Attilio Bertolucci: 1925-1929. Nascita e avvento di “Sirio”

Author di Sebastiano Triulzi

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, che qui si ringraziano, pubblichiamo un brano tratto dal volume di Sebastiano Triulzi Attilio Bertolucci: 1925-1929. Nascita e avvento di “Sirio”, Macerata, Quodlibet, 2016.

Capitolo quinto
1929: l’anno di Sirio

5.1 L’amore sognato e le Donne

Nell’ansia febbrile delle notti, quando ormai anche l’ultimo rumore si era arreso al silenzio, lo visitavano strane figure sognanti1 dal carattere fortemente erotico: talvolta era una fanciulla bionda, i cui intensi occhi leopardiani gli sorridevano e al tempo stesso lo fuggivano, che, avvicinando il proprio corpo al suo, gli provocava brividi di ansia e di paura. Gli sembrava che ella fosse come un angelo astratto, dai contorni indefiniti, non certo asessuato, un angelo fatto di terra e di sale: si immaginava che parole appena pronunciate bruciassero le loro labbra, e carezze appena accennate ardessero sui loro visi, come una passione adolescenziale, stilnovistica e allo stesso tempo carnale: come rivolgendosi a se stesso, chiedeva al sogno di non evaporare, di non sparire nel nulla ˗ «fa che ancora io possa vedere la sua immagine se di nuovo serro gli occhi, per averla un secondo in più così a me vicina» ˗, ma inesorabilmente, come si conviene a queste fantasticherie, volava via. Altre volte invece, come spiegano i versi di Notte, la figura sognata nella rêverie era quella di una donna di provincia, contaminata da una luce azzurra, pura, ma sensuale: la veste si allargava fino a toccarle i fianchi, le mani le tremavano, gli occhi, bruciati nella speranza o nell’illusione dell’amore, si muovevano apprensivi; ed ella, appostata dietro i vetri della sua casa, osservava passare per la strada, quasi alla fine della notte, gli uomini che si erano presi dei piaceri e che tuttavia l’avevano esclusa dalle loro visite così fortemente interessate:

Orsola, fresca luce azzurrina,
lunga veste che appena ti allarghi
sui fianchi, speranza, illusione
di occhi riarsi, di mani tremanti,
piccola suora, donna,
apparsa fra le luci d’incendio
nella notte, in mezzo alle case,
quando passano dietro ai vetri
balenando fantasmi uomini dannati,
stella, mattino ridente intravisto,
chiaro sogno al di là della luce
degli uomini, al di là del buio ch’è in cielo2.

Alcuni componimenti di Sirio sono attraversati da una vena sensuale e sessuale, che emerge qua e là anche dove non è espressa chiaramente, anche dove non è questo il tema principale, e che fa da sottofondo all’impronta romantico/passionale, più preponderante, più immediatamente visibile. Secondo i biografi di Bertolucci è possibile rintracciare l’occasione per liriche dalla profonda inclinazione erotica quali Sogno, Sonno o Risveglio, nell’innamoramento per una bionda compagna al tempo della prima liceo, ma sono informazioni che lasciano il tempo che trovano. Ad un primo sguardo un dolce, sentimentale sospiro contraddistingue l’andamento del desiderio sessuale nelle rêverie di Bertolucci, il che non fa che rendere ancora più candidamente ironico il suo angelismo intessuto di sincera, e felicemente perduta, nostalgia dell’infanzia e della prima giovinezza.

In una trepida sospensione fra sogno e risveglio, fra buio e luce, un’immagine di donna, dalle mani tremanti e dalla fresca luce azzurrina, gli appare in un’altra rêverie erotica, quella della poesia Sogno: qui la presenza femminile sembra emergere da una sorta di condensazione onirica, in bilico tra fantasmi inquietanti e stilizzate movenze del desiderio femminile: da una parte ci sono le figure maschili dagli occhi riarsi che brillano nelle luci d’incendio della notte, che attraversano la strada col loro carico di desideri carnali forse appagati o col loro carico di mistero; a cui si contrappongono, dall’altra parte, i tocchi di limpido colore di Orsola, l’azzurrina e fresca luce che da lei emana, la lunga veste che si riverbera sul ridente mattino intravisto dai vetri della finestra, e i suoi occhi avidi, pieni di brama nascosta, repressa verso la vita di quegli uomini e i loro piaceri. Partendo da un dato reale, il nome di una donna, la poesia si snoda attraverso una serie di chiare metafore visive: la fisicità data dalla luce rischiara la dimensione onirica sottesa alla figura della donna, e in questo modo fantasia e realtà, venendo a mancare il limite che le teneva distanti, sono libere di fondersi; tramite tale unione sono coinvolte anche tutte le altre immagini, in funzione subordinata: la donna che rivaleggia con i balenii della notte; la sua «lunga veste» e gli «uomini dannati» che hanno la funzione paradossalmente di rendere vana, sprecata, ogni sua potenzialità erotica; i suoi occhi riarsi e i vetri della finestra contro cui essi sbattono ci appaiono malinconici, quasi fossero le finestre sbarre di una vasta prigione dalla quale non può comunque uscire. Sempre nell’ambito del sogno, due sono allora, sembra dirci il poeta, le posizioni che dominano sulle altre: una contraddistinta dalla luce, che contamina gli uomini, e che simboleggia la speranza di una felicità erotica; l’altra determinata dal buio, che oscura malinconicamente il cielo, e che, fuor di metafora, rende visibile tutta l’inattuabilità di quella speranza, tutta l’amara deformazione del reale che l’illusione di quella felicità contiene.

Talvolta, nella malinconia della primavera, perso nella folla ondeggiante della sera, Bertolucci pensava a quando, solo poco tempo addietro, lasciata la stagione dell’infanzia e non ancora compiutamente entrato in quella della piena adolescenza, un nuovo sfuggente incontro per la via aveva sedotto la sua anima: l’aria pungente della mattina era stata testimone della sua breve passeggiata per una stradina di campagna in compagnia di una Signorina Felicita in stile gozzaniano, dal viso esangue e sofferente come le amate dai crepuscolari:

Il tuo sorriso
come un fiore turchino
nel tuo viso
un po’ pallido e patito,
fioriva ogni momento
e si spegneva,
come quelle improvvise ventate
che il giorno acerbo esprimeva
profumate di biancospino.
Eri stanca, assai stanca,
e sempre ti volevi fermare
presso un fosso o una siepe.
Chiaro era il giorno
e l’aria sì dorata!
Avevano le tue parole
una dolcezza
serena.
Ci salutammo in fretta
nel gran vento
che ci rapiva
le parole.
Nel ritorno pensavo a te.

Cammini con un’altra
per la strada che s’oscura,
fai un sorriso lontano.
Oh la malinconia della primavera
con tutte le lampade accese gli alberi
e la folla che ondeggia
nella sera3.

Per il giovane Bertolucci, il sorriso e gli occhi della ragazza erano fiori dai colori azzurri e cupi, erano come l’odore del biancospino che a causa delle improvvise folate di vento saliva fino alle narici per poi disperdersi nell’aria, si accendevano e si spegnevano a intermittenza, momento dopo momento, e solo il caso ne conosceva il motivo. Stanca ella spesso si fermava a riposare vicino a un fosso o accanto ad una siepe: il giorno era così terso e splendente, e l’aria così piena di odori, che ogni sua parola aveva la capacità di instillare una dolcezza, una serenità totale in lui, eppure c’era una crasi tra la condizione quasi emaciata della fanciulla e quella rigogliosa della natura circostante. Nel solitario ritorno a casa il poeta ripensava a lei, alle ultime frasi rapite dal vento, al loro saluto affrettato, alle conseguenze di quel contrasto: tra varie assonanze, paronomasie ed epifore che riecheggiano a distanza, la figura femminile che si incontra nella poesia Ad una fanciulla va letta in una chiave leggermente diversa rispetto alle altre donne, per cui ad un soffocato, autoinibito erotismo subentra l’immagine di una fanciulla dal viso cereo, dal corpo malaticcio, avvilita nello spirito e nella forma fisica, una immagine che contrasta profondamente con l’esplosione d’ormoni e di salute della giornata di sole in cui avviene la loro passeggiata e della natura in fiore rappresentata dal sempre amato biancospino, che li accompagna e li accudisce.

Pochi mesi prima, esattamente il 17 ottobre del 1928, Bertolucci aveva composto un’altra poesia, Donne4, guardando questa volta ad una classe sociale più avvantaggiata economicamente, quella delle donne borghesi o alto-borghesi, che spiano il mondo dalle finestre dei loro sfarzosi salotti e pure ogni tanto vengono colte da un tremore, da uno spavento, che si può leggere anche qui come un meccanismo di difesa rispetto ad una pulsione libidica che farebbe crollare l’interna costruzione, l’intero edificio su cui hanno innalzato le loro identità:

Le tende, pepli per le caste finestre
degli appartamenti lussuosi
che accendono alla sera luci
belle come donne, come le loro donne
che hanno un gran fiore al seno
e la pelle che brilla e gli occhi sfavillanti
come gemme;
le discostan esse ed appoggiano
la fronte a quel freddo e guardano giù.
Nella sera di nebbia canta la pendola
il tepore concilia il sonno,
prima dell’ora di pranzo.
Uno sgomento le prende
qualche sera nel petto.
Più nella mano vi serrano
nella mano calda,
tende ondeggianti.

Sono come dei pepli dunque le tende, come delle lunghe vesti che toccano terra, e servono per coprire in modo «casto» ed elegante le finestre degli appartamenti dei ricchi borghesi; qui la sera vengono accese le luci, che sono sfavillanti come le loro donne belle, dal seno provocante su cui si adagia un fiore, dalla pelle chiara e lucente simile ai brillanti, dagli occhi fiammanti come gemme. Proprio queste tende le donne discostano per appoggiare la fronte al freddo intenso del vetro delle finestre, e poi rivolgono il loro sguardo in direzione della strada: nelle sere in cui si distende vittoriosa per la città la nebbia, e in cui risuona per la casa il canto dell’orologio a pendolo, quando il calore costringe il corpo al sonno prima dell’ora di cena, ecco che quelle donne sono colte dallo sgomento, il loro cuore sigilla l’angoscia: nelle calde mani stringono con forza le tende ondeggianti. Lo stesso movimento che le donne della poesia compiono, appoggiando la fronte sul vetro e stringendo nelle mani le tende, ritorna nel capitolo XXIII della Camera da letto, quando il poeta racconta della morte del suo padrino don Attilio Tramaloni, e di come venga amorevolmente assistito nell’agonia dalla sorella Emma. In un giorno di primavera infatti ella veglia il fratello, che da mesi non fa che morire; con un gesto teneramente calcolato, accosta i vetri socchiusi della finestra, per coprire, reo di intromettersi nell’intermittente lagno familiare, il rumore del torrente, il Bràtica ricco d’acqua dopo un inverno particolarmente nevoso. Poi si accosta alle sue preziose tende di azzurra pietra montanara su cui sono delineate fluttuanti figure di vergini, lindamente vestite, e che da lontano sono il manifesto del candore della casa, una purezza fra signorile ed ecclesiastica. Ormai esausta, lascia che la sua fronte si appoggi ai vetri della finestra, nel gesto di chi «medita dolori»: eppure c’è ancora lo spazio per l’emersione del ricordo, dei momenti felici passati con il fratello, come le festività religiose con tutto il corteo di strette di mano dei fedeli, dei cuori palpitanti per le nozze o per i battesimi, mentre i corridoi della canonica erano invasi dall’odore dell’incenso proveniente dalla sagrestia, mischiato con quello del caffè, che giungeva invece dalla cucina.

Nei gesti iterativi e malinconici che in Sirio e in Fuochi di Novembre le donne compiono, sembra di scorgere in controluce la figura di Emma Bovary, sebbene in una versione meno civettuola, ma con lo stesso senso di desolante solitudine: nel romanzo Flaubert infatti raccontava, attraverso una ossessiva esplorazione del quotidiano, come le cose si ripetessero, come le consuetudini e le abitudini quasi si accumulassero l’una sull’altra, giorno dopo giorno, e da qui nasceva anche l’ansia di novità, di rompere questa monotonia della provincialotta Emma: presentava al lettore Flaubert, sempre la stessa vita, in cui tutte le mattine si svegliava, si alzava, andava a mangiare, usciva, tornava Emma, consumando una identica, costante serie di atti; la vita nella quale ogni giorno il maestro di scuola il parrucchiere i cavalli di posta comparivano immancabilmente alla stessa ora; la vita dove l’acqua della Rieule colava sempre con lo stesso ritmo, senza rumore, con le grandi erbe sottili che si piegavano come capigliature verdi, mentre i salici guardavano nell’acqua le loro scorze grigie; perfino il tempo era uno stagno dormiente, così tranquillo che il minimo avvenimento che vi cadeva causava dei cerchi innumerevoli. Come non desiderare una evasione da siffatto contesto? Di tale tipo di ripetizione ossessiva e vuota, Bertolucci traeva invece esempio di malinconico adattamento all’esistenza quotidiana: la vita, con i suoi segni e simboli eternamente uguali uno dopo l’altro nei secoli poteva contenere, pur nella disperazione, e solo per chi li guarda da lontano, elementi vivi e dolci proprio perché tremendamente umani. Nella realtà delle donne borghesi di provincia, colta dal di dentro, non più osservata con orrore aristocratico, l’eterna reiterazione dei gesti e delle emozioni può produrre un leggero sgomento ma non perdizione perpetua; al limite, negli esseri più consapevoli o più sensibili, angoscia e sconforto, ma questi durano solo per pochi attimi, poi tutto ritorna ad essere come prima, secondo l’adolescente Bertolucci. Per questi ultimi, forse ogni mondo, qualunque si trovino ad abitare, assomiglia ad una grande ed immensa prigione: il rifiuto della grettezza, dell’ipocrisia, della mediocrità, circondanti la loro esistenza, non si esprime attraverso una ribellione aperta, la qual cosa li porterebbe a progettarsi e a crearsi un diverso modo di vivere, o anche a perdersi immancabilmente come Emma. No, essi si rifugiano nell’indistinto dell’immaginazione, compiono una fuga interiore, nel sogno ad esempio, che diventa evasione ossessiva dalla realtà, preparandosi così a sopravvivere a tutti coloro che non li comprendono e anche quando li comprendessero il loro destino sarebbe quello d’essere emarginati. La coscienza della propria solitudine e al tempo stesso l’incapacità a realizzare, pur tenacemente inseguendoli, i propri sogni, conducono verso una inerme, invisibile disfatta tali esseri umani, ma è una sconfitta che non si palesa, è solo interiore.

Ci si figura queste anime femminili proseguire la propria vita secondo il binario illuminato da Bertolucci fino alla fine, senza adottare grandi cambiamenti, come una accettazione del proprio destino: queste donne di Bertolucci sembrano tuttavia aver fatto propria la grande lezione flaubertiana: Emma risulta essere per loro l’esempio eroico e al contempo catartico di chi sente lo stesso disagio, la stessa ansia, e sa che nessuna possibilità è concessa. La presa d’atto che non ci sia via di scampo sembra trovare una forma di rappresentazione nei gesti di muta rassegnazione delle donne nelle poesie di Sirio: l’appoggiare la fronte sul vetro della finestra è segno di disperazione, e lo stringere tra le mani la stoffa delle tende è segno di impotenza. Impotenza che simboleggia non solo l’impossibilità di affrancarsi da un interno famigliare, dal dovere del focolare di cui debbono essere per costituzione gli angeli custodi, le ultime protettrici, ma anche, in un senso più ampio, da una società piena per loro di divieti e costrizioni, da una condizione di cattività giuridica e sociale che è rimasta tale ancora a lungo in Italia.

Va dato merito a Bertolucci dell’aver alzato un velo su un frammento della condizione domestica femminile ad un’età biografica, più o meno diciassettenne, e in un tempo storico non proprio pronti a cogliere le discriminazioni nei confronti delle donne. Il quadro riccamente adornato degli interni borghesi descritti nella poesia da Bertolucci si traduce in una tessitura lessicale, in una declinazione di parole tutte al femminile: Donne, tende, finestre, sera, luci, pelle, gemme, fronte, nebbia, pendola, ora, mano, cioè un elenco o meglio un rosario che serve a specificare, a rendere più immediatamente riconoscibile lo spazio muliebre, limitato alla casa, da cui è impossibile per le donne fuggire; e che si mostra ideologicamente assai distante dal repertorio di elementi kitsch presenti negli arredamenti delle case borghesi dell’epoca scanditi da un poeta amato da Bertolucci come Gozzano, che vanno appunto dal salotto umbertino di nonna Speranza contornato da «buone cose di pessimo gusto», alla Vill’Amarena della Signorina Felicita, con il suo «arredo squallido e severo / antico e nuovo». Le «caste» finestre inoltre, facendo da tappo del tempo atmosferico, riproducono il grande palcoscenico attraverso cui la vita celebra i suoi riti quotidiani, scanditi dalle tracce di tempo legate alle cose, come l’immagine contadina della pendola, o come le abitudini culinarie, quale la consumazione del pasto più abbondante della giornata all’ora di cena: stanno anche a significare, per chi vi agisce dietro, l’esistenza di un fuori, la possibilità di evadere dall’opprimente e costrittiva situazione personale nello stanco ripetersi delle giornate. Le finestre determinano quindi una confusione di piani di immagine, tra chi osserva da fuori, il lettore il poeta, e chi invece verso quel fuori vorrebbe fuggire; tra il lusso dell’appartamento, con le luci sfavillanti, con le belle e riccamente vestite donne che sembrano far parte anche loro del mobilio, e la miseria interiore dell’anima, che trova il suo sfogo con quello «sgomento» serrato nel petto.

Questo senso della limitatezza, della precarietà, e insieme della muta rassegnazione femminile, ritornerà nell’opera di Giorgio Caproni, altro poeta che partendo dai luoghi del ricordo, la Livorno dell’infanzia e la Genova della giovinezza, costruisce la propria esperienza lirica nella rêverie ˗ così come accadrà anche, per certi versi, a Sandro Penna. In Immagine della sera, Caproni costruisce un paragone tra la sera e il volto diafano, stanco, sbattuto di «una donna di casa» a fine giornata:

Mi fai pensare, o sera,
con la tua pallidezza,
al viso un poco sbattuto
e deluso
d’una donna di casa,
quand’ha compiuto il lungo
giorno che l’ha strapazzata.

Con un sorriso a fiore
di labbra, s’affaccia
alla solita attesa.
E forse non sa neppure
d’essere rassegnata5.

L’erotismo che sottende a tutta la raccolta di Sirio ha una filiazione di calore, di agitazione che appartiene a Madame Bovary ed è naturale che molti l’abbiano letto come una sorta di omaggio letterario a Flaubert. C’è però qualcosa in più: i riferimenti a questa tipologia di bovarismo sono sparsi un po’ ovunque nella raccolta, e ad esempio, nella poesia Donne, quando Bertolucci ricostruisce scenograficamente la scena dei pepli e delle «caste finestre», sembra aver presente chiaramente un passo del capolavoro di Flaubert nel momento in cui il padre di Emma, per far conoscere a Charles Bovary, che si trovava dietro una roccia, la risposta della figlia alla sua richiesta d’averla in moglie, gli dice che in caso positivo avrebbe spalancato le persiane delle finestre, un gesto osceno che rimanda, vista l’occasione, all’aprire, allo spalancare appunto, le gambe. Rendere caste le finestre significa allora fare di una apertura quale la finestra un oggetto sessuale, per cui gli appartamenti in cui si trovano le donne non solo sono lussuosi, ma anche lussuriosi. La finestra compare qui come un luogo di fuga, un simbolo per eccellenza del desiderio di uscire dalla propria cella, cioè dalla provincia della vita.

Le presenze femminili di Sirio somigliano a tante piccole Madame Bovary, alcune addirittura lo sono in erba, quelle di Donne invece ne copiano perfino il gusto, tanto che indossano un gran fiore al seno, hanno gli occhi sfavillanti come gemme, e la loro pelle brilla per il calore, per il sudore; proprio quest’ultima è una delle caratteristiche messe in evidenza da Flaubert la prima volta che descrive Emma Bovary con le goccioline di sudore che le cadono dalla fronte. In questa poesia due gesti appaiono fortemente evocativi: quello di discostare le tende del salotto e quello di appoggiare la fronte al freddo della finestra per scorgere qualcosa giù nella strada, per guardare fuori, un tentativo forse, o solo un recondito desiderio di fuggire. Uno dei temi che ricorre in Sirio è proprio questo della finestra, che rappresenta una sorta di prigione da cui scappare secondo la tipica inquietudine dell’adolescente, ed emerge anche in altri componimenti, quali ad esempio Mattino, in cui da una finestra giungono, insieme ai canti delle donne che lavano i panni al fiume e al mormorio del fiume stesso, ma contrarie, le voci del porto e con esse l’idea di una possibile, realizzabile fuga.

C’è una ulteriore considerazione da aggiungere intorno al tema della finestra, peraltro già raccontato come esperienza personale in Come nasce l’ansia, decimo capitolo del libro I della Camera da letto, quando ricorda che da bambino avvicinava una sedia alla finestra e vi saliva sopra per rivolgere lo sguardo fuori, aspettando con angoscia il ritorno della mamma Maria e del papà Bernardo. Questo atto di osservare il mondo esterno da una finestra, che ritorna in tante diverse versioni, cela lo stesso tipo di identificazione che era possibile cogliere tra Bovary e Flaubert, in cui il bovarismo era la malattia dello scrittore: voglio dire che Bertolucci si sente come Madame Bovary e nella sua indagine erotica compie una specie di gioco adolescenziale per cui ogni tanto affiora il desiderio di mascherarsi e di sentirsi come una donna: tra le caratteristiche dell’erotismo di Sirio è presente anche questo tentativo di assimilazione, di apparentamento con l’universo femminile, è come una invariante, un tema ricorrente che percorre la raccolta, una sorta di bovarismo che è dentro di lui e viene da pensare che quando appoggia la fronte alla finestra quella vestita da donna è anche il giovanissimo Bertolucci.

Questo divertimento dell’adolescente cui piace sentirsi en travesti, metamorfizzarsi nel sesso opposto, è fantasia erotica assai comune nella quale non assurgi a ruolo di fidanzato di una donna, ma nella sua amica, perché nel frattempo anche tu sei diventato una fanciulla: Bertolucci è come se ad un certo punto da poeta diventasse poetessa, come se fosse una donna, e questo rappresenta uno degli strati più profondi, più inconsci forse in lui; gli stessi gesti e gli scarti linguistici attribuibili all’universo femminile, che intuisce o verso i quali si mostra particolarmente attento, tradiscono un elemento di bovarismo nel suo sogno erotico di un travestimento e fuga. Se pensiamo ad Orsola in Notte, con la veste che le si allarga sui fianchi, viene quasi immediato l’impulso di sovrapporre il poeta a colei che sta cantando, raffigurando: anche l’erotismo di provincia, di fuga in Donne, è un’altra proiezione del poeta stesso, che sembra sempre ritrovarsi felice nei propri luoghi, ben piantato e radicato, però al tempo stesso appare desideroso di altro, e con questa sua smania, con questa sua impazienza dell’altrove sembra un piccolo Rimbaud:

Dalla finestra aperta
entran le voci calme
del fiume,
i canti lontani
delle lavandaie
laggiù fra i pioppi e gli ontani,
presso la pura corrente
che mormora sì dolcemente
il fumo dei vapori
si confonde con quello delle case
sotto il riso trionfale
del cielo.
Sull’altra riva, nel viale
le affiches azzurre
delle compagnie di navigazione
riempiono di nostalgia e d’illusione
il cuore degli uomini
seduti sulle panchine.
Penso ad una fanciulla bionda.
Fra poco sarà mezzogiorno
e una gran tenerezza m’invade,
e una voglia di piangere senza perché6.

Compare in Mattino un’altra finestra dalla quale entrano, come detto, i cartelloni pubblicitari, «le affiches» che annunciano le isole tropicali o quelle del Medio Oriente, un po’ come accade a Leopold Bloom quando passeggia per le strade di Dublino: è la parte più bella, più moderna di questa poesia, l’invito al viaggio, che sa molto di provincia, e che è però insieme estremamente attuale per il voler passare attraverso il mondo ingannevole della pubblicità, con l’idea che siano le agenzie turistiche a far nascere in maniera molto domestica, molto borghigiana, il desiderio del viaggio. In queste poesie di Sirio, tra virgolette tutte campagnole, arcadiche, ad un certo punto interviene uno scarto, una sovrapposizione, un residuo che riporta su un piano di grande modernità le composizioni, come accade in Strumenti:

Cornamusa, flebile
rivo di armonia
che incrini il verde dei prati,
gracile melodia.

Violino, elegante
sospiro, ricciuto
angelo pellirossa che voli
in uno smorto cielo di velluto.

Chitarra, dai larghi fianchi,
colore del vecchio oro,
bicchiere, tavola, uomo,
strumento dal riso sonoro.

Saxofono, torbido grido
Di un mulatto vestito di cotone.

Banjo, lunare nostalgia,
splendi fra l’acque chiare,
ed una mano mozza ti suona.

Così come in Mattino non c’è il marinaio che racconta di viaggi ma i manifesti pubblicitari delle agenzie, anche qui, quando parla degli strumenti, vicino alla cornamusa e al violino, cioè allo strumento popolare e allo strumento della tradizione classica, spuntano il banjo e soprattutto il saxofono, suonato da un mulatto: dunque il jazz con la sua dimensione di suono aritmico, per cui l’aritmia del jazz è una aritmia del proprio cuore e una aritmia del proprio sentire.

Spesso succede ai provinciali di genio com’era Bertolucci di avere degli spunti di grande modernità e così dinanzi alle sue poesie ci troviamo come colui che in una casa di campagna s’imbatta in un quadro cubista: le stesse «affiches» somigliano ad una rappresentazione pop nel panorama cittadino parmense, e sono proprio questi slittamenti che lo fanno uscire assolutamente da Pascoli o da quella realtà contadina e lo rendono ai nostri occhi moderno, già aggiornato.

  1. Cfr. A. Bertolucci, Sogno, in Id., Sirio, in Id., Opere, a cura di P. Lagazzi e G. Palli Baroni, Milano, Mondadori, 2001, p. 23: «Bionda ed ardente / stai / nella febbre della / notte silente. / E gli occhi tuoi / sorridenti / e il dolce corpo / vicino al mio / tu così bella e sì terrena / vago angelo / amoroso. / Parole silenti / bruciano le nostre labbra, / e carezze non date / m’ardono ancora sul viso. / Oh sogno, / lontano sogno, / ahimè tanto lontano!».
  2. Notte, in Id., Sirio, in Id., Opere, op. cit., p. 12.
  3. A una fanciulla, in Id., Sirio, in Id., Opere, op. cit., p. 24. Si osservino ad esempio le epifore come «turchino» al verso 2, «biancospino» al verso 9, sorriso-viso-sorriso, giorno-giorno-ritorno, parole-parole, che quasi annunciano i ritmi tipici di una raccolta come Lettere da casa.
  4. Donne, in Id., Opere, op. cit., p. 30.
  5. G. Caproni, Immagine della sera, in Id., Come un’allegoria, in Id., Poesie. 1932-1986, Milano, Garzanti, 1995, p. 28.
  6. Mattino, in Id., Sirio, in Id., Opere, op. cit., p. 9.

(fasc. 11, 25 ottobre 2016)