermato in risposta ad Anna Maria Ortese sulle pagine del «Corriere della sera» il 24 dicembre 1967[21], all’indomani della pubblicazione della seconda raccolta di racconti cosmicomici Ti con zero, quando aveva con scalpore eletto Galileo a massimo scrittore della letteratura italiana:

Ma la Luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la Luna in un modo nuovo ci porterà in un modo nuovo tante cose. […] Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiosa. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…[22].

Carlo Cassola, come è noto, intervenne con durezza una settimana più tardi sulle pagine del «Corriere»:

Domenica scorsa, su questo giornale, Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante. E che oltre Dante, in otto secoli, la letteratura italiana avesse dato alcuni altri poeti, come tali più importanti di Galilei. Ma mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere[23].

La replica di Calvino non si fece attendere[24]. L’umanità si apprestava a un evento epocale, la conquista del suolo lunare, che grazie all’incredibile successo tecnologico della missione Apollo 11 avrebbe avuto luogo di lì a breve, un anno e mezzo più tardi, il 21 luglio 1969. Di questo nuovo epocale contatto con il satellite terrestre per Calvino la letteratura doveva necessariamente farsi carico, così come con l’ulteriore progresso delle missioni spaziali. Dopo il lancio della sonda «Voyager 2» per esplorazione del sistema solare esterno il signor Palomar, a dispetto di Cassola, non si fece sfuggire nulla negli anni successivi di quanto venne riportato sulla struttura ad anelli di Saturno:

che sono fatti di particelle microscopiche; che sono fatti di scogli di ghiaccio separati da abissi; che le divisioni tra gli anelli sono solchi in cui ruotano i satelliti spazzando la materia e addensandola ai lati, come cani da pastore che corrono intorno al gregge per tenerlo compatto; ha seguito la scoperta ad anelli intrecciati che poi si sono risolti in cerchi semplici molto più sottili; e la scoperta di striature opache disposte come raggi della ruota, poi identificate in nubi gelide. Ma le nuove notizie non smentiscono questa figura essenziale, non diversa da quella che per primo vide Gian Domenico Cassini nel 1676, scoprendo la divisione tra gli anelli che porta il suo nome. Per l’occasione è naturale che una persona diligente come il signor Palomar si sia documentata su enciclopedie e manuali. Ora Saturno, oggetto sempre nuovo, si presenta al suo sguardo rinnovando la meraviglia della prima scoperta, e risveglia il rammarico che Galileo col suo sfocato cannocchiale non sia arrivato a farsene che un’idea confusa, di corpo triplice o di sfera con due anse, e quando già era vicino a capire com’era fatto la vista gli venne meno e tutto sprofondò nel buio[25].

24 dicembre 1967-24 dicembre 1982: non è probabilmente un caso che Calvino abbia scelto di far uscire, esattamente quindici anni dopo l’elogio di Galileo sul «Corriere della sera», e in un quadro cosmologico nel frattempo rapidamente mutato, quello di Cyrano sulle pagine della «Repubblica», che così si apriva: «Nell’epoca in cui Galileo si scontrava col Sant’uffizio, un suo sostenitore parigino proponeva un suggestivo modello di sistema eliocentrico: l’universo è fatto come una cipolla, che “conserva, protetta da cento pellicine che la volgono, il prezioso germoglio da cui 10 milioni da altre cipolle dovranno attingere alla loro essenza… L’embrione, nella cipolla, è il piccolo sole di questo piccolo mondo, che riscalda e nutre il sale vegetativo di tutta la massa”»[26].

 

  1. Rielaboro qui alcune delle considerazioni da me svolte nella comunicazione The Modern Human Nature in Context: Italo Calvino, Cyrano de Bergerac and the Post-Copernican Image of Nature al Convegno internazionale Literature and Science: 1922-2022, a cura di M. Martino, F. Mitrano, D. Crosara e Y. Chung, Sapienza Università di Roma, 30-31 marzo 2023. Rinvio per il testo completo della comunicazione alla pubblicazione degli Atti del Convegno.

  2. Cyrano de Bergerac, Les États et Empires de la Lune et du Soleil. Avec le Fragment de Physique, édition critique, textes étabilis et commentés par M. Alcover, Paris, Honoré Champion, 2000.

  3. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, in Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, 2 voll., vol. I, pp. 647-48.

  4. Giunto alla notorietà sin dalla giovinezza per le osservazioni astronomiche da lui condotte a partire dal 1618, in particolare quella del transito di Mercurio di fronte al Sole, il primo mai rilevato, oltreché dell’aurora boreale, Gassendi pubblicò nel 1924 un fortunato volume di Saggi polemici contro gli aristotelici (Exercitationes Paradoxicœ adversos Aristoteleos), dedicando negli anni seguenti la sua attività di erudito e scienziato alla restituzione della filosofia di Epicuro, esponendola nei suoi principi gnoseologici, fisici e morali (la conoscenza è fondata sul criterio primo della sensazione; ogni esistenza è ricondotta al movimento nel vuoto infinito di pulviscoli della materia, gli atomi impercettibili e indivisibili; le regole dell’azione umana sono fondate sulla ricerca del piacere e la fuga dal dolore). La grande opera in latino alla quale Gassendi attese fino alla sua morte, avvenuta nel 1655, era volta a costituire, sulla base di quella antica e pagana, una nuova filosofia atomistica adattata con “correzioni” al sapere coevo, ovvero resa compatibile con le credenze e l’ortodossia ecclesiastica. Quella che doveva inizialmente profilarsi come un’indagine sulla vita e la dottrina di Epicuro (cfr. P. Gassendi, Commentarium de vita, moribus et placitis Epicuri libri octo seu Amimadversiones in decimum librum Diogenis Laertii, 1649; Id., Syntagma philosophiae Epicuri, cum refutationibus dogmatum quae contra fidem Christianorum ab eo asserta sunt, 1649) sfocerà infatti nel progetto, parallelo alla vibrante polemica condotta da Gassendi contro il dualismo mente-corpo di Descartes (Disquisitio metaphysica seu dubitaiones et instantiae adversus Renati Cartesii metaphysicam et responsa, 1644), della redazione di un grande trattato filosofico-scientifico, i cui manoscritti erano noti ai suoi soli amici e discepoli, il Syntagma philosophicum, che fu pubblicato postumo negli Opera Omnia (1658). Su Gassendi cfr. in part. O. Bloch, La philosophie de Gassendi, Nominalisme, matérialisme et métaphysique, La Haye, Martinus Nijhoff, 1971; B. Brundell, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Natural Philosophy, Dordrecht, Reidel, 1987.

  5. Cfr. J.-Ch. Darmon, Le songe libertin. Cyrano de Bergerac d’un monde à l’autre, Paris, Klincksieck, 2004.

  6. ‘Il silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce’: B. Pascal, Frammenti, a cura di E. Balmas, 2 vol., Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1983, vol. I, p. 275 (ed. orig. 1669).

  7. Sul contesto cosmologico, metafisico e religioso del brano di Pascal cfr. il sempre classico A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli, 1970 (ed. orig. Baltimore, The John Hopkins, 1957).

  8. Un autorevole studioso di Cyrano così ne descrive la formazione e gli intenti: «La nourriture que Gassendi lui peut dispenser … n’est pas à la mesure de son appetit. Pour fair oeuvre d’écrivain philosophe, il faudra puisier encore dans la gibecière et dans celle de Rohault, emprunter aux hérésiarques et piller les incrédules, embruiller enfin toutes les suggestions du libertinage érudit dans le desordres du libertinage flamboyant: alors seulement il disposera d’une assez grande provision de paradoxes pour peupler ses fabuleux États de la Lune»: R. Pintard, Le libertinage érudit dans la première moité du XVIIe siècle, Paris, Boivin, 1943, 2 voll., vol. I, p. 330.

  9. «Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo, visto che c’erano tante altre cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un’infinita quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia capitato di fare i pochi animali, vegetali minerali che vediamo, così come non fa meraviglia che su cento colpi di dati esca una pariglia. È pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta»: Cyrano de Bergerac, L’altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna, a cura di V. Bernieri, introduzione di L. Erba, traduzione di G. Marchi, Roma, Theoria, 1982, p. 109.

  10. I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 648.

  11. «Si dirà che noi, e non i cavoli, siamo fatti a immagine dell’Essere Supremo. Quando ciò fosse vero, noi abbiamo cancellato questa somiglianza macchiando l’anima per la quale gli somigliamo, non essendoci nulla che sia più contrario a Dio che il peccato. Se dunque la nostra anima non è più il suo ritratto, non gli somigliamo di più per le mani i piedi la bocca la fronte le orecchie che il cavolo per le foglie, i fiori, il gambo, il torsolo e il cappuccio. In verità, se quella povera pianta potesse parlare quando la tagliano, non credete che direbbe: “mio caro fratello uomo, che cosa ho fatto per meritare la morte? Cresco solo nei tuoi orti, e non mi si trova mai nei luoghi selvaggi, dove vivrei sicuro; disdegno di essere opera di altre mani che non siano le tue, ma ne sono appena uscito che vi ritorno. Mi sollevo da terra, mi schiudo, stendo le braccia, ti offro i miei figli in seme e, per ricompensa della mia cortesia, tu mi fai tagliare la testa!”. Ecco cosa direbbe quel cavolo se potesse parlare»: Cyrano de Bergerac, L’altro mondo ovvero Stati e imperi della Luna, op. cit., p. 97. Un estratto di questo brano è riportato in I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 649.

  12. Ivi, pp. 649-50.

  13. «Precursore della fantascienza, Cyrano nutre le sue fantasie delle cognizioni scientifiche del suo tempo e delle tradizioni magiche rinascimentali, e così facendo si imbatte in anticipazioni che solo noi più di tre secoli dopo possiamo apprezzare come tali: i movimenti da astronauta che s’è sottratto alla forza di gravità (lui ci arriva mediante ampolle di rugiada che viene attratta dal Sole), i razzi a più stadi, i “libri sonori” (si carica il meccanismo, si posa un ago sul capitolo desiderato, si ascoltano i suoni che escono da una specie di bocca). Ma la sua immaginazione poetica nasce da un vero sentimento cosmico e lo porta a mimare le commosse evocazioni dell’atomismo lucreziano; così egli celebra l’unità di tutte le cose, inanimate e viventi, e anche i quattro elementi d’Empedocle non sono che uno solo, con gli atomi ora rarefatti ora più densi»: I. Calvino, Cyrano sulla Luna, in Id., Saggi, op. cit., vol. I, p. 821.

  14. Ivi, pp. 823-24.

  15. Ivi, p. 821.

  16. I. Calvino, Postilla a Id., La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Torino, Einaudi, 1975 (pagina non numerata).

  17. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, p. 650.

  18. Ivi, pp. 650-51.

  19. «[…] il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza»: ivi, pp. 651-52.

  20. Ivi, p. 651.

  21. Nella rubrica Filo diretto Anna Maria Ortese aveva lamentato le conseguenze “disumanizzanti” e “spoetizzanti” dello sviluppo delle tecnologie aerospaziali: «Caro Calvino, non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché. Anch’io, come gli altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cos’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere umano hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi a un interiore equilibrio. […] Ora questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, il respiro, la speranza».

  22. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, pp. 227-28.

  23. C. Cassola, Calvino e Galilei, in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1967, p. 11.

  24. «Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte. E basta vedere la scelta di passi di Galileo che Leopardi fa nella sua Crestomanzia della prosa italiana per comprendere quanto la lingua leopardiana – anche del Leopardi poeta – deve a Galileo. Ma per riprendere il discorso di poco fa, Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci si innalza in un’incantata sospensione. Non per niente Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto (Galileo appunto commentò anche Tasso, e lì non fu un buon critico: appunto perché la sua passione addirittura faziosa per Ariosto lo portò a stroncare Tasso in modo quasi sempre ingiusto). L’ideale di sguardo sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura»: I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, I (gennaio-marzo 1968), in Id., Saggi, op. cit., vol. I, pp. 231-32. Ho approfondito il tema in N. Allocca, La luna e il libro della natura. Su Italo Calvino e l’eredità di Galileo, in «Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age», II, 2014, n. 4, pp. 67-81; Le “due culture”. Italo Calvino, Galileo e la scienza moderna, in La scienza nella letteratura italiana, a cura di S. Redaelli, Roma, Aracne, 2016, pp. 107-22; Tecnica, estetica e processi comunicativi nel dibattito sulle “due culture”, in «Versus. Quaderni di studi Semiotici», 2017, vol. 125, pp. 209-22; Le due culture e il caso Galilei, in «Filosofia Italiana», 2018, 2, pp. 35-58.

  25. I. Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 3 voll., 1991-1994, vol. 2, p. 906.

  26. I. Calvino, Saggi, op. cit., vol. I, p. 820.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)