Abbiamo discusso anche con Marcello Mustè a proposito della figura di Benedetto Croce. Celebre studioso di idealismo, di filosofia italiana contemporanea, di teoria e storia della storiografia e di filosofia tedesca, Mustè ha pubblicato lavori importanti su Croce, tra cui si ricordano le monografie Benedetto Croce[1. Napoli, Morano, 1990.], La filosofia dell’idealismo italiano[2. Roma, Carocci editore, 2008.], Croce[3. Roma, Carocci editore, 2009.] e Tra filosofia e storiografia. Hegel, Croce e altri studi[4. Ariccia (RM), Aracne editrice, 2011.].
Qual è, a suo parere, il contributo più importante che Croce offre alla tradizione filosofica?
Il contributo di Croce alla filosofia, non solo italiana ma europea, è stato enorme, e forse fatichiamo ancora a misurarlo in tutta l’estensione e la profondità. Per citare solo alcuni esempi, a Croce si deve una rinascita dell’estetica come disciplina propriamente filosofica, una teoria assolutamente originale del liberalismo politico, una revisione profonda della filosofia hegeliana, una nuova visione dello storicismo. Ma il suo contributo non può essere confinato alla filosofia in senso stretto: le sue quattro storie – in particolare quelle d’Italia e d’Europa – costituiscono una nuova e coerente «narrazione» della nostra tradizione nazionale, dopo quelle di Gioberti e di De Sanctis (e insieme a quella di Gramsci), e si pongono alla base della moderna idea di Europa, della cui unità politica Croce è stato, come si sa, uno dei primi e più accorti (e, a un certo punto, problematici) profeti. Con i suoi numerosi scritti, fin dalla fondazione della «Critica», ha contribuito in maniera decisiva a sprovincializzare la cultura italiana, aprendola alle più importanti correnti europee.
In questo senso, Croce ha veramente rappresentato un’epoca della nostra storia filosofica e civile, e la sua «influenza culturale» (per riprendere un’efficace espressione di Gianfranco Contini[5. Cfr. G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967.]) è stata senza dubbio decisiva. Un’«influenza» che ancora non è stata ricostruita nelle diverse fasi, nei molteplici effetti, ma che certamente si articolò in momenti differenti: ci fu un’influenza di Croce tra il 1902 e il 1907, particolarmente evidente negli ambienti delle riviste fiorentine, segnata soprattutto dalla pubblicazione dell’Estetica e dalle prime annate della «Critica»; ci fu un’influenza più larga e profonda all’indomani della Prima guerra mondiale, quando aspetti salienti del pensiero crociano penetrarono nelle nuove culture politiche di massa, comunista cattolica liberale; e ci fu una diversa influenza dopo il 1925 e il passaggio di Croce all’opposizione. E infine ci fu la stagione che prese inizio negli anni Quaranta, in cui ha larga parte la vicenda della Casa Einaudi e che, a un certo punto, s’intreccia con la pubblicazione e la ricezione delle opere di Antonio Gramsci. Pochi ricordano che il famoso e assai benevolo articolo di Croce sulle lettere dal carcere di Gramsci apparve originariamente come editoriale sulla «Stampa» di Torino, e suscitò reazioni di sospetto e a tratti di vera e propria ripulsa da parte dei redattori della Casa Einaudi. È un avvenimento (insieme a quello della mancata introduzione di Croce all’edizione inglese delle lettere gramsciane) che meriterebbe di essere ricostruito, perché rappresenta in maniera emblematica un contrasto interno, mai davvero risolto, in una certa cultura di quel tempo, divisa tra il desiderio di una rottura e l’impossibilità di consumarla fino in fondo, perché gli stessi scritti di Gramsci riportavano a quella radice che si voleva congedare. E Gramsci, dopo Gentile e Omodeo e pochi altri, era stato forse il lettore più acuto che Croce avesse avuto, quasi un suo eretico e indisciplinato scolaro.
Insomma, la sua opera è stata largamente assimilata. La cultura italiana, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, si è nutrita del pensiero di Croce, anche se ha sempre avuto una grande difficoltà a porlo come oggetto di esame, di analisi, di critica; insomma, a storicizzarlo e a studiarlo nella struttura dei suoi pensieri.
Lei ha approfondito il ruolo dell’«accadimento». È un punto delicato e forse decisivo del suo nucleo teoretico. Quali sono le differenze tra l’accadimento crociano e l’astuzia hegeliana della ragione?
Il problema dell’accadimento emerse nella Filosofia della pratica, pubblicata nel 1909, in particolare nei capitoli quinto e sesto della prima sezione. Il punto essenziale è che Croce non si limitò a teorizzare l’accadimento, ma introdusse la difficile distinzione tra volizione e accadimento. Questa distinzione non solo correggeva, come è evidente, la dottrina hegeliana dell’«astuzia della ragione», restituendo al volere un’effettiva autonomia, ma la rovesciava e quasi la invertiva: se per Hegel le volizioni apparivano come strumenti di una razionalità in parte immanente e in parte trascendente al processo storico, per Croce l’accadimento cosmico (o anche, come lo definì, il successo dell’azione) doveva essere considerato come il risultato e il prodotto dell’azione volitiva. Ciò significa che l’accadimento era costituito dall’energia della volontà libera, e non viceversa. D’altronde, l’intera Filosofia della pratica aveva come suo centro proprio questo problema della libertà del volere, che Croce concepiva allora, in termini kantiani, come spontaneità, come capacità della volizione di non ripetere l’ordine della necessità, stabilito dal distinto giudizio teoretico. Era quel «prammatismo di nuova sorta» di cui parlò nella conclusione della prima parte, e che diventò nitido con l’aggiunta, all’ultimo momento (il 17 aprile 1908, come si apprende dai Taccuini di lavoro), della terza sezione su L’unità del teoretico e del pratico, che introduceva la metafora geometrica del circolo. Almeno nelle intenzioni, dunque, la teoria dell’accadimento cercava di compiere la critica che Croce aveva formulato della filosofia della storia di Hegel già nel saggio del 1907 su Ciò che è vivo e ciò che è morto. Ma naturalmente comportava difficoltà specifiche, che, nel contesto della Filosofia della pratica, affiorarono nel successivo sesto capitolo, a proposito della distinzione tra giudizi pratici e giudizi dell’accadimento, e che poi impegnarono la successiva Logica. La critica a Hegel e alla sua «astuzia della ragione» si fece poi più chiara, e direi perentoria, nel decimo capitolo del libro su Vico (dedicato alla provvidenza) e quindi nel capitolo su L’umanità della storia di Teoria e storia della storiografia, per tornare, in maniera definitiva, nell’articolo del 1946 Intorno alla teoria hegeliana degli individui storici.
La sua dialettica degli opposti segna sempre la vittoria del «positivo» sul «negativo». Si tratta di un residuo metafisico?
Mi permetta anzitutto di distinguere alcuni concetti che compongono la sua domanda. L’idea che Croce sia stato un pensatore «metafisico» ha attraversato la storia della critica: questa definizione venne adoperata, per limitarmi a qualche esempio (e tralasciando i peggiori), da interpreti come Della Volpe, Banfi, Anceschi. Si tratta di una definizione del tutto fuorviante, che merita di essere archiviata: Croce fu un avversario inflessibile della metafisica, come si può vedere nei suoi scritti (basta leggerli), dall’Introduzione alla «Critica» fino alla celebre nota sul purus philosophus, purus asinus. Questa rettifica andrebbe anzi estesa, secondo me, anche alla qualifica di «idealismo», non solo perché Croce abbandonò esplicitamente questa denominazione nel 1943, ma anche perché, quando la usò, non mancò mai di circostanziarla, parlando per esempio di «idealismo critico», di «realismo idealistico» e di «idealismo antimetafisico»; e soprattutto perché, se assumiamo l’espressione «idealismo» nel suo pieno rigore (quello che deriva dalla definizione di Hegel nella logica dell’essere, per cui idealismo significa che «il finito è ideale»), non rappresenta del tutto il suo pensiero.
Un altro discorso deve essere fatto a proposito del principio logico che lei ricorda, quello per cui il negativo non ha realtà se non in quanto è incluso e superato nel positivo. Come tale, questo è il principio della dialettica, con il quale Croce concepì il rapporto tra gli opposti, all’interno di ogni forma distinta: il bello e il brutto, il vero e il falso, l’utile e il disutile, il bene e il male. Negando tuttavia, come è noto, che questo principio potesse regolare anche la relazione reciproca tra le categorie distinte. Il principio dialettico, così definito, può certo essere discusso e sottoposto a critica, ma francamente non vedo come possa essere superato. Un pensatore radicale della «decadenza», come Nietzsche, tentò di sfuggirvi fin dalla sua opera giovanile, La nascita della tragedia, prendendo in prestito da Calderòn de la Barca e da Schopenhauer la terribile figura del saggio Sileno, per cui, come si sa, per l’uomo sarebbe stato meglio non essere nato o, una volta nato, morire al più presto: ma anche Nietzsche dovette accorgersi che la parola del negativo era pur sempre una parola, un’esistenza e una positività che includeva in sé quella tremenda profezia e la pronunciava. Ma certo dal principio dialettico può nascere una metafisica. Questo accade quando quel principio logico viene considerato come l’ordine dell’esistenza empirica, capace di delineare un «sistema» della natura, della storia ecc. Accade quando la dialettica non viene considerata solo come esposizione e ritmo della determinazione, ma anche come legge del rapporto «tra» determinazioni differenti. Allora si assiste alle buffe immagini del seme che diventa frutto e dell’animale che si nega nell’uomo. Ma il merito di Croce fu appunto quello di distinguere il principio dialettico dai suoi possibili esiti metafisici, di considerarlo nella sua semplice struttura logica. Di qui la critica alle filosofie della storia, alle filosofia della natura, e così via. Nel mio libro su La filosofia dell’idealismo italiano ho avanzato l’ipotesi che questa capacità di arretrare al nucleo logico della dialettica costituisca una delle caratteristiche fondamentali del pensiero italiano, che ora tenderei a estendere anche all’idealismo del secolo decimonono.
Il suo liberalismo «religioso» lo reputa concettualmente e politicamente più attendibile rispetto ai celebri compromessi disegnati dalla cultura azionista?
Nell’azionismo confluirono diverse «anime», per cui trovo difficile parlare, in senso unitario, di una «cultura», specie se con questa parola si allude a un punto di vista filosofico o filosofico-politico. Vi furono personaggi come Adolfo Omodeo o Guido de Ruggiero che certo provarono a distinguersi da Croce anche sul piano filosofico, ma in sostanza rimasero all’interno delle coordinate di fondo del suo pensiero. Vi furono altri, come Carlo Rosselli e coloro che confluirono in «Giustizia e libertà», che erano lontani da Croce non tanto per motivi filosofici quanto per una certa visione della storia d’Italia: e in fondo fu proprio un azionista, Omodeo, che ne delineò la critica più stringente nella recensione che nel 1926 dedicò a Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti. Poi, naturalmente, c’è il liberalsocialismo, soprattutto nella formulazione più matura di Guido Calogero, ma qui la critica di Croce fu netta, priva di ambiguità, e si rivelò insuperabile, perché riguardava il modo in cui aveva concepito il liberalismo e il rapporto con la democrazia. Dal mio punto di vista, si fa ancora fatica, da parte degli interpreti, a cogliere quanto la concezione del liberalismo di Croce fosse molto più radicale di quella dei suoi critici.
Fino al 1925, Croce aveva aderito a un liberalismo spontaneo, ottocentesco, risorgimentale, che era rappresentato soprattutto dagli scritti, per altro straordinari, che Silvio Spaventa aveva pubblicati nel «Nazionale», e che egli ristampò fin dal 1897 (poi nell’edizione ampliata del 1923). Ma il passaggio all’opposizione al fascismo e la rottura con Giovanni Gentile cambiarono tutto nella sua visione politica, e cambiò molto anche (ma questo sarebbe un discorso diverso e non breve) nella sua filosofia. Solo allora delineò una vera e propria teoria liberale, una «filosofia politica»: al cui centro vi era la domanda drammatica sulla decadenza delle istituzioni liberali, non solo in Italia ma in tutta l’Europa. E a questa domanda rispose con la dottrina «metapolitica» del liberalismo, distaccandolo perciò da tutte le istituzioni positive della vita liberale: l’individuo, il mercato capitalistico, lo stato di diritto. Lo concepì come il «genio della libertà», capace di fecondare nella storia senza mai confondersi con i suoi prodotti. Con quella teoria Croce rivelò, secondo me, la vera natura del liberalismo: che non è «politica», appunto, ma «metapolitica», nel senso che non si identifica con gli istituti storici ma li richiama tutti a non oltrepassare il limite dell’oppressione. In questo senso dissolse, letteralmente, la visione classica del pensiero liberale, e ne rese al contempo possibile ogni contaminazione, anche quelle con la democrazia e con il socialismo. Perciò Bobbio non aveva torto, in un certo senso e dal suo punto di vista, quando in una famosa battuta scrisse che non avrebbe mandato un giovane da Croce a scuola di liberalismo. In fondo Croce quel vecchio liberalismo lo aveva demolito, negandone la natura «politica». Comprese che con il solo principio liberale non si costruisce alcun ordine politico, anche se ogni ordine politico deve garantire il progresso della libertà. Per essere sincero, non vedo quale pensatore «azionista» abbia conseguito una tale radicalità nella riflessione sul liberalismo e sui rapporti con la democrazia.
Aggiungerei che questa sua visione del liberalismo è molto attuale, può aiutarci ancora oggi. A chi intraprende guerre per esportare la democrazia Croce avrebbe risposto che una guerra, se proprio deve farsi, si giustifica solo nel nome della libertà, perché la libertà non si esporta ma è iscritta nel cuore degli uomini. Ci avrebbe insegnato che della libertà bisogna avere un concetto storico, concreto, adatto alle situazioni, mai astrattamente «normativo». Certo, per comprendere la sua lezione bisogna privarsi di un certo dogmatismo liberale, bisogna diventare veramente laici e spregiudicati, e rinunciare alla facile etichetta del liberalismo politico. Direi che Croce ha reso il pensiero liberale davvero universale.
Croce non offende l’orizzonte empirico; quest’ultimo, tuttavia, non può rientrare tra le sfere dello spirito. Se l’articolazione categoriale riassume il volto (sintetico) della storia, come può vivere o «esistere» lo pseudoconcetto nel suo riscontro analitico?
Anche qui, mi permetta una breve premessa. Croce è stato accusato di ogni nefandezza nei confronti della scienza: la più comune è quella di essere responsabile dell’arretratezza della cultura scientifica in Italia. Come è stato osservato (da Gennaro Sasso e da Paolo D’Angelo, fra gli altri), questa accusa è grottesca, anzitutto sul piano storico. Questo non significa, naturalmente, che la sua visione delle scienze empiriche sia attuale e ancora valida. Anzi, per molti versi è uno degli aspetti più deboli del suo pensiero. Lei ricorda, giustamente, l’ambiguità dello pseudoconcetto, destinata a esplodere, d’altronde, nelle ultime riflessioni sulla Vitalità. L’ambiguità dello pseudoconcetto è la stessa ambiguità della categoria dell’Utile o economico, che costituì la principale scoperta filosofica del giovane Croce: fin dall’inizio questa categoria oscillò tra il suo ufficio formale, che era quello di rappresentare il positivo progresso tecnico e materiale, e il suo fondo inquieto, che ne faceva l’origine vitale dello scompaginamento dell’ordine dello Spirito. Per cui, come dicevo, ne derivarono le tensioni dei suoi ultimi scritti sulla Vitalità e le discussioni dei suoi interpreti, che coinvolsero Paci, De Martino, Antoni e altri. È una questione importante, ma non è tutto. Il problema delle scienze empiriche è molto più complesso di quello dell’utile. Ciò che non è più accettabile, dal mio punto di vista, è la negazione, che Croce operò, del carattere conoscitivo e veritativo delle scienze empiriche (che, invece, attribuì all’intuizione e al concetto puro). Per Croce, come si sa, la conoscenza è logica, si raccoglie nella struttura teoretica del giudizio individuale. Per questo gli pseudoconcetti, le astrazioni di origine pratica, ne sono esclusi. Ma anche qui noi incontriamo un problema più grande, che non è solo di Croce, ma della filosofia del suo tempo, e in parte anche del nostro tempo.
L’errore di Croce, secondo me, non fu quello di concepire le nozioni scientifiche in termini pseudoconcettuali, cioè riportandole all’agire pratico; ma casomai quello di concepire la verità come una struttura teoretica. Qui forse Croce subì un aspetto caratteristico della metafisica, l’idea di fondo dell’identità tra verità e incontrovertibile. Se la verità è l’incontrovertibile, allora necessariamente le scienze empiriche ne rimangono escluse, e si entra nella prospettiva del dualismo; perché la verità delle scienze empiriche è per definizione una verità controvertibile, opinabile, falsificabile. È un discorso che riguarda non solo la fisica o le scienze della vita, ma anche la storiografia e le scienze umane. Solo se usciamo dall’idea metafisica dell’identità di verità e ragione, di verità e incontrovertibile, possiamo ripensare le scienze empiriche come scienze di conoscenza e di verità. Altrimenti questa via è sbarrata. Ma questo è un discorso complesso, e non posso fare altro che rinviare a quanto ne ho scritto altrove, per esempio nell’articolo su Storia, metodo, verità[6. Cfr. «La Cultura», n. 2, 2014, pp. 277-94.].
Il suo storicismo idealistico che legame instaura con la «persona» e più in generale con le prospettive che si impegnano a tutelarla?
Il concetto di «persona» è molto ambiguo: in parte rinvia a un discorso etico e più precisamente religioso, che esige un atteggiamento di fede, in parte a una costruzione giuridica. E fu poi ripreso, come critica a Croce, oscillando tra l’uno e l’altro di questi significati. Ma il problema di Croce e del suo storicismo non fu propriamente quello della «persona», ma quello dell’«individuo». In tutta la sua opera, Croce ha insistito sull’irrealtà dell’individuo considerato in senso empirico, cioè separato dalla sintesi con l’universale. Si potrebbero ricordare molti luoghi, ma basterà avere presenti le pagine della Filosofia della pratica sugli «abiti volitivi» e quelle dei Frammenti di etica su L’individuo e l’opera. Questa negazione della realtà dell’individuo empirico ebbe conseguenze molto rilevanti anche sul piano del pensiero politico, per esempio nella critica a John Stuart Mill, e su quello storiografico, con la critica del genere della «biografia». Al concetto di individuo, insomma, Croce oppose sempre quello di «individualità», che indicava, appunto, la concretezza dell’elemento universale, la sintesi di individuale e universale. È noto che Carlo Antoni contestò questo aspetto della filosofia di Croce (provocando anche, nel 1941, una precisazione del filosofo), e tentò di concepire l’individuo come il luogo stesso della sintesi categoriale. Si trattava di uno sforzo generoso, ma Croce era consapevole che era in gioco un punto molto delicato sul piano speculativo, che gli derivava da Vico, da Hegel, da Marx. Soprattutto, come scrisse nel 1940 recensendo un’opera di Friedrich Meinecke, riteneva che la singolarità empirica, separata dall’elemento universale, fosse «l’origine remota del morboso romanticismo, del decadentismo e altresì del razzismo». È un passaggio importante della sua filosofia, che viene spesso equivocato.
Negando realtà all’individuo empirico, staccato dall’universale, Croce non intendeva affatto negare la dignità dell’elemento individuale, ma anzi nobilitarla, mostrarne tutto il senso spirituale: come chiarì, peraltro, nella critica perentoria che rivolse a Hegel su questo punto, quando lo accusò di «dualismo», perché, spiegò, se l’individuo non può essere pensato senza il concetto universale, neanche questo, l’universale, può essere pensato fuori dell’individualità. È persino superfluo aggiungere che questo discorso non ha niente a che vedere con le «tutele» delle libertà individuali, con i diritti che il sistema giuridico deve riconoscere a ciascuno e che Croce non si sognò mai di mettere in discussione. Anzi, come insegna la storia, proprio nei regimi in cui l’individuo è tutto e l’universale è ridotto a poca cosa, quei diritti e quelle tutele vengono più facilmente violati. La storia del capitalismo e del liberalismo classico dovrebbe dirci qualcosa in proposito. Dal mio punto di vista, dunque, il problema dello storicismo di Croce non è qui. Casomai è nel suo carattere «assoluto», cioè nell’idea che la storia concluda in sé la struttura della ragione, che la risolva pienamente. Ho parlato, per questo, dell’esigenza di uno storicismo «temperato» e non assoluto, per dire che la «semplice ragione» (di cui una volta parlò Eugenio Garin) indica sempre la natura contraddittoria e opinabile dei prodotti storici senza mai poterli adeguare al suo ideale incontraddittorio.
Può riprendere e approfondire il rapporto tra il giusnaturalismo sui generis di Antoni e lo storicismo metodologico del maestro?
A un certo punto Antoni ritenne di operare un vero e proprio rovesciamento della concezione dell’individuo di Croce, non considerandolo più come un’astrazione economica, ma come lo stesso universale concreto, come il luogo della sintesi a priori e la realtà del giudizio individuale. Era una posizione che si legava ai suoi orientamenti politici, alle sue nuove frequentazioni e al tentativo di recuperare un liberalismo più classico, fondato sul valore assoluto dell’individuo. Ma Antoni era un filosofo troppo acuto per non rendersi conto che, trasportata la sintesi nell’orizzonte dell’individuo, accadeva che l’individuo non era più tale, o almeno non era affatto quell’individuo empirico a cui, in senso politico, ci si voleva richiamare: era sintesi, appunto, dominata dall’elemento etico e universale, e non l’individuo empirico reale. Insomma, quell’individuo non era tanto diverso dall’individualità di cui aveva parlato Croce.
Il grande contributo di Antoni, se vuole la mia opinione, non è questo. Antoni diede il meglio di sé, come studioso, nei due libri straordinari che pubblicò nel 1940 e nel 1942 (Dallo storicismo alla sociologia e La lotta contro la ragione), dove ripercorse il rapporto tra lo storicismo, soprattutto tedesco, e la ragione illuministica, indagando i germi profondi della crisi europea. Poi, nel più tardo tentativo di ripensare la struttura del giudizio individuale, attraverso il principio di identità e ciò che definì «giudizio negativo». Provò ad allontanare Croce dalla dialettica hegeliana, e qui trovò accenti di notevole intensità, anche se non sempre convincenti. In questo senso va letto insieme agli scritti del suo amico geniale Luigi Scaravelli. Furono gli ultimi due pensatori veramente importanti di quella tradizione che a torto o a ragione chiamiamo «idealismo».
(fasc. 10, 25 agosto 2016)