“L’Illusione” di De Roberto e i rispecchiamenti di un’eroina tragica

Author di Dario Stazzone

Il secondo romanzo di Federico De Roberto, L’Illusione, è stato considerato spesso l’ouverture del ciclo familiare degli Uzeda, ma la sua posizione, in virtù dell’«indefettibile “focalizzazione interna”»[1. M. Lavagetto, Introduzione, in F. De Roberto, L’Illusione, a cura di M. Lavagetto e S. Campailla, Milano, Garzanti, 1987, p. XII.] con cui sono narrate le illusioni e disillusioni di Teresa Uzeda, protagonista unica dell’opera, è peculiare tra i romanzi derobertiani e rimane ben lontana dalla polifonia dei Vicerè o dall’intreccio di voci dell’Imperio.

L’itinerario di Teresa è tracciato con profondità introspettiva dall’infanzia alla piena maturità, sviluppando alcuni motivi già presenti nell’Ermanno Raeli, romanzo esordiale di De Roberto che, dal punto di vista stilistico, rimane ben distante dalle opere successive. Tuttavia, nelle vicende dei due protagonisti si può trovare più di qualche comunanza tematica o labile rispecchiamento. Ermanno Raeli, infatti, giovane incerto e presto privo di guida parentale, si dà a un’inquieta e inconclusa ricerca di conoscenza che attraversa i diversi campi del sapere[2. Cfr. R. Galvagno, Ermanno Raeli e la psicologia della Bildung, in Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di M. C. Papini, D. Fioretti e T. Spignoli, Pisa, Edizioni ETS, 2007, pp. 191-203.], mentre Teresa esercita il proprio rovello sulla materia amorosa, trascorrendo da un amante all’altro in una successione, sempre deludente, di rapporti adulterini[3. Alida D’Aquino ha definito Teresa Uzeda, in virtù della sua «tensione gnoseologica», un’«eroina della conoscenza». Cfr. A. D’Aquino, Tra «L’Illusione» e i «Vicerè»: Matilde e Teresa, in Gli inganni del romanzo. I «Viceré» tra storia e finzione letteraria, presentazione di A. Di Grado, Catania, Fondazione Verga, 1998, p. 277.]. Entrambi i personaggi, segnati dall’orfanità, pur godendo di una privilegiata condizione sociale, sono scissi e sofferenti. L’inquietudine di Ermanno è ricondotta al tema naturalistico della razza, al contrasto tra la natura paterna e quella materna:

Ermanno Raeli era rimasto orfano a ventun anno. Figlio di un Siciliano e d’una Tedesca, i tratti caratteristici delle due razze si mostravano curiosamente commisti nella sua persona e nella sua personalità (…)[4. F. De Roberto, Ermanno Raeli, Milano, Mondadori, 1923, p. 15.].

Ma la persona morale pagava certamente i vantaggi che l’individuo fisico doveva alla discendenza dalle due razze. (…) i due temperamenti persistevano intatti e divisi nella nuova coscienza, esponendola ad un dissidio continuo e irrimediabile. Egli possedeva un doppio io, sentiva in due modi diversi, vagheggiava due opposte concezioni della vita (…)[5. Ivi, p. 16.].

Pur senza motivazioni che rinviano a «razze» confliggenti, ma a causa dei travagli della sua esistenza, Teresa avverte in sé la scissione e si definisce, con un’espressione icastica, «rotta in due»[6. F. De Roberto, L’Illusione, in Id., Romanzi, novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani, Milano, Mondadori, 2004, p. 388. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.].

Anche il rapporto tra L’Illusione e le successive opere di De Roberto è ricco di echi e richiami. Il romanzo del 1891, infatti, non è legato ai Vicerè solo da un esile filo tematico, ovvero il rapporto di parentela tra Teresa e la sfortunata madre Matilde Palmi, andata in moglie al contino Raimondo di Lumera: che L’Illusione possa esser letta anche come lo sviluppo ex ante di una delle tante vicende presenti nell’intricato intreccio del maggiore romanzo derobertiano è cosa ben nota; che, mutatis mutandis, lo strazio coniugale di Matilde sia destinato a ripetersi in Teresa, come in un gioco di specchi che procede per catene parentali femminili, è anch’esso un motivo ben noto e indagato dalla critica[7. Cfr. A. D’Aquino, Tra «L’Illusione» e i «Vicerè»: Matilde e Teresa, in Gli inganni del romanzo. I «Viceré» tra storia e finzione letteraria, op. cit., pp. 267-93.].

Più sottili sono i nodi tematici che accomunano le opere del ciclo degli Uzeda: basterebbe pensare all’apparizione, nell’Illusione, del testo araldico Mugnòs che sarà investito di una funzione essenziale nei Vicerè, letto e riletto dalla «zitellona» donna Ferdinanda al principino Consalvo[8. Nell’Illusione a leggere e rileggere il Mugnòs per alimentare il proprio orgoglio aristocratico è il marito di Teresa, Guglielmo Duffredi; cfr. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 150: «Quando parlava della sua nascita, della sua nobiltà, era inesauribile: sapeva a memoria tutto il capitolo del Teatro genealogico di Sicilia del Mugnòs dove si ragionava della sua famiglia. Duffredi o Duffré era una corruzione di Umfredo; sotto gli Svevi i discendenti del Normanno erano stati perseguitati…».], o ai tratti che assimilano il piccolo Roberto, figlio di Teresa, al giovane Consalvo: nei veloci cenni al carattere volitivo di Roberto, alla sua formazione tra mozzi di stalla è facile scorgere una sinopia del futuro ritratto del principe Uzeda. Anche le pagine dell’Illusione dedicate a Roma, alla vita di Montecitorio e ai riti parlamentari sono chiaramente anticipatrici delle descrizioni dell’Imperio.

L’Illusione, sebbene irrelato da altri romanzi per quanto concerne significativi rinvii, presenta tuttavia tratti peculiari non solo all’interno del corpus derobertiano, ma anche in rapporto alla letteratura europea cui si ispira. La tragica figura di Teresa eccede decisamente quella dei suoi modelli letterari, in primo luogo l’Emma Bovary di Flaubert, per le sue capacità analitiche e autoanalitiche, per la forza corrosiva con cui ne è descritta l’illusione amorosa: come ha sottolineato Antonio Di Grado, non è un caso che la redazione dell’opera, definita dallo stesso autore un «monologo di 450 pagine»[9. Lettera di F. De Roberto a F. Di Giorgi del 18 luglio 1891, in A. Navarria, Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Niccolò Giannotta Editore, 1974, p. 25. Mario Lavagetto ha dedicato un saggio fondamentale a L’Illusione, nel quale definisce, con un’originale metafora, il «monologo di 450 pagine» una «narrazione» che «si scava la strada lentamente, come un ferro a spirale penetra in una materia compatta». Cfr. M. Lavagetto, Introduzione, in F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., pp. XII-XIII.], si accompagni a quella del saggio La morte dell’amore, pubblicato un anno dopo[10. F. De Roberto, La morte dell’amore, Napoli, Pierro, 1892.], e trovi un’ulteriore appendice nel settimo capitolo degli Amori del 1898[11. F. De Roberto, Gli amori, Milano, Treves, 1898.].

Dietro alla vicenda di Teresa, alle illusioni che investono parimenti la materia amorosa, politica, religiosa, araldica e letteraria, è facile scorgere la sensibilità tormentata dello scrittore, dell’uomo che è stato autore della Morte dell’amore, degli Amori e del singolare saggio L’Amore. Psicologia-Fisiologia-Morale, dove il più forte dei sentimenti umani è ricondotto alla sua base fisiologica[12. Cfr. F. De Roberto, L’Amore. Fisiologia – Psicologia – Morale, prefazione di A. Di Grado, Sesto Fiorentino (FI), Apice Libri, 2015. Per uno studio dei topoi amorosi nell’opera derobertiana cfr. R. Castelli, Il discorso amoroso di Federico De Roberto, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2012.].

Ogni scrittore si proietta e si rispecchia almeno parzialmente nei suoi personaggi: questo è chiaro nel modo in cui De Roberto descrive e scandaglia le intermittenze del cuore di Teresa, ma è evidente anche nel modo in cui egli rappresenta il mondo maschile ed esprime le pulsioni più immediate in termini tanto abili dal punto di vista retorico quanto mendaci. Fra tante delusioni Teresa giunge a constatare, volta per volta, la morte del suo amore, la morte stessa dell’amore: «Adesso ella intravedeva, più distintamente di prima, una cosa orribile; la morte di quell’amore… Il miraggio che l’aveva affascinata, la speranza che l’aveva sorretta, svanivano, si dileguavano, insensibilmente, ma continuamente, senza speranza di ritorno»[13. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 322.].

Il ritratto di Teresa, tra motivi flaubertiani e difformità dal modello

Fin dall’incipit dell’Illusione la figura di Teresa, ancora bambina, appare caratterizzata da una grande ed estroversa vivacità, subito contrapposta al carattere serio, rigoroso e fin troppo maturo della sorella minore Laura. Quando il nonno giunge a Firenze, dove Teresina risiede con l’intera sua famiglia, ella esprime la propria gioia attraverso una serie di brevi frasi esclamative o interrogative cui sono frapposti i puntini sospensivi, a rappresentare una curiosità e uno slancio quasi ansimanti. Ben diverso è il registro stilistico, improntato a una nitida conseguenzialità logica e a una salda articolazione ipotattica, cui De Roberto ricorre facendo parlare Laura: lo zelo eccessivo che la bambina manifesta anche nell’uso della parola, la sua fragilità fisica, la tristezza e il diniego dei piaceri mondani connotano il personaggio, anticipandone la morte prematura. Le pagine iniziali dell’Illusione, non ancora appesantite dalla sequenza degli amori e dei tradimenti di Teresa, ambientate a Firenze e a Milazzo, sono tra le più fresche del romanzo, fin dall’incipit ex abrupto, dal primo apparire della protagonista che corre allegramente tra le sale dell’abitazione in cui risiede la famiglia.

I tratti di vivacità di Teresina vengono ripetutamente messi in evidenza dalle prosopografie che testimoniano l’attenzione fisiognomica dello scrittore. Sulla giovane protagonista, che dovrà confrontarsi con due lutti precoci e terribili, la morte della madre e la morte della sorella minore, peserà l’eclissi parentale come la dissimmetria tra il modello di rassegnazione e sopportazione impersonato dalla madre e l’indole sregolata, capricciosa, decisamente orgogliosa del padre, appartenente alla famiglia di antica aristocrazia degli Uzeda (non a caso il nonno materno, già nelle pagine iniziali del romanzo, rinfaccia a Teresa ancora bambina di essere «della stessa razza del padre»)[14. Ivi, p. 11.]. Su queste premesse, prospettate anche nei Vicerè quasi con funzione di «giustificazione a posteriori»[15. P. M. Sipala, Introduzione a De Roberto, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 52.], è costruita la storia dell’eroina derobertiana. Tra l’altro è propria della Teresa ancora fanciulla una precocità sentimentale non priva di implicazioni edipiche, evidenti nell’infatuazione ch’ella concepisce per il conte Rossi, «tanto amico del babbo»[16. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 9.]: un sentimento che si rafforza nella pressoché totale assenza della figura paterna.

Essenziale nella formazione di Teresa è la passione letteraria che surroga la mancanza della guida parentale. Come ha messo in evidenza una vasta letteratura critica, l’eco più evidente di Flaubert nell’Illusione è riscontrabile nelle «fantasticaggini»[17. Ivi, p. 306.] della protagonista, ovvero nell’impatto che le letture hanno sul suo immaginario: un motivo che riconduce chiaramente al modello di Madame Bovary. È, però, da dire che De Roberto complica ulteriormente lo spunto flaubertiano e, oltre a una ricca enucleazione di romanzi, pone, tra i diversi generi che condizionano il suo personaggio, anche le fiabe ch’ella ha ascoltato da bambina e il melodramma. L’Illusione contiene elenchi che dicono molto delle preferenze dell’autore: in questo come in altri testi derobertiani sono assai presenti i cenni ai teatri e alle opere che vi si rappresentano o le sintesi del loro intreccio.

«Guastata» dai libri, come aveva previsto la zia materna[18. Ivi, p. 13.], Teresa sostituisce ben presto alla realtà il sovramondo dell’immaginazione:

Adesso conosceva la vita! Ed una vita intensa ella viveva, con i suoi libri. Slanci d’entusiasmo e dolori sconfinati, raccapricci e fremiti, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. Alle volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un’oppressione fisica, un disgusto, una nausea per tutte le cose, le volgarità dell’esistenza alle quali doveva sottostare e che l’agguagliavano alla folla bruta e aborrita. Rifiutava i cibi, voleva potersi nutrir d’aria, si procurava finalmente qualcuno dei soliti attacchi nervosi[19. Ivi, p. 79.].

In termini non differenti De Roberto aveva descritto l’infanzia e l’adolescenza di Flaubert:

La facoltà che prima e più di tutte le altre in lui si sviluppa è dunque l’immaginazione, il genio inventivo, che le fiabe raccolte da un vecchio amico alimentano. (…) La sua immaginazione esaltata non trova alimento nella realtà: così egli si getta sui libri, si nutre dei sogni di cui essi sono pieni; ma la magnificenza dei miraggi intravisti rende tanto più insopportabile la prosa dell’esistenza quotidiana, e una nausea gli sale alla gola[20. F. De Roberto, Gustavo Flaubert. L’uomo, in «Fanfulla della Domenica», 6 aprile 1890. In merito al rapporto tra De Roberto e Flaubert è utile leggere C. A. Madrignani, Introduzione, in F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, op. cit., p. XXII: «Teresa rappresenta il dramma sentimentale di una donna chiusa in un mondo che la travolge nella sua logica di progressiva espropriazione dei sentimenti, ma è anche un’eroina alla conquista di una consapevolezza e di una padronanza, difficilmente e amaramente guadagnate, per quanto riguarda sia le regole del suo mondo pulsionale che quelle della realtà sociale. La linea del narratore consiste nel rappresentare dall’interno un’esperienza psicologica in progress, una vita riassorbita nelle reazioni del soggetto pensante. Tutto il romanzo assume come elemento propulsore dei vari segmenti narrativi la facoltà di rivivere e di “fantasticare” della protagonista. Qui è l’elemento in comune con Emma Bovary, ma il punto di vista di De Roberto è diverso. Flaubert sta sempre distaccato, al di fuori di ogni tentazione proiettiva, e costruisce una macchina romanzesca di cui la vicenda interiore di Emma è solo una parte. De Roberto tende a identificare il romanzo con la “storia” di Teresa in un crescendo di interiorizzazione, ed in effetti il piano della narrazione in terza persona tende a ridursi, assumendo i contorni di un ininterrotto monologo».].

Di «una specie di ipertrofia dell’immaginazione» De Roberto aveva parlato anche in un articolo dedicato a Leopardi e Flaubert[21. F. De Roberto, Leopardi e Flaubert, in «Fanfulla della Domenica», 22 agosto 1886.]. I due scrittori, pur così differenti tra loro, avrebbero un comune denominatore nel «romanticismo» inteso come «dimensione psicologica». In questa peculiare lettura critica è data, da un lato, l’intuizione della sostanza romantica dell’opera flaubertiana, che pure si invera in una forma tanto innovativa[22. Per Madame Bovary e più in generale per l’opera flaubertiana Roland Barthes parla di «scrittura artigianale», di «lavoro della forma», di «una scrittura normativa che contiene, paradossalmente, le regole tecniche di un pathos». Cfr. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 2003, p. 47.], dall’altro la centralità del motivo dell’illusione in Leopardi, ribadita ancora nel saggio dedicato al poeta recanatese nel 1898[23. F. De Roberto, Leopardi, con la riproduzione facsimilare di una lettera di G. Carducci, Milano, Treves, 1921. Sul leopardismo di De Roberto cfr. A. Di Grado, Federico De Roberto e la “scuola antropologica”. Positivismo, verismo, leopardismo, Bologna, Pàtron, 1982 e M. Guglielminetti, Le rose e l’asfodelo (note sul «Leopardi» di De Roberto), in Federico De Roberto, a cura di S. Zappulla Muscarà, Palermo, Palumbo, 1984, pp. 5-11.]. Non è un caso che nel lungo catalogo di letture affrontate dalla giovane Teresa, Tasso, Sue, Hugo, Balzac, Scott, Dumas, Manzoni, Visconti, Prati ed Aleardi, appaia anche Leopardi, una frequentazione certo non consueta per una donna dell’epoca[24. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 85.].

Il lavoro fantasmatico della lettrice, favorito dalle pagine della grande letteratura, determina proiezioni e rispecchiamenti singolari. Tra essi vi è l’Armida del Tasso, strana identificazione se si considera che la lettura della Gerusalemme viene affrontata in età giovanile, sotto la guida di un professore: «Meno male il Tasso. Da principio si seccò anche della sua Gerusalemme! poi, a poco a poco cominciò a gustarla: le parve di assistere ai combattimenti dei Crociati coi Turchi, ai duelli di Tancredi con Argante; e Armida, quantunque fosse una vecchia fattucchiera, le ispirò molta pietà»[25. Ivi, p. 54.].

Ancora più interessante, tra le identificazioni della fanciulla, quella relativa alla sorella Laura. Qui la tensione speculare di Teresa è duplice: da un lato si riferisce alla sorella morta, assurta al ruolo di eroina tragica, dall’altro guarda alle eroine dei romanzi, maestre di vita «belle e infelici» che dell’umana esistenza hanno già conosciuto le ineluttabili prove e i rovesci:

Adesso conosceva mezzo Sue; molte cose di Balzac, che giudicava però troppo lungo; quasi tutto Walter Scott. Il ricordo della sua povera sorellina morta la sorprendeva alle volte in mezzo alle immaginazioni suggerite da quei libri; allora si sentiva invadere da una mestizia dolce, da una grata malinconia; si stimava simile a qualcuna delle eroine belle e infelici che aveva preso a modello, che le parevano altrettanto maestre di vita, dalle quali aveva la secreta ambizione di essere approvata in ogni atto e in ogni pensiero (…)[26. Ivi, p. 75.].

E un’idea certe volte le passava per il capo: poiché la sua sorellina era morta, non avrebbero potuto chiamar lei Laura? Sarebbe stato quasi un modo di farla rivivere[27. Ivi, p. 79. Il nome della protagonista, Teresa, e quello della sorella, Laura, costituirebbero, secondo R. Galvagno, una chiave di lettura essenziale dell’Illusione. Cfr. R. Galvagno, Teresa Uzeda e i suoi Maîtres, in «Between», III, n. 6, novembre 2013, pp. 1-20. La studiosa, citando un brano dei Vicerè, sottolinea: «È nei Viceré che possiamo leggere la verità sul nome di Teresa: “Una bambina nacque infatti, e quando si trattò di battezzarla, quantunque ella e il padre avessero desiderato chiamarla come la loro cara perduta, riconobbero tuttavia la convenienza di darle il nome della principessa”. Si può supporre che “la cara perduta” portasse il nome di Laura». In altre parole la protagonista dell’Illusione portava un nome scelto per convenienza dalla madre, Matilde Palmi, in omaggio alla suocera Teresa Uzeda di Francalanza, mentre il nome passato alla secondogenita, Laura, riconduce al ricordo affettuoso di una «cara perduta». Per la Galvagno il dubbio concepito da Teresa nei confronti del suo stesso nome è destinato a restare irrisolto, come tutti gli altri suoi dubbi, e il disprezzo, l’odio, perfino l’autolesionismo di cui ella dà prova deriverebbero dall’ignoranza delle sue origini e dello stesso nome che porta.].

In una densa pagina del romanzo, ricca di cumulationes, l’autore inserisce la sequenza di personaggi femminili amati da Teresa, una teoria onomastica non casuale che sembra esortare il lettore all’esercizio dell’esegesi critica: «Che lacrime le costavano quei libri! Di che amore cocente e struggente ne amava i personaggi! Ella le vedeva tutte, quelle grandi amate di cui si narravano le fortunose storie; i loro nomi le risuonavano continuamente all’orecchio: Andreina, Matilde, Emma, Cecilia»[28. Ibidem.]. È facile scorgere nel nome proprio Emma un riferimento alla Bovary, dunque un’allusione al principale modello sotteso alle pagine dell’Illusione; in Matilde è dato un probabile riferimento al Rosso e nero di Stendhal; Andreina potrebbe essere una citazione di Andrèa la Charmeuse di Émile Richebourg; il nome Cecilia riconduce in primo luogo al romanzo di Alexandre Dumas, Cécile ou La robe de noces, ma più argutamente vi si potrebbe scorgere, dietro allo stesso calco onomastico, un riferimento alla protagonista e al racconto eponimo di Profili di donne di Capuana, e dunque un omaggio all’amico e a una delle opere che De Roberto doveva certamente aver presente, assieme a Giacinta, scrivendo il suo «studio di donna» o «ritratto di signora»[29. A. Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, op. cit., p. 128.]. Non è un caso, infatti, che la parola chiave ricorrente in Profili di donne, la prima silloge di novelle pubblicata da Capuana in cui è ravvisabile l’eco delle Illusions perdues di Balzac, sia proprio «illusione»[30. In merito alla parola chiave «illusione» in Profili di donne di Capuana, mi permetto di rinviare al mio intervento in occasione del convegno La narrazione breve e i bozzetti teatrali in Verga, Capuana e De Roberto, organizzato dalla Fondazione Verga e dall’Università degli Studi di Catania nel dicembre 2015, di prossima pubblicazione presso gli Annali della Fondazione Verga.].

Il romanzo di Teresa può anche essere letto come un libro ricco di riflessioni sulle risonanze della letteratura, di citazioni intertestuali meditate dall’autore e investite di quel valore affettivo di cui parlava Julia Kristeva nel suo Semeiotiké[31. Cfr. J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978.]. Un testo denso di echi e riflessi, dunque, e una descrizione dei rischi connessi al diniego della realtà che rimodula, con originalità, il precedente flaubertiano.

Lo specchio e il decadimento fisico

Come si è visto, la vicenda di Teresa Uzeda, dall’infanzia alle amare disillusioni della maturità, può essere interpretata in rapporto all’opera di Flaubert, al tema leopardiano dell’illusione, alle inquietudini della cultura fin de siècle[32. Per uno studio particolarmente attento all’influsso dello psicologismo di Paul Bourget nell’Illusione cfr. G. Maffei, L’Illusione di Federico De Roberto: il romanzo delle “evanescenze”, in La scrittura delle passioni: scienza e narrazione nel naturalismo europeo (Francia, Italia, Spagna), Atti del Convegno internazionale di studi, Napoli (30 e 31 gennaio 2004), a cura di M. R. Alfani, P. Bianchi e S. Disegni, Napoli, Marchese Editore, 2009, pp. 117-31.]. Non mancano studi che, con rigore psicoanalitico, hanno messo in evidenza le connotazioni isteriche del personaggio derobertiano[33. Cfr. R. Galvagno, Teresa Uzeda ed Emma Bovary: due isteriche a confronto, in Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, a cura di S. Costa e M. Venturini, tomo II, Pisa, Edizioni ETS, 2010, pp. 417-28.]. L’autore, «esperto alchimista e teorizzatore di dosaggi artistici»[34. C. A. Madrignani, Introduzione, in F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, op. cit., p. IX.], allude almeno una volta al tema della «razza»[35. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 11.], quella razza aristocratica, prepotente e caparbia cui Teresa appartiene per parte di padre: si tratta di un motivo destinato a un ampio sviluppo nei Vicerè e nelle pennellate fisiognomiche e prosopografiche che delineano la galleria di ritratti degli Uzeda. Ma, tra epigonali motivi naturalisti e nuove inquietudini, L’Illusione riconsegna al lettore un personaggio femminile straordinariamente complesso e ricco di sfumature. Nella tormentata ricerca sentimentale di Teresa ha tanta parte la precarietà d’immagine e la paura della decadenza fisica: nuclei contenutistici che si accompagnano alla centralità del motivo narcisistico dell’immagine riflessa e dello specchio che nel romanzo ricorre ben dodici volte ed è presente negli snodi essenziali della narrazione. È possibile individuare un incunabolo dell’Illusione nel racconto Adriana, un testo rimasto inedito e pubblicato, qualche anno fa, a cura di Rosario Castelli[36. F. De Roberto, Adriana. Un racconto inedito e altri “studi di donna”, introduzione a cura di R. Castelli, postfazione di A. Di Grado, Catania, Maimone Editore, 1998.]: la narrazione trae le mosse dall’immagine riflessa della protagonista che lungamente si guarda allo specchio; inoltre, come ha sottolineato il curatore, è centrale in esso il tema della «femme jadis galante, aujourd’hui vieillie», della «beauté vieillie qui parle», probabilmente memore di Bourget e delle novelle giovanili di Balzac[37. Ivi, p. 11.].

L’intera parabola della protagonista dell’Illusione è scandita dallo sguardo rivolto allo specchio: fin da bambina Teresa si sente attratta dalla superficie riflettente; vi proietta le sue fantasie adolescenziali, ricordando le eroine dei romanzi o confrontando le sue movenze con quelle della madre e, in seguito, delle dame del gran mondo palermitano; vi si osserva ancora, dopo la morte della sorella Laura, provando una gratificazione narcisistica che ingenera sottili sensi di colpa; scruta se stessa trentenne, scorgendo i primi segni dell’invecchiamento e, in ultimo, rifiuta decisamente l’immagine speculare. De Roberto traccia abilmente l’itinerario biografico del suo personaggio, passando per gli snodi dei lutti familiari, delle molteplici letture, della vita mondana e dell’introduzione nei fastosi saloni del Quirinale attraverso i riferimenti all’immagine riflessa della protagonista. Da notare il valore simbolico dei trent’anni, momento della piena maturità della donna, e dei quarant’anni, varcati i quali Teresa scorge ineluttabilmente la sua “vecchiezza”: qui, dopo aver accennato agli «occhi inariditi» dell’Uzeda, lo scrittore conclude il romanzo senza soffermarsi oltre sulla sua vicenda.

La prima apparizione dello specchio, nell’Illusione, si accompagna a un monito del nonno inteso a scoraggiare la vanità di Teresa. Viene, così, menzionato un motivo connesso al doppio e alla reduplicazione dell’immagine, quello del riflesso demoniaco, diffuso anche tra le credenze popolari siciliane: «Ma come! Non sai che a furia di guardarsi allo specchio, un bel giorno si vede apparire il diavolo?»[38. Ivi, p. 6.]. Se lo specchio assolve a una funzione formatrice dell’Io[39. Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Id., Scritti, vol. I, a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974, pp. 87-94.], è interessante notare che, ancora molto giovane ma duramente provata dal lutto, Teresina, pur compiaciuta della sua immagine fiorente, la percepisce come un’«irriverenza» verso la sorella scomparsa:

La morta era sempre fra loro; però non ne parlavano mai. Ella non voleva lasciare il lutto; sapeva che dopo sei mesi avrebbe potuto smettere quello grave, ma era risoluta di portarlo lunghi anni, sempre. Sorrideva tristemente quando si guardava allo specchio, quando notava, senza volerlo, il risalto che le vesti nere davano alla sua carnagione rosea, ai suoi capelli d’oro. Le pareva che quella salute, che quella bellezza fossero un’irriverenza verso la sua povera sorellina morta; voleva che il viso esprimesse ciò che il cuore sentiva; provava un senso di contrarietà quando udiva ripetere che aveva l’aspetto fiorente[40. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 71.].

Il romanzo derobertiano non solo descrive il rapporto sempre più difficile della protagonista con la sua immagine, ma accenna anche al suo desiderio di assumere il nome della sorella per perpetuarne l’esistenza: l’inquietudine della fanciulla investe, dunque, sia il nodo dell’immaginario che quello simbolico, sia l’immagine che la parola.

Anche i libri sono, per Teresa, uno specchio dai riflessi mendaci: la pagina di De Roberto rimodula un motivo di remota ascendenza, quello della proiezione del lettore nel testo, della conoscenza per speculum, della confusione tra il libro-specchio e la realtà, motivo già trattato dagli esegeti medievali e destinato a infinite rimodulazioni nella letteratura barocca, in quella romantica e tardo romantica: persino la riflessione novecentesca sulla «precomprensione» del testo letterario che ha agitato la teoria della ricezione potrebbe esser considerata un’aggiornata variazione sull’antico motivo[41. Il problema della «precomprensione» del testo è presente nel dibattito interno alla Scuola di Costanza ed è stato una questione teorica nodale in seno alla riflessione ermeneutica di H. G. Gadamer: per una ricostruzione dei termini del dibattito cfr. A. Compagnon, Il lettore, in Id., Il demone della teoria, Torino, Einaudi, 2000, pp. 149-78.]. In un denso passaggio l’autore, dopo aver fatto cenno ad alcune romanze, traccia il ritratto del suo personaggio che, nel fiore della giovinezza, affascinato dalla lettura, si scruta allo specchio per cercare in sé le fattezze dei suoi modelli idealizzati:

Ella sentiva il cuore salirle alla gola, cantando, e le ciglia inumidirsi. Voleva provare tutte queste cose nella vita, aspettava una grande passione. Non era tanto bella da ispirarla? E si guardava allo specchio, per vedere se somigliava alle protagoniste dei suoi romanzi: il viso era d’un ovale perfetto; la bocca piccola, porporina; i denti di perla, tranne quel canino annerito, che un giorno o l’altro si sarebbe fatto strappare. Le guance rosee le parevano da fanciulla borghese; ma i capelli non compensavano quel difetto? Lunghi fino ai fianchi, folti, odorosi, oro fuso[42. Ivi, p. 80.].

Questa descrizione troverà un triste contrappunto a conclusione del romanzo, quando Teresa apparirà ineluttabilmente invecchiata e scorgerà il proprio tramonto. La rappresentazione della decadenza fisica è dettagliata nell’Illusione, passa per rughe, capelli diradati, denti corrosi e pinguedine. Nella descrizione sopra citata è da mettere in evidenza il dettaglio «borghese» delle guance rosee: la «Bovary siciliana»[43. La definizione è di L. Baldacci, Il “mondo” di Federico De Roberto in Letteratura e verità. Saggi e cronache sull’Ottocento e il Novecento italiani, Roma-Napoli, Ricciardi Editore, 1963, p. 96.] ha infatti lignaggio aristocratico, è differente per nascita dall’eroina flaubertiana, ma, avendo conosciuto il bel mondo di Palermo, Roma e Firenze, va incontro a delusioni e frustrazioni, se possibile, ancor più cocenti di quelle che Emma aveva concepito nella sua condizione piccolo-borghese e nella profonda provincia francese.

La rappresentazione demistificante del blasone e del mondo aristocratico è una costante dell’opera di De Roberto che stabilisce un ulteriore nesso tra L’Illusione e i Vicerè: quanto al romanzo di Teresa, basterebbe pensare al pessimo ritratto del marito, Guglielmo Duffredi, che, estraneo a ogni atteggiamento affettuoso verso la consorte, sperpera il patrimonio familiare e si riduce a vivere di quella dote matrimoniale che tanto aveva disprezzato. Dopo balli e mondanità, delusioni e tradimenti, Teresa, avendo compiuto i trent’anni, osserva in sé le tracce ormai evidenti dell’invecchiamento: «Quando, superata la crisi, si guardò allo specchio, un nuovo turbamento la vinse. I suoi occhi erano accerchiati di bistro, le guance avevano perduta la prima floridezza, la pelle avvizzitasi, il colore delle labbra cominciava a passare»[44. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 258.]. Un sogno d’angoscia rappresenta paradigmaticamente l’orrore della decadenza concepito dalla donna: «Restava lunghe ore guardandosi allo specchio, guardandosi negli occhi, stirandosi le guance, esaminando i denti. Certe notti d’incubo sognava che qualcuno le cascasse a pezzi, infracidito; che gli altri attorno oscillassero nelle gengive, vicini a cadere anch’essi; ed un orrore, un terrore pazzo la destava, di scatto»[45. Ivi, p. 293.]. La pagina derobertiana ha una forza icastica ed espressiva subito riconoscibile: se talvolta il declino della protagonista, le vibranti aperture paesistiche romane, le descrizioni dei ricevimenti e della vita mondana ricordano motivi dannunziani, l’autore se ne distanzia subito per la capacità analitica e corrosiva della sua scrittura che, passando per la cruda fisiognomica dell’Illusione, sarebbe presto approdata alle teratologiche oltranze dei Vicerè. Non risparmiando nulla al proprio personaggio, De Roberto ne traccia la prosopografia intorno ai quarant’anni:

Con un gesto smarrito ella tentò di raccogliere i suoi poveri capelli, di nascondere le guance dietro ai larghi nastri del cappello; ma, a casa, fermandosi dinanzi allo specchio, sentì mancarsi, come all’apparizione di uno spettro: la pelle era macchiata, il collo rugoso, annerito; i capelli rari, secchi, giallastri: mai non si era vista così! … Nel nuovo studio di nasconder quelle rovine, un riverbero dell’antico splendore illuminò il suo viso; ma ella si sentiva ormai colpita al cuore, la sua seduzione le pareva simile a quella di Armida; e nel rileggere il vecchio Tasso macchiato d’inchiostro sentì di se stessa la pietà che la maga le aveva un tempo ispirata[46. Ivi, p. 403.].

Siamo ormai all’epilogo della triste vicenda. Teresa contempla le proprie «rovine», scorge appena qualche riverbero dell’antico splendore. Il romanzo ha messo costantemente in evidenza la passione della protagonista per tutto ciò che attiene alla sfera idealizzata della bellezza e della giovinezza, alla perfezione dell’ideale emblematizzata dallo specchio, fino al momento in cui il velo illusorio cade per rivelarle, attraverso lo stesso strumento riflettente, la cruda realtà.

Ultima illusione, ultima proiezione verso la giovinezza perduta, è determinata dall’amore di Maurizio Squillace, un ragazzo che, a sua volta, idealizza la donna matura e sofisticata. Il compiacimento per questa nuova conquista e la capacità seduttiva che Teresa rivela anche in età più avanzata giustificano la sua identificazione con Armida, la «vecchia fattucchiera» cantata dalle ottave del Tasso. La reazione della famiglia Squillace è tuttavia, per la donna, l’umiliazione estrema: «La madre cominciò anzi a parlare contro di lei, si schierò fra i suoi avversarii, minacciò di fare uno scandalo se ella non si levava dal capo di sedurle il figliolo»[47 Ivi, p. 401.]. L’impossibilità di questo rapporto determina un definitivo e «tristo disinganno»[48. Ibidem.]. Il chiuso narcisismo di Teresa, incapace di concepire una vera relazione amorosa, affonda ineluttabilmente nelle acque dei labili riflessi. Dopo aver tracciato con coerenza l’itinerarium biografico di una bambina colpita dai lutti, priva di supporto affettivo e di guida parentale, di una donna il cui comportamento è caratterizzato dalle oscillazioni euforiche e disforiche tipiche dell’isteria, da processi di idealizzazione e identificazione illusoria, lo scrittore si avvia a un explicit intensamente patemico.

De Roberto, che nel romanzo ha conferito rilevanza allo specchio, non ha tralasciato le variazioni sul motivo attraverso i cenni al ritratto pittorico e fotografico[49. Ivi, pp. 39-40. Nelle prime pagine dell’Illusione De Roberto accenna al ritratto fotografico che il giovane Luigi Accardi fa di Teresa Uzeda a Milazzo. Il dettaglio della macchina fotografica che seduce uomini e donne, «cosa unica piuttosto che rara in quel paesaccio», riconduce certamente alla passione per l’arte dello scatto che fu dello scrittore e che lo accomunò agli amici Capuana e Verga. Quanto al De Roberto fotografo e al rapporto tra la fotografia e la sua opera letteraria, cfr. M. Toppano, La configurazione dello spazio nella narrativa e nella fotografia di Federico De Roberto in A. Dolfi, Letteratura e fotografia, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 205-44, mentre per l’attenzione alla fotografia che fu di Capuana e Verga cfr. G. Sorbello, Iconografie veriste. Percorsi tra immagini e scrittura in Verga, Capuana e Pirandello, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2012.], immaginando che il proprio personaggio, ormai maturo, ritrovi uno scatto fotografico che ne immortala le fattezze giovanili. È un’ultima ecfrasis, un simulacrum di ciò che Teresa è stata. Un altro ritratto era comparso nelle prime pagine dell’Illusione, quello che rappresentava Matilde, la madre che Teresa aveva perso da poco, opera di un «gran pittore» fiorentino[50. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 49.].

Ad explicit del libro la protagonista, oramai invecchiata, trova invece una sua antica effige nella cassetta malinconicamente stipata di suoi ricordi da Stefana, unico personaggio che sembra averla amata incondizionatamente, fin da quando la teneva in braccio e le narrava le fiabe dell’infanzia. La vecchia serva, pur non essendo in senso proprio una balia, pur non avendo assolto alla funzione di nutrice consacrata da tanta letteratura ottocentesca, è stata fino all’ultimo, per la protagonista, un sostituto materno, l’unico puntello affettivo di una vita altrimenti segnata da lutti e orfanità[51. Il ruolo materno e tutelare di Stefana verso Teresa è reso esplicito nel testo derobertiano. Cfr. F. De Roberto, L’Illusione, op. cit., p. 14: «Con la mamma quasi sempre a letto, col nonno che non pareva più quello di prima, ora bisognava vedersi sempre dinanzi il muso lungo di Miss, udire i suoi borbottii di eterna malcontenta. Il solo viso allegro era quello di Stefana, che le voleva bene come un’altra mamma. “Ti tenni in braccio io, prima di tutti, quando venisti al mondo”, le diceva, mettendosela a sedere sulle ginocchia, cullandola come ai tempi andati».].

Per quanto De Roberto concentri un simile coacervo tematico nelle pagine conclusive del romanzo, lascia aperto il finale e non dice se Teresa sarà capace di sottrarsi alle sue illusioni o, in una drammatica coazione a ripetere, ricadrà ancora in esse. Non è questa l’unica elusione dell’Illusione, caratterizzata da un esordio in medias res e da un finale sospeso: basterebbe pensare che nel romanzo la stessa parola «illusione», pur presente nella soglia del titolo[52. Cfr. G. Genette, Il titolo, in Id., Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.], è sostituita da catene sinonimiche: lo scrittore preferisce usare i sostantivi «inganno» (e dunque l’antonimo «disinganno»), «incantesimo», «fantasticaggini», «enimma» e il predicato «ingannarsi». Tutti espedienti, elusioni e allusioni, che danno forza a uno dei più profondi ritratti femminili della letteratura dell’Ottocento italiano.

(fasc. 11, 25 ottobre 2016)