L’enciclopedia greca del “Tiresia” di Giuliano Mesa

Author di Elisabetta Perissinotto

Oggi, più nessuna ricerca di creatività, né di originalità, assilla il filologo o il critico che si accosti a un autore, antico o moderno che sia. Si dà infatti per acquisito che la letteratura è sempre e solo leggibile “al secondo grado”, quale metaforico “palinsesto”. (M. G. Bonanno)[1. M. G. Bonanno, L’allusione necessaria: ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990.]

 

1. Si intitola Tiresia l’opera più nota e interessante del poeta Giuliano Mesa, recentemente scomparso[2. Giuliano Mesa nasce nel 1957 a Salvaterra (RE), comincia la sua attività poetica nel 1973. La sua attività pubblica si interrompe nel 2009, per una grave malattia. Muore nel 2011, un anno dopo la pubblicazione della sua opera completa (La Camera Verde).]. Nel variegato e spesso confuso panorama della poesia contemporanea il profilo di questo autore si staglia con nettezza: «Mesa non ha dissolto il concetto di verità in una semplice accoglienza nei confronti della venuta dell’altro, ma ha preteso che la poesia dicesse quel che il linguaggio ordinario non sembra più in grado di dire: non la verità dell’oggetto, ma la verità dell’evento, una verità etica. Nell’indistinzione ontologica dei fatti, la scrittura punta a risemantizzare con cura le tessere del linguaggio per restituirle a una nuova vita relazionale, etica»[3. P. Zublena, Per Giuliano Mesa, in «leparoleelecose»: http://leparoleelecose.it (ultima consultazione: 25/08/2016).]. Sebbene, data la complessità dell’opera, risulti auspicabile pubblicarne un commento esaustivo, in questa sede ci si limita a compierne un’analisi, pur sistematica, concentrando l’attenzione sul momento “allusivo” del testo. Considerato «che relazioni strette e vincolanti, quanto quelle che esistono tra un modello e un rifacimento, possono darsi anche a proposito di testi fra i quali non è provato alcun rapporto diretto»[4. M. G. BONANNO, La lettura del filologo, in Graeca Tergestina. Praelectiones Philologiae Tergestinae, Trieste, EUT, 2014, p. 21.], si possono cercare connessioni tra le parole scelte dal poeta e parole di altri poeti: per il loro stretto apparentamento e per la loro caratteristica di vincolare il lettore a un’interpretazione che si impone su altre possibili. Si tenterà di mettere a tema, con le parole di Conte, «l’ambivalenza della parola artistica, nel senso – orizzontale – che tale parola contiene l’autore e sa di avere un lettore, e nel senso – verticale – che include in sé, come momento necessario, il rapporto verso la (precedente) parola altrui»[5. G. B. CONTE Memoria dei poeti e sistema letterario, Palermo, Sellerio, 2012, p. 14.].

Nel caso specifico la scelta, tra le tante possibili e giustificabili, cade sull’eco prodotta dalle letterature antiche, con particolare riferimento a quella greca e a quella ebraica (biblica). Mesa stesso sembra indicare questa strada: la ripresa di Callimaco è esplicita e i temi del profetismo, dell’apocalittica e della letteratura sapienziale appaiono strettamente legati all’impronta etica impressa nella poesia di Mesa[6. La passione e la dedizione verso lo studio del greco e dell’ebraico sono confermate dai sodali di Mesa, G. A. Semeraro e il prof. L. Severi, che ringrazio sentitamente.]. «L’allusività opera (…) con l’indispensabile cooperazione del destinatario, nell’attimo in cui scatta il meccanismo del riconoscimento»[7. M. G. Bonanno, L’allusione necessaria: ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, op. cit., pp. 18-25.]. Il concetto di “ispirazione”, per come viene inteso dalla dogmatica cattolica, non può essere qui produttivo; il riferimento al divino presente nei testi vetero e neotestamentari verrà in questa sede equiparato alla «costante e inveterata tradizione dei Greci, da Omero alla più tarda età imperiale, che il poeta ricevesse ispirazione dalle Muse o da qualche altro dio (ad esempio Apollo o Dioniso) a cui attribuiva la responsabilità dell’enthousiasmos che lo provvedeva della competenza sui contenuti della sua poesia»[8. M. Fantuzzi, R. Hunter, Muse e modelli. La poesia ellenistica da Alessandro Magno ad Augusto, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 3.].

 

TIRESIA
oracoli, riflessi
(22 luglio 2000-24 gennaio 2001)

 

«devi tenerti in vita, Tiresia,

è il tuo discapito»

2. Al titolo del poemetto, Tiresia, nome del personaggio-simbolo, segue un sottotitolo che suggerisce una suddivisione, anche formale, delle poesie: oracoli e riflessi. All’“oracolo”, coincidente con lo svolgersi lirico del racconto, segue il “riflesso”, tipograficamente evidenziato dal corsivo, che rappresenta la riflessione espressa nella forma dialogica, alla seconda persona singolare. Quanto all’epigrafe, molti critici propongono l’accostamento con The Waste Land di T. S. Eliot, in cui l’indovino, quando compare, sembra rappresentare una sorta di alter-ego del poeta. Tiresia, che (benché cieco) ha visto tutto e dunque sa, in Eliot ha funzione di narratore disincantato; Mesa sembra invece attribuirgli un ruolo più vicino al monito che alla disperazione.

Rispetto alle cause (e al conseguente valore simbolico) della cecità, Tiresia fu privato della vista – secondo un filone mitico – da Era; secondo un’altra tradizione, invece, sarebbe stata Atena ad averlo reso cieco dopo essere stata vista da lui nuda. È questa la versione scelta da Callimaco nell’Inno V Per i lavacri di Pallade. In tutte le tradizioni l’acquisizione di facoltà divinatorie viene associata a un’azione compensatoria per la vista perduta: a quella dei sensi si sostituisce dunque una “vista” di altra natura. Particolarmente interessante sembra essere la citazione di Callimaco (παιδὸϛ δ᾽ ὄμματα νὺξ ἔλαβεν) esplicitata nelle Note. Non sembra che qui sia rilevante la dimensione della doppia appartenenza di genere (ad esempio, in Ovidio) né che venga descritto con le tinte fosche tipiche di certe riprese, a partire da Stazio (passando per la Commedia fino ad Ariosto); nei versi callimachei Tiresia è presentato come giovane e poco avveduto: «Tiresia oltrepassa la soglia tra il divino e l’umano in un momento “magico”, vedendo il corpo della dea nuda. L’aggettivo σχέτλιοϛ (‘sciagurato’) sottolinea ambiguamente la sostanza della sua colpa, peraltro esplicitamente svincolata da ogni intenzionalità»[9. Callimaco. Opere, a cura di G. B. D’Alessio, Milano, BUR, 1997, p. 183, nota 23.]. La sottolineatura più forte sembra essere quella connessa ai doni che Pallade fa al figlio della ninfa amica (mantica, longevità) a compensazione di ciò che a lui veniva tolto dall’applicazione delle dure leggi divine (antecedenti addirittura al regno di Zeus: Κρόνιοι δ΄ὧδε λέγοντι νόμοι, ‘così dicono le leggi di Crono’[10. Callimaco, Inni, V, 100.]). Esiste, infine, un interessante rapporto tra le modalità con cui Tiresia diventa a un tempo cieco e indovino e alcuni elementi rituali annessi all’ispirazione divina del poeta nella Grecia antica.

3.1 Si passa ora all’analisi delle liriche, ovvero Oracoli. Si tenterà di dare un breve inquadramento stilistico-formale di ognuna di esse, propedeutico all’analisi intertestuale.

 

I. ornitomanzia. la discarica. Sitio Pangako

vedi. vento col volo, dentro, delle folaghe.
vedi che vengono dal mare e non vi tornano,
che fanno stormo con gli storni neri, lungo il fiume.
guarda come si avventano sul cibo,
come lo sbranano, sbranandosi,
piroettando in aria.
senti come gli stride il becco, gli speroni,
che gridano, artigliando, facendo scaravento, in muta,
ascoltane la lunga parata di conquista, il tanfo,
senti che vola su dalla discarica, l’alveo,
dove c’è il rigagnolo del fiume,
l’impasto di macerie,
dove c’è la casa dei dormienti.
che sognano di fare muta in ali
casa dei renitenti, repellenti,
ricovero al rigetto, e nutrimento, a loro,
scaraventati lì chissà da dove,
nel letame, nel loro lete, lenti,
a fare chicchi della terra nuova,
gomitoli di cenci, bipedi scarabei
che volano su in alto, a spicchi,
quando dall’alto arriva un’altra fame.

prova a guardare, prova a coprirti gli occhi.

 

Il primo oracolo, Ornitomanzia, procede con un andamento ritmico incalzante all’inizio, per rallentare successivamente in corrispondenza delle parole sdrucciole, a marcare il movimento delle «fòlaghe», che «vèngono/ (non) tòrnano»; alcune allitterazioni conferiscono all’incipit un’atmosfera sofferta, greve, aumentata da un’insistenza sulla vocale scura[11. È superfluo notare il debito nei confronti di Montale (si pensi, ad esempio, a L’anguilla).]. Il gioco delle allitterazioni aumenta, nei vv. 7 e 8, creando fonosimbolismo in gli stride/gli speroni/artigliando, ma anche nello stridere delle sibilanti iniziali nei nessi str-, sp-, sc-. L’anafora dei verbi all’imperativo ha, tra le altre, anche una caratterizzazione sillabica: 1, 2, 4, 7, 10 (vedi, vedi, guarda, senti, senti) sono bisillabi piani, mentre al v. 9 «ascòltane» si presenta come composto di quattro sillabe e con l’accento che cade sulla terzultima, creando un verso che frange il ritmo. Le cose che devono essere ascoltate sono due: una lunga parata (con l’orecchio si può forse cogliere il martellante procedere «di conquista») e «il tanfo», con evidente sinestesia. Il verso è decisamente marcato, tanto da far pensare a una funzione di “cerniera” tra la prima parte che prepara l’ambientazione e che annuncia la drammaticità della scena, facendo un’accurata descrizione del comportamento delle folaghe e una seconda parte in cui si introduce la ragione per cui la rapacità degli uccelli che cercano cibo procurerà orrore nel lettore. È il tanfo a costituire il passaggio ad altro ambito sensoriale, che fa da sipario. L’insistenza sul “vedere” e sul “sentire” va ripensata passando attraverso l’olfatto, tra tutti i sensi quello forse più vicino alla nostra parte primordiale. L’odore disgustoso prepara all’orrore. Viene così introdotta la presenza degli esseri umani. La discarica è un ambiente artificiale, creato dall’uomo. I protagonisti sono definiti «dormienti», «renitenti» e «repellenti»: pur con la staticità e l’immobilismo del dormire – per il solo fatto di essere là, nella discarica – esercitano un’azione di “ribellione”. Risultano non inquadrabili, creano resistenza alla codificazione all’interno di una “normalità” che appare tale ad altri, che stanno altrove, che per questi esseri umani finiscono per provare repulsione; il «loro lete, lenti» non ha solo un valore fonosimbolico, la reiterazione qui crea quasi una filastrocca: è possibile che ci sia un riferimento al fiume Lete, fiume dell’oblio, in connessione evidente col ruolo del poeta che ricorda, ammiccamento alle Muse e a Mnemosyne. I «bipedi scarabei» sono gli esseri umani che si snaturano fino a sembrare insetti: l’espressione crea un effetto straniante attraverso l’impiego di un ossimoro, per il fatto che nessun insetto è bipede. E nessun uomo un insetto.

Col v. 23 si passa da un oracolo a un riflesso: «prova a guardare, prova a coprirti gli occhi». Un ulteriore imperativo, rivolto a Tiresia ma forse nel contempo anche al lettore, quasi una sorta di litania rituale, con la possibilità di risemantizzare il gioco sul vedere/occhi/cecità in termini di «sacralità dell’evento orribile e della sua evocazione con funzione di coinvolgimento del lettore, con implicito riferimento a descrizioni analoghe presenti nei nostri testi sacri o mitologici»[12. D. Barbieri, Il vincolo e il rito. Riflessioni sulla (non) necessità della metrica nella poesia italiana contemporanea, in «Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», n. 16, 2014, p. 20.].

Callimaco associa alla perdita della vista i doni della dea, tra cui quello della divinazione: «Tiresia primeggerà nei due tipi di divinazione, la tecnica dell’interpretazione del volo degli uccelli e la conoscenza ispirata dei piani divini»[13. Callimaco. Opere, a cura di G. B. D’Alessio, op. cit., p. 189, nota 32.]. Sofocle, nel Quinto Episodio dell’Antigone, presenta un monologo in cui Tiresia si rivolge a Creonte e per dare i suggerimenti in merito alla situazione che preoccupa la città descrive il volo degli uccelli, in base al quale darà il proprio consiglio a Creonte:

 

γνώσῃ, τέχνης σημεῖα τῆς ἐμῆς κλύων.
εἰς γὰρ παλαιὸν θᾶκον ὀρνιθοσκόπον
ἵζων, ἵν᾽ ἦν μοι παντὸς οἰωνοῦ λιμήν,
ἀγνῶτ᾽ ἀκούω φθόγγον ὀρνίθων, κακῷ
κλάζοντας οἴστρῳ καὶ βεβαρβαρωμένῳ.
καὶ σπῶντας ἐν χηλαῖσιν ἀλλήλους φοναῖς
ἔγνων·[14. Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, traduzione e note a cura di E. Savino, Milano, Garzanti, 2014, p. 286.]

(Lo saprai, se ascolti i segni dell’arte mia. Sedevo sull’antico seggio da dove scruto gli uccelli, approdo per me di ogni alato, quando odo un ignoto frastuono, un clamore sinistro, furioso, incomprensibile. Mi accorgo allora che si dilaniano l’un l’altro con artigli assassini)[15. Sofocle, Antigone, traduzione di M. Cacciari, Torino, Einaudi, 2007, p. 28.].

 

Quasi impossibile non “sentire” nei verbi scelti da Mesa («sbranano, sbranandosi (…) artigliando») l’eco degli «artigli assassini» degli uccelli con cui fa mantica il Tiresia di Sofocle. Anche in quella situazione drammatica il ruolo del profeta che deve consegnare il proprio scomodo messaggio viene preceduto dall’evocazione di un’inquietante scena di uccelli dal sinistro clamore. In questo caso Sitio Pangako (che per ironia della sorte o beffa della speculazione edilizia significa ‘Terra Promessa’) deve avere voce da chi ha visto: dopo aver guardato non si può più “coprirsi gli occhi”. La potenza degli uccelli è, nello stesso tempo, simbolo di forza distruttrice e fonte di ispirazione per la parola poetica e profetica.

La lingua greca conosce diversi modi per esprimere l’azione del vedere, cosicché si può asserire che il senso della vista conosce maggiori sfumature di quello dell’udito. Platone e Aristotele sembrano dichiararne la superiorità: il primo in Fedro, 250d («la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo»), il secondo nell’Introduzione di Metafisica I, I, 24 ss. («diamo, per così dire, alla vista la precedenza su tutto il resto»).

Al vedere come fatto fisico si connette quello della mente, che introduce la conoscenza (οἶδα: ‘ho visto = so’). Altre sfumature riguardano il vedere come ‘fare esperienza’ o ‘essere ammessi alla presenza di’. Una delle declinazioni più interessanti, ai fini del nostro discorso, di ὁράω ed εἶδον è quella del vedere in senso visionario-estatico-profetico, utilizzati anche dai LXX per rendere i termini ebraici rā’â ed ḥāzâ; anche nel Nuovo Testamento βλέπω indica la sensazione visiva in senso stretto, mentre ὁράω ed εἶδον indicano anche ‘il percepire’, ‘l’accorgersi’; a volte uno dei tanti termini connessi col vedere viene utilizzato con valore di ‘testimonianza’, in qualche modo divenuta dovere di chi ha visto.

Non è semplice decidere quale delle numerose sfumature indicate abbia maggiormente peso nell’utilizzo che Mesa fa nei reiterati riferimenti al vedere. Anche la notevole frequenza di ὀφθαλμός in tutta la letteratura greca da Omero in poi e in quella biblica (circa 700 ricorrenze nei LXX) ne testimonia la grande intensità semantica; in Paolo, Ef 1, 17-18 («illuminare gli occhi della vostra mente»). Che l’invito («vedi») sia rivolto a un cieco non fa che spingere verso un’interpretazione non-fisica, nella direzione della presa di coscienza e della testimonianza, con evidenti riferimenti anche alla dimensione profetica della poesia.

 

II. piromanzia. le bambole di Bangkok

fumo. nugoli, sciami di guscî neri.
bruciano le mandorle degli occhi, le falene,
le dita piccole e incallite, le mani stanche, stanche.
bruciano, scarnite, a levigare guance,
i guscî gonfi delle palpebre
che si richiuderanno.
fumo portato via, che trascolora,
che porta via le guance, paffute, delle bambole,
le anche dondolanti, a fare il movimento di ripetere,
in altalena, in bilico di piede, che lenisce,
gioco che non finisce, mai,
che non arriva, mai,
tempo di ricordare, dopo,
di ritornare dove si era stati.
a fare il gioco del silenzio,
nel preparare doni, meraviglie, a milioni,
passate per le mani una ad una,
per farli scintillare, gli occhi stanchi,
tenerli aperti, sempre,
e quando arriva il fuoco, che sfavilla,
ecco, giocare a correr via,
gridando, ad occhi chiusi.

tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno.

 

3.2. Nel secondo oracolo del poemetto è fortemente presente l’elemento stilistico della ripetizione. L’oracolo è pervaso da un’atmosfera di persistenza, nel dondolio dei movimenti sempre uguali e nell’ineluttabilità della tragedia che non viene annunciata come qualcosa che sta per accadere, quanto piuttosto descritta a partire dal suo epilogo («fumo») e narrata in una sorta di flash-back con la descrizione per accenni dei gesti delle ragazze che fanno bambole. La parola «occhi» viene replicata tre volte, di cui una in relazione sintagmatica con un aggettivo, «stanchi», che nei primi versi viene ripetuto in raddoppiamento: «le mani stanche stanche». Le figure di ripetizione non sono terminate: possiamo notare un poliptoto ai vv. 7 e 8, «portato via (…)/ che porta via» e un’epifora ai vv. 12 e 13, «gioco che non finisce, mai/ che non arriva, mai» a cui peraltro fa eco per contrasto il v. 22, «tenerli aperti, sempre», in antitesi. Pur non essendoci versi in rima, risaltano alcune rime interne («ricordare/ ritornare»; «lenisce/ (…) finisce»; «doni (…) milioni»).

L’iterazione di parole e strutture sembra particolarmente interessante ai fini della ricostruzione di un possibile sfondo enciclopedico di Giuliano Mesa, soprattutto visto che «può diventare ripetizione in absentia del modello riprodotto (citazione; allusione; imitazione; parodia); può assumere i contorni di una traccia memoriale o la ritualità di formule (come nell’epica e in testi religiosi)»[16. Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, a cura di G. L. Beccaria, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 658-59.].

A proposito di parallelismo, più di qualche autore vi riconosce una struttura dominante nell’ambito della poesia, dato che caratterizza le varie occorrenze storiche: i parallelismi tecnici (per iterazione di colon) della poesia ebraica, le antifone della musica liturgica e il complesso della metrica greca, latina, italiana o inglese. Jakobson sviluppa il concetto per cui l’equivalenza del suono implica inevitabilmente equivalenza semantica. La poesia novecentesca sovrabbonda di processi parallelistici, così come si trovano vistose figure di simmetria, di iterazione, anche fuori del campo poetico e letterario, come nella pubblicità o negli slogan. Il riferimento al parallelismo testimonia ancora una volta l’esistenza di un fil rouge che attraversa la produzione di poesia nell’arco di millenni. Solo per fare un esempio, il parallelismo, considerato da A. Schökel

 

probabilmente il procedimento letterario più frequente e più conosciuto della poesia biblica, (…) si inserisce in questa radicale operazione di ‘articolazione’ del linguaggio. Abbiamo allora un’articolazione di suoni, un’articolazione sintattica, di campi semantici, di ritmo. Nell’articolazione dividiamo la continuità in pezzi o tasselli ricomponibili. In questo modo possiamo comprendere la continuità con maggiore precisione, individuarla con maggiore fedeltà e semplificarla in alcuni dei suoi elementi: soprattutto possiamo combinare questi elementi in gruppi diversi, generando la flessibilità del linguaggio, la caleidoscopica ricchezza del linguaggio della poesia[17. A. Schökel, Manuale di poetica ebraica, Brescia, Queriniana,1989, pp. 65 e sgg.].

 

Dal punto di vista lessicale vengono messe in campo le famiglie semantiche del “sapere” e del “dire/gridare”. La forma di mantica di questo secondo oracolo parla di un “vedere/sapere” attraverso il fuoco. Tiresia in Antigone:

 

εὐθὺς δὲ δείσας ἐμπύρων ἐγευόμην 1005
βωμοῖσι παμφλέκτοισιν· ἐκ δὲ θυμάτων
Ἥφαιστος οὐκ ἔλαμπεν, ἀλλ᾽ ἐπὶ σποδῷ
μυδῶσα κηκὶς μηρίων ἐτήκετο
κἄτυφε κἀνέπτυε, καὶ μετάρσιοι 1010
χολαὶ διεσπείροντο, καὶ καταῤῥυεῖς
μηροὶ καλυπτῆς ἐξέκειντο πιμελῆς[18. Sofocle, Antigone, 1005-1010, in Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, traduzione e note a cura di E. Savino, Milano, Garzanti, 2014, pp. 286-88.].

(Subito, preso dalla paura, osservo allora come bruciano le offerte sugli altari ardenti. Efesto non irradia dalle vittime, ma il grasso delle cosce marcisce colando sulla cenere, fuma e si spegne; le bili evaporano e le ossa grondanti escon fuori dalla carne che le avvolge)[19. Sofocle, Antigone, traduzione di M. Cacciari, ed. cit., p. 28.].

 

Il fuoco ha qui la funzione di rivelare la verità. Non può sfuggire la doppia natura del fuoco: benefica quando scalda, illumina, rende commestibili alcuni cibi; distruttrice e inarrestabile nell’incendiare la natura o le costruzioni umane (navi e città, prevalentemente di legno). Nel suo utilizzo come traslato che la parola πῦρ mostra tutto il ventaglio dei propri significati, nella letteratura e ancor più in ambito filosofico-religioso: senza pretesa di compiere un excursus che porterebbe decisamente lontano, si può solo accennare agli elementi primordiali (fuoco, terra, aria, acqua) o al valore rituale della purificazione attraverso il fuoco, al fuoco come veicolo catartico-punitivo oppure come segno premonitore (Efesto, Prometeo, Zaratustra, le iniziazioni misteriche e la letteratura ermetica, così come la geografia degli Inferi nelle sue varie rappresentazioni).

Solo apparentemente marginale, rispetto ad altre azioni di risalto più immediato, la famiglia semantica del “gridare” fornisce più di una suggestione, a partire dal pathos con cui Callimaco “fotografa” la reazione della ninfa Cariclo, madre di Tiresia,

 

ἁ νύμφα δ’ ἐβόασε
(Ma la ninfa gridò)[20. Callimaco, Inno V, v. 85.]

 

Tiresia, prima ancora di essere indovino, prima ancora di essere uomo, è figlio; la prima spettatrice del suo perdere la vista è sua madre. Da notare come in più di un significato, tuttavia, dall’espressione del singolo pathos personale si passi dalla dimensione privata del comunicare a quella pubblica: in assemblea (nell’ἐκκλησία); negli inni (in onore della sposa, riti funebri); nello ‘spargere la voce’ (sia che ci si riferisca a ‘voci’ nel senso di dicerie non vere sia che ci si riferisca alla diffusione di notizie e norme stabilite dall’autorità); il Grande Lessico del Nuovo Testamento segnala, tra le altre accezioni:

  • prorompere in grida di giubilo (Is 54,1: ῤῆξον καὶ βόησον)
  • annunziare la parola di Dio (Is 40,3 φωνή βοῶντος, espressione molto nota riferita al Battista, in Gv 1,23)
  • mandare grida di: richiamo (Is 36,13: wajjqrā’ beqôl-gādôl wajjōmer[21. Il testo ebraico è stato citato per sottolineare che si tratta di un testo poetico, caratteristica rilevabile anche solo a uno sguardo strutturale, al di là della comprensione.], ἐβόησε φωνῇ μεγάλῃ); accusa; dolore (Gb 31,38 «Se la mia terra mi grida contro, se tutti i suoi solchi piangono», che ha uno straordinario corrispondente nel grido di vendetta del sangue innocente che avrà Dio stesso come testimone: Gb 16,18 «O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido!»)[22. G. Kittel e altri, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia,1992, vol. II, coll. 291 e sgg.].

Un’ulteriore considerazione può essere inserita in questo contesto: se da un lato l’urlo delle ragazze viene riletto con maggiore profondità se ci si pone in una prospettiva intertestuale, dall’altro quest’ottica arricchisce anche una seconda lettura intratestuale. Ad esempio, potrà farci sentire l’urlo degli esseri umani, coperto dall’assordante arrivo delle folaghe «che gridano, artigliando» dell’ornitomanzia o ci chiarirà, nella lettura dei successivi oracoli, le potenzialità delle parole che ritornano qui, anche quando non dette. Il non-parlare di molti dei protagonisti potrà essere colto come un urlo, in parallelo col non-vedere di Tiresia, il cui occhio coglie ben oltre il nostro stesso sguardo. Quanto al “dire”, Tiresia, nell’Antigone di Sofocle, così conclude il proprio dialogo con Creonte:

 

εὖ σοι φρονήσας εὖ λέγω. τὸ μανθάνειν δ᾽ 1031
ἥδιστον εὖ λέγοντος, εἰ κέρδος φέρει[23. Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, traduzione e note a cura di E. Savino, ed. cit., p. 288.].

(Pensando al tuo bene ti parlo. Dolce è imparare da chi bene consiglia e porta vantaggio.)[24. Sofocle, Antigone, traduzione di M. Cacciari, ed. cit., p. 29.]

 

Nella conclusione del monologo del Quinto Episodio il “dire” viene associato al bene e al κέρδος, il ‘vantaggio’, che potremmo definire il versante opposto del ‘discapito’ (ζημία). La chiusura del riflesso, «dillo a qualcuno», porta con sé significati che risuonano di echi lontani; si nutre di voci di altri profeti, altri poeti, altre letterature. Il peso che il poeta porta con sé, come una sorta di “condanna” («discapito») può essere alleggerito solo a condizione di diffondere quanto ha imparato (μανθάνειν).

Che l’universo semantico di λέγω sia connesso con la responsabilità dell’aver appreso («tu, se sai dire»), sembra essere attestato dalla storia della parola. Dal primo significato (‘raccogliere’, poi ‘contare’, nel senso di ‘raccogliere con ordine cose simili’, ‘enumerare’) già in Omero il verbo λέγω passa a significare ‘narrare’, ‘descrivere’, ‘raccontare’, ‘parlare’ (si vedano poi Esiodo, Teogonia, 27: ψεύδεα πολλὰ λέγειν = ‘raccontare molte menzogne’, o il poetico θέλω λέγειν  Ἀτρείδας di Anacreonte 23,1) o anche ‘sostenere una tesi’ come in Aristotele (οἱ τὰς ἰδέας λέγοντες in Fisica 193b36 e Metafisica 1036b14); l’espressione ὡς λέγουσι ‘come dicono’ si carica di un significato di autorevolezza.

Dal verbo al nome verbale λόγος, i significati che questa famiglia semantica ricopre potrebbero da soli riassumere una buona fetta di storia della filosofia (contenendo tra l’altro anche l’idea di relazione tra parola e cosa, essere e norma). L’equivalente ebraico di λόγος è dābār, nel quale risuonano, oltre a quanto già detto, anche le idee di ‘verità’ e di ‘potenza creatrice’. Nell’apocalittica il concetto di λόγος come ‘verità’ è associato a quello di ‘testimonianza’ (μαρτυρία).

 

III. iatromanzia. Manhattan Project

nomi. nomina ancora, replica, schernisci.
consentine la crescita, riducine l’amalgama,
che si sparga, s’incàvi, scorra per ogni dove.
nomina sette volte il giorno e l’ora,
anche per oggi, fai tutta la trafila,
così non sarà invano.
ansima, rimugina, così non passerà,
non sarà vano tutto il suo disfare, facendo ancora spazio,
aprendo varchi, e che si schianti, poi, dentro il suo vuoto,
che te lo scava dentro, il tempo, il suo,
le grotte, gli antri, le caverne,
rigenerando te,
loculo di copule infinite,
l’eletto, per caso che dà gloria.
conta, che ti dà forza, ogni minuto,
trascorso nel decoro, e la tenacia, fiera,
poiché ne chiede il fato, e l’onniscienza,
strenua speranza, luce per i probi,
che invece era soltanto prova aperta,
esperimento, soltanto il contagiri dei motori,
il contabattiti, al cuore di chi sgancia,
e tu sei l’esperienza, la verifica.

prendi questo regalo e vattene, ora, ora che sai.

 

3.3. Per la terza volta l’incipit è costituito da una sola parola, un bisillabo, marcato dalla punteggiatura. Le strutture, le tecniche, le insistenze dei primi due oracoli sono qui riprese con forza anche maggiore. Gli imperativi del poeta che si rivolge a Tiresia si fanno più numerosi, talvolta involuti, in maggioranza proparossitoni: «nomina», «replica», «schernisci», «consentine», «riducine», «nomina», «fai la trafila», «ansima», «rimugina», nei primi 7 versi, poi solo «conta», al v. 16; in una prima parte – versi da 1 a 7 – l’assieparsi delle esortazioni rende centrale il “tu”, mentre i successivi versi contengono ciascuno l’aggettivo “suo”, introducendo un terzo elemento, tuttavia non esplicitato. Ritorna la seconda persona, prima come responsabile di una rigenerazione che ha per soggetto la persona/cosa appena evocata, poi con una serie di sostantivi che definiscono con sempre maggiore precisione il ruolo del “tu” in questione.

Interessante notare la scelta di non aggiungere nessun aggettivo. L’interlocutore non è definito “in qualche modo”, bensì è “qualcosa”. È «loculo», è «l’eletto», mentre ciò che fa è «tenacia» di cui «chiede il fato, e l’onniscienza»; sembra essere «speranza» e «luce», mentre è «soltanto» (avverbio ripetuto due volte, in posizione enfatizzante) «prova», «esperimento», «contagiri», «l’esperienza», «la verifica».

Al v. 22 un verbo, in chiusura, chiarisce improvvisamente, come un lampo che squarcia il velo che impediva di comprendere. Compare un nuovo personaggio, che viene accuratamente distinto dal “tu”: «chi sgancia». Anche a non conoscere gli esperimenti degli anni ’40 del secolo scorso nel deserto del Nuovo Messico, l’associazione è automatica: chiunque, a questo punto, la nomina, pronuncia il suo nome. La bomba, quella che qualcuno «ha sganciato», è stata studiata e sperimentata da qualcuno che «sa contare». A chi si rivolge il poeta, per tutto l’oracolo? L’elemento iniziale, «nomi», sembra a questo punto potersi identificare con gli esseri umani che hanno subìto la bomba. Il «conta» centrale sembra essere rivolto agli scienziati, con la loro presunta laicità, con la neutralità dei numeri e della chimica, tristemente noti, nel devastante effetto.

In conclusione, ancora una volta il riflesso, destinato a Tiresia: «prendi questo regalo e vattene, ora, ora che sai». Mesa mette in campo – all’interno di una scenografia apocalittica – nomi e corpi di esseri umani reali. Non c’è elemento simbolico che pesi di più delle vite sacrificate agli esperimenti. Ecco perché sembra plausibile sentirci tutti interpellati. Noi, qui, ora, «ora che sai», Uomo che ha creduto nel progresso e creato bombe che hanno ucciso prima e dopo, Uomo che legge poesia, Uomo che la scrive, Uomo che ripete le stesse cose nei millenni.

 

IV. oniromanzia. παιδος δ’ ομματα νυξ ελαβεν

concave, ad accogliere, acqua di pioggia,
fitta, scura di polvere, e piume, albume,
lucidi, quei filamenti rossi, luci che sono lampi,
fanno tremare forte, l’acqua, nelle conche,
che sono mani semichiuse,
sono molluschi, muschio,
resina che brilla lucida,
dura, chiudendo le fessure.
sai. c’è solo il cavo, l’ìncavo, la conca.
non hai scavato tu, con le tue mani,
che tremolano morbide nel sonno, pingui,
né lui, da cui ricevi luce, e tu non sai
con quali arnesi, docili,
si fa la chirurgia.
con le sue tibie piccole, a condurmi,
titubante, che sento l’odore del tramonto,
le luci che si addensano, s’incrostano,
la stessa resina che cuoce nel tuo sonno,
gli stessi grumi che si ghiacciano,
dopo i rasoi, i forcipi, quel lento lampo,
scuro, che lo inscuriva, muto,
immobile, portandolo con sé.

la luce, questa luce, non sarà mai la tua.

 

3.4. Accettata la natura civile della poesia di Mesa, il tema del poeta e del suo ruolo come “dicitore di verità” sembra doversi sviluppare attorno a due polarità: “puntualità” e “universalità”. In questo oracolo, oniromanzia. παιδὸϛ δ᾽ ὄμματα νὺξ ἔλαβεν, si descrivono con particolari dettagliati, minuti, plastici, i metodi con cui «verso la metà degli anni ’90, i commercianti di organi, in particolare tra il Brasile e gli Stati Uniti, si specializzano nell’espiantare organi da corpi vivi, soprattutto di bambini»[25. Àkusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di G. Mesa e altri, Fossombrone, Metauro, 2010, p. 358.]. Da subito, al tempo stesso, il titolo mette in relazione (in maniera esplicita) la narrazione di un “oggi” circoscritto nel tempo e nello spazio con la narrazione mitica che Callimaco fa del momento in cui Tiresia perde la vista. Il poeta riesce a fondere le due dimensioni, rendendo universale l’urgenza che scaturisce dall’evento singolo.

Nel suo articolo Frasi dal finimondo, in Àkusma. forme della poesia contemporanea, Giuliano Mesa apre e chiude con due domande: «Che cosa accade alla parola quando più nessuna parola viene pronunciata e intesacome se fosse vera?» e «a chi scriviamo?»[26. G. Mesa, Poesie 1973-2008, intr. di A. Baldacci, Roma, La Camera Verde, 2000, pp. 169-72.]. La polemica contro un uso sensazionalistico della parola – avendo in mente certo giornalismo, ad esempio, che avrebbe il compito di far conoscere alcune verità –, in cui finzione e verità sono indifferentemente utilizzate a scopo di intrattenimento, emerge qui con estrema serietà: al tema della poesia civile e della responsabilità del poeta Mesa collega un altro protagonista dell’universo poetico: il destinatario. Il poeta non si rivolge a un target, non ha come destinatari una fetta di mercato o un’audience, bensì interlocutori che meritano il rispetto e lo spessore di parole pronunciate come vere.

In questo oracolo la visione onirica non è semplice, sulle prime, da decodificare. Forse l’aumento dell’ermetismo fa da schermo, protegge dall’acuto dolore inaccettabile che provoca il comprendere. Nessuno vorrebbe vedere – nitidamente – quel che Mesa narra qui. Nemmeno il piccolo protagonista del sogno, le cui mani «che tremolano morbide nel sonno, pingui» parlano di un bambino che ha ricevuto “luce” da un altro bambino, che ora è nel buio. Per nessuno è un sogno che si realizza, anche chi ora vede ha incubi di notte. L’orrore (oltre la povertà, oltre lo sfruttamento, oltre persino l’atomica) è l’unica possibile reazione: Mesa ricorda che

 

si può trovare buono e persino commuoversene, proprio tutto, quando si ha, garantita, la certezza di poter restare sempre qui, prima della soglia di esclusione sociale. Per tenere al centro della vita, delle vite tutte, il paradigma del pulp[27. L’articolo citato presenta numerosi forestierismi, a volte per parodiare una diffusa “esterofilia”, altre per condensare concetti in termini universalmente accettati. Non vengono mai utilizzati, invece, termini di altre lingue (ad eccezione del greco antico) nei brani del Tiresia.] mediologico, occorre, intanto, poterne “fruire” senza ansia di sopravvivenza. Il postmoderno a-critico o pre-critico ha potuto esistere assumendo il punto di vista che la metropoli sia avanguardia, progresso già progredito: avamposto, protetto, dal quale osservare e descrivere il massacro altrove in atto (…). Occorre non dimenticare la metafora lucreziana, il naufragio con spettatore studiato da Blumenberg[28. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Bologna, Il Mulino, 1985.], cercando di comprendere, anche, quali devastazioni psicologiche può causare l’assistere costantemente, e con quasi costante indifferenza, alle devastazioni in atto[29. Àkusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di G. Mesa e altri, op. cit., pp. 170-71.].

 

Da un punto di vista lessicale l’analisi del testo ci restituisce una sensazione di onirico nel suo mescolare l’uso di termini chirurgici a quello di altri della quotidianità, con la consueta (qui intensificata) insistenza sulle vocali scure (la u compare 35 volte, in 23 versi). L’elemento fonico si accompagna all’elemento visivo; il «lui» e il «tu», soggetti entrambi di tragedia, non vengono descritti come esseri umani “interi”: mani o tibie sono la sineddoche per esprimere corpi mutilati e ricuciti; «concave» («il cavo, l’incavo, la conca») e «fessure» per dire (o meglio: per non doverlo dire) ‘occhi’ sono metafore spinte fino all’impensato. Ciò che conta è il non detto, ciò che Mesa ci chiede di guardare è la brutalità di leggi non scritte, che sanciscono la forza di chi paga di più. L’orrore, forse, sta proprio nell’incubo, che arriva (come il fuoco, come gli artigli delle folaghe) a bussare nelle notti dei bambini “risanati”.

Una fonte preziosa per comprendere il valore del sogno come premonizione è l’Epopea di Gilgamesh, in cui è importante il personaggio che “decodifica” il sogno, in modo da renderlo comprensibile a chi lo ha fatto e ai destinatari del messaggio che il sogno stesso contiene: a volte sono gli dei stessi che se ne fanno interpreti[30. L’epopea di Gilgamesh, a cura di N. K. Sandars, Milano, Adelphi, 2013, p. 36; ad esempio: Šamaš, dio Sole.]. Luciano, nella Storia Vera (2,33) descrive l’isola dei sogni, in cui ci sono due templi, quello dell’Άπάτη (Menzogna) e quello dell’Άλήθεια (Verità). Nella descrizione della vita onirica così come era intesa nell’antichità, gli studiosi mettono in luce come ci fosse una dimensione cultuale, in cui il sogno è all’origine di nuovi culti o diventa visione costitutiva del culto stesso; spesso l’azione vaticinante è legata alla dimensione politica di una forte personalità o di un particolare momento della comunità; sonno e morte sono strettamente collegati (entrambi figli della Notte, nella Teogonia di Esiodo) e le due dimensioni sono liminare veicolo di contatto col mondo sovrasensibile.

Il sogno è spesso un espediente letterario utilizzato per dire e far dire contenuti altrimenti inaccettabili o per spostare l’attenzione da chi scrive. Si pensi non solo alla Storia Vera di Luciano, ma anche a Giobbe, nello straordinario capitolo 7, in cui al v. 14 dichiara evidentemente di ricevere un messaggio da Jahvé attraverso un sogno. È evidente a una prima lettura come ritornino temi e lessico protagonisti del Tiresia di Mesa: nelle atmosfere straziate e strazianti della riflessione dell’uomo sul dolore e sulla morte, ma anche nel linguaggio fatto di parti (occhi, bocca, saliva) e di dettagli (ombra, vermi, sguardo). Come in Mesa la collocazione in ambito onirico permette l’accettabilità del racconto dell’espianto degli organi, per l’autore di Giobbe il sogno permette di parlare della paura di dio.

La parola ‘luce’, φῶς, è connessa con l’azione di illuminare, φωτίζειν , come fa il sole con la terra; a questo senso letterale si sovrappone quello traslato: da quello filosofico-misterico (che troviamo anche in Paolo) di illuminare le cose nascoste (τὰ κρυπτὰ, cfr. 1 Cor. 1) a quello dell’insegnare, dare istruzioni; i commentatori di Omero utilizzano «dare luce» per ‘chiarire’, ‘illustrare’.

Le attestazioni più antiche associano la luce al giorno, in contrapposizione alla notte, ma già Esiodo (Op. 339) parla di luce “sacra”. Omero (Od. 16,23) definisce Telemaco “luce dolce”, ad attestare che la luce non è solo mezzo grazie al quale si vede: diventa essa stessa oggetto del vedere oppure modalità dell’essere visto. Ad esempio, ἐς φῶς indica ‘apertamente’, ‘in pubblico’, e la stessa parola può indicare ‘ciò che è noto’. L’impiego del termine in filosofia, a partire dai presocratici, non è quello di un elemento della materia primordiale (come per il fuoco), quanto piuttosto quello di una polarità dell’antitesi luce/buio o di una caratteristica dell’essere e della verità.

L’uso biblico è massiccio, soprattutto in associazione a Verità e Vita. A titolo di esempio, il famoso incipit del Vangelo di Giovanni:

 

1 In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini[31. Citazione dalla Bibbia CEI: cfr. www.vatican.va.]

 

Non sfugge la natura poetica del testo, che lo distingue dal genere letterario dei vangeli sinottici, evidentemente racconti in prosa (salvo inserti particolari). D’altro canto, differenzia Giovanni anche dai tesi gnostici o misterici: i genitivi che troviamo in «la luce del mondo» di Gv 8,12, così come nella «luce degli uomini» di 1,4 sono da intendersi come ‘per il mondo’ e ‘per gli uomini’[32. Si segue qui Conzelman, in G. Kittel e altri, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia,1992, vol. XV, coll. 622 e sgg.]. Mesa pare più vicino a questa dimensione relazionale che a una razionale di conoscenza fine a se stessa.

Come in Qoelet 1,17 («Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento») anche in Mesa il “sapere” non comporta in alcun modo una forma di balsamo, nessun dolore viene lenito dalla consapevolezza. Il sapere non è un obiettivo: è un risultato. Un fatto. Se si riesce a uscire dalla dimensione metafisica e a non considerare in termini teologici il racconto di questa fase della vita di Gesù, è interessante l’uso che fa Giovanni al cap. 6 («Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo»). Con il participio εἰδὼς ‘essendo consapevole’, in questo caso si rende un “sapere prima che accada”, vicino a quello che comunemente viene inteso con il termine “profezia”, che tuttavia non rende potenti, bensì connota una drammatica disperazione, la condizione di «sapere/ non voler più sapere» (in termini di dramma fanno eco le parole «allontana da me questo calice».

 

V. necromanzia. Οι αταφοι, Massengräber

dov’è sommersa dalla neve, le coltri,
là, dove la terra è bruna, tersa, senza solchi,
sulla soglia, prova a chiamare là, chiamare,
sentendo soltanto la tua voce, che chiama,
sotto le coltri, sotto
la neve luccicante,
sotto la terra nera,
chiama fino a sfinirti, a gemere.
non torneranno più, se non in sogno, insonni,
se non laggiù, la loro requie, dove?
le ombre vagheranno, qui, miriadi,
ancora a brulicare, loro,
cercando il loro nome.
e porti il latte, e il miele?
il vino dolce, la farina d’orzo?
non puoi nemmeno sentirli sibilare,
quel loro gracidare, lo sfrigolìo, l’affanno,
il mormorìo che fanno facendosi terra,
non senti, senti gracchiare il corvo,
che vede ritornare, l’ombra,
sulla neve, di un’altra luna gialla.
taci. porta le mani al viso, riannoda i tuoi capelli.

ancora non hai còlto il tuo narciso, e il croco già fiorisce.

 

3.5. La parola “morte” viene sistematicamente rimossa da tutta l’opera. Il riferimento più vicino a una forma di verbalizzazione della morte sta nel titolo (necromanzia. οἱ ἄταϕοι, Massengraber), nel primo componente della parola necro-manzia e nelle sue specificazioni: οἱ ἄταϕοι significa ‘gli insepolti’, coloro che non hanno avuto sepoltura (da θάπτο) oppure (comunemente percepito come equivalente) che sono stati gettati nelle fosse comuni (in tedesco Massengräber).

Nel titolo si trova un’esplicita allusione alla discesa all’Ade di Ulisse. In Odissea XI, 51 e sgg.[33. Il testo greco (anche nelle successive citazioni) è quello messo a disposizione online dall’Università di Augusta (Bibliotheca Augustana): cfr. www.augsburg.de.]l’incontro con Elpenore contiene un doppio riferimento alla mancata sepoltura:

 

πρώτη δὲ ψυχὴ Ἐλπήνορος ἦλθεν ἑταίρου·οὐ γάρ πω ἐτέθαπτο ὑπὸ χθονὸς εὐρυοδείης·[34. Interessante la doppia valenza del termine εὐρυ-όδεια , ἡ, (ὁδός) I. fem.: «Adj. used only in gen., ‘with broad ways’, in Hom. always of the earth (as εὐρύπορος of the sea), “χθονὸς εὐρυοδείης”, II. epith. of Demeter», nel Liddel-Scott (1940); cfr. www.perseus.tufts.edu.]

(il suo corpo (σῶμα) è rimasto incompianto e insepolto (ἄκλαυτον καὶ ἄθαπτον[35. Ibidem: ἄθαπτος θάπτω I. unburied, II. unworthy of burial: ‘non-sepolto e non meritevole di sepoltura’.])).

 

Anche altri elementi alludono alla nékyia del poema omerico, tra i quali la reiterazione dell’avverbio «sotto», la definizione «ombre» (come la ψυχὴ di Elpenore) e l’esplicito riferimento alla libagione (Odissea XI, 26 e sgg.):

 

ἀμφ᾽ αὐτῷ δὲ χοὴν χεόμην πᾶσιν νεκύεσσι,πρῶτα μελικρήτῳ, μετέπειτα δὲ ἡδέι οἴνῳ,
τὸ τρίτον αὖθ᾽ ὕδατι·

(and around it poured a libation to all the dead,first with milk and honey, thereafter with sweet wine,and in the third place with water)[36. Testo e traduzione sono tratti dal sito: www.loebclassics.com.]

 

Nel testo di Mesa l’uso degli elementi tipici della libagione diventa domanda retorica «e porti il latte, e il miele?/ il vino dolce, la farina d’orzo?», a sottolineare l’inutilità del gesto, che non permetterà l’evocazione: non sarà possibile udire le voci e «nemmeno sentirli sibilare,/ quel loro gracidare, lo sfrigolìo, l’affanno, / il mormorìo che fanno facendosi terra,»; ancora una volta il ruolo di Tiresia – nella sua veste di interlocutore del poeta – risulta importante per la decodificazione del messaggio.

Nel Canto XI dell’Odissea il Tiresia della mitologia riceve l’offerta di sangue da Odisseo, ne tre forza, così che si possa raggiungere lo scopo di quel “viaggio nel viaggio”. Ecco il testo con le parole di Tiresia in XI, 96:

 

αἵματος ὄφρα πίω καί τοι νημερτέα εἴπω

(so that I may drink of the blood and speak the truth to you)[37. «che beva il sangue e poi il vero ti dica», nella versione di Pindemonte. Testo e traduzione sempre tratti dal sito www.loebclassics.com.]

 

Interessa soprattutto comprendere cosa sia ciò che Tiresia promette di dire a Odisseo, per allargare il concetto di “profezia” inteso semplicisticamente come ‘pre-dizione’ del futuro: νημερτέα εἰπεῖν o μυθήσασθαι viene tradotto dal Liddel-Scott «to speak sure truths»[38. Cfr. il Liddell-Scott, consultabile alla URL: www.perseus.tufts.edu]. L’innegabile verità delle cose accadute, nelle poesie di Mesa, non sta nell’autorevolezza del poeta o del profeta, bensì nel fatto che sono accadute; nonostante poeta, profeta, ascoltatore/lettore non possano sentire pienamente e vedano solo indirettamente: «non senti, senti gracchiare il corvo,/ che vede ritornare, l’ombra,/ sulla neve, di un’altra luna gialla». È il corvo (animale dall’insaziabile fame, talvolta associato a notizie di sventura) che vede l’ombra della luna; Tiresia sente solo il corvo, che vede solo attraverso l’ombra. Nel frattempo, la neve ricopre la terra, che ricopre i corpi insepolti.

I sommersi – «sommersa» è riferito alla terra che a sua volta sommerge i corpi – «non torneranno più, se non in sogno, insonni,/ se non laggiù, la loro requie, dove?» suona come l’eco alle testimonianze di Primo Levi[39. Levi scrisse molte pagine, anche con approcci letterari diversi, sul tema delle persecuzioni razziali: tra le altre, il romanzo Se non ora, quando? e I sommersi e i salvati.]. Sembra quasi dettato da pudore il «Taci» del v. 22. Benché opposto ai reiterati inviti a guardare, sapere, dire, ora è tempo di tacere.

Per l’interpretazione dell’ultimo riflesso del poemetto, al v. 23 («ancora non hai còlto il tuo narciso, e il croco già fiorisce») alcuni commentatori suggeriscono il riferimento a un nuovo personaggio: Persefone. Autorizzata dalla citazione dell’Inno A Demetra di Omero, vv. 6 sgg., questa interpretazione suggerisce che l’io che parla non sia più il poeta, rivolto a Tiresia, bensì Tiresia rivolto a Persefone[40. Un riferimento a Demetra era stato rilevato nel termine εὐρυοδείης in Od XI, 62: si veda la nota relativa.].

 

ἄνθεά τ’ αἰνυμένην ῥόδα καὶ κρόκον ἠδ’ ἴα καλὰ 6λειμῶν’ ἂμ μαλακὸν καὶ ἀγαλλίδας ἠδ’ ὑάκινθοννάρκισσόν θ’, ὃν φῦσε δόλον καλυκώπιδι κούρῃ

(picking flowers across the soft meadow, roses and saffronand lovely violets, iris and hyacinth,and narcissus)[41. www.loebclassic.com.]

 

In quest’ultimo passaggio Mesa, che non smette di credere in una possibile futura rigenerazione morale e spirituale della civiltà, si richiama al mito della rinascita, proprio dell’inno omerico a Demetra, dove quest’ultima accoglieva con gioia il ritorno dall’Ade sulla terra di sua figlia Persefone, per la quale faceva rifiorire la natura, riempiendo la terra con frutti, fiori e foglie. Tiresia, in chiusura di poemetto, si rivolge direttamente a Persefone, che fino a quel momento ha condiviso il suo destino. Persefone deve, infatti, come lo stesso Tiresia, “tenersi in vita”, ovvero continuare a vivere per più generazioni tra gli inferi e la terra, tra il narciso, simbolo di morte, fiore dell’Ade, e il croco, simbolo del rinascere annuale della vita.

Circe invia Odisseo a incontrare la stirpe dei morti, ἔθνεα νεκρῶν[42. Od X, 526. Circe invia Odisseo preparandolo a quanto accadrà: vedrà la gloriosa stirpe dei morti e parlerà con Tiresia, il quale gli chiarirà il suo stesso futuro. Tutte queste cose vengono poi descritte nel libro XI, già ampiamente citato.]: Tiresia sarà tra questi. Il Tiresia di Mesa, invece, non può nemmeno sentirli bisbigliare. Essere non-visti è la condanna degli insepolti. Quasi una seconda morte. Risuona Apocalisse, 20, 12-14, dove agganci a fatti contemporanei all’autore si intrecciano al simbolismo con cui l’autore strappa i fatti stessi dalla loro concretezza storica isolata e ne dà una lettura teologica paradigmatica. Emergono così delle formule di intelligibilità che Ugo Vanni, nel suo commento all’Apocalisse, definisce «teologica». Ma, se proviamo a sostituire questo termine con l’aggettivo “poetica”, riferito sia alla lettura sia all’intelligibilità, diventano percorribili itinerari di indagine sulla natura costantemente riattivabile dei significati metaforici. Il riferimento al singolo fatto storico e alla sua riconoscibilità (l’«ora», nun, l’adesso che è anche il titolo della successiva raccolta di poesie di Mesa) è fondamentale: tutta la poesia prodotta in ambito sapienziale, profetico e apocalittico presuppone un “momento della storia” in cui il popolo si confronta con situazioni drammatiche, di impasse, di riflessione su di sé in senso individuale e – soprattutto – collettivo.

4. Nel contesto contemporaneo è difficilmente pensabile una riproposizione tout court di doni da parte degli dei o di un futuro “letto” o comunicato da una delle divinità stesse: cosa vuole segnalare, dunque, Giuliano Mesa, con questo Tiresia che non c’è e non dice nulla, ma la cui presenza è costante lungo tutto il percorso poetico e a cui viene affidato il ruolo di “dire”? Un’ipotesi plausibile sembra essere rintracciabile nella riflessione sul ruolo del poeta. Le poesie, i testi, gli oracoli: il “devi” rivolto a Tiresia è forse parola detta allo specchio, percezione forte della responsabilità di chi fa poesia. Se è questo che Mesa vuol dire, se non è peregrina questa interpretazione del Tiresia, allora diventa ancor più interessante indagare le tematiche del poeta-profeta all’interno di un filone che parte da lontano. Dire la verità è un’operazione culturale (etica, politica, civile) che nella storia occidentale (e non solo) è spesso (se non quasi sempre) andata di pari passo con l’esprimere questi contenuti in poesia.

All’Inno V, Per i lavacri di Pallade, del quale era citato il verso in cui il buio diventa il destino di Tiresia, Callimaco al v. 121 aggiunge:

 

μάντιν ἐπεὶ θησῶ ἀοίδιμον ἐσσομένοισν

(lo renderò divino, ai posteri celebre in canto)[43. Callimaco, Opere, a cura di G. B. D’Alessio, Milano, BUR, 1997, pp. 188-89.]

 

È Atena che parla e promette a Cariclo molti altri doni, a compensazione della cecità di suo figlio Tiresia. L’epiteto «ai posteri celebre in canto» è formulare e può essere analizzato all’interno dell’epica, nella quale gli eroi (si vedano Iliade VI, 358; Odissea VIII, 580 e III, 204) vengono così descritti, anche in riferimento all’epica stessa. Profezia e poesia si incontrano sul terreno dell’ispirazione. Nel suo studio ormai classico sui “maestri di verità”, Detienne si sofferma sul rapporto tra Aletheia e Mnemosyne attorno al procedimento divinatorio attraverso il sonno (incubazione), che ricorda la discesa nell’Ade, in cui il postulante deve bere da due sorgenti, Lethe e Mnemosyne, la coppia di potenze Memoria-Oblio: ciò che accomuna Aletheia a Mnemosyne è proprio il contrapporsi di entrambe a Lethe, all’oblio.

Ancora a proposito di Inni V, Marco Fantuzzi fa notare

 

in Callimaco la precisione ossessivamente archeologica con cui in questi inni si cerca di cogliere la dimensione pragmatica propria dell’inno ieratico in quanto carme di accompagnamento di una specifica cerimonia. Tale dimensione, ossia il riferimento diretto al contesto situazionale e agli interlocutori, attuato attraverso una deissi che almeno in molti casi è lecito supporre concretamente reale, era stata un elemento costante della lirica, dell’elegia, e del giambo arcaici, generi poetici maturati nell’ambito di un sistema comunicazionale fondato ancora in larga misura sull’oralità/auralità della comunicazione: le occasioni e i destinatari del canto, nonché le concomitanze materiali e le compresenze umane della performance, facevano parte integrante del canto stesso, si affiancavano con pari rilievo ai diversi contenuti testuali, e davano a molti carmi addirittura il gusto del vissuto “qui e ora”. In particolare la lirica corale-ieratica – sia quella arcaica, sia quella documentata a livello epigrafico anche per l’età ellenistica – faceva uso di spunti di descrizione pragmatica dell’evento religioso, anche se limitati alle situazioni della cerimonia più prevedibili dal poeta nella fase di composizione, vale a dire quelle che riguardavano in modo esclusivo il rapporto coro/corifeo e quelle in cui era noto a priori per il poeta che il coro sarebbe stato implicato nel corso della cerimonia. Ora, sono appunto questi due elementi, enormemente enfatizzati rispetto alla loro entità nella lirica corale arcaica, che sostanziano il tenore mimetico degli Inni callimachei 5 e 6 (e della prima parte dell’Inno 2), dove il poeta assume il ruolo del corifeo/’maestro di cerimonia’. Costellando il suo carme di apostrofi ai presenti-officianti, il poeta pretende di guidarli nel seguire o officiare l’evento religioso, e scandisce con serie di squarci descrittivi i loro movimenti o l’evento stesso, con una frequenza che il poeta arcaico si era potuto permettere di rado, forse perché in età arcaica la composizione del carme precedeva l’effettivo svolgimento dell’evento religioso che poi davvero accompagnava, e perciò solo in pochi dettagli poteva prevederlo con certezza, mentre in Callimaco il ruolo del carme di accompagnamento di una festa era verosimilmente soprattutto una ‘finzione letteraria’[44. M. Fantuzzi, R. Hunter, Muse e modelli. La poesia ellenistica da Alessandro Magno ad Augusto, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 33-34.].

 

Le continue apostrofi presenti nel Tiresia di Mesa possono trovare in questa interpretazione di Callimaco una luce di lettura estremamente interessante: il poeta si pone come “maestro di cerimonia” in una dimensione rituale in cui il suo profeta utilizza le varie tecniche mantiche per comprendere una Verità. La valenza religiosa o mitologica di queste divinazioni è evidentemente una finzione letteraria di cui il poeta si serve per “mettere in scena” una sorta di rito incubatorio in cui ogni lettore può entrare in contatto con passato e presente. E farsi carico del futuro.

 

 

Pubblicazioni di Giuliano Mesa

  • Schedario. Poesie 1973-1977, Torino, Geiger, 1978;
  • I loro scritti. Poesie 1985-1991, Roma, Quasar, 1992;
  • Improvviso e dopo. I loro scritti sezioni v, vi, vii, 1992-1995, Verona, Anterem, 1997;
  • Àkusma. forme della poesia contemporanea, a cura di G. Mesa e altri, Fossombrone, Metauro, 2000;
  • Quattro Quaderni. Improvvisi 1995-1998, Lavagna, Zona, 2000;
  • Chissà. Poesie 1999-2000, Napoli, d’If, 2002;
  • Nuvola neve. Nove nuvole in forma di versi, Napoli, d’If, 2003;
  • Da recitare nei giorni di festa (1996), Roma, La Camera Verde, 2007;
  • Tiresia, Roma, La Camera Verde, 2008;
  • Era vero. Tre tempi di un vaudeville (1997), Roma, La Camera Verde, 2009;
  • Quatr’in dialèt, Roma, La Camera Verde, 2009;
  • Poesie 1973-2008, intr. di A. Baldacci, Roma, La Camera Verde, 2010;
  • Olindo, Roma, La Camera Verde, 2011.

Bibliografia generale

  • G. Alfano, A. Cortellessa, Tegole dal cielo. L'”effetto Beckett”, Roma, Edup, 2006;
  • V. Bagnoli, Contemporanea. La poesia italiana verso il Duemila, Padova, Esedra, 1996;
  • Id., La poesia italiana alla svolta del secolo, in «L’informazione bibliografica», 4, 2001;
  • Id., Lo spazio del testo, Bologna, Pendragon, 2003;
  • A. Baldacci e altri, Parola plurale. Sessantaquattro poeti tra due secoli, Roma, Sossella, 2005;
  • A. Baldacci, Il silenzio non taciuto: la restituzione della realtà di Giuliano Mesa, prefazione a G. Mesa, poesie 1973-2008, Roma, La Camera Verde, 2010;
  • Id., Oltre il finimondo: l’altra via di Giuliano Mesa, in «Atelier», 61, 2011;
  • Barbarie: La nostra civiltà è al tramonto?, a cura di I. Dionigi, Milano, BUR, 2013;
  • D. Barbieri, Verità e vissuto del testo estetico: una tesi in nuce, in Senso e sensibile. Prospettive tra estetica e filosofia del linguaggio, in «E│C», rivista online dell’AISS – Associazione Italiana di Studi Semiotici, 17, 2013;
  • Id., Il vincolo e il rito. Riflessioni sulla (non) necessità della metrica nella poesia italiana contemporanea, in «Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 16, 2014;
  • T. Barolini, La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2013;
  • H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna, 1985;
  • M. G. Bonanno, L’allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990;
  • Id., La lettura del filologo, in Graeca Tergestina. Praelectiones Philologiae Tergestinae, Trieste, EUT, 2014;
  • V. Bonito, Poesia e inermità, in La sfida della letteratura. Scrittori e poteri nell’Italia del Novecento, Roma, Carocci, 2004;
  • Callimaco, Opere, a cura di G. B. D’Alessio, Milano, BUR, 1997.
  • G. B. Conte, Letteratura latina, Firenze, Le Monnier, 2005;
  • Id., Memoria dei poeti e sistema letterario, Palermo, Sellerio, 2012;
  • B. Cepollaro, Il presente a venire, in «Baldus», 4, 1996;
  • B. De Luca, Franco Fortini e Giuliano Mesa, in «Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 16, 2014;
  • M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari, Laterza, 2008;
  • Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, a cura di G. L. Beccaria, Milano, Feltrinelli, 2006;
  • M. Fantuzzi, R. Hunter, Muse e modelli. La poesia ellenistica da Alessandro Magno ad Augusto, Roma-Bari, Laterza, 2002;
  • M. Frédéric, La répétitio. Étude linguistique et rétorique, Tübingen, Niemeyer, 1985;
  • F. Fusco, Il viaggio negli inferi della contemporaneità, in «Atelier», 61, 2011;
  • H. G. Gadamer, Préface, in J. Grondin, L’universalité de l’herméneutique, Paris, Puf, 1993;
  • B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Milano, U. E. Feltrinelli, 20112;
  • M. Giovenale, Recensione a Tiresia, in «Il Manifesto», 12/10/2008, p. 14;
  • F. Graf, La magia nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 2009;
  • R. Jakobson, Closing Statements: Linguistics and Poetics, in Style in Language, a cura di Th. A. Sebeok, New York-London, Wiley, 1960 (trad. it. Linguistica e Poetica, in Saggi di Linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966);
  • G. Kittel et al., Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1992;
  • H. Lausberg, Handbuch der literarischen Rethorik, München, Max Hueber Verlag, 19732;
  • L’epopea di Gilgamesh, a cura di N. K. Sandars, Milano, Adelphi, 201318;
  • H. G. Liddell, R. Scott, A Greek-English Lexicon, revised and augmented throughout by Sir Henry Stuart Jones with the assistance of Roderick McKenzie, Oxford, Clarendon Press, 1940;
  • N. Lorenzini, Un anno di poesia, in «L’informazione bibliografica», 1, 1994;
  • Ead., Le parole esposte. Fotostoria della poesia italiana del Novecento, Milano, Crocetti, 2002;
  • L. Magazzeni, Un’intervista a Giuliano Mesa, in «Il vascello di carta», 2000;
  • F. Montanari, F. Montana, Storia della letteratura greca. Dalle origini all’età imperiale, Roma-Bari, Gius. Laterza, 2010;
  • A. Moresco, L’invasione, Milano, Rizzoli, 2002;
  • F. Muzzioli, La poesia di ricerca in Italia, Roma, Cirps, 2001;
  • La sfida della letteratura. Scrittori e poteri nell’Italia del Novecento, a cura di N. Novello, Roma, Carocci, 2004;
  • M. Palladini, Resistenze 2, Roma, Arlem, 1997;
  • G. Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, vol. II, Firenze, Casa editrice le lettere, 1968;
  • G. Patrizi, Primo Quaderno di Invarianti, Roma, Pellicani, 1989;
  • Id., Per Giuliano Mesa, in «Il Verri», 1-2, 1995;
  • M. Pieri, Giuliano Mesa, le gemme dei versi, in «Alias/Il Manifesto», 5, 2002;
  • M. Sannelli, Il rischio etico. Giuliano Mesa, Improvviso e dopo, in «Resine», 75, 1998;
  • A. Scökel, Manuale di poetica ebraica, Brescia, Queriniana, 1989;
  • Scrivere sul fronte occidentale, a cura di A. Moresco e D. Voltolini, Roma, Feltrinelli 2002.
  • L. Severi, Per un nuovo intellettuale dissidente, in «Atelier», 42, 2006;
  • Id., Dopo la catastrofe. Lettura dei Loro scritti, in «Atelier», 61, 2011;
  • Sofocle, Antigone, trad. di M. Cacciari, Torino, Einaudi, 2007;
  • Id., Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, nota storica, traduzione e note di E. Savino, Milano, Garzanti, 201418;
  • B. Torregiani, Giuliano Mesa e il mito di Tiresia, in «Atelier», 61, 2011;
  • U. Vanni, Apocalisse, Brescia, Queriniana, 1979;
  • Verso l’inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il Novecento, a cura di A. Cortellessa et al., Verona, Anterem, 2000.

Sitografia

(fasc. 11, 25 ottobre 2016)