La forza del pessimismo
Chi è stato Nicola Chiaromonte? Scrive Raffaele Manica:
Un intellettuale o, se si preferisce, un umanista fuori dall’umanesimo, in una società disgregata prima dai totalitarismi, poi dalle storture della tecnica e del rapido deterioramento della democrazia, infine invasa da troppo conformismo per potervi scorgere qualche residuo margine di verità sul quale tessere il discorso[1].
E più avanti, sempre nella sua Nota introduttiva cita una frase di Chiaromonte tratta dal Dialogo su Solzhenitsyn con Gustavo Herling:
D’altronde io credo che, oggi come oggi, il peggior nemico dell’umanità sia l’ottimismo, in qualsiasi forma esso si manifesti. Esso, infatti, equivale puramente e semplicemente al rifiuto di pensare, per paura delle conclusioni a cui si potrebbe giungere[2].
Possiamo, dunque, utilizzare il pessimismo come una delle chiavi di lettura della sua personalità? Un atteggiamento pessimista è, in effetti, in grado di restituire un punto di vista prezioso, ci offre un disincanto, un modo di percepire gli eventi che sono filtrati attraverso una forte dose di consapevolezza. Il pessimismo è un registro difficile da maneggiare: se il compiacimento, la gioia, l’entusiasmo sono stati d’animo che non hanno bisogno di mediazioni per esprimerle, il pessimismo, al contrario, ti obbliga alla riflessione, alla consapevolezza, all’ancorare le tue riflessioni a un forte spessore culturale. E non vi è dubbio che un forte spessore culturale è il tratto distintivo di tutti gli scritti di Chiaromonte raccolti in questo volume.
La novità di “Giustizia e Libertà”
Nel metterci a disposizione questi testi di Chiaromonte, Raffaele Manica ci ricorda che essi sono attraversati da una lunga riflessione su parole fondamentali della storia di questi ultimi secoli: liberalismo, comunismo, socialismo, democrazia[3]. Parole fondamentali per ripensare ed, eventualmente, creare un nuovo vocabolario che ci permetta di orientarci nel “mondo caos” di questi primi tre decenni del Ventunesimo secolo. Le ragioni che le fecero nascere sono ancora qui, ci ricorda Manica, e non vi è dubbio che, ripensando alla storia del movimento antifascista italiano, il gruppo a cui aderì Nicola Chiaromonte, “Giustizia e Libertà” (GL), fu tra i più originali nel tentativo di rinnovare la cultura politica di coloro che si opponevano al regime fascista.
Al momento della sua fondazione, in GL si riconobbero giovani di ispirazione liberale e gobettiana, nuclei sardisti repubblicani, amici e allievi di Gaetano Salvemini e uomini di cultura ed educazione socialista. Il salto generazionale (quasi nessuno degli esponenti di GL era stato politicamente attivo prima del 1922) aiuta a comprendere l’elemento che unificò provenienze tanto diverse e che distinse il percorso dei giellisti da quello delle altre forze antifasciste. L’antifascismo di GL non si presentava, infatti, come lo svolgimento delle tradizioni preesistenti quanto piuttosto come il tentativo di elaborare nuovi fondamenti teorici e nuovi riferimenti ideali per l’azione politica. Nell’antifascismo non mancavano, certo, altre figure di innovatori. Comunisti e socialisti non sarebbero rimasti nel 1942 quelli del 1926. Il loro fu, però, un rinnovamento nell’alveo delle tradizioni e dei movimenti internazionali nei quali i due partiti erano inseriti e nei quali avevano trovato punti fermi da cui ripartire. Nelle condizioni difficili e penose dell’esilio, in cui già il resistere e il durare erano prova di coraggio e di forza morale, Rosselli e i suoi compagni si posero un compito ancora più sfibrante; non si accomodarono nei famigli esistenti, che certamente avrebbero offerto loro un’ottima accoglienza, ma si proposero la costruzione di una nuova realtà organizzativa e di una nuova base di pensiero. Ed è in questo progetto che Nicola Chiaromonte si riconobbe.
L’autonomia, la persona e la costruzione del cittadino consapevole
Un progetto da cui, certo, si separò velocemente e certamente per impazienza giovanile. Ma portò sempre con sé un tema che era fondamentale nella cultura politica giellista: quello dell’autonomia degli individui nei confronti del potere politico. Di ogni tipo di potere. Dalla riflessione sulla grande crisi del 1929 i giellisti avevano tratto la convinzione della necessità dell’intervento statale in economia. Un intervento, però, che doveva essere accompagnato da una politica delle “autonomie” per evitare che diventasse un pericoloso strumento in mano ai regimi totalitari. Era, cioè, necessaria la formazione di un’opinione pubblica differenziata, in grado di scegliere senza rigidità precostituite tra diverse proposte politiche. Nel 1932, nei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Leone Ginzburg e Carlo Levi avevano scritto:
la politica non è sempre attività così essenziale (almeno la politica di governo): essa può realmente delegarsi, quando per il coesistere di istituzioni autonome, non rappresenti più che una tecnica, una gestione di affari. Ma queste istituzioni sono il risultato di una lotta che ha trovato il suo equilibrio, e hanno una possibilità di trasformazione interna […]. La lotta fa sì che la libertà è diventata un patrimonio comune […]. Ci si libera dalla politica attraverso la politica[4].
Ma l’autonomia, la libertà non sono date una volta per tutte. Necessitano di essere sempre alimentate, se non attraverso l’impegno diretto, almeno appunto da rigorosi “spettatori critici”. Attraverso un atteggiamento pessimista e severo. Torniamo al dialogo con Herling:
Credo che la prima domanda da porsi oggi non sia “Che cosa fare?”, bensì: “Che cosa pensare?”. Quindi la responsabilità della classe intellettuale è la prima e la più grande di tutte. Ora, gl’intellettuali sono una minoranza; nella minoranza, quelli capaci di assumersi tale responsabilità, ossia di non pensare esclusivamente da specialisti, sono un numero scarso dovunque. Si tratta di riconoscersi francamente minoranza. Ma non per questo impotente. Anzi, tanto più efficace quanto più ci si considererà obbligati non a fare, ma a pensare e a manifestare il proprio pensiero a qualunque costo[5].
Anche la democrazia dal basso, le autonomie, la lotta per la libertà possono essere travolte dal “conformismo”. Dirlo può costare fatica, ma quello che «si trova in Chiaromonte e che ce lo fa vicino e fraterno sta nell’indicare le cose come dovrebbero essere: semplicemente questo. I giorni nostri ci insegnano che libertà è diventata la più consunta delle parole: serve per ogni insofferenza individuale o grupposcolare»[6].
Insomma, noi, oggi, leggiamo questo preziosissimo volume, di cui dobbiamo davvero essere grati a Raffaele Manica, nel pieno di una crisi della democrazia occidentale che data ormai dagli anni Settanta del secolo scorso. Quando iniziò a manifestarsi, si trattava, o almeno così venne prevalentemente interpretata e raccontata, di una crisi della decisione politica – della sua rapidità ed efficienza ‒ di fronte a un sovraccarico della domanda. Oggi, però, stiamo vivendo con grandi difficoltà una fase alquanto diversa, in cui la crisi si è accentuata a causa della crisi dei partiti, che da Hegel in poi sappiamo essere stati la “trama segreta dello Stato”. Una democrazia con partiti deboli perché privi di solide culture di riferimento. Di fronte a questo vuoto, il cittadino è accompagnato da una ridondanza culturale che gli assegna il ruolo di nuovo legislatore, senza però fornirgli le condizioni per esserlo veramente e per avere la consapevolezza piena e matura di questo ruolo così delicato.
Da qui, come denuncia Manica, nasce l’idea assai pericolosa che ogni desiderio, ogni pulsione individuale possa legittimamente trasformarsi in diritto individuale senza il bisogno di un fondamento. Ovvero il punto di arrivo estremo di una riduzione puramente economicistica della sovranità popolare. Un punto di arrivo, penso, quasi inevitabile della composizione demografica e della deriva consumistica della società in cui siamo immersi. Un punto di arrivo che legittima lo sguardo critico e pessimista di Chiaromonte, che pure agiva e pensava in una realtà molto diversa ma di cui – certamente non da solo ‒ aveva colto le pericolose tendenze. Cosa resta della sua lezione? Come possiamo utilizzare questi suoi scritti per opporci a questa deriva o almeno per saperla riconoscere e descriverla? Anche la sua esperienza d’intellettuale cosmopolita può esserci utile: bisognerebbe, infatti, essere capaci di affermare l’idea che oggi è sbagliato pensarsi soltanto come cittadino di una nazione, di una comunità, o come appartenente al genere maschile o femminile. La responsabilità dell’esercizio della libertà individuale dovrebbe essere svolta sentendosi cittadino dell’umanità, altrimenti difficilmente l’Occidente reggerà il confronto con altri sistemi e culture, che sono certamente delle autocrazie, ma anche delle società che hanno trovato altre forme, altre reti per stare insieme in un mondo sempre più conflittuale e complicato.
Essere cittadini dell’umanità: come ricerca di una nuova forma di trascendenza dell’azione politica e della ricerca intellettuale. Senza la quale la persona è destinata a soccombere di fronte all’economicismo personale, lasciando l’individuo in preda soltanto alle sue pulsioni. Sono questioni complesse, ma invitarci a pensarle non è l’ultimo dei meriti di questi scritti e del lavoro di Raffaele Manica.
- R. Manica, Nicola Chiaromonte e i paradossi della storia, saggio introduttivo a N. Chiaromonte, Lo spettatore critico. Politica, filosofia e letteratura, progetto editoriale, saggio introduttivo, cronologia e note a cura di R. Manica, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2021, p. XVI. ↑
- N. Chiaromonte, Dialogo su Solzhenitsyn con Gustavo Herling, in Id., Lo spettatore critico, op. cit., p. 1164. ↑
- Cfr. R. Manica, Nicola Chiaromonte e i paradossi della storia, op. cit., p. XXII. ↑
- M. S. [L. Ginzburg-C. Levi], Il concetto di autonomia nel programma di GL, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», n. 4, settembre 1932, pp. 6 e sgg. ↑
- N. Chiaromonte, Dialogo su Solzhenitsyn con Gustavo Herling, op. cit., pp. 1164-65. ↑
- R. Manica, Nicola Chiaromonte e i paradossi della storia, op. cit., p. XXII. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)