Postfazione. Nello specchio dell’opera lasciata sola: Pasolini, Foucault, Gramsci

Author di Ugo Perolino

Apparso quasi in sordina tra gli appuntamenti editoriali del centenario, il libro Quindici riprese[1] rappresenta una sorta di rassegna enciclopedica degli scritti critici e delle ricognizioni d’archivio che Walter Siti ha condotto nell’arco di cinquant’anni, segnando un passaggio decisivo nella storia della ricezione dell’opera pasoliniana. Il volume riproduce interventi di variabile intensità introdotti da note che riferiscono di luoghi, circostanze, vissuti che determinano uno sguardo bifocale, esistenziale e intellettuale, sul rapporto con la figura e i testi di Pasolini[2].

La “vitalità”, il “vitalismo”, da entrambi i lati della relazione ermeneutica, sono del resto marcati a partire dai titoli dei singoli capitoli. Alcuni tra gli interventi raccolti hanno rivelato per tempo fenomeni nuovi, atteggiamenti emergenti nella cultura italiana che si sono poi sedimentati anche nel costume cultural-salottiero dei media e dei social – Il mito Pasolini, apparso su «Micromega» nel 2006 (poi in «Le parole e le cose», 2 novembre 2015): «Qui non ce l’ho con Pasolini né col suo lavoro, ma appunto con quel che all’inizio degli anni Duemila era diventata la sua figura mediatica (l’occasione puntuale era stata, nel 2005, il trentennale della morte)»[3]. Altri scritti sitiani hanno accompagnato, prefato, chiosato l’edizione dei «Meridiani», i dieci tomi dell’Opera scanditi da «sgomento» e «ammirazione» nell’attraversare la «foresta intricatissima» di carte inedite o autografe del Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux. E sono pagine finissime, già note ai lettori, che si leggono ora con nuove percezioni, inserite nell’architettura del libro – Tracce scritte di un’opera vivente, apparso nel primo tomo dei Romanzi e racconti (1998); L’opera rimasta sola, stampato a chiusura dei due tomi delle Poesie (2003) – per comporre un organismo originale (e più personale, più apertamente legato alle occasioni, passioni, insofferenze[4] del Siti non solo critico, ma autore e scrittore), che risulta più complesso e polimorfico della somma/aggregazione delle singole cellule saggistiche.

L’intervento più antico – Oltre il nostro accanito difenderla – prefazione alle Ceneri di Gramsci del 1981, precede di circa un anno «la lunghissima gestazione del mio primo romanzo»[5]; il più recente, Non doveva finire così, fa da postfazione alla nuova edizione einaudiana di Petrolio[6] e porta la data del 2022.

La scrittura di Siti è rapida, esatta, molteplice, ma pagina dopo pagina il nucleo delle sue convinzioni si consolida nello spazio di pochi tratti stabili. La forma del discorso, nel seguito delle occasioni e dei ritorni sui luoghi pasoliniani, è logico-deduttiva e procede attraverso premesse che generano conseguenze dirette: «credo», scrive, che «il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai inventato sia Pasolini stesso»[7]. Da questo postulato deriva, logicamente, una seconda formulazione: anche se ha scritto alcuni romanzi importanti, Pasolini non è un romanziere. La sua “renitenza al personaggio”, cioè la difficoltà di concepire caratteri e fisionomie tridimensionali[8], dipende dall’impossibilità di «donarsi a un personaggio, cancellandosi: non per mancanza di generosità ma per eccesso di competizione»[9]. Se è l’io autoriale a occupare la scena, «è con lui che il lettore incessantemente si identifica, perché lo sente come qualcuno che non ha mai finito di fare i conti col mondo»[10].

L’invenzione del personaggio-autore, l’uso della scrittura (e del cinema, del giornalismo, della poesia) finalizzato a promuovere il brand Pasolini, metafora dolente dell’esiliato, dell’escluso, della vittima che non cessa di protestare la propria innocenza di fronte agli altri e di fronte a sé stesso nello specchio narcisistico dell’opera. Ma nulla di riduttivo o di convenzionalmente mistificante in questo primo giro della ruota, che prelude invece all’appropriazione poetica del mito. Ancora Siti: «L’arrendersi a una scissione paranoide del desiderio (per cui per esempio l’omosessualità è vista come l’aggressione di un ‘doppio’) è il connettivo profondo che salda le due diverse direzioni della narratività pasoliniana»[11].

In una delle note introduttive premesse ai singoli capitoli Siti suggerisce che Le lettere luterane, se Pasolini avesse potuto curarne la pubblicazione, «avrebbero incorporato una parte di Descrizioni di descrizioni, Petrolio e l’appendice di Bestia da stile»[12], ricomponendo «i frammenti di un unico gigantesco macrotesto, un’abnorme poesia transgenerica». A indicare la possibilità di una radicale revisione dell’opera edita, così come siamo abituati a percepirla, è l’attraversamento – lo si è visto – della «foresta intricatissima di indici, di progetti»[13] del Fondo Pasolini, un mareggiare di documenti agitati dall’inquietudine pasoliniana a “riaprire” l’opera e dalla sua ossessa volontà di «ricombinare il già scritto in un caleidoscopio sempre più ambizioso»[14]. Si potrebbe liquidare questo dato come il manifestarsi dell’angoscia del filologo (ma ce n’è un’altra di angoscia, che Siti ammette più volentieri: l’angoscia dell’influenza) di fronte al non finito, al non catalogabile, al testo che si scompone sotto le mani dell’interprete senza consegnarsi all’ordine perentorio di un discorso, di una lectio intellegibile. E, in effetti, si tratta di una verità che l’opera pasoliniana testimonia con abbondanza di dati, una pulsione profonda che risale alle origini della relazione con la scrittura e che forse si deve collegare con il trauma della fuga precipitosa da Casarsa.

Negli anni Settanta – ma con significative anticipazioni nel periodo precedente – il non finito diventa la più importante strategia di resistenza alla fissazione geologica della scrittura. Al tempo dell’abiura della Trilogia della vita Pasolini ha già scoperto che «L’antico romanzo [Ragazzi di vita] non è che un fossile, i Riccetti si sono fatti il tiraggio»[15]. Come romanziere non sa “morire” nel tempo dell’opera, né orchestrare come Proust la drammaturgia della propria ascesi, affollare la pagina per compensare l’astensione dai rapporti con il mondo.

Al contrario, Pasolini resta sempre in primo piano, forsennato bricoleur che riscrive e ricombina febbrilmente il già scritto in nuovi mosaici testuali, in nuovi progetti che ibridano i codici della poesia, del romanzo, del cinema, della performance: «Quella a cui ci troviamo davanti – scrive Siti – è una incontenibile pulsione autobiografica»[16]; lo scrittore «non può che creare sempre nuovi ‘dispositivi’ a varia matrice autobiografica, la cui complessità di macchinario e il cui eccesso d’ambizione sono direttamente proporzionali al fallimento di quel ‘bilancio dei propri rapporti inautentici col mondo’ che è tentato continuamente di fare e a cui continuamente si sottrae».

La concordanza tra la poetica del non finito e l’esperienza del cinema[17] è stata approfondita da Siti in alcune pagine che sono probabilmente all’origine di altri percorsi critici[18], tra i quali il saggio di Caterina Verbaro, Pasolini nel recinto del sacro[19], un contributo originale non soltanto per la comprensione delle relazioni tra scrittura e cinema, ma anche, più sottilmente, per accertare quanto la pratica cinematografica abbia modificato dall’interno le forme del discorso poetico. Verbaro analizza la poesia, il cinema e l’ultimo romanzo incompiuto, Petrolio, indicando come fil rouge la relazione con il sacro che il poeta identifica nel “Reale per eccellenza”, secondo una formula mutuata dallo storico delle religioni Mircea Eliade. Di fronte all’avanzare della società dei consumi e alla sparizione del mondo contadino, nell’Italia secolarizzata dal miracolo economico, il sacro contrassegna per Pasolini una dimensione dell’esperienza umana sottratta allo scambio utilitaristico e illuminata da una sorta di realismo creaturale. Nessuna trascendenza, nessun orizzonte escatologico si apre su questa intuizione che assolve una «funzione politica di opposizione alla cultura del Neocapitalismo»[20]: «nessuna sacralità è possibile fuori dell’immanenza»[21], l’esperienza del sacro si colloca «dentro la realtà»[22].

Ma da questo punto in poi l’immersione nel magma del reale impone l’adozione di tecniche espressive semplificate, attinte dall’esperienza di sceneggiatore e regista. La forma tipica di questa nuova fase è lo sceno-testo, cioè «un’opera poetica che trova il proprio necessario compimento in un’integrazione visiva e cinetica operata dal lettore» e la cui struttura «non può prescindere da questo superamento della bidimensionalità propria del tessuto verbale»[23]. L’intervento teorico che meglio chiarisce questa nozione si intitola significativamente La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, un articolo del 1965 in cui Pasolini afferma la centralità di un modo espressivo che stringe intimamente la parola all’immagine, il codice verbale alla sintassi filmica. Posta sotto il segno del non finito, la poesia pasoliniana rinnova linguaggi, tecniche e forme della comunicazione, con un movimento che trova analogie nell’evoluzione di Zanzotto dopo le Ecloghe, da posizioni di difesa dello spazio letterario a una sua apertura al fluire caotico del reale. Lo sceno-testo si avvale di una serie di procedimenti compostivi (il montaggio del materiale verbale in sequenze alternate, il collage, la polifonia delle citazioni e dei rimandi ipotestuali) che trovano ampia attestazione nella raccolta Poesia in forma di rosa, dove peraltro il legame con il lavoro della cinepresa è sottolineato anche dal poemetto Poesie mondane, una sorta di taccuino di pensieri trascritti durante la lavorazione del film Mamma Roma. Con Trasumanar e organizzar, «una raccolta che istituzionalizza l’oltrepassamento dei codici letterari»[24], il poeta sigla la sua abiura della poesia.

Abiura dello stile, dunque, abiura dell’identità e poetica del non finito si intrecciano nella struttura frammentata di Petrolio nel segno «del doppio, del molteplice, dell’ibrido»[25]. L’abuso di una lingua di seconda mano (brani giornalistici, pamphlet, citazioni letterarie da Apollonio Rodio, Norman Brown, Dostoevskij) mira a diluire il flusso lineare della narrazione in una dilatata pancronia, un presente metastorico che è la somma di ogni presente e dà forma al tempo del mito. In quest’opera onnivora e disperata, quasi un testamento, il gesto stesso del racconto si oppone «come antidoto alla dissacrazione di cui la storia è artefice e di cui l’irrealtà del presente è prova»[26]. Anche per Siti del resto, come per Verbaro, Petrolio, il «poema dell’ossessione dell’identità e, insieme, della sua frantumazione» (Appunto 42), non è soltanto l’ultimo romanzo incompiuto, bullicame psichico dove ribolle una materia informe, ma il punto di arrivo di un percorso da cui guardare all’opera nella sua interezza con una prospettiva nuova.

Il tema del sacrificio, e del pharmakos, lo si è visto, dissemina ossessivamente «il fantasma del ragazzo che morendo assume su di sé le colpe della comunità, liberando la comunità stessa dal rischio della dissoluzione»[27]. Lo «schema del capro espiatorio», scrive Siti, diventa la «matrice profonda di motivazioni superficiali assai diverse tra loro: dalla denuncia antiborghese delle morti di Accattone, Ettore o Stracci, alla meditazione sul ruolo degli intellettuali nelle morti del corvo o di Medea, alla fedeltà al testo evangelico nella morte di Cristo, fino al modello freudiano dell’accecamento di Edipo»[28].

Riprendendo una suggestione critica di Maria Antonietta Macciocchi pubblicata in un numero di «Tel Quel» del 1978 sul terrorismo in Italia, Pierpaolo Antonello ha riflettuto sulle caratteristiche delle narrazioni sacrificali che da subito hanno avvolto e strutturato la percezione delle vicende di Moro e Pasolini[29], assimilabili attraverso un comune riferimento alle teorie di Girard (La violence et le sacré è del 1972) sulle origini cruente delle istituzioni storiche[30]. La rappresentazione e nominazione degli eventi, nel caso della morte di Pasolini come nelle drammatiche sequenze della strage di via Fani, del sequestro e della morte di Moro, si conforma al registro sacrificale come a una modalità privilegiata di inscrizione nella memoria collettiva: «The hermeneutical mode of sacrifice is not only adopted and employed by commentators and writers in the critical analysis of these events, but first of all by the victims themselves: the sacrificial narrative is above all a form of self-representation, the progressive awareness of being the subject of a scapegoat mechanism, of a victimary persecution»[31]. Nella prospettiva del capro espiatorio esiste però una differenza fondamentale tra le due figure: mentre Moro, segregato nella “prigione del popolo”, attiva ogni possibile risorsa nella composizione delle sue lettere per sottrarsi al destino sacrificale nel quale si sente progressivamente precipitato, Pasolini accoglie su di sé ed esibisce lo stigma vittimario come segno di una precisa volontà di esperire una rottura traumatica che è posta a garanzia della più diretta e cruda evidenza del reale.

A partire da questo nodo di motivazioni, da questo nido di fantasmi, si è affermata nella critica più recente una lettura in parallelo con la riflessione di Michel Foucault. Abiura, parresi, exomologhesis, sono le tessere di un discorso critico che, sulla scorta delle lezioni di Lovanio del 1981, Marco Antonio Bazzocchi ha orientato sulle pratiche di veridizione del soggetto che si stacca dal proprio io passato e si espone al giudizio della comunità. Devono essere lette in questa logica le procedure di sdoppiamento che costellano labirinticamente l’ultimo romanzo incompiuto, Petrolio, da cui si sporge sull’opera precedente il senso di una rimodulazione complessiva, esattamente come nell’abiura il tempo vissuto resta sospeso in una sfera di inappartenenza e di rigetto[32].

Una seconda linea di indagine riguarda la psicoanalisi, l’eredità freudiana, il metodo genealogico. Roul Kirchmayr ha posto in relazione Pasolini e Foucault alla luce del “sapere di Edipo”[33]. La tragedia di Sofocle è centrata sulla produzione di una verità, secondo le tecniche dell’indagine giudiziaria, che mette in questione la sovranità del tiranno e il suo stesso potere. Proprio il nesso verità-potere identifica in Foucault il “problema degli intellettuali” la cui funzione critica consiste nel «rendere perspicuo il funzionamento di quel ‘dispositivo di verità’ che è prodotto dalla ragione occidentale e che si identifica in essa»[34]. Sull’asse di una lettura postfreudiana, che risale a una “politica della verità” inscritta nella Nascita della tragedia, la vicenda di Edipo «mette in scena il tramonto di una figura arcaica del potere, quella del tiranno, che incarna una peculiare unità del sapere/potere in via di dissoluzione»[35]. Ma l’analogia tra Pasolini e Foucault deve a un certo punto interrompersi per rovesciarsi in aperto contrasto: mentre il filosofo francese disarticola il «nesso verità/desiderio, isolando la verità come funzione discorsiva e collegando la verità al potere»[36], il regista piega la lectio freudiana scindendo il desiderio dalla politica della verità, che gli si impone dall’esterno come costruzione sociale[37]. Edipo è accolto come “figura dell’ignoranza”[38], il non-sapere permane in lui come una «lacuna (la vita ingenua) in cui occorre riconoscere la dimensione del sacro nel suo sgorgare spontaneo»[39].

Un secondo asse di ricerca della critica pasoliniana si identifica con la parabola di un ritorno a Gramsci orientato a superare la mediazione culturalista o postmoderna. Il volume collettivo curato da Paolo Desogus, Il Gramsci di Pasolini[40], si fa carico della radicalità storica e filologica[41] e della dimensione militante della cultura marxista che rappresenta il terreno comune di valori, prassi, progetti, su cui alle origini si installa il rapporto Pasolini-Gramsci. È importante, scrive Desogus, insistere su questo punto: «Quello conosciuto ed eletto a interlocutore privilegiato da Pasolini è il Gramsci strettamente legato ai dibattiti e alla vita politica italiana del secondo dopoguerra»[42]; la lettura del «lascito carcerario, avvenuta probabilmente in più fasi, tra il 1947 e il 1949, risente fortemente di questa posizione politica nata nel contesto post resistenziale»[43]; infine, l’intuizione del mondo subalterno, da parte del poeta, si riconnette alla nozione di “connessione sentimentale” interna al tema «tipicamente gramsciano della mediazione tra intellettuali e masse»[44].

Negli anni casarsesi l’influenza gramsciana si innesta naturalmente nello sviluppo di una personalità e concorre alla scoperta e definizione di un contesto: «Ethos omosessuale, lavoro poetico e prassi marxista in questo modo si sovrappongono, entrano in competizione, danno vita a distanziamenti e ricomposizioni strettamente connesse al lavoro poetico in questa fase»[45]. Dopo Casarsa, il più ampio confronto con l’autore dei Quaderni si ha all’altezza delle Ceneri di Gramsci, una straordinaria costruzione poematica sintonizzata sui registri lirici e civili, e che trova il suo innesco a-dialettico nella figura della sineciosi, secondo una celebre lettura di Fortini, atta a significare un conflitto non pacificato, la coscienza scissa tra la luce della ragione politica e le “buie viscere” del desiderio. Ma, nei passaggi immediatamente successivi che immettono nel clima della rivista «Officina», il gramscismo di Pasolini si stabilizza in forme più dilatate e costruttive, collegandosi alle questioni linguistiche come a un momento dell’affermazione dell’egemonia culturale. Ora, proprio la vicenda di «Officina» è stata tradizionalmente catalogata dalla critica sotto il segno negativo dell’insufficienza, della mancata previsione della mutazione neocapitalistica. In un’antologia di grande interesse, stampata da Savelli nel 1977, Giancarlo Majorino indicava tra i meriti della rivista e del suo gruppo redazionale «la gramsciana necessità di un lavoro culturale quale presupposto del fare letterario»[46]. Nel bilancio di quella esperienza e di quella microsocietà intellettuale Majorino ribadiva però come «la linea essenziale della loro attività filava su una sostanziale rivalorizzazione della letteratura, appannata appena, o armoniosamente incorniciata entro un generico storicismo», mentre Pasolini, l’intellettuale di maggior prestigio del gruppo, poteva apparire «tutto chiuso nella sua scrittura anti e prenovecentesca, barricato in quella ripresa della tradizione italiana e ostile a una rapportazione compromessa con la tensione più acutamente contraddittoria e contemporanea della lotta di classe»[47]. Majorino antologizzava di seguito alcuni poemetti, Le ceneri di Gramsci e il Pianto della scavatrice di Pasolini e Il sogno di Costantino di Roversi, forse il testo più interessante e innovativo della raccolta Dopo Campoformio (1962 e 1965), a documentare una dimensione di scrittura non elusiva e anzi apertamente invischiata nel contatto con gli strati più ruvidi e disarmonici della realtà. Ma il giudizio non cambia, se si guarda a un’antologia più recente come quella di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Poeti italiani del Novecento[48], dove l’apporto di «Officina» viene catalogato come una «storia di realismo frustrato»[49] la cui matrice populista, non dimentica della lezione gramsciana, deve essere ricondotta a modelli ideologici e stilistici ottocenteschi.

L’accezione fortemente negativa che qualifica in questo contesto il termine “populismo” fa scorrere una contraddizione che rimette in discussione il quadro generale. Nel corso degli anni Sessanta Pasolini percepisce sempre più acutamente «il carattere progressivo che le classi capitaliste hanno iniziato ad adottare per rafforzare la propria egemonia»[50]. L’apporto di Gramsci si focalizza nel concetto di “rivoluzione passiva”, e questo si combina con gli esiti della “mutazione antropologica” e con la descrizione del “nuovo fascismo”. La distinzione tra “progresso” e “sviluppo”, che si declina negli scritti polemistici, corrisponde in maniera schematizzante all’esigenza di pensare la società neoliberale in un quadro antropologico-politico nuovo. In Salò è ferocemente descritto «l’inferno generato dal radicale rovesciamento di codice basato sul rapporto che corre tra il fascismo storico e il nuovo fascismo»[51]; il film rappresenta un «universo totalitario in cui gli elementi di godimento del ‘nuovo fascismo’ (come ad esempio il permissivismo, il mangiare, il sesso) sono strumentali al dominio e alla cancellazione di qualsiasi alternativa che possa scardinare l’ordine dominante»[52].

Su questa sponda, che è quella di una modernità desolata e trionfante, priva di un “fuori” e povera di alternative pensabili o praticabili, l’ultimo Pasolini (proverbialmente l’angelo della storia guarda verso il passato) viene incontro agli interrogativi delle generazioni di lettori dell’opera lasciata sola, costretti a misurarsi con gli effetti sociopolitici della crisi ecologica e con la debolezza strutturale delle democrazie tra nuovi sovranismi e disordine globale.

  1. W. Siti, Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Milano, Rizzoli, 2022.
  2. «Non ci posso credere. Non posso credere che per cinquant’anni mi sono occupato dello stesso scrittore, che poi non è neanche uno di quelli di cui non si possa fare a meno – certo non è Dante, né Dostoevskij, né Cervantes, né Shakespeare»: ivi, p. 11.
  3. Ivi, p. 219.
  4. Nel titolo il tema del confronto/scontro, che introduce la deissi autoriale, si lega alla metafora pugilistica (le quindici riprese di un incontro di boxe). In questo strato del racconto di Siti si installa con una certa frequenza l’elemento isotopico del distanziamento, dell’incrinatura, persino dell’insofferenza. Per citare solo alcuni esempi: «Io, che mai sarò padre nemmeno per simbolo, vedo Pasolini come un figlio che si dibatte tra le spire degli elementi primari: il sole, l’acqua, il sesso, l’anima, i fiori, il caos, il niente prima della nascita, la morte. Contemplo la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l’ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali. Ammiro come un fenomeno naturale la sua debordante vitalità, la sua mitica capacità lavorativa […]. Chiedo scusa se come critico sono stato obnubilato da fantasmi personali ma spero che laggiù, nel Nulla in cui finalmente riposa, mi conceda le attenuanti generiche e non sia troppo scontento di me»: ivi, p. 17.
  5. Ivi, p. 225. I riferimenti alla condizione esistenziale del critico che lavora all’interpretazione o sistemazione dell’opera sono del resto frequentissimi e portano in primo piano vissuti ed episodi significativi nella prospettiva dell’Io e della sua autorappresentazione intellettuale e sentimentale: «Le nostre idee di bellezza, mi dicevo, sono molto diverse; e non era vero. Per entrambi l’aggressività sadica era un sintomo della ‘normalità’ negata. Quanto mi sembra lontano, quel 1989, in termini di percezione (e autopercezione) dell’omosessualità! Ero ancora quasi giovane, credevo allo scrittore famoso che ormai studiavo da anni più di quanto non gli creda ora, lo citavo così fittamente perché non avevo capito che anche i suoi affondi autoanalitici erano una strategia di fumo negli occhi»: ivi, p. 127.
  6. Si veda P. P. Pasolini, Petrolio, a cura di Maria Careri e Walter Siti, Torino, Einaudi, 2022.
  7. W. Siti, Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, op. cit., p. 19.
  8. «Per annullarsi in un personaggio bisogna essere stanchi di sé, sospendere il risentimento, in qualche misura rinunciare alla vita: mentre la ‘passione per la vita presente’ è in Pasolini il fuoco che brucia tutto, che attraversa i testi e li dichiara inadeguati. Tant’è vero che il personaggio forse più indimenticabile (oltra a quello dell’autore) di tutta l’opera di Pasolini è un personaggio transtestuale che non si incontra in nessuno dei suoi romanzi, cioè Ninetto»: ivi, p. 164.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 166.
  12. Ivi, p. 87 (come la citazione che segue).
  13. Ivi, p. 86.
  14. Ibidem.
  15. Ivi, p. 198.
  16. Ivi, p. 201 (come la citazione che segue).
  17. «Non è un caso che in quello stesso ’65 Pasolini consegni alle stampe un libro come Alì dagli occhi azzurri (che ha al suo centro proprio tre sceneggiature). Avendo deciso di pubblicare i suoi vecchi appunti e abbozzi romani degli anni Cinquanta, si comporta esattamente all’opposto di come si era comportato nel ’62 col Sogno di una cosa: invece di ‘pettinare’ quegli appunti sul filo della nostalgia, magari completandoli ‘alla maniera’ del se stesso di allora, li lascia nella loro incompiutezza e nel loro disordine, ne sottolinea la disorganicità invece di attenuarla. Il non finito ha le stesse caratteristiche semiotiche (necessità di un’integrazione con qualcosa che sta fuori della scrittura, richiesta di collaborazione al lettore, voluta approssimazione dello stile) che ha la sceneggiatura come genere letterario autonomo»: ivi, pp. 192-93.
  18. Scorre nelle note sitiane, così ricche di intuizioni di pensiero vertiginose, una sorta di ironia flaubertiana, derivante dalla prossimità dell’oggetto di studio, che guarda con disincanto alle mitificazioni dell’immagine pasoliniana, alle sue presunte “profezie” («interrogarci adesso sulla coerenza del suo pensiero è più o meno come prendere sul serio le tirate filosofiche dei personaggi di Pirandello»: ivi, p. 61), e che revoca in dubbio la solidità delle acquisizioni teoriche e filosofiche, dei discorsi sistematici, in una personalità al contrario dominata dalla fretta, eclettica fino alla bulimia.
  19. Si veda C. Verbaro, Pasolini nel recinto del sacro, Roma, Giulio Perrone Editore, 2017.
  20. Ivi, p. 21.
  21. Ivi, p. 76.
  22. Ivi, p. 77.
  23. Ivi, p. 123.
  24. Ivi, p. 143.
  25. Ivi, p. 185.
  26. Ivi, p. 214.
  27. W. Siti, Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, op. cit., p. 83.
  28. Ibidem.
  29. Per un’accurata analisi delle narrazioni sacrificali che vedono al centro la figura di Pasolini e quella di Moro si rimanda a P. Antonello, Narratives of Sacrifice: Pasolini and Moro, in Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, Edited by Pierpaolo Antonello and Alan O’ Leary, Oxford, Legenda, 2009, cap. II, da cui è tratta la citazione che segue.
  30. Anche Siti si richiama a Girard riferendo gli «elementi tipologici che devono concorrere alla formazione del capro espiatorio»: W. Siti, Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, op. cit., p. 83.
  31. P. Antonello, Narratives of Sacrifice: Pasolini and Moro, op. cit.
  32. Traggo in sintesi alcuni elementi dal discorso di M. A. Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, Il Mulino, 2017.
  33. Si veda R. Kirchmayr, Pasolini, Foucault e il sapere di Edipo, in Pasolini, Foucault e il “politico”, a cura di R. Kirchmayr, Venezia, Marsilio, 2016, pp. 21-56.
  34. Ivi, p. 37.
  35. Ivi, p. 36.
  36. Ivi, p. 41.
  37. Non a caso, nella conversazione con Jon Halliday Pasolini spiega che è «Questa la cosa di Sofocle che mi ha ispirato di più: il contrasto tra l’ingenuità, l’ignoranza totale e l’obbligo di conoscere». Si veda P. P. Pasolini, Pasolini su Pasolini. Conversazione con Jon Halliday, in Saggi sulla politica e la società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Piergiorgio Bellocchio, Cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1283-399: 1364.
  38. Cfr. R. Kirchmayr, Pasolini, Foucault e il sapere di Edipo, op. cit., p. 38.
  39. Ibidem.
  40. Si veda Il Gramsci di Pasolini. Lingua, Letteratura e ideologia, a cura di Paolo Desogus, «Quaderni del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia», Venezia, Marsilio, 2022.
  41. «La destoricizzazione della figura di Pasolini porta […] alla separazione del suo lavoro intellettuale dallo studio delle fonti e dalla sua ricerca linguistica. La stessa insistenza sull’eresia, sulla ‘profezia’ intorno alle attuali miserie, insieme all’acquisizione di formule icastiche come ‘il corpo nella lotta’ e ‘il palazzo’ hanno di fatto contribuito non poco allo svuotamento dell’identità artistica e intellettuale di Pasolini, trasformata in gesto estetico, in performance. La sua vicenda ha assunto la forma del significante vuoto, dello schema funzionale a uno storytelling ‘omologante’ e da riempire di senso a seconda del gusto dei fruitori». Si veda l’Introduzione di Paolo Desogus, Pasolini e Gramsci: un’ostinata fedeltà, in Il Gramsci di Pasolini. Lingua, Letteratura e ideologia, op. cit., pp. 3-34: 14-15.
  42. Ivi, p. 6.
  43. Ivi, pp. 6-7.
  44. Ivi, p. 9.
  45. Ibidem.
  46. Si veda Poesie e Realtà ’45-’75 (2 voll.), a cura di Giancarlo Majorino, Roma, Savelli, 1977. La scheda su «Officina» si trova nel vol. II, pp. 83 e sgg.
  47. Ivi, p. 84.
  48. Poeti italiani del Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, 2 voll., Milano, Mondadori, 1996.
  49. Si veda l’Introduzione di Stefano Giovanardi: ivi, pp. VII-XLII: XVII.
  50. Cfr. P. Desogus, Pasolini e Gramsci: un’ostinata fedeltà, op. cit., p. 28.
  51. Ivi, p. 31.
  52. Ibidem.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)