Calvino osservatore attento dei cambiamenti ambientali nell’Italia del boom economico

Author di Samuela Di Schiavi

La fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, gli anni del cosiddetto “miracolo” o boom economico, hanno rappresentato per l’Italia un periodo di grandi cambiamenti e profonde trasformazioni sia da un punto di vista socio-economico, con la nascita di una nuova società dei consumi, sia da una prospettiva ambientale, ad esempio con lo sviluppo e l’espansione delle città metropolitane. È proprio in questa cornice di importanti mutamenti che coinvolgono l’intera penisola che Italo Calvino pubblica alcuni racconti lunghi, ironici ma molto realistici, in cui attraverso la descrizione di una realtà contemporanea emerge l’attenzione dell’autore verso la tematica dell’ambiente e dell’ecologia, da un punto di vista sia politico sia sociale e morale.

Una delle opere di Calvino che sicuramente descrive ed evidenzia le trasformazioni ambientali e il radicale mutamento del tessuto urbano derivati da quella pratica che si può definire “smania di costruzione” è La speculazione edilizia, racconto apparso per la prima volta nel settembre del 1957 sul numero 20 della rivista letteraria internazionale «Botteghe Oscure», ripubblicato l’anno successivo nel volume dei Racconti in una versione ridotta e pubblicata nuovamente integralmente come romanzo breve nel giugno del 1963 nella collana dei «Coralli» Einaudi.

In primo luogo, si deve sottolineare che nella Speculazione edilizia non è presente una denuncia decisa, puntuale ed evidente delle speculazioni sulla Riviera Ligure ma, come afferma Pierangeli in Italo Calvino. Biografia per immagini, «Quello che affiora è l’inettitudine del protagonista che si impaluda in una lotta impari con “gli altri” nella politica, negli affari, con le donne»[1]. Infatti, il protagonista, Quinto Anfossi, decide di entrare in affari con Caisotti, un costruttore noto per essere un truffatore, e lascia il suo impegno da intellettuale per “fare l’affarista”, vale a dire per improvvisarsi impresario. Attraverso il personaggio di Quinto, Calvino rappresenta tutti gli intellettuali che in passato hanno agito con entusiasmo perché mossi dagli ideali del dopoguerra, ma che a partire dagli anni Cinquanta iniziano a entrare in crisi dopo essersi resi conto che sta lentamente svanendo la possibilità di costruire una società nuova, fondata su solide basi morali. L’inattuabilità di un cambiamento sociale da tempo atteso e ambito ha suscitato sentimenti di disincanto, delusione e impotenza negli intellettuali e in generale nelle persone. Come affermato dallo stesso Calvino, La speculazione edilizia è la storia di un fallimento «raccontata […] per rendere il senso di un’epoca di bassa marea morale», un’epoca in cui l’unico modo per sfogare la propria opposizione ai tempi è «una rabbiosa mimesi dello spirito dei tempi stessi»[2], ossia assumere i comportamenti criticati dell’epoca. In sostanza, il romanzo breve da una parte diventa simbolo dello sviluppo di una nuova società industriale attaccata a valori materiali, dall’altra è l’emblema della disillusione di una generazione cresciuta con gli ideali, i principi, i valori morali e l’entusiasmo del dopoguerra.

Tuttavia, non si può negare che dalla Speculazione edilizia emerga una descrizione del cambiamento repentino, disordinato e irreversibile avvenuto nel paesaggio urbano e rurale a seguito della crescita economica. Infatti, negli anni in cui Calvino scrive questo romanzo breve, si è verificata una rapida crescita delle città non supportata né da adeguate infrastrutture né da un piano regolatore urbanistico, con la conseguente drastica diffusione della speculazione edilizia, che ha comportato uno sviluppo disordinato e senza alcun tipo di controllo delle zone urbane. Inoltre, anche lo sviluppo del turismo di massa ha contribuito inesorabilmente all’eccessiva pratica edilizia, tanto che «migliaia di chilometri di costa furono rovinati per sempre da speculatori che si arricchirono nel soddisfare la domanda di alberghi e seconde case. Boschi, valli alpine, villaggi di pescatori, lagune e isole furono inquinati, distrutti o resi irriconoscibili»[3].

La narrazione si apre con Quinto che è in viaggio per tornare in Riviera dove si trova la sua città natale, nel testo indicata solamente con tre asterischi (***). L’azione iniziale è caratterizzata dal tema del “vedere”, declinato attraverso il protagonista che afferra «pezzo per pezzo» il paesaggio dal treno in corsa. Lo scorrere di istantanee di ricordi che riecheggiano nella memoria viene interrotto da elementi che recano disturbo al protagonista, fermando quello che ormai era «soltanto una verifica di osservazioni, sempre le stesse»[4]. Durante il tragitto in treno, infatti, lo sguardo di Quinto salta continuamente dal libro che sta leggendo al paesaggio che scorre fuori dal finestrino, un paesaggio che è composto da «cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva»[5]. In realtà, la vista che si presenta di fuori non è quella di un paesaggio rimasto sostanzialmente immutato, in quanto, come si leggerà qualche riga successiva, «La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera»[6], togliendo a Quinto il piacere di ritrovare quanto aveva precedentemente lasciato e riprendere i contatti con esso. Ma è solo nella pagina successiva che i cambiamenti ambientali si fanno più evidenti e si palesa il fastidio provato dal protagonista nel vedere come il suo paese pian piano «se ne andava così sotto il cemento», anche se alla fine decide di far «ritorno alla sua città natale per intraprendervi una speculazione edilizia»[7].

Proseguendo con la narrazione, si nota che lo sguardo del protagonista sull’ambiente che lo circonda non si limita più a essere rapido e generico come sul treno, ma al contrario la descrizione diventa più dettagliata e attenta ai particolari, quasi come se ci si trovasse di fronte a una fotografia che raffigura un paesaggio e allo stesso tempo contiene elementi di descrizione del contesto sociale e culturale. L’azione si sposta sul terrazzo della casa: la vista dall’alto risulta essere più precisa e completa, il che permette a Quinto di prendere coscienza del fatto che le villette a due piani e la vegetazione tipica hanno lasciato il posto a palazzine di cemento. Se prima la città di Quinto era «circondata da giardini ombrosi d’eucalipti e magnolie»[8], ora sono presenti scavatrici che ribaltano il terreno per creare spazio alle future palazzine. Se prima dalla villa della famiglia di Quinto si poteva ammirare la città nuova, il porto, «il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia», ma anche gli orti, l’oliveto e i «campi di garofani scintillanti»[9], ora non c’è più nulla, se non un «sovrapporsi geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro»[10].

Calvino riesce a intrecciare la narrazione e le trasformazioni ambientali: il procedere della narrazione corrisponde all’avanzamento dei lavori per la costruzione di una palazzina in una parte del giardino della villa degli Anfossi. Tutte le vicende del protagonista sono legate al suo intento, che alla fine si rivelerà fallimentare, di fare affari e arricchirsi grazie all’investimento di capitale nel settore dell’edilizia. Il terreno passa dall’essere un appezzamento «un tempo coltivato ad orto»[11] per il sostentamento della famiglia a diventare un giardino dove «alla madre piaceva sostare»[12], fino a divenire un terreno messo all’aria dove «Il verde vegetale del soprassuolo spariva nei cumuli al rimbocco delle fosse sotto palate di terra soffice e zolle restie allo sfarsi»[13] per far posto a quello «squallido casone di cemento incompiuto»[14], circondato da uno spiazzo fangoso. Il paesaggio diventa così protagonista della lotta tra la natura da salvare e conservare, rappresentata dal giardino curato con amore dalla madre di Quinto, e l’uomo, che per i propri interessi privati distrugge gli ambienti naturali. Ed è proprio attraverso la figura della madre che Calvino raffigura un rapporto sano e positivo tra uomo e natura; infatti la donna, nonostante il nervosismo generale e la distruzione del terreno per permettere la costruzione del palazzo, continua nella sua serenità a prendersi cura delle piante e dei fiori. Non è un caso, quindi, che La speculazione edilizia si chiuda con la madre all’esterno della casa circondata da aiuole, alberi e animaletti che popolano i giardini, e con i figli all’interno della casa nella penombra circondati da fasci di carte per calcolare in quanto tempo ammortizzeranno il capitale investito.

Diverso, ma per certi versi simile, è il cambiamento ambientale descritto da Calvino in La nuvola di smog. In una lettera al collega scrittore e funzionario editoriale Pietro Citati, datata 2 settembre 1958, l’autore fornisce la chiave di lettura dei Racconti scrivendo che «il tema generale è l’impossibilità dell’armonia naturale, con le cose e con gli uomini»[15]. Attraverso queste parole, Calvino evidenzia l’importanza delle dinamiche relazionali tra natura, società e storia. È proprio partendo da questi aspetti che Scaffai sostiene che La nuvola di smog rappresenti la crisi del rapporto con la natura e che Barenghi definisce l’opera come «un racconto ecologista ante litteram, in un’epoca in cui di inquinamento atmosferico si cominciava appena a parlare»[16].

A differenza della Speculazione edilizia, La nuvola di smog non è ambientata nella Riviera Ligure, bensì in una città industriale, probabilmente la Torino del dopoguerra in cui lo stesso autore aveva vissuto, e la narrazione ruota attorno a una “miriade di granellini” impercettibili che si depositano in ogni luogo della città, ossia lo smog. Alla base del racconto, però, troviamo sempre Calvino che osserva attentamente la realtà a lui contemporanea e denuncia le contraddizioni del mondo industriale, di un mondo che sta evolvendo in negativo. Come evidenziato da Scaffai durante il primo incontro del ciclo La memoria del mondo – Lezioni pisane per Italo Calvino dal titolo Calvino e l’ecologia[17], la contraddizione presentata in questo racconto lungo è ambientale ma allo stesso tempo storica e sociale: infatti, verso la fine della narrazione il protagonista prende coscienza dell’importanza economica che ha lo smog, in quanto si rende conto che nel sistema industriale una città acquista maggiore rilevanza in base alla quantità di smog che essa produce. In sostanza, nella Nuvola di smog Calvino propone una riflessione storico-sociale attraverso la descrizione degli effetti che l’industrializzazione ha avuto sull’ambiente, dalla quale emerge che «l’unico esito possibile è sostanzialmente regressivo»[18].

La nuvola di smog appare per la prima volta sul numero 34 della rivista «Nuovi Argomenti» di settembre-ottobre 1958 e successivamente nel volume dei Racconti stampato nello stesso anno. A partire dal 1965, sarà sempre pubblicato assieme a La formica argentina, in quanto considerato dallo stesso Calvino «un altro racconto lungo che le faccia da pendant sullo scenario della civiltà industriale»[19]. Infatti, in entrambi i racconti l’autore descrive la diffusione nella società di un male microscopico e impalpabile: da un lato le formiche e dall’altro lo smog. Si deve sottolineare che “racconto lungo” non è l’unica denominazione che Calvino utilizza per riferirsi a La nuvola di smog; in una lettera a Cesare Cases del 20 dicembre 1958, l’autore definisce l’opera «un racconto critico, che ruba il mestiere al critico, e non è del tutto poeticamente valido», chiarendo che nel racconto chiama «le cose col loro nome» e questo è «compito del critico»[20]. In aggiunta, nel risvolto di sopracoperta del volume dei «Coralli» Einaudi del 1965 scritto dallo stesso autore e di seguito inserito come Presentazione nell’edizione «Oscar» Mondadori del 2023, Calvino afferma che «La nuvola di smog è un racconto continuamente tentato di diventare qualcos’altro: saggio sociologico o diario intimo»[21]. In sostanza, La nuvola di smog viene considerato un racconto ibrido nel quale è presente sia una componente saggistica che inflessioni lirico-simboliche, ma anche riferimenti al vissuto dell’autore.

Il racconto tratta la storia di un giornalista pubblicista senza nome, che si trasferisce in una nuova città per iniziare a lavorare per una rivista ambientalista, «La Purificazione», organo di stampa dell’Ente per la Purificazione dell’Atmosfera Urbana dei Centri Industriali (EPAUCI). Il compito del protagonista è quello di scrivere articoli riguardanti l’inquinamento che pervade le città industriali, incarico che lo renderà maggiormente consapevole della realtà che lo circonda, ossia quella di una città ricoperta da una sottile e impalpabile polvere nera che si deposita ovunque. Emblematico è il comportamento del protagonista che, appena arrivato nella stanza che ha preso in affitto, sente un irrefrenabile bisogno di lavarsi le mani perché si sente «fastidiosamente non pulito»[22]. Rivelatrice sarà una gita in collina e la sosta su un punto panoramico: osservando la città dall’alto, il protagonista si troverà di fronte alla vista di una nuvola che avvolge e ricopre l’intera città, una nuvola che rispetto alle altre «non era poi tanto diversa, se non per il colore incerto, […] più sul marrone o sul bituminoso, […] era insomma un’ombra di sporco che la insudiciava tutta»[23]. È con questa precisa immagine fissa nella mente che il protagonista scriverà un articolo, nel quale descrive come quel «deposito nero» si estendeva sia sulle «facciate delle case antiche» sia su quelle «delle case moderne», nonché sui «colletti bianchi delle camicie del personale impiegatizio, che non duravano puliti mezza giornata»[24].

Ma c’è ancora un’ulteriore verità da scoprire, forse quella che maggiormente riesce a descrivere come lo smog in realtà sia la metafora di un male impalpabile che sta uccidendo il mondo. Nel momento in cui il protagonista si confronta con il presidente dell’Ente, l’ingegner Cordà, nell’ufficio presso una delle industrie di cui è rappresentante delegato, si renderà conto che il principale responsabile dell’inquinamento della città è proprio l’ingegner Cordà e che l’Ente «era una creatura dello smog, nata dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d’una vita che non fosse solo di smog»[25], quindi un’ipocrita mossa per “ripulirsi”. È grazie a questa rivelazione che si riesce a comprendere il perché l’ingegner Cordà, leggendo la bozza del primo articolo scritto dal protagonista, avesse insistito tanto sul sottolineare che, rispetto alle altre città inquinate quanto la loro, lì si stava concretamente agendo per risolvere il problema dell’inquinamento.

Anche nel caso della Nuvola di smog si ritiene utile soffermarsi sulle ultime due scene narrate e sulle immagini che rispettivamente richiamano. Si tratta di situazioni e immagini complementari ma allo stesso tempo in contrasto: nella prima il protagonista sta discutendo con l’ingegner Cordà dell’ultimo numero della rivista in uscita; nella seconda il protagonista scopre l’esistenza di una località fuori città in cui abita una cooperativa di lavandai. Da un lato, troviamo la presa di coscienza di una minaccia ambientale ancora più pericolosa e insidiosa, quella delle radiazioni nucleari, che a confronto fa percepire la nuvola di smog come una «nuvoletta appena, un cirro»[26]; dall’altro, troviamo un paesaggio formato da larghi prati «attraversati da fili ad altezza d’uomo e a questi fili erano appesi ad asciugare uno dopo l’altro i panni di tutta la città»[27]. Da una parte, quindi, troviamo un’immagine negativa, la consapevolezza di una realtà peggiore di quella palesata finora, un futuro di «nubi mortifere» e «malattie terribili»[28], ma anche la contezza dell’indifferenza totale dei cittadini e soprattutto di chi può veramente fare qualcosa per cambiare. Dall’altra troviamo un’immagine positiva, uno spiraglio di speranza verso un futuro senza sporcizia, non più grigio come lo smog ma bianco come le «file lunghissime di panni»[29].

La speculazione edilizia e La nuvola di smog sono sicuramente racconti dai quali emerge la sensibilità sociale e ambientale di Italo Calvino, il quale riesce a restituire ai lettori uno spaccato della realtà italiana della fine degli anni Cinquanta e allo stesso tempo a registrare quelli che Milanini definisce «i segni premonitori d’un mutamento di vasta portata»[30]. Secondo lo studioso, Calvino è riuscito a intervenire in modo tempestivo ponendo l’attenzione «sul degrado ecologico, sui meccanismi solo in apparenza incoerenti che lo determinano, sui giochi di copertura dei nuovi apprendisti stregoni, sulle complicità di chi dovrebbe esercitare la funzione d’oppositore», e allo stesso tempo impegnandosi a «smascherare gli autoinganni e le pseudogiustificazioni ideali di un’umanità» che non ha più un’«autentica tensione morale»[31]. In Invito alla lettura di Italo Calvino, Bonura sostiene che il fulcro di questi «racconti-dibattiti» risiede nella «rappresentazione lucida e insieme disperata della condizione dell’uomo nella società capitalistica, basata sul profitto, costi quel che costi in vite umane»[32]. I due protagonisti, quindi, diventano portavoce dell’uomo oppresso dal potere, dell’uomo che ha volontà di cambiare le cose ma è rassegnato a sopravvivere in un mondo “grigio”, sporco, al buio, a causa di costruzioni che coprono il sole.

Dal punto di vista narrativo, grazie a uno sguardo fisso e attento sulla realtà, Calvino racconta storie di per sé marginali, mette in scena personaggi di dubbia moralità, come il costruttore per La speculazione edilizia e il sindacalista per La nuvola di smog, e racchiude tutta l’azione in confini temporali ristretti. La peculiarità di questi racconti risiede soprattutto nella capacità dell’autore di presentare i punti a favore e quelli contro di una situazione circoscritta e delineata anche attraverso prospettive diverse, quelle dei soggetti interessati, riuscendo altresì a dare rilievo alle «proporzioni in cui cose diverse possono coesistere e integrarsi nell’animo dei singoli»[33]. La maestria di Calvino risiede nel fatto che la narrazione si svolge attraverso quello che molti critici definiscono un «doppio criterio costruttivo»[34]: di fatto, sia La speculazione edilizia sia La nuvola di smog presentano due livelli di narrazione, uno superficiale e uno profondo, sui quali si poggia una struttura che lo stesso Calvino ha definito “a raggiera”, vale a dire composta da un problema centrale e da una casistica di possibili reazioni. Il livello superficiale riguarda la narrazione delle vicende del protagonista che interagisce con personaggi minori o con situazioni e avvenimenti da interpretare: come ad esempio Quinto che dialoga con l’avvocato, con l’ingegnere, con un vecchio amico di partito e con gli amici intellettuali o le interazioni nella trattoria della Nuvola di smog. Il livello profondo, invece, riguarda il diverso comportamento e atteggiamento con cui gli individui reagiscono a uno stesso evento o situazione.

In sostanza, attraverso la stesura di racconti dal forte significato simbolico, Calvino è riuscito a proporre a lettori e critici un’attenta analisi della realtà a lui contemporanea e un’indagine prettamente incentrata sui problemi e sulle sfide posti dalle nuove prospettive urbane e industriali, sviluppatisi proprio in quegli anni, nonché una descrizione dettagliata delle trasformazioni ambientali avvenute in tutta la penisola a partire dagli anni Cinquanta. In particolare, ciò che emerge dalla visione amara offerta dall’autore è un profondo sentimento di disillusione e di delusione da parte degli intellettuali di fronte a quanto decantato e promesso negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, di fronte al progresso sperato negli anni del boom economico.

Da una prima analisi sembrerebbe quasi che Calvino volesse mostrare e ricercare i risvolti negativi della nuova società che si stava instaurando, come ad esempio la diffusione dell’avidità o la perdita di quei valori ritenuti fondamentali per la società quali la libertà, la bellezza e l’autenticità. Nella Speculazione edilizia l’autore riesce a rappresentare quanto appena descritto attraverso l’espressione più rappresentativa dell’Italia degli anni Cinquanta, ossia il cambiamento nell’assetto urbano e paesaggistico (in questo caso della Riviera Ligure) dovuto alla costruzione di edifici residenziali per la classe borghese delle città industriali. Nella Nuvola di smog, invece, l’intento di Calvino è quello di condurre il lettore a una riflessione circa l’evoluzione che stava avvenendo nella società: infatti, attraverso una serie di immagini evocative, l’autore ha cercato di denunciare le conseguenze negative di una situazione ambientale e sociale in evoluzione, di cui non si è ancora pienamente consapevoli perché incapaci di vederne i segni e i simboli. Calvino distingue due azioni che uno scrittore può intraprendere: “allontanare, schematizzare e allegorizzare” la realtà nel caso in cui volesse vedere un significato in essa; «approdare […] allo sgomento del nulla, alla vanità del tutto» nel caso in cui, invece, volesse minuziosamente descrivere la vita. L’interesse maggiore di Calvino, però, è nel «modo di considerare la natura, che è molto più importante di tutti i capitalismi e altri transeunti epifenomeni; ma la natura ai nostri occhi si presenta come specchio della storia, in essa troviamo la stessa realtà come specchio della storia, in essa troviamo la stessa realtà crudele mostruosa che è del tempo in cui viviamo»[35].

In conclusione, negli anni del cosiddetto boom economico in Italia si sono verificati sostanziali cambiamenti nell’assetto urbano, paesaggistico e sociale, in maggioranza frutto di una smania di costruzione e di profitto. Calvino, da osservatore attento della realtà che lo circondava, è riuscito a descrivere le trasformazioni e i mutamenti avvenuti in quel periodo senza però mai porre completamente l’attenzione sul tema della distruzione di certi ambienti naturali. In sostanza, l’autore ha mostrato la «reazione dell’intellettuale alla negatività della realtà»[36] in due racconti in cui l’ambiente non è marginale, bensì personaggio e protagonista della storia, «una storia di inassimilabilità sociale e d’impossibile ritorno al paesaggio natale»[37].

 

  1. P. Barbaro, F. Pierangeli, Italo Calvino. Biografia per immagini, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1995, p. 117.

  2. I. Calvino, La speculazione edilizia, Milano, Mondadori, 2023, p. VI.

  3. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 334.

  4. I. Calvino, La speculazione edilizia, op. cit., p. 3.

  5. Ibidem.

  6. Ibidem.

  7. Ivi, p. 6.

  8. Ivi, p. 4.

  9. Ibidem.

  10. Ibidem.

  11. Ivi, p. 9.

  12. Ivi, p. 10.

  13. Ivi, p. 67.

  14. Ivi, p. 150.

  15. I. Calvino, I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Milano, Mondadori, 2022, p. 262.

  16. M. Barenghi, Postfazione in I. Calvino, La nuvola di smog. La formica argentina, Milano, Mondadori, 2023, p. 113 (originariamente in M. Barenghi, Calvino, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 47-50).

  17. N. Scaffai, Calvino e l’ecologia: cfr. l’URL https://www.sns.it/it/evento/calvino-e-lecologia (ultima consultazione: 30 giugno 2024).

  18. N. Scaffai, Letteratura ed ecologia: questioni e prospettive, in Natura Società Letteratura. Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore, 2020.

  19. Lettera ad Elio Vittorini del 5 settembre 1958 in I. Calvino, Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 557.

  20. Lettera a Cesare Cases del 20 dicembre 1958 in I. Calvino, Lettere, op. cit., pp. 575-76.

  21. I. Calvino, La nuvola di smog. La formica argentina, Milano, Mondadori, 2023, p. V.

  22. Ivi, p. 4.

  23. Ivi, p. 40.

  24. Ivi, p. 45.

  25. Ivi, p. 49.

  26. Ivi, p. 65.

  27. Ivi, p. 70.

  28. Ivi, p. 65.

  29. Ivi, p. 70.

  30. C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Romanzi e racconti. Volume primo, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2005, p. LVI.

  31. Ibidem.

  32. G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, Milano, Mursia Editore, 1972, pp. 68-69.

  33. C. Milanini, Italo Calvino. La trilogia del realismo speculativo, in «Belfagor», vol. 44, n. 3, 31 maggio 1989, pp. 241-62: 246.

  34. C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. LVII.

  35. Lettera a Cesare Cases del 20 dicembre 1958 in I. Calvino, Lettere, op. cit., pp. 575-76.

  36. Intervista di Italo Calvino a Maria Corti in I. Calvino, Lettere, op. cit., p. 907 (originariamente in «Autografo», 6, ottobre 1985, p. 49).

  37. Lettera ad Alberto Asor Rosa del 21 maggio 1958 in I. Calvino, Lettere, op. cit., p. 548.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Le «vittime della scure» nell’oikos di Calvino: (proto)ecologia tra distopia e relazioni disforiche da Ombrosa a Leonia

Author di Martina Palese

Per quella fitta connessione che rende il linguaggio e la letteratura figli reciproci di una vasta possibilità di intenti, la personalità di Italo Calvino prescinde dalle fissità di una collocazione cronologica, oltre la quale si erge a pioniere di tempi distanti e vicinissimi. Acuto osservatore nonché promotore ideologico e narrativo di quel filtro sottile tra parola e realtà, serve nell’ombra del dettaglio i paradossi e le attese delle più significative trasformazioni storiche e culturali del suo “stare” nel mondo.

Ascolta l’«inferno dei viventi»[1] non sfuggendogli, abbozzandone le metamorfosi e fluendo con esse in un algoritmo letterario intessuto della relazione tra umano e non umano, reale e ideale, allegorico e fiabesco, lungo una prospettiva storica orientata che lega indissolubilmente passato e presente. La stessa che della disarmonia della modernità fotografa l’assuefazione, maneggia le contraddizioni e accoglie le scosse di un «campo di impulsi magnetici», tra corpi e sensazioni propri di uno spazio che è «inseguimento delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita», ecosistema biologico e sociale, risultante degli «influssi reciproci di fauna e di flora e di clima e di fisiologia»[2].

Nell’atrofia della modernità che incombe, il merito di Calvino, con un approccio anticipato di natura proto-ecologica, risale al ritratto dell’ambiente come di un sistema instabile condannato, effetto tanto di uno spaesamento esistenziale quanto di un’attenzione dai tratti neorealistici alla dimensione locale. Eppure, il paesaggio «per poterlo rappresentare occorreva […] diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie»[3], perché i processi trasformativi dello sviluppo industriale del dopoguerra trasparissero nella completezza dei propri ingranaggi. Se già «l’amore per la natura di Marcovaldo è quello che può nascere solo in un uomo di città», il paradigma nostalgico e controverso di un contorno che soccombe all’urbanizzazione segue una parabola irregolare anche nella scrittura.

Tra le pagine calviniane si staglia un ideogramma di smog, nebbia fumosa e detriti chimici, che assume le sembianze di un mondo «umano e lancinante»[4], fino a precipitare nelle rovine di un «terreno vago ricoperto da immondezzai»[5], che il personaggio di Marco Polo percorre tra le città invisibili, dieci anni prima di Palomar, come ombra di un anonimato cittadino «frenetico e congestionato»[6]. D’altronde, «la cosa che vorrebbe salvare» il “morto scorbutico” è «la più fragile: quel ponte marino tra i suoi occhi e il sole calante»[7], in un universo immaginifico che si scontra con la constatazione del deterioramento, regredendo all’interrogativo esistenziale di quel protagonista «buffo e melanconico» che, «in mezzo alla città di cemento e asfalto», si domandava: «Ma esiste ancora, la Natura?»[8]. Dispettosa, contraffatta, compromessa, da sfumarsi nel Bosco sull’autostrada, contaminarsi degli abbagli dei semafori, perdersi fra salvagenti, barche e canotti in Un sabato di sole, sabbia e sonno.

Così, nel ventennio trascorso dalle novelle delle Stagioni in città alla desolazione «dell’uomo-albero» impigliato nella «trappola messa insieme con snodi di plastica, ossa e […] scotte di nylon»[9], Italo Calvino compone attentamente gli orizzonti di isolamento delle sue creazioni, affidandovi lo scrutamento anonimo, a tratti defilato, ma solerte di quelli che, in fondo, sotto ai rovesciamenti elementari del «fuoco celeste, l’aria in corsa, l’acqua culla e la terra sostegno», non sono altro che i meccanismi più semplici della Terra[10].

Una «geografia dello stile grigio»

«Questo sarebbe un bellissimo tema per un saggio: Il «tono grigio» nella letteratura italiana contemporanea»[11], aveva risposto Calvino al direttore di «Nuova corrente», Mario Boselli, per replicare al rimprovero, tra altri, di «critico stilistico» rivoltogli nel n. 35 della pubblicazione del 1965. L’appunto sprezzante circa la scelta di un lessico «povero e disadorno» gli aveva suggerito una dissertazione epistolare sul valore dell’esemplificazione, abbinata a una «densità verbale» e a una «minuziosità descrittiva» imprescindibili per quella raggiera di relazioni con la quale illustrare il rapporto con il grigiore[12]. In ciascun componimento – ammetteva – «si notano delle parti più scritte e delle parti meno scritte» che, come per lo spaccato del legno, «in cui si possono seguire come corrono le fibre, dove fanno nodo, dove si diparte un ramo»[13], parlano nel silenzio, quanto nel sonoro fitto accostamento di dettagli e tecnicismi:

Torniamo ora al punto di partenza: il povero, il disadorno, lo squallore, il grigiore. Dove lo mettiamo? Lo mettiamo, mi pare, come un contenuto (oggettivo psicologico) che il protagonista (o l’io lirico, o l’autore nella sua proiezione narrativa) vuole eleggere, vuole tenere ininterrottamente sotto gli occhi, vuole identificare in sé, ma (e il tema è già dato dalle prime righe) attraverso un atto di volontà, una scelta[14].

Ed ereditario è il carattere della scelta lessicale e metodologica dell’autore, figlio dell’agronomo Mario Calvino e della botanica e naturalista Eva Mameli, che «non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari»[15], fino a insinuarsi nel linguaggio letterario, eppure scientifico, di una ricercata resa «materialistica dei procedimenti astratti»[16]. La parola diviene strumento conoscitivo e ricostruttivo di un’immagine cosmica cui concorrono i movimenti, il pensiero, le deformazioni percettive, le tinte, lungo una tendenza che culmina nel dittico del 1965[17], quando l’aria color bituminoso della nuvola di smog e la Riviera infestata dalla “formica argentina” preannunciavano l’inversione progressiva che Calvino avrebbe compiuto all’interno delle sue trame narrative.

La fede nel «verde che digrada a strisce per la vallata»[18], prima di disperdersi, corona l’immagine catartica del finale dei due racconti, pubblicati l’uno nel 1952 nel decimo numero del periodico «Botteghe oscure», l’altro nella rivista moraviana «Nuovi Argomenti», prima di costituire il volume unico edito nel decennio a seguire. Residui di futura speranza tratteggiano i “grandi prati” del sobborgo della lavanderia Barca Bertulla, per le campagne fuori dall’abitato, dove il protagonista senza nome di La nuvola di smog si concede il riso della purezza al cospetto di siepi, pioppi, fontanili e lunghe biancherie distese al sole. La vita annebbiata, impolverata dalla «nuvola che abitavo e che m’abitava»[19], assorbe, una figura dopo l’altra, una cieca, inquinata e “ipocrita” routine, che in La formica argentina aveva conosciuto già la collateralità dell’infestazione naturale. Sull’orlo del confine tra spirito progettuale e congetturale, i personaggi di entrambe le storie sono posti al cospetto di una sfida di fondo che ne aspira e riplasma l’identità: moglie, marito e bambino, impauriti dal «nemico concreto, numerabile, con un corpo»[20], confusi dal vicinato e affaticati dal cambiamento, quietano l’agitazione con «un giro […] fino al mare», a riscoprire la “meraviglia”, l’azzurro, i «gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde»[21].

I colori risplendono ancora, in un angolo nascosto delle retrovie, ma si dileguano presto, indietreggiando alla minaccia del «grigio delle terre gerbide», dei “cipressi neri”, del giallo che «a poco a poco spariva come cancellato», quasi «in un socchiudere di palpebre ancora assonnate». Inerte, fra le righe, tutto pare assopirsi. In Ultimo viene il corvo (1949) il grano impallidisce, il gatto è «grigio e magro, di pelo corto e tutto tendini»; sono grigie l’alba, l’aria e la «sensazione di vuoto, intorno»[22].

Talvolta il mondo del Marcovaldo è “grigio e misero”, come la fiamma, gli abiti, i colombi, le montagne e «le cose di tutti i giorni spigolose e ostili»[23]. Le sue “ricchezze nascoste” non sono sufficienti a contrastare il “reame di ville e alberghi”, né «il grigio muro di cemento che piombava nel verde del giardino trasformandolo in un freddo fondo di cortile, in un pozzo senza luce», o i «nodi di radici morte, chiocciole, lombrichi» di La speculazione edilizia (1957)[24].

Le «relazioni dell’area grigia con […] le più colorate»[25] – per riecheggiare la Lettera a Boselli – implodono nei Racconti. Il prisma cromatico delle fotografie testuali sospende il tempo della storia e della storia narrata, aggredendo la “situazione atmosferica”, i pantaloni di flanella, le case, persino lo squallore dei rapporti[26].

Lo sbiadirsi ininterrotto nutre il senso di quella condizione esistenziale di «ombre senza faccia»[27], che si esprime allora nel “tema generale” dell’«impossibilità dell’armonia naturale, con le cose e con gli uomini»[28], spaccatura dell’οἶκος nella «nota stonata dell’artificiale», nonché «il dubbio, il sospetto d’aver sbagliato strada»[29].

Il guizzo del Barone tra La formica e La nuvola

Distante dalla restituzione di una sola realtà, con flessibilità Calvino aveva tentato di muovere sulle orme di una fantasia entusiasta e anti-convenzionale la scrittura felice del Barone rampante[30]. La scacchiera dei suoi numerosi giochi rappresentativi si era distinta per una forma di avanguardismo interpretativo, avvalorato dalla fragilità delle gerarchie sottese all’intera produzione letteraria.

I rimandi interni all’opera stimolano, pertanto, considerazioni inter e intratestuali per una contiguità arricchente che realizza la volubilità della tolleranza tra la dimensione antropologica e quella naturale, afferente a un’idea di antropocene che sostanzia un’incidenza reciproca d’impatto, stabilendo in aggiunta dei riferimenti di partenza e di arrivo. In effetti, gli equilibri delle diapositive calviniane appaiono moderati da un itinerario di combinazioni multiple, grazie alle quali la novità del Barone accoglie premesse anticipate e posticipate quanto a linguaggio, metodologia, contenuto e atteggiamento. Non è un caso che gli ingenui resoconti del fratello di Cosimo Piovasco di Rondò siano collocati sulla linea temporale di quel secolo decimonono in cui “grappoli” e “fucileria” si assommano nel farsi “tutto mosto” dell’aria, delle nuvole e del sole[31]. Lo choc della frattura tra la coscienza umana e le “vittime della scure” è avviato, per giunta veicolato dall’allarme della Formica e condotto fino all’apatia della Nuvola. Nel mezzo, ancora una volta, ansimano scampoli di vita: roveri, gelsi, olivi, pini, talee e «l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo, abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene»[32]. Per quanto vicino al cielo, Cosimo balzella fuori dalla nuvola di smog, in un frangente temporale passeggero in cui la vegetazione sopravvive tanto rigogliosa da percorrervi, di ramo in ramo, inquantificabili chilometri. È l’occasione per l’autore di proiettarsi nel testo, accomodarlo all’esperienza e abbinare l’inchiostro impegnato a quell’«immaginazione scientifico-poetica»[33] che corrobora visibile e invisibile in una svolta epistemologica decisiva. Calvino attinge nuovamente alla sfera botanica e zoologica familiare, che riproporrà nel fragore fantascientifico delle Cosmicomiche (1965), nei paradossi dei racconti di Ti con zero (1967) e nella prosa galileiana di supporto alla conversione del meccanismo osservativo in descrittivo.

Ma di livello enigmatico, in linea con i labirinti semantici e metaforici proposti, è una possibile intessitura di corrispondenze mitopoietiche e narrative incastonate a un’attitudine spasmodica di cura al dettaglio: all’onomastica e alla simbologia vegetale è trasversale un’astrazione del tangibile funzionale all’evoluzione dell’universo ideologico dell’autore. Nel primo caso, il barone di Rondò, assieme a Medardo di Terralba e Agilulfo, protagonisti rispettivamente del Visconte dimezzato (1952) e del Cavaliere inesistente (1959), conservano quell’estro fiabesco che sopravvive in Marcovaldo con Domitilla, Isolina, Fiordaligi, Daniele e Michelino; si storicizza poi in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), per prosciugarsi in Le cosmicomiche (1965), nei nomi di Qfwfq, Vhd Vhd, G’d(w)n, Bb’b, Hnw, così da eclissarsi sul finale, a picco nelle antinomie della modernità.

Nel secondo caso, parimenti, il ritmo di quegli elementi animati, vegetali e animali, cela una rete di significati impliciti, intensificando non solo le specificità delle diverse fasi del racconto, ma generando da sé una concatenazione tale da ispessire di senso e allusioni lo spazio e il tempo della narrazione, nella e con la Natura.

Per uno studio rivolto alla frequenza di menzione delle specie vegetali, l’olmo, il gelso e il frassino scandiscono tre dinamiche cruciali della vita sugli alberi del Barone. Con «le gambe a penzoloni»[34], Cosimo predilige i «tronchi bugnati come ha l’olmo»[35] per attimi di riflessione, apprendimento, sguardo rivolto all’orizzonte verso «il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si perdeva lontano»[36]. Il gelso ne accarezza lo scambio atipico con la socialità, dalla sua Viola al fratello, col quale confabulava senza lasciarsi scalfire dai richiami di casa. Per ultimo, il frassino, «dove allora era il suo rifugio»[37], stabilisce le distanze dal mondo che contempla, misurandovisi con gli abbai di Ottimo Massimo e rifornendo ogni incavo disponibile di «una botticella piena d’orzata, per placare la sete estiva»[38].

Ebbene, il personaggio calviniano è fuori e dentro un’età che prelude le vittime future, e di quel verde, presto grigio, su cui posa, coglie l’occasione di mantenersi umano ed extraumano al contempo. Coltiva sé stesso, rifugge “scintille e fiammelle”, combatte, osserva, racconta e, come l’autore, si ribella, attanagliato dal prospetto del primo «oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca a mezza costa»[39], disabituato ma esposto a «un cielo di corone di nubi e fumo»[40], fino a volare via, con lo scomparire muto anche del suo idillio di fichi, ciliegi, lattughe, verze, foglie di zucca e peschi: «Tutti i giorni era sul frassino a guardare il prato come se in esso potesse leggere qualcosa che da tempo lo struggeva dentro: l’idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita»[41].

Disforia e distopia: una rilettura ecologica di Leonia

Marcovaldo, Cosimo, Palomar, tra tutti, fluttuano nell’ecosistema che Calvino mette a fuoco abilmente, con un sentire nostalgico e inquieto che anticipa «il tempo della violenza distruggitrice»[42] e che fa luce sulle funzioni delle sue singole componenti.

Le contraddizioni alimentano lo schema illustrativo e oscillano tra parvenze di conciliazione e sanguinanti lotte con l’ambiente. Tuttavia, è con il profilo di Leonia che il delitto si consuma in definitiva, nel momento in cui l’allarme velenoso del rospo, delle vespe, delle formiche, del fischio “umano” dei merli, cede a un posto in cui «più dalle cose che ogni giorno vengono comprate, l’opulenza […] si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove»[43].

La residuale euforia di Ombrosa scade nella distopia delle Città invisibili, come esito di un rilevamento su più piani condotto dall’autore intorno a un momento di crisi della vita urbana. Non per ecologia, ma per coscienza e constatazione delle trasformazioni del mondo; per la “città continua” che «rifà se stessa tutti i giorni», con i resti, sui marciapiedi, «avviluppati in tersi sacchi di plastica» ad attendere «il carro della spazzaturaio»[44]. La malinconia dei verdi orizzonti è sovrastata da un nuovo disegno, puntuale, di “rimasugli indistruttibili”, addossati a Leonia come un «acrocoro di montagne», tanto annichilente da ammettersi indistruttibile[45]. Le nuvole fumose si amalgamano alle bolle dei detersivi, i “crateri di spazzatura” contrassegnano uno stato patologico e «i confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano»[46].

La rilettura di Italo Calvino è spietata e lungimirante, neppure lontana dalla previsione che il pattume di Leonia, a poco a poco, invaderà il mondo. Come fa, ogni giorno, dal decollo della mongolfiera del Barone di Rondò che, in fondo, non desiderava che «sparire verso il mare», salendo in cielo, con amore eterno per la terra.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 119.
  2. F. Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Milano, Garzanti, 1973.
  3. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964.
  4. I. Calvino, Ritratto su misura: Italo Calvino, in «I libri degli altri». Il lavoro editoriale di Italo Calvino, a cura di G. Zagra, E. Cardinale, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, 2013, pp. 9-10.
  5. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 73.
  6. I. Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 1994, p. 6.
  7. Ivi, p. 15.
  8. I. Calvino, Marcovaldo: ovvero Le stagioni in città, Milano, Mondadori, 2012.
  9. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 15.
  10. Scrive in Palomar, per esteso, che, «Se non fosse per questa sua impazienza di raggiungere un risultato completo e definitivo della sua operazione visiva, il guardare le onde sarebbe per lui un esercizio molto riposante e potrebbe salvarlo dalla nevrastenia, dall’infarto e dall’ulcera gastrica. E forse potrebbe essere la chiave per padroneggiare la complessità del mondo riducendola al meccanismo più semplice»: I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 8.
  11. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, Milano, Mondadori, 2019, p. 8.
  12. Ivi, pp. 8-9.
  13. Ivi, p. 11.
  14. Ivi, p. 13.
  15. I. Calvino, La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori, 2010.
  16. F. Leonetti, L’eversione costruita, «Il Menabò», VII, 8, 1965, pp. 285-86.
  17. I due racconti, La formica argentina e La nuvola di smog, erano già stati editi separatamente in precedenza, nel 1952 e nel 1958, all’interno della raccolta Racconti. Risale al 1965 il volume congiunto di Einaudi, attorno alla quale Calvino aveva cominciato a orbitare dal 1946.
  18. I. Calvino, Ultimo viene il corvo, Milano, Mondadori, 2013.
  19. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 92.
  20. Ivi, p. 131.
  21. Ivi, p. 159.
  22. I. Calvino, Ultimo viene il corvo, op. cit.
  23. I. Calvino, Marcovaldo: ovvero Le stagioni in città, op. cit.
  24. I. Calvino, La speculazione edilizia, Milano, Mondadori, 1994.
  25. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 9.
  26. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 61 e sgg.
  27. I. Calvino, La nuvola di smog / La formica argentina, op. cit., p. 87.
  28. I. Calvino, A Pietro Citati, 2 settembre 1958, in Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000.
  29. I. Calvino, Natura. Vocabolarietto dell’Italiano, in Almanacco letterario Bompiani, a cura di V. Bompiani, C. Zavattini, Milano, Bompiani, 1958.
  30. Dal Barone è tratta la citazione del titolo: I. Calvino, Il barone rampante, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 33.
  31. Ivi, p. 204.
  32. Ivi, p. 33.
  33. I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura [1968], in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, p. 186.
  34. I. Calvino, Il barone rampante, op. cit., p. 13.
  35. Ivi, p. 76.
  36. Ivi, p. 139.
  37. Ivi, p. 113.
  38. Ibidem.
  39. Ivi, p. 32.
  40. Ivi, p. 33.
  41. Ivi, p. 160.
  42. Ivi, p. 188.
  43. I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., p. 82.
  44. Ibidem.
  45. Ivi, p. 83.
  46. Ibidem.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Ridare lustro al romanzesco: Italo Calvino e la scelta del racconto lungo in «Centopagine»

Author di Giorgia Mercenaro

«Centopagine»: il riflesso dell’idea di letteratura di Calvino

In un contesto caratterizzato dalla trasformazione del pubblico, dalle alterazioni del mercato della narrativa e dal prevalere del formato tascabile e delle dispense, si inserisce la collana «Centopagine» di Einaudi.

Il sistema editoriale degli anni Settanta è contraddistinto soprattutto dallo squilibrio creatosi per l’elevata produzione di testi letterari e saggistici che innalzano il quantitativo dell’offerta, rendendolo difficilmente assimilabile a quello della domanda. La conseguenza immediata è una saturazione di mercato che porta gli editori a diversificare il proprio catalogo e a ricercare nuovi percorsi commerciali interessanti: alcuni inaugurano nuove collane, altri ristrutturano quelle già esistenti e diversi rivolgono maggiore attenzione al fronte promozionale e pubblicitario così da adeguarsi ai nuovi sistemi dell’informazione[1]. Lo studio delle collane, pertanto, si rivela fecondo per comprendere come esse siano «espressioni di politiche, pratiche, orientamenti delle rispettive case editrici»[2].

Il caso di Einaudi è ancora più interessante perché, oltre a numerose iniziative editoriali come «Einaudi Letteratura», «Gli struzzi» e «I nuovi coralli», durante gli anni Settanta si registra l’apertura della collana «Centopagine» diretta da Italo Calvino. Essa permette un duplice approfondimento: trattandosi di una collana d’autore, alla conoscenza della casa editrice torinese si unisce quella della figura di Calvino poiché la sua idea di letteratura e di impegno, la sua attività da saggista, da editore e da lettore abbracciano l’intero lavoro di cura della collana e di selezione dei volumi[3].

Diretta dal 1971 al 1985, «Centopagine» è il progetto editoriale in cui Calvino ha più autonomia decisionale e meglio può applicare la sua idea di letteratura. Entrato a far parte della casa editrice torinese alla fine degli anni Quaranta, egli riconosce nella propria attività da editore una funzione strumentale per attuare un progetto che vede nel «recupero di un rapporto armonico e una reale integrazione fra l’uomo e la storia»[4] uno degli obiettivi dell’intellettuale moderno. Rispetto ai progetti che hanno caratterizzato il panorama einaudiano tra gli anni Sessanta e Settanta, «Centopagine» si pone con un carattere diverso, in primis per la sua impronta volta al recupero dei grandi titoli e dichiarata nel sottotitolo «Collezione di grandi narratori diretta da Italo Calvino», che sembra non venir meno neanche nei libri pubblicati dopo Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi, a partire dal quale si rimuove l’aggettivo «grande», così da «rendere la collana più disponibile»[5]. Tale questione può essere ricondotta, scrive Alberto Cadioli, «al contesto editoriale» o meglio ancora «alla complessa personalità di Calvino»[6]. Sembra essere, dunque, il legame tra la poetica dello scrittore e il lavoro per la collana uno degli snodi cruciali per comprendere quest’ultima, le idee che vi sono dietro e l’impianto che la caratterizza.

Destreggiandosi fra il lavoro di editore e quello di scrittore, Calvino porta i due rami, diversi ma attigui, a congiungersi nel progetto. Per lo scrittore, così come prima di lui per Cesare Pavese ed Elio Vittorini, l’editoria rappresenta lo strumento per diffondere l’idea maturata sulla letteratura che per Calvino – come scrive Michele Martino – «negli anni Settanta confluisce, arricchita da nuove esperienze, nell’ideazione della collana Centopagine»[7]. È la collana lo spazio nel quale può diffondere un’idea di letteratura più completa, che va dalla selezione dei volumi alla stesura di note e quarte di copertina che rispecchiano la sua poetica. Calvino, infatti, nella selezione dei testi applica lo stesso principio che muoveva la sua attività da scrittore: fondamentale era partire dal linguaggio, dall’idea generale dell’intera opera e soprattutto dalla chiara visione della collana nella quale si sarebbe inserita[8]. In veste di editore annota ai margini le correzioni e affida allo scrittore la libertà di riscrivere o meno una parte del testo per cercare di comprendere le ragioni di una determinata scelta[9]. Per ciò che concerne la struttura della collana e la selezione della tipologia di libro selezionato, si rivela feconda la lettura della presentazione contenuta nei primi quattro volumi[10], dalla quale si evincono chiaramente i caratteri della collana. In primo luogo, viene così argomentata la scelta del genere:

Centopagine è una nuova collezione Einaudi di grandi narratori d’ogni tempo e d’ogni paese, presentati non nelle loro opere monumentali, non nei romanzi di vasto impianto, ma in testi che appartengono a un genere non meno illustre e nient’affatto minore: il “romanzo breve” o il “racconto lungo”. Il nome della collezione – e dunque l’ampiezza dei testi – non va preso alla lettera. Il criterio di scelta si baserà sull’intensità di una lettura sostanziosa che possa trovare il proprio spazio anche nelle giornate meno distese della nostra vita quotidiana. […] L’impostazione della collana non vuole essere affatto preziosa, di trouvailles curiose o di indicazioni di gusto, ma al contrario vuole rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”[11].

Nella selezione dei testi, Calvino predilige il genere «non meno illustre» del romanzo breve o racconto lungo, perché sostiene che l’intensità conti più del numero di pagine, in modo da poter occupare lo spazio delle «giornate meno distese della nostra vita quotidiana». In secondo luogo, si approfondisce il criterio selettivo di autori e opere:

Già il catalogo Einaudi è molto ricco di ottime traduzioni di testi famosi da tempo introvabili sui banconi delle librerie che in «Centopagine» riavranno una loro sede naturale; basti pensare ai grandi narratori russi. Ma molte saranno le traduzioni nuove, in alcuni casi d’opere mai pubblicate in Italia, e le proposte di titoli dimenticati o rari sui quali l’attualità dei nostri interessi getta una luce nuova[12].

Dai russi ai francesi, dai tedeschi agli americani con una buona presenza anche di opere italiane, il catalogo di «Centopagine» sembra restituire un quadro variegato di opere e autori dimenticati o conosciuti che vanno dal Cinque-Seicento fino al Novecento.

Brevità ed eterogeneità[13] sembrano essere le parole chiave per definire il progetto editoriale di Calvino. Il termine “brevità” fa capo all’ampiezza dei testi scelti e al genere prediletto, quello del romanzo breve o racconto lungo, forme narrative con le quali è più facile mantenere salda l’attenzione del lettore e non perdere l’intensità ricercata. Il termine “eterogeneità”, invece, risponde a quel principio di varietà che rispecchia anche il gusto del direttore. Sono presenti cinquantaquattro titoli stranieri e venti italiani, di diversi periodi e di diversi continenti, che mostrano un ventaglio di scelte ricco, ma comunque coerente. Per ciò che concerne i titoli italiani, inoltre, la diversità è ancora più evidente, poiché, nonostante l’arco temporale in questo caso sia di solo un secolo (a differenza dei più di due secoli della narrativa straniera), i titoli selezionati mostrano una predilezione per le opere minori o per opere di autori «imbalsamati in un consunto cliché»[14] e in cui la linea narrativa spazia tra diverse correnti letterarie, Naturalismo e Scapigliatura per prime.

Le considerazioni di Calvino sul romanzo nei suoi interventi critici

L’introduzione dei caratteri generali della collana e l’associazione tra il lavoro di Calvino in quanto editore e la sua poetica sono utili per avviare la questione delle motivazioni della scelta del racconto lungo o romanzo breve per la collana «Centopagine». Riflettere da un lato sulla considerazione che aveva del romanzo e dall’altro sulla sua volontà di fornire ai lettori le «materie prime»[15] permette di comprendere le ragioni che hanno portato Calvino a scegliere questo tipo di forma narrativa.

Per approfondire la prima questione un utile punto di partenza sono i Saggi, dai quali affiora la sua idea di letteratura e, soprattutto, di romanzo. Attraverso questi è possibile ricostruire diacronicamente il pensiero che ha influito sull’impianto della collana einaudiana, poiché sono riportate le sue considerazioni critiche sul romanzo, sulla sua tradizione e sulle sue condizioni nel panorama letterario della seconda metà del Novecento. Le ragioni della precarietà di tale forma narrativa si ritrovano, in nuce, nell’esigua produzione romanzesca nei confini italiani.

Per quanto ribadisca la grandezza di Manzoni, Calvino ritiene che nei «Promessi sposi restò una sorta d’impaccio che derivava dal temperamento poco romanzesco del suo capostipite»[16], da ricondurre anche allo scarso gusto dello scrittore per l’avventura, la dimensione centrale del romanzesco. Gli autori italiani sono, pertanto, costretti a ricercare una tradizione del romanzo nella narrativa straniera e a dimostrarlo è l’esempio di Giovanni Verga che, «sull’onda dei francesi», riscopre «il paese», «i rapporti dell’uomo […] con la natura e con la storia» e coglie «nel remoto del nodo tra la lingua e il dialetto il linguaggio ideale del romanzo»[17]. D’altro canto, nei veristi regionali domina l’antiromanzo e, dopo una breve rinascita nel dopoguerra, le sorti del componimento narrativo ritornano a essere incerte perché ancora «più gravi catastrofi» si sviluppano con la diffusione dei modelli d’avanguardia, con le istanze sperimentali prima, e l’influsso sempre maggiore del capitalismo tale da rendere la letteratura dipendente dalle esigenze di mercato. Alla luce di questo, il romanzo italiano, strettamente legato alla narrativa mondiale, a sua volta in crisi, e all’esigua tradizione romanzesca dei confini nazionali, può rinascere? Questa è la domanda che si pone Calvino e la risposta sembra essere affermativa, perché in Italia «c’è molta carne al fuoco» ed è possibile che qualcosa «ne verrà fuori»[18], anche se egli non trova una soluzione alla mancanza dell’elemento avventuroso.

L’opinione di Calvino sul romanzo in Italia pare evolversi lungo gli anni e Le sorti del romanzo lasciano una testimonianza scritta. Se in passato si era sostenuto, e Calvino stesso aveva concordato, che il romanzo non era in crisi e «non poteva morire»[19], allora la crisi appare chiara fino a fargli dichiarare che non gli «riusciva di farne stare in piedi uno»[20]. Calvino sostiene che «per convincerci di una intramontabile signoria del romanzo abbiamo bisogno di leggere Lukàcs»[21] con la sua scansione per generi, ritrovabile solo fino alla produzione letteraria ottocentesca, oltre la quale l’ideale estetico lukàcsiano si perde e non si ritrovano più il «nervosismo» e «la fretta del nostro vivere»[22] rintracciabili, invece, nel romanzo breve.

Torna nuovamente al centro la questione della crisi del romanzo con l’inchiesta condotta da «Nuovi Argomenti» nel 1959. La rivista fondata da Alberto Carocci e Alberto Moravia si avvale della formula inchiesta per costruire un dialogo intorno a tematiche letterarie e sociali che indagano «la posizione degli intellettuali nell’epoca dell’industria culturale»[23] e promuovono la riflessione sul rapporto tra aspetti di natura politico-culturale e il loro riflesso nella letteratura. Una di queste inchieste è proprio 9 domande sul romanzo, alla quale Calvino partecipa assieme a Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola etc.

Partendo dalle varie accezioni di romanzo, da quella di tipo ottocentesco al romanzo d’ossatura ideologica fino al romanzo come prodotto commerciale e al romanzo come forma di narrazione avvincente, Calvino arriva a sostenere che, in realtà, «nessuna di queste varie definizioni […] ci parla di qualcosa che è necessario o possibile tenere in vita»[24]. Inoltre, la sua risposta all’inchiesta si distingue dalle altre perché si tratta della prima ipotesi che include la questione dell’“eterodirezione”, intendendo con essa la dinamica per cui le funzioni avocate per lungo tempo al romanzo sono ora ridistribuite nelle altre forme del racconto (lirico, filosofico, fantastico etc.), che possono pacificamente convivere in un’unica opera. A partire dal concetto di eterodirezione e dal riconoscimento della «possibilità di lettura su piani multipli» come «una caratteristica di tutti i grandi romanzi di tutte le epoche»[25], Calvino arriva a sostenere che, se inteso come «un’opera narrativa fruibile e significante su molti piani che si intersecano»[26], il romanzo potrebbe non essere considerato una forma in crisi. La posizione di Calvino a questo punto sembra essere chiara. Egli non è incline a decretare la morte o la crisi del romanzo, ma allo stesso tempo sembra propenso ad accogliere altre forme narrative come «il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda»[27] che in quel contesto paiono le più adatte a rispondere alle esigenze dell’intellettuale e del lettore.

La scelta del racconto: ipotesi sulle motivazioni

Resta da chiedersi perché preferire il racconto lungo o il romanzo breve come forma narrativa per i libri che compongono la collana «Centopagine». Le ragioni di questa scelta possono essere dettate da due motivazioni, una di carattere critico-teorico e una di carattere personale[28].

La prima motivazione fa capo agli interventi critici che avevano occupato i primi anni Settanta sul recupero del romanzesco. Potrebbe non essere distante dai principi che caratterizzano la collana l’idea teorizzata, forse non a caso, appena un anno prima dell’inizio del suo progetto editoriale. Nell’articolo Il romanzo come spettacolo del 1970 Calvino riflette, infatti, sulla «futura reincarnazione»[29] del romanzesco e prende in considerazione due scrittori: Charles Dickens e Gustav Flaubert. Il primo presenta le storie che «non nascondevano il loro carattere convenzionale e spettacolare, […] in una parola la loro natura romanzesca»[30]; il secondo è l’autore con il quale Carlo Cassola registra la fine del romanzesco, che da quest’ultimo viene definito un trionfo, mentre per Calvino rappresenta l’inizio di una produzione di «Romanzi sbiaditi»[31]. A partire da antitetici esempi letterari (il romanzesco con Dickens e la fine dello stesso con Flaubert), Calvino teorizza la riabilitazione del romanzesco, non solo perché si tratta di una materia a lui cara, ma perché ritiene che anche la ricerca letteraria sia orientata verso quella direzione. La scommessa su questa rinascita prevede la costruzione di una nuova dinamica tra autore e lettore, una partita che si giochi «con assoluta lealtà»[32] e in cui i romanzi nascano in laboratori e ristabiliscano «una comunicazione tra scrittore, pienamente cosciente dei meccanismi che sta usando, e […] lettore che sta al gioco perché ne conosce le regole e sa che non può essere preso più a zimbello»[33].

Calvino, dunque, facendosi «interprete […] della diffusa esigenza di un ritorno alla letteratura, al romanzo»[34], si impegna a ridare lustro al romanzesco anche per mezzo della collana «Centopagine». Da un lato questo è deducibile dalla già citata presentazione nelle prime quarte di copertina, nelle quali si sottolinea che si «vuole rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”»[35] con opere mai pubblicate in Italia o di difficile reperibilità. Le prime pubblicazioni, infatti, sono rappresentative «di questa impostazione e del suo dosaggio interno»[36] poiché egli si propone di pubblicare anche quel romanzo italiano prodotto tra l’Unità e la Prima guerra mondiale che è ancora «tutto da scoprire»[37].

Un’operazione simile era stata condotta in precedenza da Giuseppe Antonio Borgese con la collana «Biblioteca Romantica», la cui funzione era stata proprio quella di creare un contesto editoriale adatto ad accogliere le fondamenta del grande romanzo. Nonostante il progetto di Calvino appaia più misurato – perché sceglie di non pubblicare i romanzi di vasto impianto, ma opere dalla forma narrativa più breve –, le due collezioni hanno dei punti in comune. Esse rispondono a due domande diverse ma affini: la prima, nell’Italia degli anni Trenta, risponde al «bisogno di riscoprire il romanzo»[38] e la seconda, cinquant’anni dopo, all’esigenza di ritornare a questa forma narrativa dopo gli anni delle sperimentazioni delle avanguardie. Del resto, il romanzesco lo si ritrova se con esso si indica non solo il grande romanzo, ma i «congegni narrativi [… e le] architetture formali ben costruite […] che tengano conto dei molti livelli su cui si articola la narrazione»[39].

Il progetto di «Centopagine» mira anche a favorire il ritorno alla narrativa da parte dei lettori. Dal punto di vista formale, si rivela indispensabile la convivenza di due aspetti: da una parte la raffinatezza dell’opera (misurata sulla base della precisione lessicale e dell’intera struttura), dall’altra l’attenzione per traduzioni valide e corrette.

La frenesia delle pubblicazioni di titoli stranieri della seconda metà del Novecento aveva portato, infatti, alcune case editrici a cadere nell’errore della rapidità o del riciclo di vecchie traduzioni, con l’inevitabile conseguenza di fornire al mercato librario testi scadenti o comunque di poco prestigio. Questo non è il caso dei «Centopagine», in cui viene riservata attenzione non solo alle traduzioni, ma anche all’impianto critico che prevede il lavoro di diversi intellettuali italiani in introduzioni e quarte di copertina. Dal punto di vista contenutistico, ciò che più favoriva l’interesse dei lettori era la capacità delle opere di condurli a concludere la lettura: ciò spiega la predilezione di Calvino per opere dalla forte intensità, che invece tende a perdersi in forme narrative lunghe.

In secondo luogo, per comprendere le motivazioni di carattere personale della scelta calviniana del racconto può essere utile confrontarsi con la sua produzione, sia narrativa sia saggistica. Nello specifico sono utili gli interventi raccolti nelle Lezioni americane, nei quali lo scrittore ha modo di trattare questioni teoriche che rivelano la sua visione della scrittura e della produzione letteraria. Dei noti cinque macro-argomenti analizzati – la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità – la rapidità è particolarmente utile a comprendere la scelta calviniana del racconto in «Centopagine». Dopo aver affermato che «ogni valore […] non pretende d’escludere il valore contrario»[40], Calvino si sofferma sulla “velocità” nell’economia del racconto, concetto che viene applicato soprattutto nella narrazione orale della tradizione popolare. Il lavoro di scrittore, afferma Calvino, «è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo»[41], così lo scrittore di poesia o prosa dovrebbe essere capace di «realizzarsi per folgorazione improvvisa» ossia una ricerca «della frase in cui ogni parola è insostituibile»[42]. Alla luce di questo, infatti, non si può non tener conto di come in opere molto lunghe sia facile perdere questa tensione. Calvino scrive:

È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di “short stories”. […] Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri esteriori, ma io parlo d’una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo respiro, ha comunque la sua misura nella singola pagina.

Di certo, il criterio quantitativo non può incidere sulla valutazione di un’opera; esso risulta intrinsecamente legato anche alle caratteristiche del testo e alla sua ricettività. È possibile che un’opera perda la “particolare densità” con l’aumentare delle storie, dei personaggi e delle varie inserzioni narrative. È, inoltre, Calvino stesso, in tutta la sua produzione letteraria, a preferire una lunghezza media o breve per narrare, e in questo trova un riscontro diretto nella tradizione della letteratura italiana che, «povera di romanzieri»[43], parrebbe realizzarsi meglio in opere dal ristretto numero di pagine.

La produzione di Calvino a partire dagli anni Cinquanta mostra un’inclinazione verso l’uso di forme brevi: dal Sentiero dei nidi di ragno del 1947 alla trilogia I nostri antenati la predilezione di Calvino oscilla tra il racconto e il romanzo breve, con una cospicua produzione anche di raccolte di racconti. Osservando le opere pubblicate, emerge una presenza maggiore, se non complessiva, di una produzione narrativa lontana dalla prolissità spesso tipica del genere romanzo. Le sue opere si sviluppano, in genere, per minimo cento e massimo duecentosessanta-duecentosettanta pagine, con un timido aumento quantitativo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta con Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Favorire il recupero del romanzesco e prediligere opere dalla forte intensità sono due prospettive che sembrano confluire nella scelta delle forme narrative brevi, portando, di conseguenza, la collana «Centopagine» a configurarsi come una risposta a tali nascenti necessità. Calvino vuole offrire un’alternativa di «modi e misure che potrebbero consentire al romanzo di adattarsi meglio a una mutata situazione generale, della società della letteratura»[44].

In un mondo in cui la cultura non è in grado di dotarsi degli strumenti adatti per assolvere una determinata funzione, Calvino propone non il racconto puro in sé (il quale verrebbe anche contaminato per renderlo spurio, non essendo, Calvino, amante delle forme pure) quanto, piuttosto, una forma in grado di influire «sul rinnovamento che il mondo deve avere»[45]. Il racconto è il genere più adatto a soddisfare la «condizione intellettuale come l’odierna di “agnosticismo”, di “piccole” e parziali certezze”»[46]. Più agile del romanzo, più breve, immediato e ad alta intensità, il racconto è la forma narrativa mediante la quale si può iniziare a racconta

  1. A. Cadioli, G. Vigni, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, Milano, Editrice Bibliografica, 2012, pp. 96-115.
  2. G. C. Ferretti, «Centopagine», in G. C. Ferretti, G. Iannuzzi, Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, Roma, Minumum fax, 2014, p. 5.
  3. Ivi, p. 243.
  4. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, in «Studi Novecenteschi», giugno 1996, vol. 23, n. 51, p. 75.
  5. A. Cadioli, Le «materie prime» dell’esperienza narrativa. Italo Calvino direttore di «Centopagine», in Calvino & l’editoria, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1993, p. 146.
  6. Ivi, pp. 146-47.
  7. M. Martino, Calvino editor e ufficio stampa. Dal Notiziario Einaudi ai Centopagine, in «Oblique», 2012, p. 5.
  8. Ivi, pp. 9-10.
  9. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, art. cit., p. 78.
  10. Ora presente in I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1718-20.
  11. Ivi, pp. 1718-19.
  12. Ivi, p. 1718.
  13. Queste sono le parole che usa anche I. Rubino in «Centopagine». Un riconoscimento di forme nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, a cura di I. Crotti et al., vol. II, Pisa, Edizioni ETS, 2011, p. 388.
  14. Ivi, p. 385.
  15. I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, art. cit., p. 1719.
  16. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, in Id., Saggi, op. cit., p. 1507.
  17. Ivi, p. 1509.
  18. Ivi, p. 1511.
  19. Ivi, p. 1512.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem.
  22. Ivi, pp. 1512-13.
  23. E. Grazioli, Le inchieste di «Nuovi Argomenti»: riflessioni sulla letteratura nell’epoca dell’industria culturale, in Letteratura e Potere/Poteri, a cura di A. Manganaro, G. Traina, C. Tramontana, Catania, Adi, 2021, pp. 2-4 (cfr. l’URL: https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-potere; ultima consultazione: 09/05/2023).
  24. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, art. cit., p. 1523.
  25. Ivi, pp. 1524-25.
  26. Ivi, p. 1525.
  27. Ivi, p. 1513.
  28. Tale è anche l’approccio di Alessia Francescutti.
  29. I. Calvino, Il romanzo come spettacolo, in Id., Saggi, op. cit., p. 271.
  30. Ivi, p. 270.
  31. Ivi, p. 271.
  32. Ivi, p. 273.
  33. Ibidem.
  34. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, art. cit., p. 100.
  35. I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in Id., Saggi, op. cit., p. 1719.
  36. Ibidem.
  37. Ibidem.
  38. M. Martino, Calvino editor e ufficio stampa. Dal Notiziario Einaudi ai Centopagine, art. cit., p. 27.
  39. Ivi, p. 28.
  40. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, in I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 668.
  41. Ivi, p. 670.
  42. Ivi, pp. 670-71.
  43. Ivi, p. 671.
  44. I. Rubino, «Centopagine». Un riconoscimento di forme nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, vol. II cit., pp. 381-388: 381.
  45. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, art. cit., p. 1514.
  46. L. Badini Confalonieri, Calvino e il racconto, in Metamorfosi della novella, a cura di G. Barberi Squarotti, Foggia, Bastogi, 1985, p. 413.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Calvino lettore di Nievo. Avventura e comica leggerezza

Author di Roberta Colombi

Una lunga fedeltà. Tra ammirazione ed emulazione

Nel ricostruire la relazione di Calvino con Nievo attraverso le tracce lasciate nelle lettere, nelle interviste e in poche altre pagine di carattere pubblico, risulta evidente come l’ammirazione di Calvino per lo scrittore delle Confessioni sia qualcosa che risale indietro nel tempo. La loro relazione non nasce in seguito alla riscoperta letteraria di Nievo avvenuta negli anni ’50 e che coinvolge proprio Einaudi, l’editore con cui il giovane Calvino collabora dal 1947[1]: nasce prima ed è destinata a durare a lungo. Continua a leggere Calvino lettore di Nievo. Avventura e comica leggerezza

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Italo Calvino e l’estetica dell’intelligenza artificiale: giochi linguistici, morte dell’autore e teoria della ricezione

Author di Daniel Raffini

L’attenzione al legame tra scienza e cultura e lo sguardo analitico sul mondo rendono Calvino uno scrittore in grado di prevedere fenomeni sociali e culturali. È il caso della rivoluzione digitale, di cui è uno dei primissimi osservatori[1]. La preveggenza calviniana si dimostra anche nel campo dell’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda l’interazione con la produzione artistica e l’immaginario culturale. Il tema torna in diversi saggi ed è presente anche nella scrittura finzionale[2]. All’interno di questa vasta produzione, il saggio Cibernetica e fantasmi affronta in maniera estesa il rapporto tra essere umano e macchine dal punto di vista della scrittura. Continua a leggere Italo Calvino e l’estetica dell’intelligenza artificiale: giochi linguistici, morte dell’autore e teoria della ricezione

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Il privilegio della leggerezza: per una lettura di “Le città invisibili”

Author di Luca Marcozzi

Nella prima edizione pubblicata il 3 novembre 1972 nella collana «Supercoralli» di Einaudi, l’immagine di copertina di Le città invisibili riproduceva un dipinto di René Magritte, Il castello dei Pirenei, del 1959, raffigurante una grande roccia che galleggia sopra un mare ed è sormontata da un castello di pietra[1]. Così il dipinto surrealista rappresentava la virtù immaginativa del testo. Tuttavia cinque anni dopo, quando nel 1977 fu pubblicata l’edizione tascabile, per la copertina fu scelta un’immagine caratterizzata sì da una dimensione irreale, ma pertinente ad un più concreto progetto edilizio, per quanto utopico[2]. Si trattava di un’immagine estrapolata dai disegni di Claude Nicolas Ledoux, uno dei più importanti esponenti dell’architettura neoclassica francese ed europea del Settecento, il Projet de maison de gardes agricoles pour le parc de Mauperthuis, vue en perspective, mai pubblicato dall’autore e mai realizzato. Ledoux aveva progettato questo edificio tra il 1775 e il 1780 per il parco di Malpertuis, il parco di un castello che doveva essere destinato a un uso agricolo. Quando Ledoux riprese il progetto dopo la rivoluzione, pensò a una città nuova, adatta al futuro, a una città utopica che mai fu costruita[3]. Le due immagini possono essere ricondotte alla comune tematica del rapporto tra l’uomo e la natura, tuttavia esse hanno un significato divergente: da un lato, infatti, si pone in evidenza la rigidità dello spazio naturale e dall’altro si tenta di trovare alla geometria perfetta di un edificio una collocazione quanto più pacifica tra campi e alberi, in un mondo naturale sorvegliato e ricondotto alla misura dell’uomo. Tuttavia, il passaggio dal surrealismo della prima immagine alla linearità carica di immaginazione e di utopia della seconda lascia intravvedere una chiave di accesso diversa per l’opera, a distanza di pochi anni. La prima immagine, quella di Magritte, indirizza a un mondo immaginario, lontano da ogni realtà fisica; la seconda riconduce il libro a un’utopia, quella della conciliazione tra uomo e natura, in linea con il pensiero di Ledoux, un uomo dell’Età dei Lumi che credeva nel progresso dell’umanità. Rispetto a quella che compare nella prima edizione, e che sottolinea il legame dell’opera con il mondo dell’invenzione e lo stile fantastico, quella che apre il paperback è un’immagine più razionale, meno suggestiva forse, ma certamente più adatta alla lettura che dell’opera si iniziava a fare, non come una serie di sogni, il che era forse l’idea originaria di Calvino, ma come un libro che raccontava del rapporto tra l’uomo e il mondo. Questa mutazione di prospettiva risponde in effetti allo sviluppo che Le città invisibili ha avuto sia nel corso della sua genesi (non rispondente a un unico intento progettuale) sia dopo la sua pubblicazione.

In questo senso, si tratta di una delle opere su cui Calvino ha fornito diverse letture e interpretazioni d’autore, ed è ripetutamente intervenuto in termini di autoesegesi. Lo ha definito un libro nato gradualmente nel corso degli anni, non progettato complessivamente, ma con lunghe interruzioni nella scrittura tra un brano e l’altro. Il testo, come è noto, infatti nasce da una specie di taccuino di riflessioni “urbane”, felici o tristi, che finivano per trasformarsi in immagini di città. Calvino dichiarò nell’intervista a «L’Espresso» che accompagnò la pubblicazione del libro che «ogni tanto scriveva una pagina, cioè una città»[4]: a volte immaginava città tristi, a volte città felici, a volte paragonava le città al cielo e altre volte ancora si sorprendeva a parlare della spazzatura presente in città. Solo in seguito, quando dovette organizzare il volume, fece ricorso a una tassonomia in cui le città sarebbero state sistemate secondo etichette ricorrenti e un diagramma numerico, che fu Calvino stesso a indicare come significativo[5].

Il punto di partenza sono dunque queste brevi prose, che Calvino avrebbe in seguito inserito in un libro fornito a posteriori di una struttura compiuta[6]. Essa comprende, come noto, una cornice di dialoghi tra due protagonisti, l’esploratore veneziano Marco Polo e l’imperatore del Catai Kublai Kan, cornice che viene indicata nella quarta di copertina della prima edizione come struttura portante dell’opera: «Un imperatore melanconico, un Kublai Kan che dopo aver conquistato il mondo ha perso ogni speranza di salvarlo dal suo lento sfacelo, ascolta dalla voce di un Marco Polo visionario le descrizioni di città misteriose». L’opera è organizzata in nove capitoli per la descrizione di cinquantacinque città; ogni capitolo comprende cinque città tranne quello iniziale e quello conclusivo. Questi offrono descrizioni di dieci città, che si susseguono secondo uno schema leggibile in tre modi diversi, in una struttura combinatoria dei capitoli cui si aggiunge un ulteriore espediente unificante, cioè una cornice – che è stata scritta dopo le singole descrizioni – con i dialoghi fra i due personaggi principali. Sul piano diegetico, inoltre, i vari quadri singoli sono unificati dal tema del viaggio, non di un viaggio immaginario, ma di quello reale di Marco Polo[7].

D’altronde, gran parte del Milione ha una struttura simile a quella delle Città invisibili perché consiste in una serie di descrizioni da parte di Marco Polo delle città che ha visitato e dei paesaggi e dei costumi che ha osservato. Il viaggiatore veneziano era stato una passione di Calvino: dieci anni prima di iniziare a scrivere Le città invisibili aveva preparato un soggetto cinematografico su Marco Polo, che però non aveva visto la luce.

Ora, le singole descrizioni e le città proposte da Calvino sono definite nella presentazione editoriale del risvolto di copertina della prima edizione ‒ anch’esso da considerare ai fini dell’autoesegesi ‒ un «poemetto in prosa o apologo o onirigramma» cioè la descrizione di un sogno, e tutto il complesso del viaggio ideale come una compilazione affine a quelle della geografia medievale. D’altronde anche i grandi resoconti di viaggio del Medioevo erano spesso scritti da autori che non si erano mai mossi dal loro tavolo. E lo stesso avviene di questi resoconti di città, che sono racconti fantastici di luoghi invisibili, perché non esistenti nella realtà[8]. Dunque, mentre il racconto di Marco Polo, eccezionalmente rispetto agli scritti di viaggio coevi, si basa su un’esperienza reale, quello di Calvino è assolutamente fantastico. Le città non esistono, i loro nomi sono portati da nomi femminili; le strutture fisiche delle città sono impossibili da realizzare per un architetto. In un libro attentamente organizzato sotto il profilo della struttura, le città sono al contrario caratterizzate dalla casualità, tanto da definire una continua tensione tra ordine e disordine, quella che in un celebre saggio dedicato a quest’opera Cesare Segre ebbe a definire il «contrasto tra il diagramma numerico e la libertà inventiva delle stesure parziali», e che poteva essere esteso all’intera opera di Calvino, caratterizzata nel suo insieme da «varie conformazioni polari: geometria e realtà, intelligenza e invenzione, esattezza e immaginazione, sistema e libertà»[9].

In questo rapporto dialettico tra rigore della struttura e apertura fantastica dei singoli pezzi che la compongono, tra ordine e disordine, il lettore è messo in guardia sin dall’inizio sui limiti della fantasia, nella rappresentazione del dialogo tra Polo e l’imperatore e nella notazione dello scetticismo di quest’ultimo nei confronti dei racconti del Veneziano. Questo scetticismo è da sovrapporre a quello del lettore nei confronti del narratore, perché qui l’autore prende le vesti di Marco Polo e noi lettori quelle di Kublai Kan: anche noi lettori possiamo, anzi dobbiamo, dubitare della realtà di questi paesaggi fantastici, ma non possiamo non essere incuriositi dalla loro eventuale esistenza. Il resto della Prefazione riguarda l’immensità del dominio dell’imperatore, che non può essere del tutto compreso. Se leggiamo l’intera Prefazione con l’ottica della sovrapposizione tra Marco Polo e il narratore e tra l’imperatore e il lettore, anche questo passaggio rappresenta un’allegoria della nostra incapacità di dominare il nostro personale impero, quello delle nostre conoscenze, e di comprendere appieno la realtà che ci circonda[10].

In sostanza, con questa lettura – che si somma alla tensione fra struttura e singoli racconti, tra ordine conferito al mondo narrato ed esplosione della fantasia – emerge la portata del rapporto dialettico fra realtà e artificio: nella Prefazione, Calvino spiega che possiamo credere solo al racconto, perché la dimensione della fantasia è più concreta di quella della realtà, che ci sfugge in virtù della sua estensione e della sua complessità. L’esordio delle Città invisibili è dunque una professione di fede da parte dell’autore nei confronti della fantasia e della letteratura che ne è lo strumento espressivo:

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti[11].

Le città sono dichiarate nel titolo «invisibili». Ciò significa solo in parte ‘immaginarie’, tema sul quale Calvino pure ragionava, in quel periodo, componendo un Arcipelago dei luoghi immaginari, un Manuale dei luoghi fantastici, dei Racconti che non ho scritto, delle Interviste impossibili; e c’era già stato il Cavaliere inesistente. «Invisibili» non significa neanche semplicemente ‘inesistenti’ (anche se l’imperatore a un certo punto sospetta che Marco inventi tutto) né ‘possibili’ o ‘impossibili’. Le città invisibili sono quelle che si celano sotto, o dentro, le città descritte, come dichiarò lo stesso autore nella già menzionata intervista all’«Espresso»: «dietro la città che si vede ce n’è una che non si vede ed è quella che conta»[12].

In questo senso quello che emerge chiaramente dalle città descritte dal Marco Polo di Calvino non è la loro struttura, ma l’insieme dei segni, e dei sogni, che le popola. Sono le anime degli uomini, il suono della loro vita, le realtà sospese e incastrate tra gli edifici e i vicoli a dar vita a un luogo, non gli edifici stessi[13]. La città viene dunque trattata come centro per eccellenza della convivenza umana, luogo di umanità, dove conta solo quel che non si vede, e che – come in un’èkphrasis della poesia antica – solo il poeta è capace di far emergere alla vista, in quanto presenza immateriale. Lo stile dell’opera, proprio per questo motivo, è ispirato da propositi di trasparenza e leggerezza[14]: le città sono rarefatte e la loro concretezza è affidata all’immaginazione del lettore; c’è un’estrema tensione verso una rarefatta astrazione, che Calvino definisce «leggerezza», riflettendo nella citata intervista all’«Espresso» su questo suo modo di raccontare: «Le immagini più felici di città che vengono fuori sono rarefatte, filiformi come se la nostra immaginazione ottimistica oggi non potesse essere che astratta. Insomma, c’è una zona del mio libro che tende verso un ideale di leggerezza»[15].

Non a caso il testo del risvolto di copertina della prima edizione accenna all’unico viaggio ancora possibile: «Quello che si svolge all’interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città e farne il nostro elemento e soffrirle». L’unico viaggio reale che l’autore si impegna a descrivere è dunque quello all’interno dei rapporti tra gli uomini e i luoghi che essi abitano, in modo che da una descrizione concreta come quella di una città, con i suoi edifici, le sue guglie, i suoi pinnacoli, le sue strade, emerga una serie di elementi astratti e immateriali: gli odori, i sentimenti, le dinamiche sociali, i sogni degli abitanti, i loro desideri.

Accanto a questo tema esiste un’altra questione trattata da Calvino nelle Città invisibili, che si comprende da un’intervista contemporanea alla pubblicazione del libro. In questa l’autore fa riferimento, come fonte di ispirazione, alle opere dell’artista Fausto Melotti[16] e afferma, intervistato dall’«Espresso», che «mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture: città sui trampoli, città a ragnatela»[17]. In questo modo artefatto e leggero di narrare, al centro del libro c’è la preoccupazione per la crisi delle città. È questo l’argomento della lettura delle Città invisibili che Calvino stesso fece in una presentazione del libro in una conferenza alla Columbia University apparsa a stampa nel 1983[18]. Nel suo discorso, egli parla delle città in crisi, e in generale di un disfacimento del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, sia urbano sia naturale. Nonostante questa crisi, le città sono necessarie all’umanità perché rendono concreto e attuabile il suo desiderio di socialità. Tuttavia, si impone una riflessione sia sulle dimensioni degli ambienti urbani sia sulla loro vivibilità e sostenibilità, che del resto era un tema del dibattito urbanistico e politico dell’epoca[19]. Scrive Calvino:

What is the city today, for us? I believe that I have written something like a last love poem addressed to the city, at a time when it is becoming increasingly difficult to live there. It looks, indeed, as if we are approaching a period of crisis in urban life; and Invisible Cities is like a dream born out of the heart of the unlivable cities we know. Nowadays people talk with equal insistence of the destruction of the natural environment and of the fragility of the large-scale technological systems (which may cause a sort of chain reaction of breakdowns, paralyzing entire metropolises). The crisis of the overgrown city is the other side of the crisis of the natural world. The image of “megalopolis” ‒ the unending, undifferentiated city which is steadily covering the surface of the earth ‒ dominates my book, too[20].

Attivo proprio nel periodo dello sviluppo industriale italiano, tra gli anni Cinquanta e Settanta, Calvino è stato uno dei primi scrittori italiani a prestare attenzione ai temi dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse naturali, della sensibilità ambientale e ad affrontare il tema attraverso efficaci narrazioni in alcuni dei suoi racconti e romanzi[21]. Ad esempio, nel racconto La nuvola di smog (pubblicato nel 1958 sulla rivista «Nuovi Argomenti» e poi confluito nella raccolta Gli amori difficili), Calvino non solo affronta il problema dell’inquinamento ma si spinge a denunciare la controversa posizione delle aziende che inquinano e allo stesso tempo finanziano le organizzazioni che dovrebbero denunciarle in quanto inquinatrici, rivelando il tema, oggi attuale ma all’epoca ancora lontano dalla consapevolezza collettiva, del greenwashing; e più in generale il conflitto di interessi e l’astuzia del capitalismo che caratterizzerà molti paesi industrializzati dopo gli anni Sessanta. Calvino lo fa con largo anticipo sui tempi, negli anni in cui in Italia sta iniziando la conversione da un’economia prevalentemente agricola a una industriale, che porterà allo sviluppo economico con tutte le sue conseguenze in termini di sfruttamento delle risorse naturali (e dei lavoratori) e alle molte contraddizioni e ferite ecologiche nel paese in seguito allo sviluppo della manifattura.

Lo stesso conflitto di ideali è anche al centro del romanzo La speculazione edilizia, pubblicato nel 1963 da Einaudi dopo che una prima versione era apparsa nel 1957 sulla rivista «Botteghe oscure». Come si osservava, siamo in anni precoci per la sensibilità ambientale, ma già in questo breve romanzo (o racconto lungo) il protagonista, un intellettuale impegnato nelle battaglie politiche e sociali della sinistra che ha sempre evitato attività finalizzate all’ottenimento di ricchezza, è invece attratto dai profitti derivanti da una speculazione edilizia sulla proprietà di famiglia. Calvino d’altronde intuì e descrisse in anticipo sui tempi varie forme di inquinamento molto attuali oggi (dell’aria, del paesaggio), sviluppando riflessioni sull’impatto della nostra civiltà sull’ambiente, e persino sui segni che l’umanità lascerà anche dopo la sua scomparsa, nel racconto La memoria del mondo.

Nella presentazione delle Città invisibili presso la Columbia University, tra l’altro, Calvino aggiunge che, nonostante la sostenibilità delle città fosse ormai un punto critico nella vita contemporanea, non era possibile per l’umanità rinunciare a una struttura che aveva consentito di allacciare relazioni e sognare collettivamente:

Ma libri che profetizzano catastrofi e apocalissi ce ne sono già tanti e scriverne un altro sarebbe stato pleonastico e non rientra nel mio temperamento; oltretutto quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città: ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi: le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio come spiegano tutti i libri di storia dell’economia ma questi scambi non sono soltanto scambi di merce, sono scambi di parole di desideri di ricordi. Il mio libro si apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono nascoste nelle città infelici[22].

Pur consapevole della crisi che attanaglia la dimensione urbana, e che si riverbera sul tema della convivenza umana e dell’ordinamento sociale, Calvino non riesce né a individuare una precisa ragione né tantomeno una soluzione. La letteratura può solo prendere coscienza di una crisi, e darle forma, una forma che resti fissa nella memoria del lettore. Ma non sa né vuole indicare una soluzione, resta sospesa di fronte allo smarrimento, come gli abitanti di Bauci, città che da un lato rimanda alle sculture di Melotti e dall’altro rappresenta la mise en abyme della questione alla base del libro. Qui, di fronte alla crisi del rapporto tra l’uomo e la natura, la soluzione escogitata dagli abitanti della città è a tal punto indecifrabile che Marco Polo non sa a quale categoria assegnarla, e assieme alla città sospesa di Bauci resta sospesa anche la soluzione della questione aperta tra l’umanità contemporanea e la natura:

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame.

Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza[23].

Con Le città invisibili, dunque, Calvino prende coscienza della crisi dell’idea stessa di città, e ne fornisce solo una soluzione utopica[24]. Questo disegno e questa progettualità non nascono con il libro ma si precisano a poco a poco nella visione dello scrittore e in questa direzione portano sia la seconda copertina, dove si rappresenta per l’appunto un progetto di città ideale e utopica, sia il numero complessivo dei racconti: 55, numero che rimanda alla Repubblica ideale immaginata da Thomas Moore in Utopia. Il messaggio complessivo in tal senso resta ottimistico: anche nelle città infelici in cui gli uomini faticano a vivere c’è sempre un istante e un abbozzo di felicità, così come le città future, migliori, sono contenute in quelle presenti, talvolta oscure. Allo stesso tempo non emerge un’idea univoca di città, quanto un’infinita serie di combinazioni fra tante città, felici e infelici, che tiene conto anche della loro stratificazione[25].

Forse anche per questo Le città invisibili ha avuto un’enorme influenza in ambiti diversi da quello letterario, da quello artistico, alla digital art al balletto[26]. Soprattutto, l’opera è citata spesso nella letteratura accademica delle discipline urbanistiche e architettoniche, in cui gli studiosi vi fanno riferimento per sottolineare come gli approcci modernisti e razionali nella progettazione e pianificazione urbana possano essere sfidati, ma anche arricchiti, dalla casualità della sensibilità umana[27]. È questo un tema noto a Calvino, che lo esplicita nella presentazione presso la Columbia University:

I feel that the idea of the city which the book conjures up is not outside time; there is also (at times implicit, at others explicit) a discussion on the city in general. I have heard from a number of friends in town planning that the book touches on some of the questions that they are faced with in their work; and this is no coincidence, as the background from which the book springs is the same as theirs[28].

Questo aspetto viene tematizzato anche nella narrazione: la contraddizione tra il desiderio di Kublai Khan di generalizzare un modello di città all’interno del suo e la percezione emotiva di Marco Polo, che al contrario parla delle luci, delle emozioni, delle abitudini dei cittadini, degli odori, dell’odore della vita che solo un viaggiatore sensibile può percepire. Alcune di queste città brillano alla piena luce del sole, altre giacciono invisibili nella nebbia, alcune sono ricche, altre sono povere.

La cornice narrativa che chiude il quarto capitolo è uno dei punti chiave di questo tema. L’imperatore inizia a descrivere a Marco Polo le città, così come le ha immaginate e dedotte dal suo modello universale, per accorgersi che nessuna città del mondo reale risponde allo schema e alla norma. È questo aspetto a rendere possibile l’individuazione, nel libro, di un riferimento ideale per mettere in discussione le pratiche razionali tradizionali e il positivismo nella pianificazione urbana:

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – aveva detto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono.

Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverse da quelle pensate dall’imperatore.

– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello di città da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai. – Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Siccome le città che esistono s’allontanano in vario grado dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni più probabili.

– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, controsensi. Se una città così è quanto c’è di più improbabile, diminuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non possono spingere la mia operazione oltre un certo limite: otterrei delle città troppo verosimili per essere vere[29].

Prendendo in considerazione questo dialogo assieme alla prefazione già osservata, si nota come sia una struttura non lineare a dominare il mondo: le città descritte da Marco Polo ne rendono consapevole l’imperatore. Le descrizioni di una varietà di città uniche e insolite proposte dal viaggiatore veneziano sfidano la percezione di un mondo semplice e lineare, e danno ai lettori la flessibilità di leggere il libro – e il mondo stesso – in modi non convenzionali.

La descrizione della città di Trude offre un vivo esempio della monotonia delle città pianificate secondo un principio razionale che ne esalti l’efficienza, dimenticando l’aspetto della loro vitalità. In fin dei conti, è una città troppo simile a tante altre simili a Trude, priva di una vera anima:

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire.

– Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aereoporto[30].

Le città invisibili, quindi, sfidano l’idea di progettare una città senza tener conto della vita reale destinata a diffondersi in essa. È il caso di Trude ma anche di Perinzia, fondata dopo che gli astronomi avevano stabilito il luogo e il giorno in base alla posizione degli astri in perfetto accordo con il sole, l’asse del cielo, lo zodiaco e così via, ma ora popolata da storpi, nani, gobbi, con «urli gutturali» che «si levano dalle cantine e dai granai, dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe». Da qui deriva la circostanza che «gli astronomi di Perinzia si trovano di fronte a una difficile scelta: o ammettere che tutti i loro calcoli sono sbagliati e le loro cifre non riescono a descrivere il cielo, o rivelare che l’ordine degli dèi è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri». E questa è un’altra dimostrazione letteraria che le città, le civiltà e in definitiva gli uomini seguono il destino a loro prescritto da combinazioni astrali sconosciute, nonostante ogni possibile piano che si possa immaginare di disegnare per loro.

Infine, secondo il senso comune, le città sono l’esperienza più concreta e affollata della civiltà umana, ma Le città invisibili sfidano anche questo concetto e si muovono verso una nuova idea utopica di paesaggio urbano e urbanistico, basata sulla leggerezza. Uno dei dialoghi tra l’imperatore e Marco Polo, dedicato alla città di Lalage, è particolarmente interessante per il suo riferimento al chiaro di luna e alla sua leggerezza. Questa non è una delle descrizioni o dei racconti del viaggiatore veneziano, quanto piuttosto un dialogo con l’imperatore, che si trova proprio nel mezzo del libro, e per la sua posizione e per la sua struttura è un luogo deputato a offrire un senso all’intero racconto:

Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda crescere l’impero. Prima era stata la linea dei confini a dilatarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata dei reggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villaggi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, popolazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che il mio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, – pensava il Kan, – cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschi di melegranate mature che spaccano la scorza, zebù rosolati allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere che sgorgano in frane di pepite luccicanti.

Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i granai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi destinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Carovane di schiavi hanno spostato montagne di marmo serpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve.

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”, pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore. –

Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, – dice a Marco. – In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di meteoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglie d’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Luna nel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’ altro, o dondolare appesa ai cavi delle gru.

E Polo: – La città che hai sognato è Lalage. Questi inviti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero perché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere e ricrescere senza fine.

– C’è qualcosa che tu non sai, – aggiunse il Kan. – Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privilegio più raro: crescere in leggerezza[31].

Questo privilegio, di crescere in leggerezza, potrebbe essere assunto come una definizione della sostenibilità. La leggerezza è uno degli obiettivi stilistici di Calvino, che si riflette nell’economia della scrittura e nella sua linearità, e ha come strumento autoriale la privazione, l’eliminazione di pesi e fronzoli. “Leggerezza” è, come noto, una parola chiave nella poetica di Calvino, che si riflette nella ricerca di stile preciso, istradato alle maniere della prosa scientifica, ma arricchito dal contributo della fantasia[32], che Calvino descrive altrove come una polvere dorata sparsa sulle cose[33]. Ma è anche una parola chiave nella sua concettualizzazione dell’idea di città e della sua sostenibilità. Crescere nella leggerezza è dunque un privilegio, ed è una delle chiavi della visione del futuro di Calvino nel suo capolavoro utopico.

  1. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972. Tutte le citazioni a testo sono tratte da I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. 2, Milano, Mondadori, 1992, pp. 357-498.
  2. I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1977.
  3. L’immagine è tratta dall’edizione che raccoglieva la sua opera completa, L’architecture de Claude-Nicolas Ledoux, édité par D. Ramée, 2 tomi, 1847, planche 316. Della casa resta un modello nel museo Ledoux d’Arc-et-Senans. Si vedano anche J. Rittaud-Hutinet, Claude-Nicolas Ledoux: l’œuvre et la vie, Châtillon-surChalaronne, La Taillanderie, 2006; Id., Claude-Nicolas Ledoux: lumières et pensées, Châtillon-surChalaronne, La Taillanderie, 2007.
  4. Nel regno di Calvinia, sfogliando l’Atlante, colloquio con l’autore, in «L’Espresso», XVIII, 1972, 45, p. 11.
  5. M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. IV, Il Novecento, to. II, La ricerca letteraria, Torino, Einaudi, 1996, pp. 875-929, alle pp. 891-93.
  6. Sulla genesi diaristica del libro si veda l’importante saggio di L. Di Nicola, Un’idea di Calvino. Letture critiche e ricerche sul campo, Roma, Carocci, 2024, pp. 59 e 67.
  7. Cfr. E. Capuzzo, Marco Polo e «Le città invisibili» di Italo Calvino, in «Clio. Trimestrale di studi storici», I, 2007, pp. 71-80.
  8. Cfr. M. Ciccuto, L’immagine dello spazio nelle «Città invisibili» di Italo Calvino, in «Italianistica», XXXI, 2002, pp. 77-84.
  9. C. Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, in «Strumenti critici», I, 2004, pp. 43-53. Si vedano anche M. C. Barrado Belmar, Gematría y poética en «Le città sottili» de «Le città invisibili» de Italo Calvino, in «Cuadernos de filología italiana», XVI, 2009, pp. 275-85.
  10. M. Meschini, Visioni postmoderne. Percorsi teorici e testuali ne Le città invisibili di Italo Calvino, Macerata, EUM, 2018.
  11. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 359: corsivo nel testo.
  12. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 11.
  13. C. Ossola, L’invisibile e il suo «dove»: «geografia interiore» di Italo Calvino, in «Lettere italiane», XXXIX/2, 1987, pp. 220-61.
  14. M. Motolese, Lo spazio, il tempo. Appunti su lingua e stile delle Città invisibili di Italo Calvino, in «Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica», XX/1-2, 2023, pp. 228-36.
  15. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 11.
  16. Cfr. A. Portensio, Dalle sculture rarefatte alle «Città invisibili»: Fausto Melotti e Italo Calvino, in «Avanguardia», XLV, 2010, pp. 109-22 e L. Modena, «Mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture»: la scultura di Fausto Melotti nelle Città invisibili di Italo Calvino, in «Letteratura e arte», II, 2004, pp. 218-42.
  17. I. Calvino, Nel regno di Calvinia, art. cit., p. 12.
  18. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, in «Columbia: A Journal of Literature and Art», 8, 1983, pp. 37-42. Si veda anche la nota in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., p. 1361.
  19. A. De Vivo, Calvino: politica e segni letterari, in «Forum Italicum. A Journal of Italian Studies», XXV/1, 1991, pp. 40-56.
  20. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 40. Il testo è poi parzialmente apparso in traduzione italiana con il titolo Le città invisibili felici e infelici in «Vogue Italia», n. 253, 1972, pp. 150-51, e come prefazione a diverse edizioni successive dell’opera, come la prima nella collana degli «Oscar» del 1993, da cui si cita (pp. V-XI): «Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana e le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena paralizzando metropoli intere; la crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro».
  21. Cfr. A. Lima, The Historical and Political Context of Italo Calvino and Urban Critic in Invisible Cities, in «Traditional Dwellings and Settlements Review», XXX/1, 2018, pp. 73-4; R. Capoferro, Le città invisibili. Lo spazio urbano come modello di conoscenza, in «Fictions. Studi Sulla Narratività», V, 2006, pp. 41-47 e M. Maccario, «Le città invisibili» di Italo Calvino: appunti per una poetica della città, in «Esperienze Letterarie», XXXII/4, 1998, pp. 81-90.
  22. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 41: «But there are already numerous books which pro- phecy catastrophes and apocalypses: to write another would be superfluous, and anyway it would be contrary to my temperament. The desire of my Marco Polo is to find the hidden reasons which bring men to live in cities: reasons which remain valid over and above any crisis. A city is a combination of many things: memory, desires, signs of a language; it is a place of exchange, as any text- book of economic history will tell you – only, these exchanges are not just trade in goods, they also involve words, desires, and memories. My book opens and closes with images of happy cities which constantly take shape and then fade away, in the midst of unhappy cities».
  23. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 423.
  24. Si vedano in tal senso C. Rivoletti, «Le città invisibili»: l’utopia di Calvino fra tradizione letteraria e realtà, in «Rassegna europea di letteratura italiana», XXVI, 2005, pp. 69-98; G. Rizzarelli, La città di carta e inchiostro: «Le città invisibili» di Italo Calvino e la letteratura utopica, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XXXI/ 2-3, 2002, pp. 219-35; M. Cerrai, «Le città invisibili» e il genere dell’utopia, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», V/2, 2000, pp. 621-37; P. Kuon, Utopie-Kritik und Utopie-Enfwurf in «Le città invisibili» von Italo Calvino, in «Italienische Studien», X, 1987, pp. 133-48 e M. Sorice, La città ideale. Italo Calvino dal «pessimismo dell’intelligenza» all’intelligenza dell’utopia, Roma, Merlo, 1989.
  25. C. Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, op. cit.
  26. Dal 2012 al 2013 il Massachusetts Museum of Contemporary Art ha ospitato una mostra ispirata alle Città invisibili. Le opere d’arte in mostra sono state create da una vasta gamma di artisti, spesso utilizzando l’immaginario architettonico delle città in tutto il romanzo come catalizzatore per il design della scultura, per mostrare come le nostre percezioni del luogo siano modellate da influenze personali diverse come la memoria, il desiderio e la perdita. Una delle opere in mostra, Compound, 2011, di Sopheap Pich, artista contemporaneo cambogiano, rappresenta sia una città immaginaria del romanzo di Calvino che l’urbanizzazione e lo sviluppo del mondo reale di Phnom Penh.
  27. V. Mukhija, Learning from Invisible Cities: The Interplay and Dialogue of Order and Disorder, in «Environment and Planning A», XLVII/4, 2015, pp. 801-15.
  28. I. Calvino, Italo Calvino on ‘Invisible Cities’, op. cit., p. 40: «Sento che l’idea della città che il libro evoca non è fuori dal tempo; c’è anche (a volte implicita, a volte esplicita) una discussione sulla città in generale. Ho sentito da un certo numero di amici dell’urbanistica che il libro tocca alcune delle questioni che si trovano ad affrontare nel loro lavoro; e questo non è un caso, in quanto lo sfondo da cui scaturisce il libro è lo stesso del loro».
  29. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 415: corsivo nel testo.
  30. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 467.
  31. I. Calvino, Romanzi e racconti, op. cit., p. 420: corsivo nel testo.
  32. Cfr. F. Secchieri, La pagina e il vuoto. Un attraversamento della poetica di Calvino, in «Strumenti Critici», I, 2006, pp. 17-37.
  33. L. Marcozzi, Calvino, Asor Rosa, i classici (italiani) e un’idea di letteratura, in «Bollettino di Italianistica», XX/1-2, 2023, pp. 190-204.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

«Guardare le cose dal di fuori»: Calvino in dialogo con Pirandello

Author di Alessia Russo

In seguito a una serie di disavventure intellettuali che non meritano d’essere ricordate, il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. Un po’ miope, distratto, introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in quel tipo umano che viene di solito definito un osservatore[1].

Con questa citazione tratta dal capitolo Le meditazioni di Palomar dell’omonimo romanzo, si tenta la costruzione di un “sapiente dialogo” tra due classici del Novecento la cui lettura, ancora oggi, è in grado di rivelare qualche aspetto innovativo che arricchisca il panorama degli studi editi. Il dialogo sarà costruito a partire da suggestioni di tangenza tra i due autori che, seppur con un modus operandi distinto, hanno saputo descrivere una particolare condizione dell’uomo contemporaneo attraverso i personaggi protagonisti della narrazione: «dove uno scrittore di sessantasei anni e un ragazzo di dieci si trovano a sfiorarsi, l’uno all’insaputa dell’altro, con i loro rispettivi destini e desideri»[2].

Domenico Scarpa, nel recentissimo volume Calvino fa la conchiglia, edito nel 2023, restando nel dominio aleatorio dei fatti, immagina che Italo Calvino, di appena dieci anni, fosse presente con la sua famiglia alla prima di Quando si è qualcuno il 7 novembre 1933 a Sanremo; non ci sono fonti certe che possano confermare o smentire questa ipotesi, se non una supposizione dell’autore del volume, che accenna alla poca «propensione alla vita mondana»[3] della famiglia Calvino. A tale ipotetica presenza si aggiunge un nuovo e fatidico dato: Palomar sarà pubblicato nel 1983, a cinquant’anni esatti da quella prima teatrale che potrebbe aver permesso, se i fatti fossero confermati, l’incontro di due illustri profili intellettuali del Novecento, Calvino e Pirandello. Laddove l’uno risolve le agitazioni endemiche dei personaggi dimidiati in una sintesi equilibrata, subordinata al rispetto di un codice di chiarezza assoluta, l’altro vive nel magma caotico delle pulsioni umane stricto sensu: profili autoriali ben caratterizzati da un singolare e personalissimo marchio letterario e «rarissimamente accostati dalla critica»[4]. Malgrado ciò, si intende riflettere sul rapporto tra i due scrittori sondando un vasto terreno di materiale da cui germogliano risultati di grande interesse critico-ermeneutico, punto di partenza per costruire e validare quel “sapiente dialogo” sopra menzionato.

Si conduce, pertanto, un rapido studio in parallelo che permetta una visione macroscopica del microcosmo esistenziale dei personaggi pirandelliani, con un focus particolareggiato su alcuni tipi umani che sembrano instaurare delle connessioni con i riccamente caratterizzati personaggi calviniani: comico e tragico s’avviluppano in un movimento dialettico (“violino e contrabasso”), e la melodia stridente irrompe e si riversa nelle pagine dei due autori.

«L’arte di Calvino, come solitamente accade negli scrittori umoristici, drammatizza in forme svariate lo strazio del vivere»[5], il che non sembra molto lontano dalla pirandelliana «pena di viver così»[6]; la frammentazione dell’io, dramma incipiente dei personaggi che vivono nelle pagine della narrativa pirandelliana, dialoga col dimidiamento e la divisione che affliggono il visconte calviniano, e il distintivo doppio pirandelliano dei Dialoghi tra il Gran Me e il Piccolo Me – dal sapore umanamente belligerante e oppositivo – ha qualcosa in comune con le due parti del visconte che combattono per la supremazia, per accaparrarsi, con fatica, quel brandello d’unità perduta. C’è in Palomar, inoltre, un ritmo che sdoppia e divide: «In origine Calvino aveva previsto un secondo personaggio, il signor Mohole, così designato dal nome di un progetto di trivellazione della crosta terrestre; strada facendo si era reso conto che Mohole non era che il lato oscuro della personalità di Palomar»[7].

Ma ancora, come si legge nel capitolo La spada nel sole:

“È un omaggio speciale che il sole fa a me personalmente”, è tentato di pensare il signor Palomar, o meglio l’io egocentrico e megalomane che abita in lui. Ma l’io depressivo o autolesionista che coabita con l’altro nello stesso contenitore, obietta: “Tutti quelli che hanno occhi vedono il riflesso che li segue; l’illusione dei sensi e della mente ci tiene sempre tutti prigionieri”. Interviene un terzo coinquilino, un io più equanime: “Vuol dire che, comunque sia, io faccio parte dei soggetti senzienti e pensanti, capaci di stabilire un rapporto con i raggi solari, e di interpretare e valutare le percezioni e le illusioni”[8].

Sembra che la mente del signor Palomar sia un caotico “passerajo” pirandelliano in cui gli inquilini sgomitano per trovare una soluzione vincente al relativismo che investe la condizione dell’io. L’osservazione della realtà, elemento caro all’occhio pirandelliano, induce alla riflessione, il cui risultato si biforca in poli opposti che – incontrandosi sul medesimo cammino – suppongono, o meglio auspicano, una sintesi finale dal bilancio positivo. La pagina è il tribunale del personaggio, il luogo in cui si deciderà il destino degli uomini e delle vicende che animano questa complessa ricerca, talvolta quête inconcludente, dell’identità.

«Calvino guarda la realtà “con altri occhi”, come fa costantemente Pirandello»[9]: l’attenta osservazione della realtà, come vedremo in riferimento all’attività dello sguardo, è fortemente catalizzata nel signor Palomar con esiti dal sapore umoristico, con spie linguistico-lessicali individuabili nel corpo del testo e una ragguardevole presenza di termini appartenenti al campo semantico del “vedere, guardare, osservare”. Questo aspetto sarà trattato nel corso dell’analisi, chiamando in causa lo strumento ottico prediletto da Pirandello nello scandaglio delle cose puramente umane: il «cannocchiale rivoltato» della Tragedia d’un personaggio. L’attività osservativa rende centrale, dunque, il ruolo del raisonneur[10], colui che filosoficamente guarda il mondo e si pone al centro della narrazione, della vicenda: la riflessione è condizione necessaria e sufficiente per guardare il mondo con altri occhi e per comprenderne i più oscuri e segreti meccanismi. Strettamente collegata al leading role detenuto dal raisonneur è l’azione disgregatrice dell’umorismo che permette la piena comprensione delle contraddizioni che affliggono l’uomo contemporaneo[11].

Entrando in medias res, Palomar è il nome di un famoso osservatorio astronomico, definendo, di conseguenza, la natura intrinseca del personaggio; il signor Palomar è un osservatore e il telescopio – sovrapponendosi agli occhi come strumenti della vista – si propone al lettore con una chiara valenza di sineddoche. “Palomar” opera nel raggio d’azione di un “nome parlante”; per questo motivo Barenghi riflette sull’evidente valore significativo del nome, introducendo al lettore delle riflessioni che connotano ulteriormente il personaggio protagonista: l’associazione col “palombaro”, per esempio, «evoca la dimensione della profondità»[12]. I primi due elementi descrittori si possono desumere dunque a partire dal nome: la capacità di raggiungere una certa profondità e la peculiarità distintiva del “guardare”, chiaro riferimento alla funzione dello strumento “telescopio”. Se si dovesse registrare una prima valenza suggestiva del nome, oltre alla chiara imponenza del telescopio-occhio, essa è ricollegabile alla voce spagnola “Palomár” che significa ‘colombaia’: torre di vedetta e luogo d’allevamento per i colombi, una simile struttura fungeva da luogo d’osservazione e si rivela, dunque, perfettamente attinente alle caratteristiche del «più mentale e visuale dei personaggi calviniani»[13].

“Presunto” e non ancora accertato forestiere della vita, Palomar si aggancia a quel caleidoscopico agglomerato di tipi umani di cui si compongono le novelle e, più in generale, la narrativa di Pirandello, in cui si incontrano frequentemente dei personaggi la cui distanza dal mondo è acuita da uno sguardo cosciente, quello di chi «ha capito il gioco» e opta per l’abbandono della dimensione sociale cagione di sofferenza.

Lo sguardo è un elemento altamente simbolico nel tessuto narrativo pirandelliano, è un elemento imprescindibile nel computo finale dei fattori identificativi del forestiere della vita, e l’attività osservatrice di Palomar condivide la stessa prospettiva. Così i due autori si incontrano su un terreno d’esplorazione comune, focalizzando l’attenzione e l’osservazione: quella speciosa attività dell’intelletto la cui potenza disgregatrice espugna e assalta i confini del reale, inteso come blocco unitario. Il signor Palomar, come accade nel complesso mondo pirandelliano, non riesce ad agganciare a sé un reale che appare fin troppo evanescente: «Peraltro, il punto d’arrivo non è mai un’acquisizione, un’appropriazione: il frammento di realtà di volta in volta preso in considerazione si rivela infatti vertiginosamente complesso, sfuggente, inesauribile»[14].

L’attività peculiare di Palomar è l’osservazione dei fenomeni: il lessico, in effetti, esprime e comunica in maniera evidente questo dato. Alla dimensione visiva si lega, poi, inscindibilmente l’attività riflessiva: «il pirandellismo di Palomar consiste essenzialmente nel fatto che l’attività visiva del personaggio è sempre specchio di quella riflessiva»[15]. «I folli di Pirandello hanno gli occhi a “cannocchiale”»[16] come Romeo Daddi, protagonista della novella Il gorgo, e come lo stesso Palomar calviniano. Si potrebbe citare anche la novella La cattura, in cui il protagonista, vittima di un tragico quanto grottesco destino, si ritrova, prigioniero, a guardare il mondo “con altri occhi” da una prospettiva differente (di distanza) e soprattutto nella consapevolezza di aver compreso. Anche Martino Lori in Tutto per bene, escluso dagli affetti, si rifugia nella condizione di «forestiere della vita», ma la distanza non può “accorciare” il suo sguardo che, al contrario, si acuisce favorendo la lettura del reale. Questo è il significato dell’osservazione: comprendere, penetrare la realtà nonostante la miopia o la distrazione, nonostante il personaggio sia “riservato” o “appartato” come il signor Palomar.

Questi osservatori sono anche dei lucidi ragionatori e, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, la distanza permette loro quella comprensione che appartiene soltanto a colui che, dopo dolorose peripezie, si ritrova fuori dalla vita. Si pensi al mondo arboreo di Cosimo, il Barone rampante, che, come un “forestiere della vita sui generis” – si utilizza questo epiteto perché Cosimo non rinuncerà totalmente ai rapporti umani –, edifica una nuova realtà e lo fa guardando il mondo dall’alto, variando la prospettiva, utilizzando una lente diversa che gli permetterà di comprendere proprio attraverso quel desiderio di “distanza” anche fisica.

Anche Palomar e Maraventano – studioso alquanto atipico, protagonista della novella Pallottoline! – sono due personaggi legati da un fil rouge tematico-ermeneutico. Maraventano, proprio come Palomar, osserva l’universo, conduce studi d’astronomia e ragiona sulle coppie dicotomiche grandezza/piccolezza e distanza/vicinanza[17]: «anch’egli come Palomar ingrandisce ciò che è troppo piccolo e rimpicciolisce ciò che è troppo grande, avvicina il noto e l’ignoto, contrappone il microscopico al macroscopico e viceversa»[18]. L’attinenza con le straordinarie, seppur comunissime, avventure di Palomar si delinea a partire da un elemento ben preciso e funzionale alla narrazione dei fatti: ci riferiamo chiaramente allo strumento d’osservazione. Maraventano vive sulla cima del Monte Cave, dove è presente un osservatorio meteorologico, proprio come l’osservatorio che fornisce a Calvino il nome perfetto per il suo personaggio. Palomar indossa gli occhiali, che tuttavia non bastano a perfezionare la vista: «gli viene concesso d’avvicinare il naso all’oculare d’un telescopio da 15 cm, cioè piuttosto piccolo per la ricerca scientifica, ma che, paragonato ai suoi occhiali, fa già una bella differenza»[19]; le caratteristiche fisiche di Palomar sembrano rispecchiare quelle “storture” che spesso affliggono i personaggi pirandelliani. In questo caso, infatti, la miopia del protagonista non è soltanto un “difetto” fisico, ma rappresenta l’impossibilità di penetrare i misteri celesti e quindi, più concretamente e fuor di metafora, anche le complesse relazioni che intercorrono tra gli esseri umani:

Il caso, l’informe, la vertigine, è questa l’esperienza-tipo di Palomar, il provare nell’esperienza del molto piccolo […] lo sgomento che insorge al cospetto dell’infinitamente grande. È questo che giustifica il nome “Palomar” ripreso da un telescopio e ne rivela l’intonazione amaramente parodica: è questo scambio di lenti percettive[20].

Per rinforzare il sodalizio letterario tra il Maraventano e il suo «discendente»[21] Palomar, si chiama in causa la «filosofia del lontano», concetto elaborato da Pirandello e trasferito nel personaggio protagonista della novella La tragedia d’un personaggio. È noto il contenuto della celebre novella, per cui sarà sufficiente far riferimento al concetto di «cannocchiale rivoltato»: il dottor Fileno è solito guardare le cose dalla lente grande attraverso la lente più piccola, per far sì che queste appaiano piccole e lontane. Allo stesso modo, citando ancora dal capitolo L’occhio e i pianeti, Palomar, intento nell’osservazione del pianeta Saturno, sente che «il senso d’una lontananza estrema anziché attenuarsi risalta più che a occhio nudo»[22]. Sembra un paradosso il fatto che la distanza venga percepita maggiormente con l’ausilio di uno strumento piuttosto che a occhio nudo (e «occhio nudo per lui che è miope significa occhiali»[23]), ma ecco che Calvino spiega:

La notte dopo, il signor Palomar torna sul suo terrazzo, a rivedere i pianeti a occhio nudo: la grande differenza è che qui è obbligato a tener conto delle proporzioni tra il pianeta, il resto del firmamento sparso nello spazio buio da tutti i lati, e lui che guarda, cosa che non succede se il rapporto è tra l’oggetto separato pianeta messo a fuoco dalla lente e lui soggetto, in un illusorio faccia a faccia. Nello stesso tempo egli ricorda di ciascun pianeta l’immagine dettagliata vista ieri sera, e cerca d’inserirla in quella minuscola macchia di luce che perfora il cielo. Così spera d’essersi appropriato veramente del pianeta, o almeno di quanto d’un pianeta può entrare dentro un occhio[24].

Così il Maraventano, per figurare concretamente alla moglie e alla figlia il frutto dei suoi studi, s’ingegna mettendo a fuoco le dimensioni degli astri:

Punto di partenza: ogni stella un mondo a sé. Un mondo, care mie, non crediate, più o meno simile al nostro; vale a dire: un sole accompagnato da pianeti e da satelliti che gli rotano intorno, come i pianeti e i satelliti del nostro sistema attorno al sole nostro, il quale, sapete che cos’è? Vi faccio ridere: nient’altro che una stella di media grandezza della Via Lattea. Ne volete un’idea? Trasportate nello spazio il nostro mondo – questo così detto sistema solare – a una distanza uguale… non dico molto – a poche migliaja di volte il suo diametro, cioè, alla distanza delle stelle più vicine. Orbene, il nostro gran sole sapete a che cosa sarebbe ridotto rispetto a noi? Alle proporzioni d’un puntino, luminoso, alle proporzioni di una stella di quinta o sesta grandezza: non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle[25].

Il signor Palomar e il Maraventano sono, pertanto, impegnati in un processo di comparazione che perde il carattere dell’oggettività e fonda la propria argomentazione sull’assoluta relatività del reale e, di conseguenza, della dimensione di tutte le cose: basta, infatti, congiungere ad anello l’indice e il pollice per ottenere il cerchio che rappresenta il nostro “piccolo” pianeta. Il gioco delle dicotomie investe anche la percezione visiva di Palomar, oltre alla considerazione del dottor Fileno di cui si è parlato precedentemente; l’atteggiamento dei due osservatori non fa altro che sancire una verità che sembra innegabile: la conoscenza non possiede un valore assoluto, l’uomo non potrà mai giungere a una perfetta comprensione dei fenomeni che lo riguardano in quanto animale razionale. Palomar pensa d’essersi appropriato della visione del pianeta e prova a proiettarla nel cielo, senza poterla tuttavia catturare e allo stesso modo il dottor Fileno, dal canto suo, avvisa: l’utilizzo del cannocchiale rivoltato potrebbe cancellare ogni traccia delle cose mirabili e incredibili che l’uomo crede di avere in pugno. Così la possibilità di carpire gli arcani meccanismi dell’universo astronomico e umano risulta improvvisamente vana; Palomar tenta di essere al passo con i suoi simili, ma

comincia a impelagarsi in un garbuglio di malintesi, vacillazioni, compromessi, atti mancati; le questioni più futili diventano angoscianti, le più gravi s’appiattiscono; ogni cosa che lui dice o fa risulta maldestra, stonata, irresoluta. Cos’è che non funziona? Questo: contemplando gli astri lui s’è abituato a considerarsi un punto anonimo e incorporeo, quasi a dimenticarsi d’esistere[26].

Come argomentato finora, anche Palomar, come molti personaggi di matrice pirandelliana, è un “forestiere della vita”. Gli indizi di questa particolare condizione si riscontrano pure negli ultimi due capitoli del romanzo dedicato a questo antieroe contemporaneo dal carattere schivo e appartato. Calvino informa di alcuni comportamenti eloquenti del suo personaggio: egli cerca di ridurre al minimo la frequentazione con gli altri uomini perché, nonostante sia convinto d’aver trovato finalmente il proprio posto nel caos del mondo, la connessione con gli altri esseri umani gli risulta impossibile, nonostante i vani tentativi. In fondo anche Palomar vive il dramma identitario che si cela nell’impossibilità di conoscersi e di comunicare con gli altri: «crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!»[27]. Anzi, la sua «tragedia consiste soprattutto nell’impossibilità di comunicare. Più egli non riesce a comunicare, più si strugge nel ragionamento, nel rimuginare universi di pensieri, nel costruire filosofie, nel formulare ipotesi, magari sdoppiandosi per intavolare un contraddittorio con se stesso»[28]. Data l’impossibilità di trovare un’armonia con gli uomini e con l’universo, Palomar agirà nelle vesti di un morto, dal momento che quest’ultimo funziona come un «meccanismo inceppato, che sussulta e cigola in tutte le sue giunture non oliate, avamposti d’un universo pericolante, contorto, senza requie come lui»[29].

Gli ultimi capitoli consegnano un documento testamentario in cui culminano tutti gli aspetti del personaggio Palomar, «ciò che è lui rispetto al mondo»[30] in una nuova evoluzione dell’uomo e delle sue esperienze fuori da sé. Se attuassimo uno scambio di ruoli tra Palomar e il lettore – dunque se ci ponessimo nella posizione di osservatori analitici e scrupolosi –, potremmo registrare un’evoluzione dialettica del personaggio: «un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato»[31]. I tentativi di scoperta e conoscenza di Palomar naufragano o si risolvono in soluzioni non richieste e inaspettate, come quando, durante l’osservazione del cielo (Palomar guarda il cielo), scorge una piccola folla che «sta sorvegliando le sue mosse come le convulsioni d’un demente»[32]. A una prima fase di scoperta e d’indagine segue l’opposizione dialettica delle emozioni contrastanti che derivano dalle esperienze della sua vita; ma queste esperienze sono effimere, forme plastiche dal contenuto irrilevante, come le figure che accompagnano le sue avventure (Scarpa parla di presenze che «sono poco più che silhouette»[33]); così, la costante nella vita del signor Palomar sarà il sentimento legato al fallimento[34], il cui esito si concretizzerà nella “morte in vita” del personaggio.

Al signor Palomar difettano, senza dubbio, la conoscenza e l’amore per sé stesso; questa eclissi della conoscenza della propria identità interferisce con la possibilità di conoscere gli altri e il mondo, dal momento che «la conoscenza del prossimo […] passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso»[35]; tra l’armonia interiore e la proiezione di sé nel mondo non esiste una corrispondenza biunivoca e, per tale ragione, il signor Palomar «decide che d’ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come il va il mondo senza di lui»[36], fissandosi nella condizione di distacco e pensando alla morte come a «una forma di sguardo. Come l’ultima ed estrema incarnazione del “pathos della distanza”»[37]. Come accade a un «forestiere della vita», «lo sguardo garantisce la distanza e protegge l’osservatore»[38]; così il Buti, protagonista della novella Il lume dell’altra casa, trascorre l’esistenza in una condizione di angosciante isolamento, circoscrivendone il senso al solo osservare, in silenzio, la luce proveniente dalla casa antistante.

In un mondo che può fare a meno della sua presenza, il signor Palomar mette in scena la propria morte paradossale, ma essere morto, come egli stesso capirà, «significa abituarsi alla delusione di ritrovarsi uguale a se stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare»[39]. Per imparare davvero a essere morto bisogna iniziare a concepire la propria vita come un cerchio d’esperienze ormai completo e chiuso come per Matteo Sinagra, protagonista della novella Da sé, che, morto ormai da tre anni per sé stesso e per gli altri, decide di consegnarsi al cimitero sulle proprie gambe, libero dalle incombenze dei vivi e apparentemente leggero.

Sebbene il signor Palomar abbia prefigurato per sé una condizione di leggerezza come conseguenza dell’abbandono della dimensione sociale e del mondo, il risultato appare chiaramente disatteso. Questa volta il “pirandellismo” di Palomar si riscontra nell’escamotage di una morte costruita ad hoc: si percepisce la presenza/assenza di Mattia Pascal che, credendo di eludere le complicazioni del vivere quotidiano, rende fortuito un caso di cronaca nera in seguito al ritrovamento del cadavere di un annegato che viene erroneamente identificato con la sua persona. Ritrovatosi dunque vivo, nelle vesti d’un morto, in una situazione di “tragica” e inaspettata fortuna, com’è noto, Mattia Pascal decide di provare a governare finalmente gli eventi della propria vita ma, ben presto, comprenderà che essere morto è una questione alquanto complessa; difatti, Adriano Meis, con la sua identità nuova di zecca, realizza ben presto di essersi cacciato in una rete di mistificazioni della realtà e tutto ciò risulta incompatibile con una piena partecipazione attiva del soggetto, ostracizzato dal reale. Così il mondo di Palomar si appiattisce e tenta la conquista di una dimensione, di una «geografia interiore» in cui il tempo misuri il senso della vita; Barenghi definisce “rarefatta” l’ultima parte del libro, facendo coincidere questa atmosfera col momento in cui l’uomo comprende che «il mondo può benissimo fare a meno di lui, e lui può considerarsi morto in tutta tranquillità, senza nemmeno cambiare le sue abitudini»[40].

Calandoci ancora una volta nel claudicante incedere dei personaggi delle novelle pirandelliane che tentano un disperato inserimento in un tessuto sociale che li respinge, anche Palomar manifesta una bizzarra presenza nel mondo che «consiste nell’urtarne continuamente gli spigoli»[41]; l’urto disvela la difficoltà, il marchio belligerante di un’esistenza che tenta di salvarsi da una collisione[42] senza soluzione di continuità. Così l’officina umana di Pirandello forgia personaggi dall’andamento privo di un orientamento definitivo, costantemente colpiti dalle pungenti schegge di un reale che imprigiona e ferisce: come il protagonista della novella L’uccello impagliato che, temendo di guastare il suo corpo e di morire prematuramente, adotta ogni tipo di accortezza per far sì che la morte non lo vinca, finendo, paradossalmente, per vincerla attraverso il suicidio. Anche in Calvino il timore della morte si risolve nella morte stessa: «al signor Palomar […] è come se quella lastra di marmo scivolasse dalle mani che la tengono sollevata: il sepolcro si chiude di scatto, lui è morto»[43]. «Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore»[44]. L’acme della narrazione è stata raggiunta e per Palomar si concretizza quel destino che accomuna tanti personaggi pirandelliani: «nel momento in cui il soggetto viene meno al proposito di osservare le cose dal di fuori, il suo destino perde interesse»[45].

Calvino congeda in questo modo il proprio personaggio che, morto ormai per sé stesso e per gli altri, ha portato a termine il suo personale cammino dialettico di nascita ed evoluzione, terminando il proprio soggiorno terreno con una morte dal sapore pirandelliano. Palomar sembra sparire in quel crepuscolo mortifero che abbraccia la fine di Matteo Sinagra ed entrambi i personaggi – volgendo le spalle al mondo dei vivi, di cui tuttavia non facevano più parte – si avviano verso la risoluzione della propria esistenza travagliata, avendo «esaurito il proprio compito»[46].

  1. I. Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 2016, p. 100.
  2. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, Milano, Hoepli, 2023.
  3. Ivi, p. 3.
  4. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, Ravenna, Longo Editore, 1990, p. 39.
  5. Ivi, p. 41.
  6. Il riferimento è alla novella Pena di vivere così di Pirandello, edita nel 1920 su «Il nuovo romanzo mensile».
  7. M. Barenghi, Calvino, Bologna, Il Mulino, 2018, p. 104.
  8. I. Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 2016, pp. 13-14.
  9. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 41.
  10. D. Budor, Scrivere, ovvero rinascere a sé stesso. Saggio su Luigi Pirandello, Pisa-Roma, Serra Editore, 2022, pp. 91-102. Si riconosce, nelle opere di Pirandello, la voce del raisonneur e la sua «istanza ragionatrice» (ivi, p. 91). Il discorso del raisonneur «seduce o irrita, ma che in ogni caso impone nuovi parametri di concezione della vita e inedite percezioni dello spettacolo» (ivi, p. 93). Il ruolo del raisonneur coincide con la sua aspirazione logica e filosofeggiante.
  11. Il “pirandellismo” di Calvino si concretizza soprattutto nel rapporto che lega l’arte calviniana all’umorismo così come Pirandello lo concepì. Secondo Franco Zangrilli, in accordo con Pirandello, l’umorismo scompone il reale realizzando un processo di “dimidiamento” che aziona un meccanismo in grado di svelare le atrocità del reale. In questo caso, dunque, il dimidiamento agisce nella logica dell’azione disgregatrice dell’umorismo; attraverso tale scomposizione del blocco della realtà, si possono cogliere le melodie stridenti che si celano in una composizione che appare superficialmente armonica. «Mentre crea la realtà idillica, la scompone e la ripudia umoristicamente perché vuole additarci l’altra realtà impregnata di pena esistenziale, come fa Pirandello ad esempio nella ‘Buona anima’» (F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 41). Parlando delle vicende relative al calviniano Marcovaldo, Zangrilli afferma che nell’evoluzione dei fatti vi è una struttura di miglioramento e di peggioramento che permette al personaggio coinvolto di percepire, attraverso le sue peripezie, il sentimento del contrario e dunque il dolore esistenziale. Coinvolge anche il signor Palomar in questo fil rouge umoristico che percorre la narrativa pirandelliana, ma di ciò si parlerà in seguito.
  12. M. Barenghi, Calvino, op. cit., p. 104.
  13. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006, p. 283.
  14. Ivi, p. 105.
  15. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 56.
  16. E. Gioanola, Pirandello, La follia, Milano, JacaBook, 1997, p. 103.
  17. Belpoliti definisce Palomar un libro “binario”, evidenziando come Calvino utilizzi anche in quest’opera delle coppie di opposti che rappresentano dunque una cifra stilistica e personale dell’autore: «silenzio/parola, caos/cosmo, sapienza/ignoranza, felicità/infelicità, somiglianza/dissomiglianza». Si legga M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, op. cit., alla p. 44.
  18. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 57.
  19. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 36.
  20. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, op. cit., p. 599.
  21. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 57.
  22. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 36.
  23. Ivi, p. 41.
  24. Ivi, p. 39.
  25. L. Pirandello, Pallottoline!, in Id., Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1990, pp. 190-91.
  26. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 105.
  27. L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Id., Maschere nude, vol. 2, Milano, Mondadori, 1993, p. 692.
  28. F. Zangrilli, Linea pirandelliana nella narrativa contemporanea, op. cit., p. 58.
  29. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 106.
  30. Ivi, p. 108.
  31. Ivi, p. IX.
  32. Ivi, p. 44.
  33. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, op. cit., p. 593.
  34. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, op. cit., p. 52.
  35. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 105.
  36. Ivi, p. 107.
  37. S. Perrella, Calvino, Bari, Laterza, 2010, p. 154.
  38. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, op. cit., p. 594.
  39. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 109.
  40. I. Calvino, Palomar, op. cit., p. 108.
  41. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, op. cit., p. 598.
  42. Si cita, in termini di suggestione derivante dall’immagine degli spigoli, la celebre pellicola Il favoloso mondo di Amélie (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain), film del 2001 scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet; colpisce il personaggio conosciuto come l’“uomo di vetro”, un pittore affetto da una malattia congenita che rende le sue ossa molto deboli, al punto da fargli rischiare costantemente di fratturarle in caso d’urto con qualsiasi oggetto d’arredamento. Per questo motivo l’uomo decide di imbottire tutti gli spigoli dei mobili presenti in casa per evitare la collisione e la conseguente frattura delle ossa. Questo personaggio è portatore di un’importante metafora del vivere: per paura di vivere la vita e procurarsi del dolore si rischia di prendere precauzioni eccessive, dimenticandosi di vivere.
  43. D. Scarpa, Calvino fa la conchiglia, op. cit., p. 598.
  44. Ivi, p. 112.
  45. M. Barenghi, Calvino, op. cit., p. 107.
  46. Ibidem.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Insegnare Calvino nel XXI secolo: complessità e interdisciplinarità

Author di Angelo Favaro

Un paradosso inspiegabile ha ormai decretato la qualità e l’incidenza dello studio delle opere di Italo Calvino nei vari ordini e gradi dell’Istruzione e nell’Università italiana. Opportuno svolgere rapidamente un solido refe ad esplicitare e focalizzare la problematica inerente, che scaturisce da un presupposto paradossale: numerosi sono i testi scritti da Calvino che affollano le pagine dei volumi per la scuola primaria e per la secondaria di primo grado; pagine lette, studiate, analizzate dagli studenti, in vario modo. Fino almeno al primo biennio della scuola superiore di secondo grado, lo scrittore cosmicomico resiste, anche se solo come oggetto d’esercizio o d’analisi inerente a testi narrativi, espositivi e argomentativi, con differenti funzioni e caratteristiche espressive. Quando si giunge al secondo biennio e poi al quinto anno della secondaria di secondo grado, invece, le opere di Italo Calvino svaporano dall’orizzonte scolastico. Nell’Università il discorso appare un po’ differente e non è questa la sede per affrontarlo con la necessaria attenzione, offrendo opportuni rilievi e suggerendo anche minimi approfondimenti. Sufficiente, al momento, rimandare alla lettura dei programmi dei corsi di Letteratura italiana e Letteratura moderna e contemporanea, negli atenei in Italia, anche nell’anno centenario, per cogliere una lata ritrosia a trattare i testi, i temi, i problemi, la scrittura tout court di Italo Calvino. De hoc satis.

L’intenzione, con questo lavoro di ricerca, è di soffermarsi sul “vantaggio” nella formazione, nell’educazione e nella didattica operativa, offerto dalla varietà di scritti di Calvino, in particolare innovando e aggiornando i programmi dell’ultimo anno della scuola superiore.

Invero, l’anno scolastico che dal punto di vista didattico dovrebbe accogliere l’autore del Sentiero dei nidi di ragno appare, al contrario, quello nel quale la lettura, l’analisi e lo studio dello scrittore centenario divengono “troppo difficili”, “davvero ardui per mancanza di tempo!”, “astrusi per gli studenti d’oggi” – si pongono queste ragioni fra virgolette, perché è quanto si è raccolto da una rapida ricognizione effettuata interloquendo con alcuni docenti, lo scorso anno, non solo durante gli esami di Stato o di maturità, ma anche effettuando corsi di formazione, in vari istituti superiori.

Fiabe italiane, brani tratti da Marcovaldo o Palomar, le vicende del Cavaliere inesistente o del Visconte dimezzato così come molti racconti o gli Amori difficili sono testi leggibili e perspicui in una scuola primaria, in una media di primo grado, anche in un biennio superiore, e poi vengono abbandonati per la complessità unita alla difficoltà di insegnare Calvino nel triennio della scuola superiore o anche soltanto nell’ultimo anno. Ascoltato un significativo campione di docenti, appare evidente che non è solo per mancanza di tempo, ma per differenti, altre cause e in particolare perché l’autore si rivela – come ribadito dai docenti – “troppo difficile”.

E, a una più precisa domanda (“in cosa consisterebbe la difficoltà?”), si scopre che è la varietà tematica, di generi e stilistica a generare la condizione di smarrimento di alcuni docenti, assieme alla cronologia autoriale e alla periodizzazione delle opere, che con tutta evidenza sfuggono al dogma dello storicismo imperante e imperativo nella didattica della Letteratura italiana, nel secondo biennio e nell’ultimo anno della secondaria superiore. Quando, poi, si fa notare che, probabilmente, per temi e generi, per gli argomenti trattati, potrebbe essere, al contrario, un autore più “vicino” agli studenti, fra le molte risposte poco persuasive, ce n’è stata una di stringente insensatezza: “Io sono una docente tradizionale, per me il programma si conclude con Pirandello, Svevo e Montale!”.

Non si intende chiamare al banco degli imputati di un processo sommario docenti, metodi, forme di insegnamento. Ai docenti dell’odierno triennio secondario vengono richiesti tanti e tali sforzi educativi, da regolarsi fra ore di Educazione civica, Orientamento, Tutoraggi vari, ricca progettualità, produzione di capolavori; inoltre, senza incrementare il tempo scolastico, si impongono numerose attività parallele. Per tacere, in questo contesto, delle settimane di recupero, di sosta didattica, di vacanza etc. E aggiungo che la formazione proposta dal Ministero e dagli Ambiti territoriali è spesso risibile e farsesca, quando non confusionaria; nella maggior parte dei casi tragica perdita di tempo: quasi mai si affrontano nodi, temi e problemi strettamente inerenti alla didattica disciplinare o inter-trans-multidisciplinare.

Un suggerimento, un primo suggerimento, a questo punto: insegniamo – è una parenesi accorata – la Letteratura italiana (che vuol dire anche lingua, storia della lingua, critica letteraria), a Scuola e nell’Università; quel che interessa è considerare contemporaneamente l’esigenza di porre attenzione a una prospettiva pragmatica (come insegnare, organizzare la lezione, con quali metodi e strumenti), coniugata con una necessaria nuova trasmissione elastica di temi essenziali della letteratura e della critica. Duplice la mission: un’acquisizione consapevole del multistrato letterario e didattica. Tutto l’apparato strumentale della critica (in senso sincronico e diacronico) produce un’ulteriore consapevolezza dello studio dell’opera letteraria, delle sue caratteristiche, in relazione al contesto autoriale e storico, ma può essere funzionale, altresì, alla riflessione argomentata e agli strumenti dell’argomentazione.

Un secondo suggerimento: non c’è successo comunicativo, se non si è in grado di realizzare quell’“evento” in primis emotivo e successivamente cognitivo con l’opera letteraria e con il suo autore per chi comincia a studiare la Letteratura. Ogni autore ha scelto di praticare e mettersi alla prova con diversi generi letterari, si è misurato con temi e problemi del suo tempo che, sovente, persistono nel nostro tempo; ha dato forme ai contenuti. Dal passato apprendiamo il presente: il nostro pretende ormai necessari riferimenti interdisciplinari con l’economia, la società, la storia, il pensiero filosofico, le arti; riferimenti mai casuali ma che il testo letterario autorizza a compiere per la sua stessa produzione ispirata a una qualche realtà (storica, interiore, psichica).

Terzo suggerimento: non c’è un’idea perfetta e indiscutibile di Letteratura, figuriamoci se possa darsi un principio unico e indubbio per insegnarla; pertanto ogni docente deve formarsi propri princìpi, una propria teoria da cui far evolvere una didattica della Letteratura che abbia come scopo il pensiero critico e divergente, l’educazione alla libertà, l’originalità espressiva e gli strumenti per acquisirla, una libertà mentale e il superamento di ogni forma di rigidità intellettuale, evidentemente sempre a partire dagli studenti che gli/le vengono affidati, e dalle loro necessità educative, sociali, di crescita umana. Un’educazione emotiva, sentimentale, alla consapevolezza di sé e del mondo. Il testo letterario accorda il pieno sviluppo delle nostre capacità intellettuali, nel momento nel quale si riesce a coniugare l’analisi con la comprensione, e la descrizione dell’opera con l’acquisizione dei suoi più profondi contenuti, grazie all’uso consapevole dei manuali e degli ormai numerosissimi strumenti cartacei e liberamente fruibili nella rete.

Si potrebbe, forse, ascrivere la causa della difficoltà di insegnamento di Calvino e della sua opera, nel triennio superiore, ai documenti ministeriali? È veramente utile, per qualche profano, esterno alle aule scolastiche, soffermarsi qualche istante sulle Indicazioni Nazionali per i Licei: in primo luogo vengono definite le linee generali e le competenze della lingua italiana «come bene culturale nazionale, elemento essenziale dell’identità degli studenti e mezzo di accesso alla conoscenza»; poi sono segnalate le competenze da conseguire, quali la «padronanza della lingua italiana, in forma scritta e orale; la capacità di riflessione metalinguistica; la coscienza della dimensione storica di lingua e letteratura; la padronanza degli strumenti per l’interpretazione dei testi».

E successivamente si legge, per il quinto anno (è arcinoto agli addetti ai lavori, ma sia consentito ribadirlo):

Sempre facendo ricorso ad una reale programmazione multidisciplinare, il disegno storico, che andrà dall’Unità d’Italia ad oggi, prevede che lo studente sia in grado di comprendere la relazione del sistema letterario (generi, temi, stili, rapporto con il pubblico, nuovi mezzi espressivi) da un lato con il corso degli eventi che hanno modificato via via l’assetto sociale e politico italiano e dall’altro lato con i fenomeni che contrassegnano più generalmente la modernità e la postmodernità, osservate in un panorama sufficientemente ampio, europeo ed extraeuropeo. Al centro del percorso saranno gli autori e i testi che più hanno marcato l’innovazione profonda delle forme e dei generi, prodottasi nel passaggio cruciale fra Ottocento e Novecento, segnando le strade lungo le quali la poesia e la prosa ridefiniranno i propri statuti nel corso del XX secolo. Da questo profilo, le vicende della lirica, meno che mai riducibili ai confini nazionali, non potranno che muovere da Baudelaire e dalla ricezione italiana della stagione simbolista europea che da quello s’inaugura. L’incidenza lungo tutto il Novecento delle voci di Pascoli e d’Annunzio ne rende imprescindibile lo studio; così come, sul versante della narrativa, la rappresentazione del “vero” in Verga e la scomposizione delle forme del romanzo in Pirandello e Svevo costituiscono altrettanti momenti non eludibili del costituirsi della “tradizione del Novecento”. Dentro il secolo XX e fino alle soglie dell’attuale, il percorso della poesia, che esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, contemplerà un’adeguata conoscenza di testi scelti tra quelli di autori della lirica coeva e successiva (per esempio Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …). Il percorso della narrativa, dalla stagione neorealistica ad oggi, comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori (per esempio Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello…). Raccomandabile infine la lettura di pagine della migliore prosa saggistica, giornalistica e memorialistica[1].

Non discutiamo, entrando nel merito del documento: giova tuttavia ricordare che sono Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali di cui all’articolo 10, comma 3 e in quanto tali fanno decadere i cosiddetti ormai obsoleti programmi ministeriali del passato, con tono e ambizioni prescrittive; al contrario di questi, presenti e ancora in vigore, con tenore puramente indicativo e di guida, lasciando poi al docente la totale, sartriana, angosciosa libertà di scelta, dal momento che si intende porre maggiore attenzione alle competenze che alle conoscenze.

Numerosi gli appunti critici che si dovrebbero opporre al documento, ma quel che non si può non accertare assieme alla libertà concessa al docente, come suddetto, è la sostanziale centralità degli autori-testi da affrontare, con attenzione all’interpretazione critica, attraverso la lettura, la comprensione e il dialogo. Domande e risposte sul significato delle opere esaminate divengono strumenti per conoscere e riconoscere il passato nel presente, rilevare la costellazione di significati insita in ogni testo letterario, naturalmente polisemico e conflittuale, identificarsi o meno emotivamente con la situazione comunicativa con cui l’opera letteraria ci pone in un complesso corpo a corpo (personaggi, situazioni, sentimenti, eventi etc.).

Focalizziamo, dunque, il discorso sulla Letteratura e su Italo Calvino, insegnato o da insegnare nella prassi didattica di questo primo ventennio del XXI secolo, con la scorta delle considerazioni di Emanuele Zinato:

La letteratura educa all’attenzione, alla profondità, alla complessità e alla libertà oltre la superficie mediatica banalizzante: insegna a diventare soggetti consapevoli e a dare forma alle proprie emozioni e alla propria vita. Ma un testo letterario può ingenerare, oltre a piacere e libertà, incomprensione e rifiuto o perfino inettitudine e assenza di senso della realtà. […] La didattica della letteratura è una scommessa. Non si tratta dunque di una disciplina precostituita o di una scienza-tecnica, non punta sull’istruzione strumentale e professionalizzante ma su quella che forma dei cittadini capaci di conoscere se stessi e di pensare oltre l’esistente. […] Chi insegna non può dunque disporre di un’idea univoca di letteratura ma, al contempo, deve conoscere i confini porosi della sua materia e possedere una propria idea di letteratura da condividere con gli studenti. Per organizzare una lezione, utilizzare un manuale, proporre una lettura alla classe l’insegnante deve maneggiare alcuni strumenti della teoria della letteratura: la riflessione sugli strumenti della critica che cerca di rispondere alla domanda «che cosa è la letteratura?». La didattica della letteratura è la pratica di analisi e interpretazione di forme e temi dei testi letterari che ha luogo in una situazione formativa istituzionalizzata: si tratta, dunque, di un campo di lavoro che affianca e che segue la critica (e che la invera e la presuppone)[2].

Oltre quanto suddetto, quale ulteriore causa dell’elusione-esclusione dell’insegnamento di Italo Calvino, nell’ultimo anno della scuola superiore?

Si potrebbe forse ascrivere ai volumi di testo in adozione e ai rispettivi autori-curatori? Lecito il quesito, dal momento che molti docenti utilizzano i cosiddetti libri di testo o manuali come palestre per l’aggiornamento didattico e, nonostante ciò, non prendono – i docenti, e non i manuali – quasi in considerazione l’offerta, pur ricca e variamente articolata, dei materiali didattici, inerente al secondo Novecento.

Sfogliando alcuni fra i più noti e recenti manuali di storia della Letteratura italiana per l’ultimo anno della scuola secondaria, rimaniamo interdetti per una semplice ragione: in tutti i volumi è presente il Nostro e con differenti declinazioni, una varia contestualizzazione e sollecitanti percorsi didattici. Alcuni esempi in rapida successione. Il palazzo di Atlante. Le meraviglie della letteratura, di Bruscagli-Tellini, nel volume 3B (dal secondo Novecento ai nostri giorni), dedica a Italo Calvino l’intero capitolo quindicesimo (da p. 681 a p. 740: ben 59 pagine), con particolare attenzione al Sentiero dei nidi di ragno, a qualche saggio, a Se una notte d’inverno, a Palomar. Di rilievo il ricorso a Mengaldo per “commentare” alcuni aspetti linguistici di Calvino e il “grandangolo” di approfondimento dedicato all’autore e alla sua relazione contrastata con Pasolini. Significativa e ricca la dotazione multimediale a complemento del volume, in forma di “palestre di cloudschooling” e di audiolibri. Letteratura visione del mondo (Dal Novecento ai nostri giorni: 3B), di Corrado Bologna, Paola Rocchi, Giuliana Rossi, dedica a Calvino il capitolo 17 con un titolo limitante, Calvino: lo sguardo geometrico sul mondo: un punto di partenza incompleto per la letteratura del presente. Ben presentati e commentati alcuni passaggi su Palomar, La trilogia dei nostri antenati, Cosmicomiche e Ti con zero, Città invisibili, Castello, Lezioni americane (pp. 851-901: 50 pagine). Veramente apprezzabile la selezione antologica e la guida alla comprensione, con le indicazioni su come utilizzare il web per implementare l’esperienza di studio.

Il nuovo La scrittura e l’interpretazione volume 6 (Modernità e contemporaneità dal 1925 ai nostri giorni), a cura di Romano Luperini, Pietro Cataldi, Lidia Marchiani, Franco Marchese, dedica a Italo Calvino il quinto capitolo, dividendo la sua produzione per fasi creative e compositive: dal Neorealismo alla Giornata di uno scrutatore; da Cosmicomiche a Palomar; offre, inoltre, un molto utilmente elaborato focus su Città invisibili (pp. 816-63: 47 pagine). Più recentemente, i medesimi curatori, ai quali si aggiunge Silvia Gasperini, hanno pubblicato Noi e la Letteratura. 3B Dall’Ermetismo ai nostri giorni, nel quale a Italo Calvino è validamente dedicato il quarto capitolo, con una specifica attenzione ai tempi della produzione letteraria e ai luoghi ove il Nostro è vissuto; l’analisi critica è rivolta a testi quali: Il sentiero, Il barone rampante, Città invisibili, Palomar (pp. 947-1007: 60 pagine). Ottima l’impostazione didattica, sebbene parziale la selezione.

La vita immaginata. Storia e testi della Letteratura italiana. Dal Novecento a oggi (3B) di Stefano Prandi: anche in questo volume a Italo Calvino viene dedicato uno spazio ragguardevole, dal titolo vago ma comprensivo dell’attività dello scrittore, Italo Calvino interprete della complessità: (pp. 818-86: 68 pagine). Di grande pregio informativo-formativo il criterio di periodizzazione e contestualizzazione. Opere in analisi: Sentiero, Nostri antenati, La formica argentina, Cosmicomiche, Ti con zero, Città invisibili, Se una notte, Palomar. Il lavoro di Prandi è calibrato sulle necessità dei docenti e dei discenti, con una specifica dilezione per gli strumenti didattici inclusivi, e non mancano simulazioni per la preparazione all’Esame di Stato, incentrate sulle tre tipologie (analisi e interpretazione di un testo letterario; analisi e produzione di un testo argomentativo; riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo).

Qualcosa che sorprende. Letteratura italiana. 3.2 Dal periodo tra le due guerre ai nostri giorni, a cura di Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria; il capitolo 9 è tutto su Italo Calvino (Sentiero, Barone, Cosmicomiche, Se una notte: pp. 692-745, 53 pagine). Di notevole caratura didattico-interdisciplinare le sezioni denominate Letteratura e ecologia, e Letteratura e scienza, e lo “studio attivo” inerente al Barone.

Roberto Carnero e Giuseppe Iannaccone hanno pubblicato, da ultimo, Il magnifico viaggio. Letteratura per il terzo millennio. Vol. 6 Dalla Prima guerra mondiale a oggi; anche qui un capitolo intero dedicato a Calvino: i grandi temi e i filoni narrativi (neorealista, fantastico-fiabesco, realistico-contemporaneo), e si tratta specificatamente della produzione saggistica (pp. 696-765: 69 pagine). Nella sezione intitolata I grandi temi vengono raccolti e in perfetta sintesi presentati e analizzati i capisaldi della poetica e del pensiero di Calvino: Resistenza e impegno, Fantastico e fantascienza, La critica alla società del benessere, La condizione postmoderna.

Infine, ex multis dei quali si potrebbe ulteriormente discorrere, concludiamo con la nuova edizione del Materiale e l’immaginario. 3B Dal primo dopoguerra ai nostri giorni di Remo Ceserani, Lidia De Federicis, Marina Polacco. Nella sezione Protagonisti, troviamo Italo Calvino con un ritratto critico, cui segue un’ottima analisi specifica di Ultimo viene il corvo, Il midollo del leone, La sfida al labirinto, La giornata di uno scrutatore; Il conte di Montecristo da Ti con zero: è evidente che si privilegino particolari aspetti dell’opera di Calvino (pp. 303-38: 35 pagine), tralasciandone, per ragioni di tempo scolastico e organizzazione del materiale didattico, altri, non meno rappresentativi. Gli autori si prefiggono l’intento di privilegiare un metodo, che docenti e discenti potranno poi autonomamente applicare alla lettura e all’analisi di altri testi del medesimo autore.

Procedendo nella disamina di altri manuali liceali, validi anche per i percorsi universitari, la situazione muta veramente poco. Fra le 40 e le 70 pagine di ogni volume sul XX secolo sono dedicate all’autore: e ciò implica una duplice considerazione. In primis, nessuno anticipa Calvino seguendo la biografia, quindi dagli anni Venti, ma si precisa la cronologia dall’apparire del primo romanzo: è, pertanto, considerato autore da collocare pienamente nel secondo Novecento. Questo fatto, che non merita alcuna considerazione per l’evidenza della sua sensatezza, tuttavia, genera una lata crisi nei docenti e di conseguenza nei discenti, poiché il percorso strettamente storico-letterario, per ragioni di tempo, organizzative e per la difficoltà a effettuare tagli dolorosi, ma necessari, raramente si spinge oltre il primo apparire del Neorealismo, comprendendo solo in parte la letteratura resistenziale. In secundis, per alcuni docenti che non hanno avuto una solida formazione nella letteratura contemporanea, Calvino, ma non di meno opere di autori quali Pasolini, Gadda, Morante, Natalia Ginzburg, Sciascia, Sanguineti, Zanzotto, Giudici o Caproni, Amelia Rosselli appaiono ardui, eccessivamente complessi, difficilmente collocabili all’interno di movimenti storico-letterari; in considerazione di ciò, nella maggioranza dei casi, anche gli strumenti d’analisi dei testi contemporanei non sono validamente acquisiti e praticati, nemmeno per quanto attiene alle competenze fondamentali di prima comprensione della scrittura letteraria odierna.

A questo punto, il Ministero dell’Istruzione e del Merito dovrebbe proporre-disporre per il corpo docente, afferente alle classi di concorso delle materie letterarie, di “recuperare” quelle conoscenze e le competenze di lettura, analisi e comprensione di testi del secondo Novecento, prodotti in poesia, prosa e in forma drammatica (per tacere di soggetti e sceneggiature cinematografiche), attraverso corsi “obbligatori” di profonda e concreta riqualificazione didattica. Ciò, fuori da ogni polemica, è pura e semplice constatazione di una colpevole carenza, lamentata dai docenti stessi.

Inoltre, un semplice dato documentale: chi ha frequentato i percorsi liceali negli anni Venti o Trenta trovava nei programmi scolastici della cosiddetta scuola gentiliana autori quali Carducci, Pascoli, d’Annunzio, Deledda, Pirandello, che oggi sarebbero considerati contemporanei dei discenti (come di fatto erano allora). Si può, dunque, osare, senza pavide remore, l’insegnamento di Italo Calvino nel corso di tutto il triennio, confortati e sostenuti sia dalle Indicazioni nazionali sia dai manuali di Letteratura italiana.

Azzardo una proposta operativa sulla quale discutere, ma da accogliere strumentalmente a una didattica che possa superare lo stringente percorso storico-letterario, procedendo verso lo sviluppo di nodi tematici o problematici. Dapprima, destiniamo agli studenti una cronologia essenziale degli eventi dagli anni Cinquanta almeno fino al 1990, con eventi storico-politici in Italia e con qualche necessaria escursione nei principali avvenimenti negli Stati Nazione dei quattro angoli del pianeta; con la sintesi delle manifestazioni artistico-cinematografiche di rilievo e dei movimenti culturali italiani e stranieri, marcando il passaggio dalla modernità al postmoderno; e con qualche dato economico italiano ed europeo. Discutiamo, poi, la cronologia e offriamo qualche ulteriore chiave interpretativa di questo materiale; collochiamo successivamente vita e opere di Italo Calvino nel flusso spazio-temporale offerto dalla mappa. A partire da questa base, proviamo a coinvolgere gli studenti in percorsi di lettura, analisi e contestualizzazione delle opere. L’autore e i suoi scritti consentono, a un Consiglio di Classe coeso e capace di organizzarsi, itinerari didattici volti ad elaborare una progettualità interdisciplinare.

Ritengo sia essenziale nel coinvolgimento dei docenti delle varie discipline del Consiglio di classe così come per gli studenti indicare un metodo di approccio allo studio di Calvino, necessario invero per ogni aspetto e autore della Letteratura, considerando sempre in una prospettiva interattiva un autore e i suoi testi. Non c’è opera letteraria o possibilità di comprensione della stessa senza il riferimento all’autore e alle sue esperienze: nessuno scrittore è interessante in quanto tale, ma in relazione ai testi letterari che ha prodotto. L’autore è portatore di una storia individuale e si colloca in un momento storico preciso (nascita e morte), raccoglie molto dal passato (pensiamo a Calvino e al rapporto con i classici della modernità e non solo europea, e con i classici greco-latini), prepara qualcosa per il futuro, lasciando un’eredità (riflettiamo sugli autori che direttamente o indirettamente prendono ispirazione da Calvino)[3].

Attesa un’altra domanda: si può davvero dire di poter conoscere un’opera letteraria, se non la si pone in rapporto con gli orientamenti culturali del tempo nel quale è stata creata? Si può rispondere: no, almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, quando lo Strutturalismo sposta l’attenzione dall’autore e dal contesto al testo letterario pienamente e perfettamente autosufficiente (da qui nascono la narratologia e l’analisi testuale che tuttora si pratica nella prima prova dell’esame di maturità di Tipologia A). Noi non confidiamo nella de-contestualizzazione e nell’autonomia assoluta. Tuttavia, dalla fine del XX secolo, anche grazie a Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore è del 1979) appare un nuovo protagonista sulla scena letteraria: dalla centralità del testo si sposta l’attenzione al lettore, e in tal modo la critica diventa interpretazione operata da chi legge l’opera, in una feconda a volte, limitante in altre circostanze, interazione fra l’uno (il lettore) e l’altro (il testo). Così la ricerca del significato diviene individuale, seppur da condividere, poi, attraverso i social, con i gruppi di lettura o con altri lettori interessati alla discussione sul testo.

Ogni gruppo-classe, invero, opera la propria analisi ermeneutica in un rapporto di condivisione con il docente, che tenta di rimettere in asse interpretazioni troppo lontane o arbitrarie. Ogni testo non è tutte le sue interpretazioni possibili (cfr. Umberto Eco, Lector in fabula). Non c’è scrittore che non scriva se non per essere letto: fra lettore (in particolare se si tratta di studenti) e scrittore si deve instaurare un rapporto emotivo di ascolto assorto e di comprensione/compassione, per giungere a una relazione partecipativa tale da rendere il lettore veramente e profondamente “complice” del senso dell’opera letteraria.

È sensato dedicare una così specifica attenzione a Calvino? Evidentemente sì! In primis per la semplice e più che evidente riflessione che è l’autore del secondo Novecento maggiormente funzionale allo sviluppo delle cosiddette “competenze trasversali”; in secundis, perché concede un prezioso ausilio nelle abilità comunicative e argomentative; è, poi, scrittore e intellettuale per antonomasia dell’antitesi e dell’ambivalenza, dallo sguardo acuto, capace di penetrare fenomeni tanto umani e socio-politici quanto inerenti alle scienze dure, e pertanto incalza razionalmente il pensiero critico, inducendo alla gestione del conflitto, sia in ambito linguistico-letterario ed ermeneutico sia, più generalmente, nelle relazioni interumane. Basterebbe riflettere, alla luce di quanto detto, sulla parabola narrativa di due suoi personaggi: Cosimo Piovasco di Rondò e Agilulfo.

È stato, inoltre, come abbiamo rilevato, definito autore “geometrico”: prospettiva, questa, di una scrittura che è indizio di un’espressione del pensiero, armonicamente lineare e iterativa, elaborata ma anche ordinata in una struttura elegante del testo, ove alla simmetria e alla proporzione si coniuga una lingua italiana quasi classica, nonostante il suo ricorrere a lemmi tratti dalla scienza e da differenti aree disciplinari e dalla tecnologia; tutto ciò si rivela affascinante nel tracciare ordine dal caos, nel gestire l’organizzazione, nel rilevare le priorità non solo esistenziali ed etiche, ma anche sociali e culturali. Consideriamo l’avventura umana ed esistenziale di altri due personaggi: Quinto Anfossi (La speculazione edilizia) e Amerigo Ormea (La giornata di uno scrutatore).

Calvino educa al pensiero narrativo nella contaminazione con scienze e arti, attraverso il duplice e complementare appello agli elementi focali e strutturali della fiaba e all’osservazione realistica: lo studio delle sue opere può avere, dunque, un felice esito educativo anche rispetto alla gestione dell’ansia da cambiamento e nelle difficoltà di apprendimento. Pure in questo caso, due personaggi emblematici: Marcovaldo ed Edmond Dantes (in Ti con zero).

La scrittura di Italo Calvino, che non è poi così lontano dalla prassi e dallo spirito degli enciclopedisti settecenteschi, capace di un’eccitazione alla totalità, all’inafferrabilità, alle molteplici connessioni fra differenti ambiti disciplinari, non solo nel secondo biennio e nell’ultimo anno della secondaria, è un valido ausilio nell’accogliere e ridisegnare paradigmi epistemologici didattici inter-transdisciplinari. Con estrema originalità, a partire dai temi e dai riferimenti della produzione letteraria del postmoderno, che anticipa, in qualche misura, fin dal primo romanzo, Calvino opera, attraverso la sua esperienza e la speciale formazione, le connessioni coerenti, una propria progettualità letteraria, la capacità di sperimentare, senza eccessi, mescolando abilmente la logica proposizionale, i giochi matematici, le più recenti scoperte della fisica e della biologia, dell’antropologia e della paleontologia, della psicologia e dell’economia neocapitalistica. Rileggiamo alla luce di ciò Cosmicomiche vecchie e nuove o La memoria del mondo, o altresì i testi contenuti nella raccolta Mondo scritto e mondo non scritto, e scopriremo uno scrittore che favorisce il deuteroapprendimento (apprendere ad apprendere) assieme alla pratica del lifelong learning a cui tutti ormai sottostiamo. È ancora la sfidante contrainte alla quale lo scrittore del Castello dei destini incrociati si sottopone e ci sottopone.

Calvino, in una lettera a François Wahl: «L’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro»[4]. È il primo dicembre del 1960. Mi è accaduto di precisare in un’altra occasione che il guardare di Calvino è un’azione che conduce più ad accorgersi, e ciò provoca un nuovo rapporto con la realtà: coglie non solo la struttura superficiale, ma è portato – e di conseguenza induce noi – a considerare le sovra e le sub strutture; probabilmente da questa azione dell’accorgersi scaturisce l’esigenza della scrittura:

Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. […] Questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso[5].

L’aspirazione di Calvino a un’opera letteraria totale, che metta ordine nel caos del mondo, offrendo l’uscita dai labirinti della modernità e del postmoderno, con l’ausilio di una borgesiana infinita e babelica biblioteca, grazie all’enciclopedia dell’esistenza, ricorrendo all’arte combinatoria, è un’impresa che continua a sfidare critici e lettori. Il catalogo perfetto non si può compiere! Nonostante una tale insuperabile consapevolezza, egli agisce come maestro di un rigore linguistico, sintattico, ma anche concettuale e scientifico di rara sapienza, e mostra come sia possibile, se non sempre agevole, organizzare il pensiero narrativo aperto non in opposizione ma in relazione a quello logico-matematico chiuso:

Ho l’impressione che non sia la prima volta che mi trovo in questa situazione: con l’arco appena allentato nella mano sinistra protesa avanti, la mano destra contratta all’indietro, la freccia F sospesa per aria a circa un terzo della sua traiettoria, e, un po’ più in là, sospeso pure lui per aria e pure lui a circa un terzo della sua traiettoria, il leone L nell’atto di balzare su di me a fauci spalancate e artigli protesi. Tra un secondo saprò se la traiettoria della freccia e quella del leone verranno o meno a coincidere in un punto X attraversato tanto da L quanto da F nello stesso secondo tx, cioè se il leone si rovescerà per aria con un ruggito soffocato dal fiotto di sangue che gli inonderà la nera gola trafitta dalla freccia, oppure piomberà incolume su di me atterrandomi con una doppia zampata che mi lacererà il tessuto muscolare delle spalle e del torace, mentre la sua bocca, richiudendosi con un semplice scatto delle mascelle, staccherà la mia testa dal collo all’altezza della prima vertebra. Tanti e così complessi sono i fattori che condizionano il moto parabolico sia delle frecce sia dei felini, da non permettermi per il momento di giudicare quale delle sue eventualità sia più probabile. Mi trovo perciò in una di quelle situazioni di incertezza e attesa in cui non si sa davvero cosa pensare. E il pensiero che mi occorre è questo: mi pare che non sia la prima volta. Non voglio qui riferirmi ad altre mie esperienze di caccia: l’arciere, appena crede d’essersi fatta un’esperienza, è perduto; ogni leone che incontriamo nella nostra breve vita è diverso da ogni altro leone; guai se ci fermiamo a far confronti, a dedurre le nostre mosse da norme e presupposti. Parlo di questo leone L e di questa freccia F giunti ora a un terzo circa delle rispettive traiettorie. E neppure posso essere incluso tra coloro che credono nell’esistenza d’un primo e assoluto leone, di cui tutti i diversi leoni particolari e approssimativi che ci balzano contro sono solo ombre o parvenze. Nella nostra dura vita non c’è posto per nulla che non sia concreto e afferrabile dai sensi[6].

Il messaggio di Calvino, per una didattica integrata e interdisciplinare ove si coniughino responsabilmente la formazione umanistica e quella scientifica, superando una secolare e insensata dicotomia, è quello volto a un’educabilità permanente al possibile e alle relazioni impreviste fra le cose, al cambiamento e alla metamorfosi, all’ignoto e all’instabilità, senza timore, ma con l’avventurosa emozione di chi sa che tutto ciò può essere compreso, se non proprio dominato dalla e con la ragione, dall’organizzazione dei materiali culturali, dalla fiducia negli strumenti della narrazione o della possibile narratività di tutto, sempre mantenendo non separabili la prospettiva razionale, quella affettiva e quella empirico-esistenziale. Semplice verificare quanto detto rileggendo Palomar o Gli amori difficili, o ancora alcuni saggi di Una pietra sopra.

Con la conoscenza dei testi letterari, ma anche critici di Italo Calvino si conseguono numerosi obiettivi educativi e formativi, ma in particolare uno fra i più importanti nel triennio liceale: annodare conoscenze (fatti, nozioni, teorie) e modi di organizzazione strutturale degli apprendimenti, sempre secondo una chiave affettivo-relazionale, oltre che cognitivo-intellettuale. Chi apprende è soggetto da monitorare e che deve divenire in grado di automonitorarsi: alla complessità o all’ipercomplessità ormai non si sfugge, soprattutto nella molteplicità irrelata delle problematiche per le quali si danno soluzioni multiple, fondate su criteri che contemplano la relazione, la reciprocità, il/i tempo-tempi, lo/gli spazio-spazi.

In ogni processo formativo scolastico, per ogni disciplina, anche quelle afferenti alle cosiddette scienze dure, la lezione che si può trarre dallo studio dei testi più specificamente letterari di Calvino è di imparare a “pensare per storie”: si intende che, indipendentemente dagli stili cognitivi con i quali si apprende e i metodi didattici attraverso i quali si insegna, le differenti forme narrative offerte dalla scrittura di Calvino “addestrano” a marcare le connessioni fra esistenza, esperienza, apprendimenti, approvando e provocando nel processo formativo la relazione e i nessi, per contrasto o per affinità, interdisciplinari. Analizziamo la presentazione-descrizione delle cinquantacinque Città invisibili suddivise nelle loro undici sezioni: «Le città e la memoria»; «Le città e il desiderio»; «Le città e i segni»; «Le città sottili»; «Le città e gli scambi»; «Le città e gli occhi»; «Le città e il nome»; «Le città e i morti»; «Le città e il cielo»; «Le città continue»; «Le città nascoste». La successione delle avventure, delle partenze, degli incontri, dei nuovi paesaggi, fra etica ed estetica dell’accorgersi, induce alla considerazione di una complessa trama trans-formante e può abilmente essere riusata dal docente in lezioni dialogate su vari temi e differenti testi di Calvino o nel corso di dibattiti, o ancora in momenti di sperimentazione didattica (mise en espace, drammatizzazione, riscritture etc.), seguendo le indicazioni delle Avanguardie educative, per far apprendere metodi organizzativi del pensiero e della comunicazione dinamica, secondo l’accoglienza della molteplicità, l’ascolto e la promozione del rispetto delle differenze. Ciò significa lavorare sulle competenze trasversali, a partire dalle domande che un autore e la sua opera sollecitano alle nostre intelligenze.

Il linguaggio poetico-esistenziale che Calvino sa coniugare con quello scientifico e tecnologico mescola due approcci categoriali differenti: il primo umanistico e immaginativo, il secondo lineare e causale-effettuale. E vorrei rimembrare emblematicamente, a questo punto, quanto Primo Levi scriveva nel 1985, all’improvvisa morte dell’amico: «Natura e scienza erano per lui una sola cosa: la scienza come lente per meglio vedere, come chiave per penetrare, come codice per capire la natura. Nulla della sua natura è lirico o idilliaco; eppure, della natura era un grande poeta, anche in negativo, cioè quando descriveva la sua assenza nelle città»[7].

Venti o trenta anni or sono si sarebbe utilizzato un lessico e strategie didattiche che nel panorama scolastico odierno risulterebbero incomprensibili. Si ritiene, pertanto, appropriato, a questo punto, formulare delle proposte secondo quel prospetto metodologico-didattico inter-trans-multidisciplinare. Sia per la complessità degli argomenti presi in esame nelle opere letterarie e saggistiche del Nostro, che preludono alla situazione storica, sociale, culturale del XXI secolo, sia per l’apertura latamente interdisciplinare connaturata alla ricerca espressiva, possiamo considerare Calvino fra i pochi autori della nostra Letteratura il cui studio risulta efficace al conseguimento di obiettivi didattici “completamente” educativi.

È agevole riflettere su due aspetti e pertanto prendere in esame due forme differenti, per un approccio operativo che derivi dalle premesse metodologiche formulate precedentemente, distinguendo proposte di percorsi interdisciplinari a partire dai testi[8] e, successivamente, in qual modo siano coniugabili gli obiettivi dell’Agenda 2030 con alcuni scritti di Calvino[9].

Nel primo caso, si prendono le mosse da alcune opere letterarie o critiche, prodotte nel tempo, selezionate in relazione a obiettivi didattici distinti per aree disciplinari; oppure si può iniziare da tematiche, evidentemente intrinseche al pensiero o alla poetica o alle opere di Calvino, e si stabiliscono percorsi con obiettivi chiari, condivisi dal Consiglio di Classe, e infine si formulano unità didattiche ad hoc per il conseguimento degli obiettivi, progettando una produzione finale alla quale differentemente far partecipare tutta la classe. Per quanto attiene al secondo caso, ovvero agli obiettivi dell’Agenda 2030[10], è opportuno e più semplice scegliere testi completi di Calvino, da leggere insieme, e commentare alla luce di singoli obiettivi: ad esempio, Le città invisibili consentono un percorso critico sull’obiettivo 11, così come Le cosmicomiche sull’obiettivo 4 o La giornata di uno scrutatore sul 16. È alquanto sensato, altresì, ideare percorsi tematici, individuati con un titolo chiaro, e successivamente reperire e condividere testi d’autore, intorno ai quali ragionare e soffermarsi criticamente, prima in sede di Consiglio e poi nelle aule con gli studenti.

Insegnare Calvino permette a docenti e discenti di interrogarsi intorno ai nodi critici del nostro tempo, di porsi domande essenziali sulla nostra società: successivamente, attraverso le scelte dei personaggi, attraverso le situazioni che affrontano o schivano, si diviene consapevoli della complessità del reale. Si apprende non solo come si è, come si agisce, ma soprattutto come si potrebbe essere, come si potrebbe agire diversamente. I romanzi, i racconti, i saggi, gli articoli giornalistici costituiscono un viatico a differenti metodi di conoscenza, offrono una riflessione profonda sulla nostra responsabilità nei confronti di noi stessi, dell’altro, della società, dell’ambiente, della qualità della vita e della partecipazione civica. Etica del singolo che ha un significato reale soltanto in quanto collettiva. Esaminare questi temi in progetti didattici e alla luce degli obiettivi dell’Agenda 2030 pone una sfida ardua educativa e impone di considerare in qual modo tradurre queste idee dalla pagina alla pratica, edificando insieme un mondo più sostenibile e giusto per tutti.

Entriamo nelle pagine del capitolo XII della Giornata di uno scrutatore: una grande illusione ma necessaria, un suggerimento morale che dovrebbe indirizzare l’azione educativa e dei docenti nel XXI secolo proviene dalla difficilissima e multiprospettica riflessione di Amerigo Ormea. Egli osserva la Madre Superiora che si occupa dei malati, una missione per lei consapevole e liberamente esercitata come senso della vita; nota poi un semplice contadino che ogni domenica, quando si libera dal lavoro, va al Cottolengo per dar da mangiare al figlio che non parla e probabilmente non lo riconosce nemmeno; lo imbocca pazientemente: «Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo»[11].

Appendice 1

Percorsi interdisciplinari a partire da alcuni testi di Italo Calvino

Il visconte dimezzato

Il barone rampante

Obiettivi didattici

Discipline umanistiche

Lettura integrale dei due testi da svolgersi in un biennio superiore, o al quarto o all’ultimo anno.
  1. Analisi della struttura narrativa e dei personaggi per comprendere le dinamiche sociali e culturali dell’epoca.
  2. Esplorare i temi dell’identità e dell’indipendenza attraverso l’analisi dei protagonisti.
  3. Confrontare le opere con altri romanzi storici o filosofici dell’epoca per comprendere meglio il contesto letterario.
Prodotti intermedi – disciplinari

Prodotto finale interdisciplinare

Obiettivi didattici

Discipline scientifiche

In relazione agli obiettivi didattici i docenti delle singole discipline possono realizzare specifici percorsi nei romanzi.
  1. Esplorare il concetto di libertà attraverso il prisma della scelta dei personaggi principali e le implicazioni biologiche di vivere sugli alberi senza contatto con il suolo.
  2. Studiare la biomeccanica degli esseri umani per comprendere la plausibilità scientifica delle azioni dei personaggi.
  3. Esaminare il concetto di evoluzione e adattamento alle nuove condizioni di vita dei protagonisti.
Si devono prevedere produzioni singole per disciplina (scritte, orali o pratiche) e per ogni studente, e poi un prodotto finale che coinvolga tutti i docenti e le discipline umanistiche e scientifiche.
Le città invisibili Obiettivi didattici

Discipline umanistiche

Lettura integrale del testo da svolgersi in un biennio superiore o al terzo o all’ultimo anno.
  1. Analizzare le città descritte nel libro come rappresentazioni simboliche di diverse filosofie, culture e società.
  2. Esplorare i concetti di utopia e distopia nelle rappresentazioni delle città.
  3. Discussione sull’importanza della progettazione urbana nel contesto sociale ed economico delle comunità.
Prodotti intermedi – disciplinari

Prodotto finale interdisciplinare

Obiettivi didattici

Discipline scientifiche

In relazione agli obiettivi didattici i docenti delle singole discipline possono realizzare specifici percorsi nel romanzo.
  1. Esaminare le implicazioni ecologiche delle città invisibili, considerando come la natura e l’ambiente sono rappresentati nel contesto delle città descritte.
  2. Studiare la geografia fisica e le condizioni ambientali delle città descritte per comprendere l’importanza della geografia nella pianificazione urbana.
  3. Esplorare le tecnologie sostenibili e innovative che potrebbero essere applicate alle città invisibili per migliorare la qualità della vita.
  4. Elaborare il concetto di spazialità sia dal punto di vista fisico-matematico sia per quanto attiene alla logica formale.
Si devono prevedere produzioni singole per disciplina (scritte, orali o pratiche) e per ogni studente, e poi un prodotto finale che coinvolga tutti i docenti e le discipline umanistiche e scientifiche.
Se una notte d’inverno un viaggiatore Obiettivi didattici

Discipline umanistiche

Lettura integrale del testo da svolgersi in un ultimo anno con l’ausilio dei docenti.
  1. Analizzare la struttura frammentata del romanzo e discutere le diverse prospettive narrative e gli stili di scrittura.
  2. Esplorare il tema della lettura come esperienza e processo creativo, collegandolo alla storia della letteratura e all’evoluzione dei generi letterari.
  3. Discussione sul ruolo degli autori, dei lettori e dei personaggi nella creazione del significato del testo.
  4. Filosofie del soggetto e variabili interpretative su spazio e tempo. Nuove ermeneutiche. Falsificazionismo. Post verità.
Prodotti intermedi – disciplinari

Prodotto finale interdisciplinare

Obiettivi didattici

Discipline scientifiche

In relazione agli obiettivi didattici i docenti delle singole discipline possono realizzare specifici percorsi nel romanzo.
  1. Analizzare il processo cognitivo della lettura e l’interazione tra il cervello umano e il testo scritto.
  2. Esplorare la psicologia della percezione e dell’interpretazione, considerando come diverse persone possono avere interpretazioni diverse dello stesso testo.
  3. Esaminare le nuove tecnologie di lettura e il loro impatto sulla fruizione del testo, considerando l’evoluzione dei supporti di lettura elettronici e l’accessibilità.
  4. Relazione fra scienza, tecnologia e nuovi media. Rapporto fra dati scientifici e finzionali.
Si devono prevedere produzioni singole per disciplina (scritte, orali o pratiche) e per ogni studente, e poi un prodotto finale che coinvolga tutti i docenti e le discipline umanistiche e scientifiche.

Integrare la lettura delle opere di Calvino con l’ausilio degli strumenti interpretativi di discipline differenti dalla Letteratura non solo consente agli studenti di comprendere i temi letterari e culturali più approfonditamente, ma offre anche varie opportunità per sviluppare competenze critiche, creative e interdisciplinari essenziali per l’educazione nel XXI secolo. Ai docenti offre la possibilità di concretizzare i suddetti obiettivi con attività specifiche da svolgere in classe, anche in compresenza o individualmente nelle proprie ore di lezione, rendendo i discenti autonomi nel lavoro extrascolastico.

Percorsi didattici

Titolo del percorso didattico: Esplorando l’Universo con Italo Calvino: tra scienza, arte e nuovo umanesimo. Cosmicomiche e Ti con zero
Obiettivi del Percorso:
  1. Imparare a riconoscere e comprendere concetti scientifici distinguendoli da altri differenti: Analizzare i racconti di Cosmicomiche per riconoscere e comprendere i concetti scientifici di base, come l’origine dell’universo, l’evoluzione, e il rapporto tra tempo e spazio.
  1. Stimolare la creatività a partire dalla scienza: Utilizzare la fantasia e l’immaginazione, ispirandosi ai racconti di Calvino, per creare storie originali che mescolino elementi scientifici, letterari e artistici.
Riferimenti Artistici:

Salvador Dalì: opere come La persistenza della memoria (1931) per esplorare il concetto di tempo e realtà.

Vincent van Gogh: Notte stellata (1889) per discutere l’interpretazione artistica dell’universo e della luce.

M. C. Escher: opere varie (1953) per comprendere l’illusione spaziale e le prospettive multiple.

Fausto Melotti: pitture e sculture varie (copertine Mondadori).

Questo percorso didattico mira a integrare i concetti scientifici con la letteratura e l’arte, consentendo agli studenti di sviluppare una comprensione interdisciplinare del mondo che li circonda.

3. Esplorare il legame tra Scienza e Arte: Analizzare opere d’arte che rappresentino concetti scientifici simili a quelli presenti nelle vicende narrate da Calvino, esplorando l’intersezione fra arte e scienza.

4. Sviluppare le capacità critico-ermeneutiche: Analizzare e confrontare diverse rappresentazioni artistiche e letterarie a partire dagli stessi concetti scientifici presenti nei racconti per sviluppare la capacità di lettura critica e interpretativa.

Unità Didattiche:
  1. Introduzione a Cosmicomiche:
  • Presentazione del contesto storico e letterario di Cosmicomiche di Italo Calvino.
  • Analisi dei testi dei racconti in relazione ai concetti scientifici, come l’espansione dell’universo e l’evoluzione della vita.
  1. Scienza nella poetica di Calvino:
  • Approfondimento sui concetti scientifici presenti nei racconti, come la teoria del big bang e la formazione delle galassie.
  • Collegamenti con le teorie scientifiche attuali attraverso lezioni interattive e discussioni di gruppo.
  1. Scienza, Filosofia, Letteratura e Arte:
  • Studio della Rivoluzione scientifica primonovecentesca, poi delle opere di artisti delle Avanguardie artistiche primonovecentesche, come Salvador Dalì, che ha rappresentato concetti scientifici nel Surrealismo, o Picasso, mettendoli in relazione con i racconti di Calvino.
  • Analisi delle rappresentazioni artistiche dell’universo e del tempo in diverse epoche storiche, collegandole ai concetti di Cosmicomiche.
  1. Ti con zero e il Tempo:
  • Esplorazione del concetto di tempo nella letteratura e nella fisica, in riferimento ai racconti di Ti con zero.
  • Discussione sulle teorie del tempo, a partire dalla relatività di Einstein, e sul loro impatto sulla nostra comprensione del mondo.
Progetto di scrittura o realizzazioni creative: Universi che si intersecano Gli studenti, alla fine del percorso, tentano di creare storie o opere artistiche che combinino elementi di scienza, letteratura e arte, ispirandosi ai concetti presenti nei racconti di Calvino e alle opere degli artisti studiati, servendosi dei medesimi titoli calviniani.
Presentazioni e discussione critica: Gli studenti presentano i loro progetti creativi alla classe e all’Istituto; realizzano anche un video da caricare su Youtube, spiegando le scelte artistiche e scientifiche.

Discussione critica guidata, in cui gli studenti valutano e analizzano reciprocamente i lavori, esercitando le capacità critiche e interpretative.

Questo percorso didattico mira a integrare i concetti scientifici con la letteratura e l’arte, consentendo agli studenti di sviluppare una comprensione interdisciplinare del mondo.

Percorsi didattici 2

Si può articolare il lavoro anche nel modo seguente: si stabiliscono gli obiettivi di riferimento e poi si progettano i percorsi, sempre strettamente connessi a testi di Calvino.

Obiettivi principali:
  • Comprendere i concetti scientifici: utilizzare i racconti delle Cosmicomiche come punto di partenza per esplorare concetti scientifici come la teoria dell’evoluzione, la teoria del big bang, la relatività e l’astronomia.
  • Sviluppare la creatività e la narrazione: incentivare gli studenti a scrivere storie o creare opere d’arte ispirate ai racconti delle Cosmicomiche, incorporando sia elementi scientifici che umanistici.
  • Esplorare la filosofia e la critica letteraria: analizzare le Cosmicomiche da un punto di vista filosofico e critico, discutendo temi come l’assurdità dell’esistenza, il significato dell’universo e la struttura narrativa.
Percorso didattico 1: Scienza e letteratura Racconto di riferimento: Il distanziamento della Luna

Scienza: introdurre i concetti di gravità, maree e movimento lunare. Discutere le teorie scientifiche sul distanziamento della Luna nel corso del tempo.

Letteratura: analizzare il racconto alla luce delle teorie scientifiche. Discutere modi e forme con i quali Calvino usa la scienza come metafora per esplorare temi fortemente riguardanti l’umano e la psicologia, come l’amore e la separazione.

Arte: mostrare opere d’arte che raffigurano la Luna e il mare, come La notte stellata di Vincent van Gogh. Discutere di come gli artisti rappresentano la Luna e il cielo notturno.

Percorso didattico 2: Astronomia e storia dell’arte Racconto di riferimento: Tutto in un punto

Scienza: esplorare la teoria del big bang e la formazione dell’universo. Discutere le teorie sull’espansione dell’universo.

Letteratura: analizzare con quali mezzi e strumenti linguistico-letterari il racconto esplora l’idea di un universo in espansione e il concetto di “tutto in un punto”. Discutere il significato filosofico di questa idea.

Arte: esaminare opere d’arte astronomiche, come La notte stellata di Vincent van Gogh e le Stanze di Raffaello, in particolare la Scuola di Atene. Discutere di come gli artisti rappresentano il cosmo e le teorie scientifiche.

Percorso didattico 3: Evoluzione e critica letteraria Racconto di riferimento: Lo zio acquatico

Scienza: Esplorare la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin e la diversità della vita sulla Terra. Discutere i concetti di adattamento e selezione naturale.

Letteratura: Analizzare come Calvino racconta l’evoluzione delle creature naturali. Discutere il ruolo dell’adattamento e della sopravvivenza nel racconto.

Arte: Esaminare opere d’arte che raffigurano la diversità della vita, come le illustrazioni di Ernst Haeckel. Discutere, prendendo differenti esempi, in qual modo gli artisti rappresentano la natura e la varietà delle forme di vita, nelle varie epoche e nelle civiltà.

Ulteriore proposta di percorso didattico tematico modulare interdisciplinare

1. Esplorando l’intreccio fra scienze, letteratura, arte e logica. Un viaggio interdisciplinare
Modulo 1: Fondamenti scientifici e umanistici

Obiettivo: Introdurre agli studenti i principi fondamentali delle discipline scientifiche e umanistiche, promuovendo la comprensione dell’interconnessione tra le due.

Attività:

Lezione 1: Introduzione alle Scienze e all’età umanistica: da Leonardo da Vinci a Marie Curie

Riferimenti artistici: analisi di opere (disegni) di Leonardo da Vinci e del suo metodo di disegno.

Riferimenti scientifici: discussione sui contributi scientifici di Marie Curie.

Modulo 2: Storia dell’arte e rappresentazione artistica

Obiettivo: Esplorare l’evoluzione delle forme artistiche attraverso la storia e analizzare come l’arte riflette il contesto scientifico e umanistico del suo tempo.

Attività:

Lezione 2: cenni sui movimenti artistici attraverso i secoli: dall’Umanesimo al Modernismo

Riferimenti Artistici: analisi di opere di Michelangelo (Cappella Sistina) e Futurismo.

Riferimenti filosofico-letterari: discussione sull’Umanesimo rinascimentale e sul concetto di individualità in relazione al concetto di uomo-massa.

Modulo 3: Logica e pensiero critico

Obiettivo: Sviluppare competenze logico-argomentative e di pensiero critico attraverso l’analisi di problemi scientifici e filosofici, correlati con testi di Italo Calvino.

Attività:

Lezione 3: Introduzione alla logica: dal pensiero binario ai Computer

Riferimenti logici: discussione sui principi della logica aristotelica e sui concetti di deduzione e induzione.

Riferimenti artistici: studio delle opere di Escher, noto per le sue tassellazioni e rappresentazioni grafiche.

Modulo 4: Intersezioni tra arte, scienza e logica

Obiettivo: esplorare opere d’arte e scoperte scientifiche che si sono verificate grazie all’applicazione della logica, unendo così i concetti appresi nei moduli precedenti.

Attività:

Lezione 4: Convergenze tra arte, scienza e logica: dalla prospettiva centrale alla teoria del caos

Riferimenti artistici: studio delle opere di Salvador Dalì o del Cubismo sintetico e analitico. Riferimenti scientifici e logici: Discussione sulla teoria del caos e sull’uso della logica nella previsione di modelli caotici.

Progetto finale: Integrazione creativa

Obiettivo: gli studenti tenteranno di applicare ciò che hanno appreso, creando progetti grafici di spiegazione o creativi interdisciplinari, anche in forma di podcast, che uniscano arte, scienza e logica.

Attività:

Progetto finale: CalvinArt

Gli studenti creeranno un’installazione artistica basata su principi scientifici come il movimento, l’ottica e la percezione sensoriale (Juan Mirò, Alex Calder).

Riferimenti artistici: ispirazione da opere di Alexander Calder, noto per le sue sculture cinetiche.

Riferimenti scientifici e logici: applicazione dei principi di fisica del movimento e della logica che pertiene al design delle opere cinetiche.

Scheda di autovalutazione studiata e calibrata sui percorsi da somministrare agli studenti.

Appendice 2

L’Agenda 2030 e la sfida di Italo Calvino

Nel panorama della letteratura mondiale, pochi autori hanno saputo esplorare la complessità della psicologia umana, del mondo naturale, delle dinamiche logico-scientifiche come Italo Calvino. Le sue opere, permeate da un’innata curiosità per l’esistenza umana e da una profonda conoscenza della Natura, offrono una prospettiva centrata sulla relazione fra gli esseri viventi e il pianeta, e non di meno dell’interazione fra esseri umani nella società contemporanea. In un’epoca in cui il mondo si confronta con sfide globali sempre più ardue, le opere di Calvino si rivelano una sfida straordinaria per comprendere e perseguire gli obiettivi ambiziosi sanciti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

1. Le città invisibili – Obiettivo 11: Città e comunità sostenibili. Nel labirinto delle Città invisibili descritte da Marco Polo possiamo cogliere una chiara rappresentazione simbolica dell’obiettivo 11 dell’Agenda 2030: costruire città e comunità sostenibili. Polo, raccontando le città che visita, offre un panorama vario di luoghi e modi di socialità: dalle magnifiche e avanzate alle città in rovina, mostrando l’importanza di pianificare e sviluppare insediamenti urbani che siano ecologicamente sostenibili, inclusivi e resilienti.

2. Il cavaliere inesistente – Obiettivo 5: parità di genere. Il personaggio di Agilulfo, il cavaliere senza corpo, rappresenta un potente simbolo dell’obiettivo 5 dell’Agenda 2030: raggiungere la parità di genere. La sua lotta per essere riconosciuto come un cavaliere, nonostante la sua forma differente, incarna la sfida contro le norme di genere predefinite e invita a riflettere sulle aspettative sociali e culturali legate al genere.

3. Il barone rampante – Obiettivo 15: vita sulla Terra. Cosimo, il barone rampante che decide di vivere sugli alberi per tutta la vita, illustra in modo suggestivo e metaforico l’obiettivo 15 dell’Agenda 2030: proteggere, ripristinare e promuovere un uso sostenibile degli ecosistemi terrestri. La sua vita fra gli alberi simboleggia la connessione profonda tra gli esseri umani e la natura, sottolineando l’importanza di preservare la biodiversità e gli ecosistemi naturali, assumendo un diverso punto di vista sul mondo.

4. Il visconte dimezzato – Obiettivo 3: Salute e Benessere. Nel Visconte dimezzato, Calvino presenta un protagonista diviso in due metà, ciascuna con una personalità unica. Questo può essere interpretato in chiave metaforica in riferimento all’obiettivo 3 dell’Agenda 2030: garantire una vita sana e promuovere il benessere per tutti, a tutte le età. La storia ci ricorda l’importanza di trattare non solo le malattie fisiche, ma anche di prestare attenzione alla salute mentale e al benessere emotivo.

5. Le cosmicomiche – Obiettivo 4: Questa raccolta di racconti esplora la storia dell’universo da una prospettiva fantastica e umoristica. Gli straordinari personaggi, come Qfwfq, affrontano sfide cosmiche, fisiche e metafisiche. Questi racconti possono essere considerati come una rappresentazione/applicazione dell’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: «Garantire un’istruzione inclusiva, equa e di qualità e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti». L’apprendimento e la comprensione della complessità del mondo sono fondamentali per raggiungere i suddetti obiettivi.

6. La giornata di uno scrutatore – Obiettivo 16: questo romanzo breve si fonda su una sequenza di situazioni e storie ove l’inclusività diviene tema centrale. Può essere letto come una rappresentazione narrativa dell’Obiettivo 16 dell’Agenda 2030: «Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, fornire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli». Nella narrazione si riflette sulla formazione di una società giusta e inclusiva.

  1. Cfr. l’URL: https://www.istruzione.it/alternanza/allegati/NORMATIVA%20ASL/INDICAZIONI%20NAZIONALI%20PER%20I%20LICEI.pdf. Schema di regolamento recante “Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali di cui all’articolo 10, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89, in relazione all’articolo 2, commi 1 e 3, del medesimo regolamento” (ultimo accesso: 15 giugno 2024).
  2. Insegnare letteratura. Teorie e pratiche per una didattica indocile, a cura di E. Zinato, Roma-Bari, Laterza, 2022, pp. 30-31.
  3. Italo Calvino non solo ha scoperto e indirizzato numerosi scrittori della nostra letteratura come Daniele Del Giudice, che esordisce all’Einaudi con il romanzo Lo stadio di Wimbledon (1983), e prosegue con Atlante Occidentale (1985), ispirato alla scrittura fanta-bio-scientifica di Calvino; ma anche scrittori come Umberto Eco, Salman Rushdie o Oran Pamuk sembra abbiano un debito di riconoscenza con il Nostro, per le loro opere più celebri. Anche nelle arti figurative e nell’architettura Calvino offre materia di ispirazione: osservando le opere dell’architetta peruviana Karina Puente, numerosi sono i riferimenti diretti a Le città invisibili (1972), e in particolare ella ha voluto illustrare ciascuna delle 55 città con tecniche differenti. Inoltre, chi non penserebbe al Barone rampante (1957), analizzando i progetti del Bosco verticale di Stefano Boeri? Poi, Sopheap Pich, artista cambogiano, ha realizzato l’installazione Compound, tra il 2012 e il 2013, ispirandosi a Le città invisibili. La lista potrebbe protrarsi per numerose pagine. Molte sono, altresì, le pellicole cinematografiche, italiane e straniere, che traggono ispirazione dalla scrittura di Calvino.
  4. I. Calvino, Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, «Meridiani» Mondadori, 2000, p. 669.
  5. I. Calvino, Perché scrivete?, in Id., Mondo scritto e mondo non scritto, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2010, p. 133.
  6. I. Calvino, Ti con zero, in Id., Romanzi e racconti, vol. 2, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano, «Meridiani» Mondadori, 1991, p. 307.
  7. P. Levi, L’asimmetria e la vita: articoli e saggi. 1955-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 236.
  8. L’interdisciplinarità è una prassi didattica che ammette nello studio delle differenti discipline, oggetto del corso di studi, attraversamenti fondati su nodi tematici, concettuali, storici, da svolgere nel corso di unità di apprendimento formulate specificatamente dal corpo docente. Si può prevedere una “produzione” singolare o del gruppo classe che attesti il percorso effettuato, in modo originale e con l’apporto delle discipline. Differente la multidisciplinarità, dal momento che si fonda sulla scelta di un argomento-tema, ove l’apporto delle singole materie non è in una progressione interattiva, ma ciascuna ne sviluppa una parte, secondo la propria prospettiva epistemica e i propri obiettivi, evitando il dialogo metodologico e concettuale con le altre discipline. Invece, l’approccio transdisciplinare è uno spazio di crescita umana e intellettuale ove argomenti, temi, progetti inerenti a singole attività disciplinari possono incontrarsi ed essere esplorati, senza un preciso fine o con modi definiti, ma attraverso un concorso costante di idee, di metodi, di connessioni impreviste. Dall’archivio di informazioni, dall’enciclopedia organizzata, dagli atlanti, dai cataloghi, si passa a un metodo continuamente in fieri, non meno razionale e organizzato, ma mai esaustivo, e che consegue nuove conoscenze attraverso l’educazione al pensiero divergente e creativo. Aumentando la complessità delle interazioni disciplinari, si predispongono soluzioni più originali.
  9. Si allegano al presente lavoro alcune proposte didattiche operative, che non è opportuno inserire nel corpo del testo del saggio.
  10. Cfr. L’URL: https://unric.org/it/agenda-2030/ (ultimo accesso: 15 giugno 2024).
  11. I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, in Id., Romanzi e racconti, vol. 2, op. cit., p. 69.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Su alcune scritture “paraletterarie” di Italo Calvino: canzoni e interviste impossibili

Author di Pamela Parenti

Straniamento e narrazione favolistica nelle canzoni

Si può riconoscere una fase del pensiero critico di Calvino in cui, tanto sul piano delle dichiarazioni esplicite quanto su quello delle attività letterarie, emergono chiaramente le sue convinzioni in merito alla funzione politica e sociale della scrittura letteraria e all’impegno di una letteratura militante che deve agire nella società secondo i propri mezzi, che non sono quelli del dirigente politico, che fa comizi e prediche al grande pubblico, bensì quelli propri dello scrittore che deve abilitare gli altri a uno sguardo inedito sulla realtà, sguardo che apra a prospettive altrimenti destinate a rimanere occulte.

La letteratura può usare i suoi mezzi a fini educativi, può fare la differenza grazie alle sue proprie facoltà e può arrivare lì dove altri falliscono, perché in grado di aprire a nuove e inedite visioni sul mondo.

Sebbene poco a poco la fermezza in alcune convinzioni venga meno, anche in seguito all’abbandono del partito comunista e della militanza associativa, come ricorda egli stesso in Mondo scritto e Mondo non scritto c’è stata comunque una fase giovanile della sua vita in cui Calvino pensava che vi fosse una relazione tra mondo letterario e mondo “reale” e che entrambi potessero in qualche maniera illuminarsi vicendevolmente e rendere l’uno all’altro la facoltà di progredire attraverso le esperienze e «i passi», che se compiuti nell’uno avrebbero potuto far avanzare la prospettiva conoscitiva ed “evolutiva” anche nell’altro[1].

Scriveva infatti nel Midollo del leone:

Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile.

Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo[2].

È una sorta di “complementarietà” tra mondo di fuori e dentro la letteratura, quella che scorge ancora Calvino almeno all’altezza della Giornata di uno scrutatore e fino alle Fiabe italiane, ed è proprio all’inizio di questa fase evolutiva che abbraccia la militanza di partito e la prospettiva educativa che si inserisce, a nostro avviso, l’esperienza dei Racconti (nella prima edizione del 1958), quella delle Cantacronache e quella della Panchina per il teatro musicale[3]. Anche se ci soffermeremo soltanto su alcune canzoni, è nostra opinione che molte considerazioni possano valere anche per i racconti e per il libretto della Panchina, non fosse altro per le collaborazioni (quella con il compositore Liberovici) e per l’intertestualità (quella tra Canzone triste e il racconto L’avventura dei due sposi).

L’esperienza di Cantacronache nasce principalmente grazie alla volontà e all’impegno di Sergio Liberovici, musicista e compositore, uno dei fondatori e autore all’interno di un progetto portato avanti da un collettivo di persone, tra cui la moglie Margot (Margherita Galante Garrone), autrice e interprete; Michele Straniero, studioso del folklore musicale italiano, giornalista e musicologo; Fausto Amodei, autore, interprete e musicista, ed Emilio Jona, autore di tesi e del manifesto poetico del gruppo. La loro è un’esperienza decisamente anticonformista, che ha l’obiettivo di focalizzare l’attenzione del mondo della canzone sulla realtà, utilizzando la musica d’arte e la scrittura per creare qualcosa di inedito in Italia.

Studiosi, poeti, intellettuali cattolici comunisti e socialisti, tutti appartenenti all’aria progressista, partecipano a questo progetto che nasce a Torino nel 1957 e che si ispira ai modelli tedeschi e francesi della canzone e del teatro d’impegno politico e sociale: dall’opera di Brecht, e la sua collaborazione con il musicista Dessau e il cantante Ernst Bush, agli chansonniers francesi, e al loro rapporto con Sartre e Prévert.

Il fatto che, in Italia, la scena musicale di quegli anni fosse caratterizzata da una forte convenzionalità fu alla base dell’idea che generò l’esperimento di Cantacronache, soprattutto come reazione alla stanchezza di molti nei confronti di certa musica commerciale e d’evasione rappresentata dalle canzonette di Sanremo. Liberovici e gli altri, spinti da un impulso più anticonformista che rivoluzionario, avviarono così il progetto, al quale parteciparono diversi intellettuali, tra cui lo stesso Calvino[4].

Dopo un primo periodo di sperimentazione, che occupò praticamente la fine del 1957 e l’inizio del 1958, il primo maggio del 1958, nel corso di un’esposizione pubblica del gruppo «al corteo della CGIL a Torino», «durante la manifestazione organizzata in occasione della chiusura della campagna elettorale», una delle canzoni scritte da Calvino, Dove vola l’avvoltoio?, venne diffusa «dagli altoparlanti di un grammofono collocato sul camion dei sindacati che sfilava[5] […] mentre il testo venne distribuito ai manifestanti»[6]. Fu un importante debutto dello scrittore come paroliere, che rappresentò l’inizio della collaborazione che trovò spazio in alcuni degli otto dischi di Cantacronache. Tra il 1958 e il 1962 il gruppo pubblicò anche diversi altri lavori, in particolare citiamo qui tre Cantafavole destinate ai bambini, poiché vi partecipò anche Calvino scrivendo alcuni testi con Fortini, Rodari e Jona[7]. Un repertorio vasto e singolare, quindi, nel quale spiccano soprattutto importanti nomi di intellettuali e musicisti, ma che forse peccò nel non essere abbastanza attrattivo per il pubblico cui avrebbe dovuto ambire rivolgersi, come ricorda Emilio Jona a proposito dell’ultimo concerto del gruppo, organizzato da «Paese sera» a Roma al Teatro dei Satiri di Trastevere, in cui venne eseguito il repertorio delle 13 canzoni che facevano parte delle Cantacronache con la prima fila occupata da «“il fior fiore dell’intellighentsjia romana di sinistra con al centro Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini, Laura Betti e Enzo Siciliano”»[8]. Si trattava davvero di un pubblico speciale, ma non il pubblico di giovani e di proletari per cui le Cantacronache erano state pensate, motivo forse per il quale le sorti musicali del gruppo e delle loro canzoni non furono poi quelle auspicate.

La partecipazione di Italo Calvino al collettivo torinese fondato da Sergio Liberovici è riconducibile alla loro amicizia, consolidata durante la collaborazione alla redazione dell’«Unità». Lo scrittore si lasciò inizialmente coinvolgere con entusiasmo, in particolare sul tema della canzone Dove vola l’avvoltoio? che tratta della Resistenza, argomento che lo scrittore aveva già esplorato nella sua narrativa e che viene ripreso in un’altra sua canzone, Oltre il ponte, nella quale la storia partigiana si trasforma in un «bagaglio di valori e ideali da tramandare alle nuove generazioni e ai giovani»[9].

Tra gli esperimenti scrittòrii di Calvino in seno a questo gruppo di musicisti Dove vola l’avvoltoio? è certamente uno dei più significativi, forse perché anticipatore, in Italia, del pensiero pacifista e antimilitarista che sarebbe esploso qualche anno dopo; forse per la sua struttura metrica, che richiama quella di una ballata popolare in stile favolistico, che descrive con una potente allegoria la minaccia incombente di un rapace che semina panico e distruzione: la guerra, l’odio, la minaccia dell’annientamento umano.

Si tratta, insomma, di una canzone innovativa e precorritrice di sensibilità allora relativamente insolite, poiché, se è vero che il tema del pacifismo militante era stato già cantato durante la guerra ed era principio della cultura e della politica operaia, qui viene tuttavia proiettato oltre dall’autore, che paventa il rischio di una guerra come distruzione dell’umanità e anticipa testi, come ad esempio Blowing the wind di Bob Dylan (1963). Ne sono esempio le ultime strofe e la conclusione:

L’avvoltoio andò all’uranio

e l’uranio disse «No,

avvoltoio vola via,

avvoltoio vola via.

La mia forza nucleare

farà andare sulla Luna,

non deflagrerà infuocata

distruggendo le città.

[…]

Ma chi delle guerre quel giorno aveva il rimpianto

in un luogo deserto a complotto si radunò

e vide nel cielo arrivare girando quel branco

e scendere scendere finché qualcuno gridò:

Dove vola l’avvoltoio?

avvoltoio vola via,

vola via dalla testa mia…

ma il rapace li sbranò[10].

Questa immagine rievoca in qualche modo quella presente nel racconto Ultimo viene il corvo[11], in cui l’uccello volteggia sul soldato tedesco preannunciandone la morte, ma lo stile della canzone, come anche per le altre scritte da Calvino, è sempre giocato sul contrasto: sull’utilizzo cioè di strutture tipiche di un linguaggio semplice, elementare, in questo caso proprio della ballata popolare con tanto di refrain a più voci e atmosfere musicali dai toni cadenzati e scanzonati alla Quartetto Cetra, mentre la voce di Buttarelli canta lo spettro della guerra descritto nel testo. Tuttavia è proprio l’ossimorico gioco delle opposizioni che sovrasta l’intera sperimentazione applicata da Calvino anche a questi diversi contesti “paraletterari”, che egli domina con il suo consueto occhio umoristico e straniato.

È stata sottolineata l’influenza che avrebbero esercitato i testi di Calvino e l’esperienza di Cantacronache sul cantautorato genovese degli anni Sessanta; in particolare si evidenzia una relazione tra una strofa della Guerra di Piero di Fabrizio De André (1964) e alcuni versi della ballata di Calvino Dove vola l’avvoltoio?. «Nella limpida corrente / ora scendon carpe e trote / non più i corpi dei soldati / che la fanno insanguinar»[12] risuona parzialmente nel brano di De André, diventando: «Lungo le sponde del mio torrente / Voglio che scendano i lucci argentati / Non più i cadaveri dei soldati / Portati in braccio dalla corrente»[13].

Al di là della derivazione diretta dai versi di Calvino, ci pare inoltre vada rilevata una certa suggestione che l’ultima parte del racconto Ultimo viene il corvo può aver fatto scaturire nel rappresentare gli eventi attraverso la percezione del giovane soldato tedesco braccato, terrorizzato dall’incombere della morte e speranzoso di poter trovare un modo per sfuggirle. L’esitazione e la paura che tradiscono il giovane Piero nella canzone di De André, quando si trova davanti il nemico e non ha quella spietatezza necessaria a salvarsi la pelle, sottolineando la brutalità dell’altro che non si pone alcuna remora morale e spara per primo, sembrano ricordare l’inesorabile freddezza con cui il ragazzino, protagonista del racconto di Calvino, uccide il soldato “nemico”.

Anche nella canzone di De André, come in quella musicata da Liberovici, lo stile è semplice, sebbene diverso, e la strumentazione scarna ed essenziale, perché prevalga la voce dell’interprete, veicolo di un messaggio che colpisce l’uditore grazie al contrasto tra tonalità musicali chiare e lievi che celebrano la vita e narrazioni tristi che ne mostrano le fragilità.

Il rapporto e l’influenza di Cantacronache sui cosiddetti “cantautori del malessere” (Luigi Tenco, Umberto Bindi, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi) sono stati rilevati nel modo in cui questi ultimi osservano la realtà, nella loro denuncia di un disagio esistenziale quotidiano, in taluni casi in una sorta di spinta oppositiva nei confronti del mondo borghese, piccolo e patinato[14]. Si delinea la strada di canzoni più introverse e meno fiduciose nei modelli di un’economia destinata a generare gravi disfatte sociali, canzoni che si confrontano con il mondo dei vinti, degli emarginati e dei deboli, i quali, come denuncia Calvino, non trovano abbastanza spazio nei luoghi della letteratura[15].

Nei testi delle canzoni di Cantacronache gli operai, gli impiegati che di lì a poco saranno irrisi dai toni potentemente umoristici di Paolo Villaggio, sono ora protagonisti: sono le vittime del boom e dell’«Italietta del miracolo economico e dei suoi falsi miti»[16], alienati dalle fabbriche che hanno rubato loro la vita e l’amore. Si diffonde un nuovo linguaggio musicale, frutto di una rivoluzione etica e linguistica inaugurata dal collettivo torinese e caratterizzata dalla ricerca di parole autentiche e adeguate per raccontare di questi uomini e di queste donne, dei loro sentimenti e delle loro storie.

Grazie a Cantacronache la vita quotidiana fa dunque irruzione sulla scena musicale per cantare l’amore, ma non quello dei ragazzini che si inginocchiano e vanno a cento all’ora, bensì “gli amori difficili” e perdenti di chi non ha più tempo neppure per fare all’amore.

La canzone forse più interessante, tra quelle scritte da Calvino, legata al racconto L’avventura di due sposi, è senz’altro Canzone triste[17]:

Erano sposi. Lei s’alzava all’alba

prendeva il tram, correva al suo lavoro.

Lui aveva il turno che finisce all’alba,

entrava in letto e lei n’era già fuori.

Soltanto un bacio in fretta posso darti;

bere un caffè tenendoti per mano.

Il tuo cappotto è umido di nebbia.

Il nostro letto serba il tuo tepor[18].

Qui la diegesi poetica è scarna: partendo da un suo precedente racconto Calvino opera attraverso un lavoro di sottrazione e di riduzione all’essenziale in maniera efficace e tutt’altro che banale, al contrario di quanto erroneamente sottolinea Sebastiano Ferrari quando critica l’uso dell’apocope e dell’elisione in sede di ritornello, che egli indica come modus operandi da «paroliere»[19]. È chiaro, invece, l’intento critico e parodico di Calvino nei confronti del mondo canzonettistico e contemporaneamente ovvia l’idea di avvicinare il testo alle modalità della canzone folkloristica popolare, con un esito straniante e al tempo stesso “leggero”, secondo il canone della “Leggerezza” (famosa tappa delle Lezioni americane). Come in una fiaba, in Canzone triste c’è un inizio, una fine e una morale: vale a dire l’ossessione del tempo[20] giocata sulla linearità e sulla ripetitività, le quali per analogia e imitazione rendono l’idea dei ritmi della giornata dei due innamorati:

Memoria e attesa trovano una sorta di equilibrio, di costante dialettica, nell’avventura degli sposi che si incontrano solamente negli intervalli loro concessi dai turni di lavoro: al rincasare dell’uno corrisponde, infatti, l’uscita dell’altro; al riposo dell’uno, l’attività quasi impaziente dell’altro; allo scivolare nel sonno da una parte, la veglia operosa dall’altra, in gesti che si rispondono uguali e contrari, sovrapponendosi solamente al momento della cena e del minuetto mattutino attorno al lavabo.

In tutte le altre ore del giorno, ognuno dei due è come in bilico fra il ritrovare negli oggetti domestici i gesti dell’altro e il protendere l’immaginazione verso ciò che l’amato sta per fare nel luogo in cui probabilmente si trova[21].

Pertanto gli aspetti stilistici che Sebastiano Ferrari giudica come mancanze o incongruenze, sia nel testo sia nell’interpretazione di Margot, sono invece i segni dell’idea progettuale alla base delle Cantacronache e gli indizi evidenti della poetica di Calvino: «il continuo spostamento di prospettiva» tra lui e lei che renderebbe «poco fluida la diegesi»[22] risulta invece, come si è visto, funzionale proprio a descrivere l’immagine dei due mondi forzatamente e ingiustamente separati, nei quali i due coniugi si trovano a vivere senza la possibilità di trovare una conciliazione che smetta l’avvicendamento a vantaggio della condivisione. La paratassi calviniana restituisce il senso dell’alienazione anche nelle ripetizioni: nella prima quartina, infatti, la simmetria è matematica sia sul piano della narrazione sia su quello metrico, poiché, essendo divisa in due parti, ciascuna di due endecasillabi piani, nella prima metà viene descritto il tempo di lavoro di lei e nella seconda quello di lui, così come nel medesimo spazio il tempo “libero” o di riposo dell’altro. In perfetta geometria, ciascuna coppia di versi copre le ventiquattro ore della giornata. Ironicamente definita nel titolo del racconto come un’“avventura”, quella dei due sposi si trasforma nella canzone in una specie di fiaba triste, i cui versi non vengono tanto cantati quanto piuttosto declamati da Margot in una sorta di recitativo teatrale[23]. E, se la melodia si muove sulle tonalità maggiori, evocando secondo Ferrari «un’atmosfera disimpegnata» che non si accorderebbe con «il carattere sostanzialmente problematico della narrazione»[24], è perché il gioco degli opposti rappresenta la cifra dello straniamento e della poetica di Calvino.

Come giustamente fa notare Giovanni Privitera, «Calvino profite pleinement du dessin géométrique de la forme chanson pour mettre en œuvre un jeu combinatoire, portant sur la succession entre couplets et refrain, symétries et oppositions»[25].

Tra l’altro, l’ossimoro e l’antitesi non sono una novità nel dialogo semantico che la musica stabilisce con gli altri linguaggi con cui si trova a interagire: basti pensare alle numerose e felici combinazioni caratteristiche del teatro brechtiano o del cinema di noti registi quali Kubrik e Pasolini, ad esempio, che fanno un significativo uso retorico e straniante della colonna sonora, per cui la musica sottesa alle immagini dei loro film è spesso in totale contrapposizione alle atmosfere e alle narrazioni proiettate sullo schermo.

Umorismo e travestimento nell’intervista impossibile all’Uomo di Neanderthal

Come molti scrittori contemporanei anche Calvino si sente fortemente attratto dalle potenzialità espressive di altri linguaggi non strettamente letterari e la sperimentazione dei mezzi di comunicazione è un Leitmotiv della sua poetica (come si può constatare anche di Pasolini, di Eco, di Manganelli, di Sanguineti, di Testori e di molti altri ancora). Tuttavia Calvino guarda con reticenza alle modalità con cui viene restituito il mondo attraverso i media, come ad esempio nella televisione e nella stampa giornalistica, che dettano una visione della “realtà” oggettiva che altro non è che «un mondo già conquistato, colonizzato dalle parole», dove «i fatti della nostra vita sono già classificati, commentati, prima ancora che accadano»[26].

Tale diffidenza di Calvino interpreta un sentire comune a molti intellettuali di quegli anni, tuttavia “l’intervista impossibile”, che tentò altri grandi scrittori, rappresenta un fenomeno a sé stante, poiché ha reso loro possibile di operare una sorta di gioco di prestigio, trasformando uno dei canali più accreditati per la trasmissione del “mondo reale”, cioè la radio nella forma dell’intervista di tipo giornalistico, in uno spazio d’invenzione e di riproduzione di un luogo immaginario che, proprio nel suo essere dichiaratamente inautentico, restituiva una visione in qualche modo più leale della realtà: se la nostra vita «è già classificata prima ancora che accada», si può almeno reinventare quella già accaduta.

L’intervista impossibile costituisce uno spazio d’evasione, in cui, se non si riscrive propriamente la storia, la si guarda da una prospettiva diversa e surreale per cui passato e presente possono dialogare in uno spazio acronico, nella sospensione di un limbo temporale in cui sono ipotizzabili altre storie dietro la storia:

Per chi è prigioniero evadere è sempre stata una bella cosa, e anche un’evasione individuale può essere un primo passo necessario per mettere in atto un’evasione collettiva. Questo deve valere anche al livello delle parole e delle immagini fantasmatiche: dalla prigione delle rappresentazioni del mondo che ribadiscono a ogni frase la tua schiavitù, evadere vuol dire proporre un altro codice, un’altra sintassi, un altro lessico attraverso cui dare forma al mondo dei tuoi desideri[27].

Calvino non fu il solo intellettuale a subire l’appeal del format radiofonico; come ricorda Sandro d’Amico, «gli scrittori scoprirono che le Interviste impossibili erano un modo di dire un sacco di cose che in un elzeviro, in una commedia, in un libro non potevano dire»[28].

Presentato come un «gioco suggestivo per gli “ozi” dei pomeriggi estivi»[29] dal Radiocorriere TV nel luglio del 1974, in realtà fu un vero e proprio esperimento di programma, nuovo e originale. In un periodo felice della radio, poco prima dell’avvento delle emittenti private, «con le Interviste impossibili si fa un passo in una nuova direzione, si inventa un format» che chiama in primo piano gli intellettuali perché si mettano in gioco come protagonisti, interpreti di sé stessi nell’atto di intervistare chiunque avessero sognato. «In sostanza è questa irruzione dell’autore sulla scena sonora, con la carica di ambiguità del suo personaggio-scrittore, a fare delle interviste una commedia dalle infinite possibilità», dove nulla è come sembra e anche l’autore in veste di sé stesso è pura dissimulazione. «Le singole gesta impastate al tessuto storico diventano segni confusi, farseschi: l’intervistatore procede con le sue domande, ma in fondo riflette di sé e del proprio presente di fronte allo specchio del passato»[30].

Il merito di aver “reclutato” alcuni tra i più importanti scrittori del momento, scrive Pavolini, è da attribuire soprattutto a Roberta Carlotto, che, forte della sua precedente esperienza editoriale presso la casa editrice Feltrinelli, riuscì a ottenere le prime decisive adesioni, che a ruota si tirarono dietro le altre: Vittorio Sermonti, Andrea Camilleri (allora ancora giovane regista e autore), gli attori Carmelo Bene e Paolo Bonacelli, cui di lì a poco si aggiunsero Italo Calvino e Umberto Eco, poi Manganelli, Malerba, Sanguineti, Arbasino, Bellonci, Sciascia, Squarzina e molti altri ancora.

Sermonti, oltre a scrivere e a dirigere alcune interviste, prestò la voce all’intervistatore della prima intervista impossibile scritta da Calvino, quella all’Uomo di Neanderthal[31], andata in onda su Rai Radio Due il 25 luglio del 1974[32].

Schivo come sappiamo a microfoni e telecamere, Calvino all’inizio non si adattò facilmente all’idea di incidere l’intervista con la propria voce e, soprattutto, di interpretare il ruolo da lui scritto; tuttavia «Roberta Carlotto riportò indietro dalla» sua «residenza a Roccamare» una dichiarazione che ebbe la funzione di prologo perfetto per la scenetta radiofonica. Dopo un quasi provocatorio «Uno, Ciak» lo ascoltiamo affermare: «Devo avvertire che la voce dell’intervistatore non è la mia. Perché, tra l’intervistatore e l’intervistato, mi sarebbe venuto caso mai più da indentificarmi con l’intervistato che con l’intervistatore»[33]. La scelta di montare anche questo backstage radiofonico si deve a Sermonti, che volle allegare la dichiarazione di Calvino «in testa all’intervista» e «lo fece in maniera molto autentica, conservando ogni parola del “fuori onda”»[34].

Il tema dell’intervista realizzerebbe un giovanile progetto drammaturgico di Calvino, prospettato in una lettera a Eugenio Scalfari del 27 marzo 1942, in cui lo scrittore immagina come protagonista «il primo genio dell’umanità, l’iniziatore dell’impari lotta, il primo ad affidare alla terra un seme per cogliere il frutto della pianta ventura, il primo a sfidare la corrente su un tronco d’albero, il primo a radunare i suoi simili in un branco e a dare a questo branco la prima legge»[35].

Con la leggerezza e la comicità che contraddistinguono questa intervista, Calvino va molto oltre questo iniziale soggetto teatrale, poiché amplia la riflessione sulla condizione umana, sulla natura e sui confini tra uomo e animale:

ogni cultura ha sempre avuto la tendenza a tracciare dei confini all’interno dell’uomo tra soggetto e oggetto umano e animale, regola morale e legge scientifica, razionale e empirico, animale immortale e corpo mortale. Confine che passando dall’individuo al genere diventa quello tra civilizzato e selvaggio, tra «noi» (la gente come noi!) e «gli altri» (ricorrentemente visti come mostri, cannibali, creature selvatiche cui non spetta il nome di uomo) [36].

Poco a poco che l’uomo da animale avanza in consapevolezza, i pensieri e il linguaggio proiettano nello scorrere del tempo la realtà che va prendendo forma, i confini si allargano, le potenzialità si attuano e il moto degli eventi prende una strada piuttosto che un’altra. Pertanto Calvino nega al corso dell’evoluzione «la neutralità scientifica», poiché è all’uomo primitivo e ai suoi «schemi d’aspettativa» che si deve il progredire della conoscenza umana in una direzione piuttosto che in un’altra:

la neutralità scientifica dell’osservatore è sempre relativa, perché gli «schemi d’aspettativa» hanno un ruolo in ogni processo di conoscenza, non solo ma anche nella percezione sensoriale, per il modo come sono costruiti gli organi di senso. Dunque il nodo animale uomo è qui studiato nei condizionamenti dell’esperienza da parte del linguaggio da un lato e dell’eredità genetica dall’altro[37].

Ciò significa anche che il linguaggio è in grado di riflettere solo alcuni aspetti della realtà, soprattutto quelli collegati all’esperienza, che vengono quindi catalogati e rappresentati dal pensiero.

Nel dialogo fittizio realizzato da Calvino con l’intervista impossibile all’Uomo di Neanderthal, lo scrittore può vivamente mettere in scena proprio questa funzione generatrice del linguaggio, che appare tanto elementare nel primitivo perché al principio dell’autocoscienza: il processo è colto nella fase di iniziale raccolta dei dati sensibili, nell’atto di dare una prima forma di senso al fluire continuo e inarrestabile della realtà. Solo il linguaggio letterario può essere in grado di creare un piccolo miracolo altrimenti “impossibile”, grazie al quale si può così assistere al processo linguistico dell’uomo primitivo che sta creando la propria realtà.

E questo è anche il nodo che di nuovo ci riporta alle tante dicotomie rappresentate nella scrittura di Calvino tra mondo reale e mondo percepito, tra mondo non scritto e mondo scritto, tra realtà e finzione, tra percezione e immaginazione, e che in qualche modo restituiscono letterariamente la relatività dell’oggetto percepito rilevata dalla fisica quantistica[38].

Ed ecco allora che l’intervista impossibile all’Uomo di Neanderthal si pone come alternativa alla forma saggistica per rileggere la storia dell’evoluzione umana in chiave dialogica che, come dichiara Calvino pochi mesi prima dell’intervista, sembra più confacente «allo stato di consistenza» delle sue idee[39]; luogo ideale e paradossale, in cui poter far valere le ragioni del primitivo sull’uomo moderno, che si crede depositario di un sapere oggettivo e il cui sguardo sulla realtà è certamente più scientifico, ma non per questo più “ampio”. È proprio Neanda, simpaticamente così appellato dal saccente intervistatore, che con un eloquio elementare e di tanto in tanto scorretto dimostra la sua “paternità” sull’uomo di oggi, dipinto come una sua costola:

da quando ho visto che tenevo la pietra nella mano e ci davo dei colpi, così, oppure così, allora quello che posso fare con le pietre lo posso fare con tutto, con i suoni che mi escono dalla bocca, posso fare dei suoni così, a a a, p p p, gn gn gn, e allora non smetto più di fare suoni, mi metto a parlare, a parlare e non la smetto più, mi metto a parlare di parlare, mi metto a lavorare delle pietre che servono a lavorare delle pietre, e intanto mi viene da pensare, penso a tutte le cose che potrei pensare quando penso, e mi viene anche voglia di fare qualcosa per far capire agli altri qualcosa […] chissà cosa ti credi di avere tu che non ci avevo io, non mi mancava proprio niente, tutto quello che è stato fatto dopo già lo facevo io, tutto quello che è stato detto e pensato e significato c’era già in quello che dicevo e pensavo e significavo, tutta la complicazione della complicazione era già lì, basta che io prendo questo ciottolo con il pollice e il cavo della mano e le altre quattro dita che ci si piegano sopra, e già c’è tutto, ci avevo tutto quello che poi si è avuto, tutto quello che poi si è saputo e potuto ce lo avevo non perché era mio ma perché c’era, perché c’era già, perché era lì, mentre dopo lo si è avuto e saputo e potuto sempre un po’ meno, sempre un po’ meno di quello che poteva essere, di quello che c’era prima, che avevo io prima, che ero io prima, davvero io allora c’ero in tutto e per tutto, mica come te, e tutto c’era in tutto e per tutto, tutto quello che ci vuole per esserci in tutto e per tutto, […] cosa ti credi di essere, cosa ti credi di esserci e invece non ci sei, se ci sei è solo perché io sì che c’ero[40].

Con l’umorismo e la leggerezza che lo contraddistinguono, Calvino traduce in questo sgrammaticato soliloquio di Neanda il pensiero filosofico di Wittgenstein, secondo cui l’esperienza crea il pensiero, l’uomo diventa sempre più consapevole e traduce linguisticamente la sua realtà, che si attua e si sviluppa così come la si pensa[41].

Il format dell’intervista impossibile permette a Calvino di esprimersi coerentemente con il suo sguardo umoristico, che è anche impronta della sua poetica: può quindi non prendersi troppo sul serio e considerare la precarietà del tutto, che fa scaturire un punto di vista straniato e disincantato, senza rinunciare tuttavia a una perenne e socratica curiosità.

Il gioco che trova il suo spazio in questo genere di scrittura radiofonica risponde perciò, a nostro avviso, ai canoni poetici dello scrittore, che qui non ha necessità di ricorrere ad artifici retorici e narratologici per ottenere effetti stranianti, esiti paradossali, sdoppiamento e inversione del punto di vista che è il plot stesso a consentirgli:

Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dir quella cosa e solo quella; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio. L’ironia ariostesca, il comico shakespeariano, il picaresco cervantiano, lo humor sterniano, la fumisteria di Lewis Carroll, di Edgar Lear, di Jarry, di Queneau valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge una specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto[42].

Nello scambio di battute artificioso e surreale tra intervistato e intervistatore Calvino si diverte a dissimulare e a nascondere la mano dell’autore, che si finge alternativamente nell’uno e nell’altro e che quindi, sdoppiandosi, si annienta al punto di svanire e con lui la sua presunzione di essere «espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime, l’autore come utente di organi sensori e interpretativi più ricettori della media, l’autore questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali»[43]. In qualità di autore, dunque, Calvino si tira indietro fin dall’inizio, chiedendo a Sermonti di recitare la parte dell’intervistatore che sarebbe dovuta toccare a lui e, in questo modo, evita qualsiasi tentazione di immedesimazione per procedere a demolire la credibilità dell’uomo moderno a vantaggio di quella del primitivo, il quale, anche se più vicino all’animale, o forse proprio per questo, e quindi in una fase antecedente lo sviluppo del linguaggio, è già in potenza tutto ciò che potrà diventare. È a lui, alla sua lettura del mondo esperienziale che si devono tutti gli sviluppi storici successivi, così come nel mondo letterario è al lettore che si deve la vera fase creativa del testo: in Cibernetica e fantasmi Calvino sostiene di fatto che, una volta smontato il congegno compositivo alla base della creazione letteraria, si comprende che l’opera nasce alla vita attraverso la lettura. Secondo questa visione che sposta l’asse di attenzione dal creatore al fruitore[44], scrive Calvino provocatoriamente, anche l’opera letteraria di una macchina potrà paradossalmente sostituire quella dell’autore e potrà «continuare a essere un luogo privilegiato della coscienza umana, un’esplicitazione delle potenzialità contenute nel sistema dei segni d’ogni società e d’ogni epoca: l’opera continuerà a nascere, a essere giudicata, a essere distrutta o continuamente rinnovata al contatto dell’occhio che legge»[45].

Sebbene l’idea della macchina in grado di sostituire la mano creatrice dell’autore appaia come una delle premonizioni dello scrittore e oggi, in pieno dibattito etico ed estetico sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale, tenti di sviare il nostro discorso su questo così attuale e interessante focus tematico, ciò che invece vogliamo sottolineare è l’intenzione espressa qui da Calvino di demolire l’idea di un autore eletto, che possa farsi maestro degli altri, a vantaggio di un concetto di letteratura come mondo in cui non si danno risposte, bensì luogo privilegiato dell’umano interrogarsi.

In questa prospettiva estetica, se nella narrativa calviniana il canale ricettivo è certamente quello visivo, sul piano della scrittura radiofonica, teatrale e musicale Calvino si sposta definitivamente verso il percorso sensoriale uditivo:

Il fatto è che, nella sua stessa paradossale astrattezza ed esprit de géométrie, nella sua impagabile ritrosìa nei confronti della dura oggettività, possiamo intendere Calvino come autore acutamente sensoriale, pur se ‘cerebralmente’ sensoriale […]. Ma resta singolare che il suo percorso così acutamente visivo (la vista resta, per lui, fra i sensi, quello privilegiato) si suggelli, di fatto, sulla dominante dell’ascolto […]. Il fatto è che fin dall’esordio fulminante della sua vasta, polifonica narrativa, la voce e dunque l’udito (che – a dirla con Barthes – non è l’ascolto, ma di certo ne è la condizione) rivela la propria forza germinale, capace di creazione e trasformazione […][46].

Sia nella canzone sia nel plot dell’intervista impossibile l’autore tende a eclissarsi a vantaggio della “leggerezza” e della “rapidità”[47], servendosi di un mezzo ricettivo basato sull’ascolto: in Cantacronache la mano dello scrittore si assottiglia nella “scarnezza” della canzone pensata per una precisa funzione sociale raggiunta grazie al rivestimento musicale, all’interpretazione vocale e alla chiave favolistica direttamente indirizzati al pubblico degli ascoltatori; nel programma radiofonico egli si vota all’insussistenza e all’invisibilità (altro tema calviniano), celandosi dietro l’umorismo e il travestimento scenico di un’intervista che, per sua stessa denominazione, non può che configurarsi come “impossibile”.

  1. I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, voll. I e II, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 1865-75: 1869; prima edizione in «Lettera internazionale», II, 4-5, marzo 1985-luglio 1985, pp. 16-18.
  2. I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Saggi. 1945-1985, op. cit., vol. 1, pp. 9-27: 21-22; prima edizione in «Paragone. Letteratura», VI, 66, giugno 1955, pp. 17-31.
  3. I. Calvino, I racconti, Torino, Einaudi, 1958, successivamente in Id., Gli amori difficili, in Id. Romanzi e Racconti, vol. II, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, pp. 1073-180; Id., Cantacronache, n. 2, Torino, Edizioni Italia Canta, 1958, successivamente in Id., Testi per musica, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., vol. III, pp. 635-771; Id., La panchina. Opera in un atto, Torino, Tipografia Toso, 1956, successivamente in Id., Testi per musica cit., pp. 655-72.
  4. C. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, Milano, Unicopli, 2014, pp. 23-27.
  5. «Nel documentario breve La marcia per la pace (Glauco Pellegrini, 1961, commento di Gianni Rodari) Calvino è alla testa del corteo insieme a Irpino, mentre in sottofondo si riconoscono le strofe di Dove vola l’avvoltoio»: G. Ciancamerla, Davanti alla macchina da presa: gli interventi cine-televisivi di Italo Calvino, in «Studium», CXIX, n. 4, 2023, pp. 145-91, p. 164.
  6. C. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., p. 27.
  7. Ivi, p. 28.
  8. Ibidem: la citazione è di Emilio Jona.
  9. Ivi, p. 88.
  10. I. Calvino, Dove vola l’avvoltoio?, in Id., Testi per musica cit., pp. 639-40.
  11. I. Calvino, Ultimo viene il corvo, in Id., Romanzi e Racconti cit., vol. I, pp. 149-364 (le pagine fanno riferimento alla silloge di racconti che prende il titolo dal racconto omonimo pubblicato da Calvino per la prima volta sull’«Unità» nel 1947 e poi entrato ovviamente a far parte della raccolta).
  12. I. Calvino, Dove vola l’avvoltoio?, op. cit., p. 638.
  13. Cfr. C. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., p. 89; S. Ferrari, La letteratura incontra la canzone. Testi per musica di Italo Calvino e Franco Fortini per il collettivo Cantacronache, in «Incontri. Rivista Europea di Studi Italiani», 1, 2011, pp. 40-59: 46-47n.
  14. Cfr. C. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., p. 125.
  15. «Se fabbriche e operai occupano poco posto come paesaggio e personaggi nella storia letteraria, non si può dimenticare quale posto imponente hanno come paesaggio e personaggi della storia delle idee degli ultimi cento anni» (incipit del saggio La tematica industriale in I. Calvino, Saggi. 1945-1985 cit., pp. 1765-69: 1765 (I ed. in «Il menabò di letteratura», 5, 7 luglio 1962, pp. 18-21).
  16. Cfr. C. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., p. 125.
  17. Il racconto L’avventura di due sposi risale al 1958 (prima edizione in I. Calvino, I racconti cit., pp. 394-97). Cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti cit., vol. II, pp. 1161-65; la Canzone triste esce per la prima volta in Cantacronache sperimentale, Torino, Italia Canta, 1958, subito dopo in 13 canzoni 13. Cantacronache n. 2, Torino 1958, ora in I. Calvino, Romanzi e racconti cit. vol. III, p. 637.
  18. I. Calvino, Testi per musica cit., vol. III, p. 637.
  19. S. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., p. 45.
  20. Cfr. R. Deidier, Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Milano, Guerini e associati, 1995, in una successiva edizione con l’aggiunta del sottotitolo Miti, fiabe immagini di Italo Calvino, Palermo, Sellerio, 2004.
  21. M. Bisi, Condizionale, ipotetico, disgiuntivo: ipotassi del desiderio e ispessimento del linguaggio ne “Gli amori difficili” di Italo Calvino, in «Studium», CXIX, n. 4, 2023, pp. 60-100: 68.
  22. Ibidem.
  23. Cfr. G. Privitera, Calvino et les «Cantacronache». Une nouvelle redessinée et mise en musique, in La plume et le crayon. Calvino, l’écriture, le dessin, l’image, in «Itales», 16, 2012, pp. 583-95: 588.
  24. S. Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, op. cit., pp. 45-46.
  25. G. Privitera, Calvino et les «Cantacronache». Une nouvelle redessinée et mise en musique, art. cit., p. 588: «Calvino sfrutta appieno il disegno geometrico della forma canzone per attuare un gioco combinatorio, incentrato sulla successione tra strofa e ritornello, su simmetrie e opposizioni».
  26. I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., p. 1869.
  27. I. Calvino, L’utopia pulviscolare, in Id., Una pietra sopra, op. cit.; successivamente in Id., Saggi 1945-1985 cit., vol. I, p. 310. Cfr., sul concetto di evasione e utopia in Se una notte d’inverno un viaggiatore, S. Ritrovato, Intorno a “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Appunti e disappunti sull’infinito “possibile” della letteratura, in «Studium», CXIX, 2023, pp. 26-59.
  28. La citazione di D’Amico è contenuta nell’Introduzione a Le interviste impossibili, a cura di L. Pavolini, Roma, Donzelli, 2006, p. XII.
  29. Ivi, p. IX.
  30. Ivi, p. X.
  31. I. Calvino, L’uomo di Neanderthal, in Id., Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 177-85. L’intervista andò in onda su Rai Radio Due il 25 luglio 1974 con la voce e la regia di Vittorio Sermonti come intervistatore e Paolo Bonacelli nel ruolo di Neanda (per ascoltarla: https://www.raiplaysound.it/audio/2020/05/Le-interviste-impossibili–Italo-Calvino-incontra-lUomo-di-Neanderthal-d45a75e2-410e-4c70-a2aa-67e69b2ad34d.html).
  32. In questo lavoro ci soffermeremo soltanto su questa intervista impossibile, sull’altra intervista scritta da Calvino e trasmessa nel programma, l’intervista a Montezuma. Cfr. in questo fascicolo di «Diacritica» i saggi di B. Mellarini, Calvino e il mito, tra presa di distanza e attualizzazione e di I. De Michelis, “Senza rive né confini”: cronotopi apocalittici in Italo Calvino.
  33. Le interviste impossibili, op. cit., p. XV.
  34. Ibidem.
  35. L’ipotesi è avanzata da E. M. Ferrara, Calvino e il teatro. Storia di una passione rimossa, Berna, Peter Lang, 2011, p. 77.
  36. I. Calvino, Palomar e l’enciclopedia, in Id., Saggi. 1945-1985 cit., vol. II, pp. 1797-1800.
  37. Ibidem.
  38. «– Il mondo non esiste, – Faust conclude quando il pendolo raggiunge l’altro estremo, – non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un senso e s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma; come le settantotto carte del mazzo di tarocchi nei cui accostamenti appaiono sequenze di storie che subito si disfano. […] Mentre questa sarebbe la conclusione (sempre provvisoria) di Parsifal: – Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao, – e indica il rettangolo vuoto circondato dai tarocchi»: I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, successivamente in Id. Romanzi e Racconti, vol. II, op. cit., pp. 499-610: 589. Sul concetto in Calvino di Universo come manifestazione di infinite combinazioni e come possibilità cfr. S. Ritrovato, Intorno a “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. Appunti e disappunti sull’infinito “possibile” della letteratura, art. cit.
  39. «Lo stato di consistenza delle mie idee oggi mi porta a preferire al genere saggio […] il genere dialogico»: Italo Calvino a Edoardo Sanguineti, Parigi, 5 febbraio 1974, in I. Calvino, Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2001; nuova ediz. riveduta e ampliata, Milano, Mondadori, 2023, p. 800.
  40. I. Calvino, L’uomo di Neanderthal cit., pp. 184-85.
  41. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1979 e in questo fascicolo di «Diacritica» il saggio di Daniel Raffini, Italo Calvino e l’estetica dell’intelligenza artificiale: giochi linguistici, morte dell’autore e teoria della ricezione.
  42. I. Calvino, Definizioni di territori: il comico, in Id., Saggi. 1945-1985 cit., vol. I, pp. 197-98; prima edizione in «Il Caffè», XIV, n. 1-2, febbraio 1967.
  43. I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Id., Saggi. 1945-1985 cit., vol. I, pp. 205-25: 216; prima edizione in «Le conferenze dell’Associazione culturale italiana», XXI, 13 aprile 1968, pp. 9-23.
  44. Del resto il miliéu critico letterario europeo accoglieva e rielaborava proprio in quegli anni le teorie formaliste e strutturaliste nell’ambito della semiotica e della teoria della ricezione di Barthes (La mort de l’auteur, 1967) e guardava appunto alla ricezione come fase di vivificazione del testo, mostrando un legame di continuità con la linguistica e la semiotica strutturale.
  45. I. Calvino, Cibernetica e fantasmi cit., pp. 215-16.
  46. T. Pomilio, Scrittura dell’ascolto: Calvino in Berio, in Le théâtre musical de Luciano Berio, a cura di G. Ferrari, Tome 2, Paris, L’Harmattan, 2016, pp. 117-43: 137-38.
  47. Il concetto di “Rapidità” descritto nelle Lezioni americane corrisponde a un’idea di condensazione del racconto che trova la sua naturale realizzazione in questo tipo di scritture (la canzone e l’intervista radiofonica) che sono per natura “brevi” ma semanticamente molto dense; cfr. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, in Id., Saggi. 1945-1985 cit., pp. 627-733.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Calvino e il paesaggio sanremese. La lettura anarchica di Piero Ferrua

Author di Cecilia Spaziani

Chissà quale sarebbe stato il modo migliore per parlare di lui, degli anni formativi, del battesimo del fuoco, dei debutti, delle scorrazzate sanremesi! Questo proto-Calvino per noi inizia il 2 ottobre 1925, data del suo arrivo a San Remo da Cuba, e si conclude il 7 luglio 1949 quando lo scrittore elegge residenza nel comune di Torino, cessando di essere sanremese e diventando universale.

Di San Remo non aveva più bisogno: la sua retina, la sua mente, il cuore ne erano imbevuti per sempre[1].

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(fasc. 53, 25 agosto 2024)