Una delle chiavi del successo dello scrittore svedese Stig Larsson si chiama Lisbeth Salander1. È lei il personaggio trainante della Millennium trilogy, il codice che attiva e decifra il messaggio dell’autore. Ci viene descritta come pallida e magra, minuta ma ferocemente determinata, con piercing e tatuaggi ad esemplificare il suo essere «un gatto randagio», un’orfana che ha subito il male da qualcuno molto vicino a lei. Secondo il tribunale minorile è una malata di mente, per i suoi insegnanti una disadattata sociale, agli occhi dei lettori, invece, un hacker geniale e una giovane donna vulnerabile quanto occasionalmente viziosa. Insomma, una vera eroina da letteratura popolare per la quale viene naturale fare il tifo. «È intelligente, sexy, e può innamorarsi profondamente. Come fa a non piacere?», riconosce Sharon Bolton, autrice di thriller esoterici (Sacrificio, Mondadori) nata e cresciuta nel Lancashire (1960). «C’è dentro tutto. Vendette, combattimenti spettacolari, l’eroe invincibile – a un certo punto, è ferita, pensano che sia morta, la sotterrano e lei esce dalla tomba! E in più ha questa sua genialità informatica di cui non capiamo niente ma che ci affascina. L’elemento di novità è che questo personaggio così flamboyant sia una donna», constata Dominique Manotti (Parigi, 1942), giallista francese che in patria definiscono l’anti-Vargas per lo spessore sociale delle sue trame (Il sentiero della speranza, Il corpo nero ecc., editi da Marco Tropea).
Di certo Lisbeth è il detective che non ti aspetti, forse, il segno letterario più evidente del cambiamento in atto nel panorama della produzione di genere, dove non pare più così doveroso costruire personaggi femminili che siano educati e rispettabili: «Ho amato molto Millenium. Penso che sia un eccellente romanzo di letteratura popolare, nel miglior senso del termine, e Lisbeth, molto lontana dal romanzo realista o noir, è un personaggio da romanzo di cappa e spada, vi ho ritrovato quegli elementi che mi avevano entusiasmato nella mia giovinezza».
Anche se non deve sfuggire il fatto che il suo creatore sia un uomo, Lisbeth è una figura chiave per comprendere una tendenza in atto da qualche tempo: negli ultimi decenni i personaggi femminili sono divenuti protagonisti della letteratura poliziesca, soprattutto se scritta da donne. Questa evoluzione del soggetto femminile traduce in modo simmetrico l’evoluzione delle donne all’interno della società occidentale, il ruolo che si sono a fatica conquistate: come accade alle loro omologhe in carne ed ossa, le nostre eroine ormai lavorano in ambiti una volta per antonomasia maschili, come l’FBI o la medicina legale, e si mostrano assai capaci di intervenire fattivamente nella realtà investigativa; al tempo stesso reagiscono alla violenza di cui sono spesso vittime o loro stesse o altre donne, adempiendo contemporaneamente al ruolo sociale di madri e numi tutelari della casa. Il fatto che, soprattutto in Europa, le donne leggano, e consumino, sempre di più spiega, in una logica di mercato, la presenza di figure romanzesche di questo tipo, con cui le lettrici possano identificarsi. Emergono, è chiaro, anche dei nuovi stereotipi nell’esplorazione della donna e dei suoi molteplici ruoli nella società: tuttavia, pur inserite in un contesto che sa di conservativo o realisticamente borghese, dunque possiedono un lavoro più o meno stabile, mantengono una o più relazioni affettive e sessuali, e talvolta hanno una prole a cui fare da chioccia, queste giornaliste d’inchiesta, anatomopatologhe, avvocatesse o ispettrici di polizia sembrano avere un compito che è quasi un dovere morale, ossia «raccontano instancabilmente storie in cui esseri umani, non importa a quale ambito sessuale o classe sociale appartengano, sottomettono e disumanizzano gli altri», spiega l’irlandese Tana French (1973), che però si augura un superamento dell’ottica di genere: «Penso che ci sarà sempre bisogno di combattere per l’eguaglianza. Se però permettiamo che sia incasellato solo nell’ambito del femminismo, sarà più semplice metterlo da parte e dimenticarlo, e questo è davvero pericoloso». Non è un caso tuttavia che il principale argomento della trilogia di Larsson sia proprio la violenza inflitta alle donne, una scelta calcolata secondo alcuni suoi velenosi colleghi di penna, invece doverosa ed eticamente giusta, visto che i numeri del femminicidio sono spaventosi anche nel nord Europa (e non solo in Italia).
Nella prolificazione di questo tipo di romanzo di investigazione, la costante risiede soprattutto nella maggiore attenzione alla psicologia del personaggio femminile più che allo sviluppo dell’azione vera e propria; e insieme nello sguardo posto sulla vita polifunzionale della protagonista, costretta a cimentarsi con i molteplici ruoli che il suo status sociale le impone. Da qui la sostituzione di intrecci e peripezie intricate con più lineari storie di vita criminale a cui fa da contraltare spesso un’ottica interna, che sia quella della casa con relazioni affettive spesso complicate e fallimentari, o che sia quella di ambienti lavorativi per lo più maschilisti e sessisti, in cui i rapporti sono basati sulla competizione: la risoluzione di un omicidio, la ricerca della verità e della giustizia sembrano essere per le scrittrici di letteratura poliziesca o thriller l’occasione per ridefinire la condizione della donna nella società, tenendo anche il filo della riflessione post-femminista.
«L’occidentale tipo è un uomo bianco, di mezza età, eterosessuale, con una macchina e un certo reddito», afferma Liza Marklund (Pålmark, 1962), autrice prima uscita con Mondadori e ora edita da Marsilio (Studio sex, Fondazione Paradiso, Finché morte non ci separi ecc.). «Nonostante rappresenti meno del 20% della popolazione, l’intera società è costruita su di lui e per lui. Ecco: questo è stato il prototipo del poliziesco per decenni, se non per secoli, e le donne non hanno trovato alcuno spazio». È sottinteso che adesso non è più così: il cambiamento in atto deriva dai nuovi ruoli che le donne si sono faticosamente conquistate e dal fatto che, attraverso il lavoro, prendono parte in modo più attivo al mondo che le circonda: «Le donne leggono molto di più degli uomini, sia romanzi polizieschi che altro genere di letteratura, era solo questione di tempo prima che le donne cominciassero a scrivere di questi argomenti e a farlo meglio. Perché il rinnovamento è la diretta conseguenza dell’uguaglianza sessuale».
Per dieci anni reporter investigativa e fondatrice della casa editrice Piratförlaget, Marklund ha scritto moltissimo di uomini che odiano le donne, demistificando lo stereotipo della Svezia come patria della parità fra sessi: per poter dare maggiore visibilità possibile al dramma del femminicidio ha lavorato indifferentemente, senza snobismi e sovrastrutture, con i giornali scandalistici, con le edizioni del mattino, con i settimanali, le radio, la TV locale e quella nazionale, con i documentari, cercando di appropriarsi di tutti i media: «La violenza contro le donne, con l’assassinio come ultimo esito, è un’enorme e troppo trascurata persecuzione, non solo da noi ma in ogni società su questa terra. Uso i miei libri per trattare e descrivere queste questioni. Non so se sono più psicologa rispetto agli uomini, ma sono senza dubbio diversa». Nei paesi scandinavi la letteratura poliziesca ha sempre avuto una forte carica di critica sociale; però, avverte, «non tutte le scrittrici contribuiscono alla liberazione femminista. Oggi molti romanzi polizieschi di scrittrici scandinave sono una vera schifezza conservatrice. Il fatto che siano opere di donne non li rende automaticamente leggibili. Alcuni li considero come una mal travestita chick lit, speziati con un po’ di sangue assassino. Ma va bene», assicura, e prosegue. «Fino a quando la gente legge, sono felice. Una popolazione di lettori è un vantaggio per tutte le società. Rafforza la democrazia e stimola la riflessione. E chi sono io per giudicare il gusto letterario della persone?». L’assunto di base è che, se è vero che tutti gli autori scrivono dalla propria personale prospettiva, i romanzi polizieschi scritti da donne appaiono per forza di cose differenti da quelli scritti da uomini: «Le donne nei miei libri non fanno tappezzeria – aggiunge Marklund ˗, non sono dei riempimenti e non farciscono la vita, come invece tendono a fare in molti libri composti da uomini. Immetto la mia esperienza e la mia conoscenza nelle mie trame, sia quando c’è la descrizione della questione di genere, reportage dei media, trama o dialogo». La sua eroina, Annika Bengtzon, è stata picchiata, violentata, rapita, le hanno sparato e quasi moriva strangolata: «Penso che abbia sofferto abbastanza, sì», conferma, e in questo senso il superomismo di tanti detective della tradizione non viene abbandonato ma anzi aggiornato in una riformulazione del famoso decalogo chandleriano attraverso una nuova prospettiva di genere. Anika si cimenta in più ruoli, quello di giornalista d’assalto, madre di due figlie, moglie e amante in crisi, e insieme scopritrice indefessa di feroci assassini: «Era molto importante per me che avesse una vasta gamma di caratteristiche – spiega Marklund. Volevo che fosse un essere umano completo, con tutti i difetti e le virtù possibili degli esseri umani ˗ anche se era una donna. Volevo che fosse intelligente e ambiziosa, quasi detestabile, e poco disponibile, talvolta al limite della scortesia, verso le sue colleghe; che andasse lontano, in profondità, e allo stesso tempo che amasse i bambini; che fosse insicura con gli uomini; che fosse emotiva e piangesse molto. Non è realmente possibile per una donna comportarsi come lei ed esserci. Alle donne non è permesso fare il genere di errori che Annika compie. Questo produce qualcosa di simile ad un incantesimo: se continuo a scriverne e parlarne abbastanza a lungo, forse il resto di noi sarà capace di essere simile a lei».
La logica vuole che il sesso di una persona non sia davvero l’aspetto preminente per definire un essere umano o i legami che intercorrono tra gli esseri umani: una donna può avere più interessi in comune con un uomo, con cui condivide obiettivi o valori, che con un’altra donna, e questo può riflettersi ovviamente anche nelle storie di delitti; ad esempio, il narratore di The Likeness, thriller psicologico di Tana French, si chiama Cassie Maddox e lavora come detective della squadra omicidi di Dublino. Compare anche nel suo primo libro, Nel bosco (Mondadori), dov’è il partner del narratore Rob Ryan: «Ho sempre avuto molti cari amici uomini, e penso che ci sia qualcosa di meraviglioso e di grande valore in una stretta, platonica amicizia tra uomo e donna», sostiene French. Allo stesso modo, nell’identificazione del lettore potrebbe non essere così importante l’identità sessuale del personaggio principale. Questo per dire che anche gli uomini possono rivedersi o riflettersi in un detective donna: e viceversa, certamente. Le ragioni del successo di un forte carattere femminile sono in fondo simili a quelle di un forte carattere maschile: il coraggio, la passionalità, la complessità, l’affrontare enormi rischi nella ricerca della verità, che restano gli ingredienti considerati fondamentali nella costruzione del personaggio investigativo. Se è vero, dunque, che la moderna detective femminile è solitamente più professionale rispetto al passato, secondo una traslitterazione del cambiamento sociale e lavorativo delle donne, è anche vero che oggi può contare su più risorse: ha accesso a file e computer, è indipendente economicamente, oppure ha acquisito nell’ambito della sua formazione una conoscenza equivalente a quella degli uomini. In molti dei thriller di Tess Gerritsen (San Diego, 1953), questi due aspetti sono riuniti attraverso l’adozione di due punti di vista, con due protagoniste che si muovono e lavorano in coppia come le farfalle: uno sbirro americano, Jane Rizzoli, e il medico legale, Maura Isles.
Non è esente da questo ragionamento anche il giallo storico: l’inglese Ariana Franklin (pseudonimo di Diana Norman, Devon, 1933) ambienta le sue trame nel XII secolo e ha scelto come protagonista «un’anatomopatologa che si è formata alla scuola di medicina di Salerno, una formidabile istituzione per quell’epoca, che non solo accettava studenti donne, ma permetteva loro lo studio dell’autopsia»2: naturalmente la sua conoscenza delle tecniche scientifiche dell’investigazione è necessariamente limitata, ma le consente di risolvere i misteri più facilmente di quanto non avrebbe potuto fare Miss Marple. Prima di diventare un’autrice di thriller storici di successo, Franklin scriveva romanzi storici e durante le ricerche, confessa, «mi arrabbiavo sempre per il modo in cui i monaci copisti lasciavano le donne fuori dalla storia; e anche quando non le potevano ignorare, le denigravano a meno che non fossero sante. Nel momento in cui sono andata avanti nei secoli, ho trovato che si applicava lo stesso pregiudizio. Gli uomini che hanno dato vita a romanzi storici hanno escluso le donne. Anche quando si è arrivati al tempo delle suffragette, gli scrittori maschi contemporanei le hanno condannate come stridule urlatrici o come pericolose amazzoni. E, oh sì, il movimento femminista è ancora necessario».
La questione cui si accennava prima, cioè del possesso di superpoteri, necessari in una civiltà non ancora del tutto civile con le donne, tocca ovviamente anche il personaggio di Lisbeth Salander, che è in questo senso una classica figura letteraria: una bambina abbandonata, rifiutata e tradita dalla società, che cerca il riscatto e la vendetta. Pur minuta, è molto determinata, e sulle sue spalle strette si gioca il futuro della Svezia: come spesso accade anche nella vita reale, il vero male è a lei prossimo, ed è rappresentato in questo caso dal padre e dal fratellastro. Il fatto che sia molto ricca (ha un cospicuo conto a Gibilterra) e che possa fare magie tecnologiche (come inserirsi illegalmente in qualsiasi computer del mondo) fa sì che rientri anche lei nella categoria dei nuovi miti della generazione millennial: «In realtà, se ci pensi bene – riflette Marklund ˗, lei ha molte cose in comune con Harry Potter: anche lui è orfano e usa la magia, possiede denaro attraverso la Gringotts’ bank, è in stretta relazione con il male, per cui ad esempio condivide la bacchetta magica con Lord Woldemort, e così via. Ed è vero: lei è disposta a sacrificarsi per il bene dell’umanità. Sono davvero molto pochi gli eroi detective che condividono questo contesto, questo scenario. Anche la mia Annika però possiede alcuni di questi aspetti. Sì, è ricca (dopo aver trovato un quantità enorme di denaro che apparteneva a una banda), è super intelligente, è più o meno un’orfana (suo padre è morto, sua madre è un’alcolizzata alla quale lei non parla), e anche lei sta costantemente salvando qualcosa (se non il mondo) – e non ha praticamente limiti».
Come erano stati i detective del romanzo giallo classico per Raymond Chandler, che li considerava falsi e noiosamente macchinosi, a un certo punto dunque anche le scrittrici si sono rese conto che le tipologie delle protagoniste del romanzo di genere semplicemente non funzionavano più, schiacciate tra l’essere l’addobbo floreale del maschio, criminale o poliziotto che fosse, e lo stanco ritornello della dilettante dai poteri deduttivi sull’esempio della Miss Murple di Agatha Christie. «Sarebbe sufficiente uno sguardo sulla mutazione dei soggetti femminili nella produzione venticinquennale di James Ellrroy – fa notare ancora Manotti ˗ per capire il fenomeno. Negli Stati Uniti si svolgono dibattiti all’interno di associazioni femministe su che cosa conviene che facciano i personaggi femminili perché siano veramente esemplari (devono avere un compagno fisso o amanti occasionali?). Personalmente leggo poco questa letteratura, la trovo mediocre. Invece, mi sembra incontestabile che si trovino più personaggi femminili forti nella letteratura noir in generale da una cinquantina d’anni a questa parte. Senza dubbio si tratta della traduzione dell’evoluzione del ruolo delle donne nell’insieme della società». Femminista convinta e coerente, con una storia di militanza nelle organizzazioni per la contraccezione, il diritto all’aborto, e nei sindacati, per la sindacalizzazione delle donne e l’uguaglianza nel lavoro, Manotti crede che ci sia ancora molta strada da fare e che la lotta per l’emancipazione anche in letteratura resti fondamentale: «Questa evoluzione è ancora minoritaria. E penso che le lettrici, numericamente maggiori come lei stesso mi ha sottolineato, in maggioranza continuino a identificarsi con personaggi soft, maschili (per esempio, in Francia, i detective di Fred Vargas) o femminili».
Proprio il fatto di scrivere di personaggi complessi, tridimensionali, e fuori da certi stereotipi legati a come gli uomini guardano al mondo femminile, è già di per se stesso, secondo queste scrittrici, un’affermazione di poetica, una dichiarazione di intenti: alla fine del secolo scorso il Private Eye Writers of America costituì la giuria per individuare il migliori scrittori polizieschi del XXI secolo, solo che tutti i giurati erano bianchi e maschi. Quando alcune donne si lamentarono, il fondatore dell’organizzazione disse: «le donne hanno avuto il loro turno». «Penso che il sessismo, il razzismo e l’omofobia ˗ constata Laura Lippman (Atlanta, 1959), a cui si deve ad esempio L’amica di un tempo, edito da Giano ˗ siano come kudzu, un’erbaccia difficile da estirpare. Abbiamo fatto molti progressi, ma c’è ancora il senso che bianco e maschio sia l’opzione predefinita». Costruire protagoniste forti per edificare le nuove generazioni (un po’ come lo è stato per gli eroi socialisti d’altri tempi) è dunque un’altra delle invarianti letterarie tese a valorizzare la cultura specifica femminile e a segnalare la presenza inaccettabile della violenza e della subordinazione al potere maschile: «La stessa cosa è accaduta con le prime scrittrici fuori dal coro. Marcia Muller, Sara Paretsky, Sue Grafton hanno immaginato donne molto intelligenti e forti. Dovevano essere super per sopravvivere. Ma io – precisa Lippman ˗ faccio parte della generazione successiva, che ha beneficiato molto delle donne che c’erano prima di noi. I nostri personaggi possono essere più incasinati, possono fare errori o mostrare una maggiore fragilità».
Semplificando, sono oggi due le tipologie caratteriali prevalenti: da un lato, la vulnerabilità e la complessità, che sono le qualità peculiari ad esempio dell’ispettrice Pedra Delgado nata dalla penna di Alicia Giménez-Bartlett (Almansa, 1951), vera capostipite del giallo sociale, che intreccia appunto l’indagine poliziesca con i temi dell’emarginazione e della migrazione oltre che dei diritti delle donne; dall’altro versante, la psicologia deviante e il perturbante femminile, esemplificati dalle operaie della giapponese Natsuo Kirino (Kanazawa, 1951, autrice di culto, vero totem di riferimento per le nuove generazioni di scrittrici di romanzi di genere), che in Le quattro casalinghe di Tokyo (Neri Pozza 1997) smembrano e occultano il cadavere di un uomo, sovvertendo l’idea del crimine violento come prerogativa esclusivamente maschile: queste donne lavorano la notte a turno in una fabbrica alimentare, una di loro uccide suo marito e questo è l’inizio di una storia forte dove la principale protagonista (una donna di mezza età) agisce come un vero capo.
Mo Hyder (Essex, 1962) è un’altra scrittrice che crea forti personaggi femminili con la stessa ferrea volontà di controllare fermamente il proprio destino: «Questi cambiamenti danno adito ad una serie di domande: sono, le nuove “femmine cattive”, semplicemente dei “maschi cattivi” a cui è stato cambiato sesso, o c’è una parte femminile nella loro malvagità? E, se le donne sono brutali e malvagie, chi, nel romanzo, sarà dolce e gentile, forse l’uomo?», si domanda in modo malizioso Dominique Sylvain, giallista nativa di Thionville, in Lorena, classe 1957, che, dunque, per ragioni di età, non ha partecipato alla prima parte del movimento femminista; la sua generazione è arrivata proprio dopo le battaglie più sanguinose: «Sono fautrice dell’equità salariale, di uguali opportunità e istruzione per le donne in tutti i paesi, ma in un certo senso non vedo negli uomini degli alieni pericolosi. Cosa sarebbe la vita senza tutti loro? Un’esperienza molto noiosa. Penso che noi, uomini e donne, siamo molto diversi, ma totalmente uguali: questo punto può essere stato influenzato dai molti anni passati in Giappone dove la separazione dei sessi è ancora assai in vigore. Per esempio nei negozi di libri le scrittrici non sono mischiate con gli scrittori». Alla domanda se ancora abbiamo bisogno di un movimento femminista, Sylvain risponde cosi: «è evidente a tutti che la parità economica e sociale non è stata realizzata nella maggior parte del mondo; allo stesso tempo, la grande attenzione data ai paesi arabi o all’India per ragioni economiche e geo-politiche ha anche mostrato chiaramente che «le società di uomini bianchi» sono le sole in cui la posizione delle donne è la più forte, cosa che chiaramente complica la tradizionale retorica femminista a proposito dell’oppressione degli uomini. Allora abbiamo bisogno di un nuovo femminismo».
Un po’ freak vendicatrice, un po’ «maghetto», un po’ punk e giovane criminale con difficoltà a inserirsi nei contesti di socializzazione, Lisbeth soffre oltretutto della sindrome di Asperger, che è un tipo di autismo: «Sì, ma prima di lei ci sono state altre investigatrici con disturbi psichici, come la Camille di Gillian Flynn [Kansas Citu, 1971: n. d. r]», reporter affetta da un disturbo di automutilazione (Nei luoghi oscuri, Piemme), una disadattata sociale con un profondo odio verso se stessa; «o come la psichiatra Vera Cabral, ideata dalla scrittrice francese Virginie Brac [Algeri, 1955: n. d. r.], che soffre della sindrome di Klinefelter, un disordine cromosomico sessuale», ribatte la Sylvain: «Aggiungere caratteristiche ai vari personaggi in modo che lo spettatore o il lettore possano, in un certo senso, identificare meglio i vari protagonisti e quasi interagire psicologicamente con loro è in effetti una tecnica standard delle serie televisive». Larsson è stato particolarmente efficace nell’assemblare tutti questi diversi elementi, creando un personaggio facile da ricordare. «Lisbeth Salander è un grande personaggio. Originale, commovente, incredibile, stupefacente. Però, se rimarrà un punto di svolta nella storia dei personaggi del romanzo poliziesco, si vedrà solo tra qualche anno. Purtroppo, a causa della prematura morte del suo ideatore, una cosa è certa: non incontreremo più Lisbeth».
Entro questi archetipi sembrano muoversi le voci femminili del nuovo millennio, chiedendo ai loro alter ego detective grandi cose quasi quanto sembrano aspettarsele dalle donne nella vita reale. La perdita di aderenza rispetto a una dimensione più veritiera è una delle inevitabili conseguenze, così come lo è, in un mercato assai competitivo, la tendenza di queste scrittrici a trovare quella particolarità, quel certo non so che, che fa spiccare i loro personaggi femminili, distinguendoli dalla folla. Molte delle autrici di genere riempiono i propri libri con il tipo di donna che vorrebbero essere – in primis, giovani, forti e seducenti –, facendo dell’immagine romanzesca lo specchio in cui si riflettono le attese della società. Un disegno che esige moltissimo dal gentil sesso, imponendo alle donne di essere al tempo stesso mogli dedicate, madri amorevoli, amanti dionisiache, lavoratrici agguerrite e indefesse; a cui si aggiunge, nella finzione letteraria, l’indubbio talento nello scovare assassini: decisamente troppo, per cui alla fine qualcosa si spezza: «C’è ancora necessità del femminismo, ma è possibile che i suoi obbiettivi siano cambiati», osserva la Bolton che, dice, ha appena finito un romanzo basato su uno stupro di gruppo e, quando si trattano soggetti seri, bisogna sempre essere preparati a rendere loro giustizia.
Il punto è che, se le scrittrici sembrano attendersi molto dalle loro investigatrici immaginarie romanzesche, è perché la società si aspetta anche di più dalle donne: «C’è bisogno di un movimento femminista che dica alle donne che non devono essere per forza delle superdonne. E in tutta onestà dovremmo continuare a ricordare a noi stesse che non possiamo fare o avere tutto. Perché, quando ce lo aspettiamo, qualcun altro in genere ne paga il prezzo». Questo qualcun altro è sempre l’altra metà della mela consacrata da Platone: di solito, la discussione e la revisione dei parametri con cui la donna rappresenta il mondo determinano il riposizionamento in negativo dell’essere amato: marito, compagno o amante che sia. Deboli, egocentrici ed egoisti quanto basta, gli attanti maschili fanno raramente bella figura in questa tipologia di romanzi, fallendo miseramente quando si tratta di stabilire un legame concreto con la donna dalle molteplici funzioni. Per loro non resta che il ruolo del dottor Watson, come stereotipati accompagnatori, oppure anche l’essere allontananti ai margini della trama, che è un’altra definitiva forma di esclusione, perché, nell’irriducibilità del conflitto uomo-donna, il detective wonder woman che convive nella zona del pericolo e del mistero è destinata all’isolamento o al nubilato.
(fasc. 4, 25 agosto 2015)