La mia testimonianza, qui ed ora, è come un atto di devozione alla memoria di Mario Scotti, maestro indimenticabile. Devozione a cui si associa l’opportunità di sciogliere un debito ineludibile di testimonianza, nelle ore in cui il lascito spirituale e materiale dello studioso e del docente assume nuovo risalto con la ristampa, a dieci anni dalla morte, della pubblicazione postuma delle sue poesie in cui avevano preso forma le luci e le ombre segrete di una personalità d’eccezione.
Alle sue poesie ho, da parte mia, dedicato, in tutta umiltà, all’unisono con la figlia Aureliana, l’impegno di un’affettuosa filologia, consistita anzitutto nella messa a punto delle varianti da lui già annotate. Ciò come premessa alla testimonianza di un decorso a due – maestro verso discepolo, e viceversa – che ha connotato gli anni più fertili del mio fedele apprendistato letterario. E qui debbo dire, da semplice allieva qual ero, che la natura del rapporto instauratosi allora, fra la disarmata consapevolezza dei miei limiti e gli sconfinati orizzonti di senso che la parola scritta e parlata di Mario Scotti docente veniva aprendo alla mia anima, aveva assunto ben presto le forme di una vera e propria lezione di vita.
Più che di un semplice decorso, si trattava di un processo evolutivo, dotato di una logica di fondo, non privo tuttavia di intermittenze, pause, riscatti, accelerazioni tali da mettere alla prova il tessuto impiegato dalle due parti, per conferirgli l’indispensabile carattere unitario. Un processo nel cui ambito io, come allieva, mi ero sentita più volte impari; quanto meno fino al giorno in cui il professore mi indusse, con la sua sensibile autorevolezza, ad accettare di svolgere come banco di prova il tema di una tesi di laurea centrata su di un personaggio poliedrico, il gesuita Paolo Segneri, oratore sacro seicentesco, uomo di lettere, trattatista, direttore di coscienze che, idoleggiato dai miseri e temuto dagli empi, era stato anche bersaglio di un’altalenante fortuna critica.
Il compito assegnatomi da Mario Scotti, sulla base di un solido metodo critico, indotto in me attraverso innumerevoli prove, era quello di individuare e mettere opportunamente a fuoco il centro di una siffatta personalità, che faceva perno su di una complessa e aggrovigliata unitarietà di fondo. Una ginnastica mentale ed emozionale, da me vissuta con lo slancio del neofita. Come quando mi indirizzò – tanto per fare un esempio – a far coincidere in una sola e salda matrice il pessimismo di un giansenismo virtuale, in Segneri, e l’ottimistica fede riparatrice – anche penitenziale ˗ delle opere.
Segneri era un personaggio caro a Mario Scotti, aveva avvinto i suoi esordi scientifici. I suoi studi sulla letteratura del Seicento si concentrarono, infatti, nel primo decennio della sua attività, un arco di tempo, dal 1960 al ’69, che vide la pubblicazione dell’antologia delle opere di Sforza Pallavicino, di Daniello Bartoli e di Paolo Segneri nella collana dei «Classici Italiani» della UTET, diretta da Mario Fubini. Tra i tanti ho voluto citare solo questo esempio del mio percorso formativo per mettere in evidenza l’ampiezza della visione di Scotti critico, volto sempre come docente a individuare e proporre con occhio sicuro il singolo caso da valutare, nonché il dettaglio da individuare e mettere a fuoco, per estrarne il massimo possibile di senso.
A distanza di anni, continuo a domandarmi se avrei potuto sperare agli inizi, e ancor più a conclusione del mio iter universitario, una più felice e gratificante occasione di maturazione e di crescita. Ed ora, tornando al punto di partenza, desidero far mia, alla lettera, l’affine e commovente testimonianza di un altro allievo del maestro-poeta. Sono le parole di Danilo Laccetti, nel descrivere il gratificante rapporto di dare e avere, che Mario Scotti metteva in opera con i suoi allievi:
Certe serate, ricordo, di me ventenne nello studio del professore stracolmo di libri, a parlare per ore di letteratura, di tutte le mie cose che amorevolmente leggeva… Al primo anno di università le sue lezioni, dopo vent’anni, sono ancora un carissimo ricordo. La sua pazienza, la sua straordinaria disponibilità. Mi diceva che le sue poesie – la cosa per cui forse sperava di essere ricordato – sarebbero state pubblicate solo dopo morto. Per quel pudore e quella signorile sobrietà che lo distingueva.
Sabato 21 aprile scorso, nella prestigiosa sede della libreria “Rinascita” di Ascoli Piceno, è stata presentata al pubblico la ristampa del volume Poesie, presentato da Arnaldo Di Benedetto, curato da Aureliana Scotti e da chi scrive, pubblicato da Avagliano Editore nel 2010; il testo raccoglie il lascito poetico di Mario Scotti.
Accanto all’attività universalmente nota di studioso, storico della letteratura, critico, filologo vi è quella di poeta con un complesso di testi vasto ed estremamente ricco. Sono queste poesie di una vita a testimoniare che l’attività di Mario Scotti poeta non era né marginale né tantomeno accessoria; Mario Scotti aveva una familiarità molto intima con la poesia. Una vocazione poetica autentica, difatti, lo accompagnò sin dalla giovinezza, assieme a una fede profonda e costante nel valore umano e conoscitivo della poesia. La qualità della sua scrittura poetica è alta, di “poeta vero”, dall’innato senso per la metrica e il ritmo: Endecasillabi è anche il titolo di una delle sue poesie. Il verso eccellente della nostra tradizione poetica è trattato magistralmente dall’autore; alcuni, come questi endecasillabi iniziali, hanno un alto grado di intensità ed efficacia espressiva: «La voce d’acqua della dolce sera» (Quartine), «Era un’alba indolente, quasi opaca» (Mito). Altri ancora, tratti da Frammenti, infondono una pace fuori dal tempo: «Si dilata il silenzio con la luce»; «Quando la tramontana scuote gli usci»; «Venne il meriggio immobile sul mare»; «La luna splende al tempo della sera»; «Un’aria natalizia è nella strada».
Sfogliando e leggendo i testi, percepiamo senza indugio che l’autore ripropone e definisce, nel contempo, un linguaggio di poesia e di sogno, nella costante riscoperta del mondo; è un linguaggio fondamentalmente protesto all’essere e all’esserci. Si dipana, così, una ricca tematica di vicende, di personaggi, di cose, di momenti del pensare e dell’agire; delle forme quotidiane dell’umano vivere e concepirsi e della sua incessante avventura. Soffermiamoci su alcune poesie.
Varallo Sesia
Si raccoglie la notte in grembo ai monti
e una chiarezza effusa ancora spazia
fra i crinali che incidono l’azzurro.
Spumeggia l’acqua fra le rocce, al lume
di pensili finestre, e nel silenzio
perpetua romba per le vie deserte.
Una gran pace germina nel cuore.
Piazza del Gesù
Nella piazza deserta un vecchio tram
In attesa dell’ora, fra i colombi
e le rondini a stormi. È quasi sera.
La chiarità del cielo indugia ancora
fra le cimase in fiore.
In un angolo, solo, un vecchio cieco
col suo violino.
Serata umbra
Sopra i bei colli d’Umbria
s’apron le nubi al chiaro della sera
e l’erba odora.
Tu guardi a valle ove più cupo è il verde
più tranquillo l’amore,
e la dolcezza è sogno di passato
in questa chiostra antica che non muta
e maggi e sere e donne.
Uno dei temi trainanti è l’amore nelle sue varie sfumature e fondamentali possibilità: l’incanto dell’amore con gli addii, i distacchi, i ritorni. Ma soprattutto l’amore coniugale, fondamentale nella concezione del poeta; è l’amore che tende alla perfetta sintonia, alla compenetrazione ideale. È l’amore “coraggioso”, che supera tutti gli ostacoli, le lontananze, gli enigmi e tende direttamente alla sublimazione.
La notte è tenera del tuo sorriso
La notte è tenera del tuo sorriso
e ha riflessi d’argento,
se la tua voce all’improvviso squilla.
“Giochiamo!” Ed i capelli
S’arruffano col vento,
che conduce al balcone
un sentore di terra,
mentre sgranando gli occhi
chiedi assenso all’invito.
Canto d’amore
Io me ne andrò un giorno
a un paese lontano:
non sentirò la tua mano
sul mio viso e il tuo viso
abbandonato a me.
A un paese lontano,
pieno di nebbia e di oblio,
io me ne andrò un giorno,
solo, senza di te.
Il dovere del ricordo è costante nell’opera poetica di Mario Scotti, è un ricordo legato alla morte e alla vita inevitabilmente e che l’autore porta sempre a compimento attraverso un intimo colloquio con l’anima, dove anche il ricordo più drammatico si riscatta nell’oblio, dono di una Pietà Celeste. E a volte la poesia sembra addentrarsi in uno spazio fatto di silenzio, tanto lontano dalle contingenze più banali del presente. Spazio dove si percepisce forte il senso dell’attesa; attesa della pace che certamente non è di questa terra e che viene sublimata nel mito e nella preghiera. Ma il richiamo alla vita è costante e forte; sembra dirci il poeta che occorre sempre ricostruire un nuovo cammino, dai frammenti, dalle macerie, dai terremoti della vita:
Ancora in questo tiepido novembre
il profumo intristito dalla polvere
riempie la stanza di magnolia: il volto
delle cose ritrovo, più consunto.
Ma la vita è ripresa nelle strade
ferite ancora, sotto il cielo miete
che sparge oblio col dono della luce.
Mi crocifigge solo la memoria
che apre vuoto dinanzi al mio cammino
a ritroso nell’ansia dell’amore.
E ancora:
Sono stanco dei giorni di sole.
Guidami per mano, Signore,
lungo sentieri di pace
nella velata chiarezza
d’una sera d’aprile.
Ritroverò l’amore
che non conosce il tempo.
Emerico Giachery ha dedicato alla poesia di Mario Scotti un bellissimo contributo dove, citando Benedetto Croce nel volume La Poesia a proposito della malinconia, «che non è il velo, ma il volto stesso della Bellezza», sceglie il brano di Scotti In coena domini: «Lei negli occhi ridenti aveva chiusa / come in una splendida tomba, la tristezza». E ancora faccio mia e riporto qui la chiusura del saggio di Giachery dal punto in cui dice:
per salutare e predefinire uno dei doni del libro, i due bellissimi brani in prosa «tratti da uno dei quaderni di poesia manoscritti». Sono posti ad apertura del libro, ma qui serviranno egregiamente da conclusione.
Ecco un passo tratto dal primo: «E l’estate verrà col suo grembo fecondo a negare ancora la morte e illuminare il cuore con la dolcezza del mito. Vivremo indugiando nel sogno, senza cercare le cifre dei simboli come abbandonati a un canto di cui ci sfuggono le parole».
Ecco il passo conclusivo del secondo: «Dalla felicità luminosa dell’alba, col mare abbrividente appena e i monti ancora nell’ombra, sorgeva la bellezza di donna. La regina antica, di cui sentivamo il divino più che nelle chiese, la Venere greca, ci insegnava col rapimento di ogni nostra fibra che la bellezza è pura, lontana dal desiderio, ignara di lacerazioni e di affanni. Luminoso fiore dalle corolle di rugiada e dal petalo di cielo, ideale nutrito di tutti i sogni umani bruciati nell’entusiasmo creatore. E non ridente, ma pensosa e lontana, dall’ineffabile grazia prigioniera delle labbra come di una breve chiostra di monti le stelle»1.
- E. Giachery, Mario Scotti poeta, in «Studium», a. 112 (gennaio-febbraio) 2016, 1, pp. 147-50. ↵
(fasc. 21, 25 giugno 2018)