Noterella su Croce e la prosa lirica di Guy de Maupassant

Author di Renata Viti Cavaliere

La vita non è mai tutta buona o tutta cattiva, come si crede…

(Guy de Maupassant, Une vie)

Parte prima

La frase in esergo, ripresa da uno dei più noti romanzi di Maupassant, contiene parole riconducibili a quello stupore da fanciullo al cospetto delle cose ovvie, che qualcuno direbbe anche banali, nelle quali Croce intravide “la gran virtù della poesia” in un saggio sullo scrittore francese apparso nel 1920 in «La nuova Antologia», poi rifuso nel volume Poesia e non poesia, pubblicato con Laterza nel 1923, ma collazionato esattamente cent’anni fa. «Era poeta [Maupassant], poeta nella sua prosa narrativa più che nel verso», scriveva Croce. Poeta ingenuo, certo, “tutto senso”, «privo di ogni sospetto di quel che si chiama spiritualità e razionalità umana, la fede nel vero, la purezza del dovere, la concezione religiosa della vita, le lotte morali e i contrasti intellettuali, attraverso cui quegli ideali si elaborano e si mantengono»[1]. Colpisce forse il lettore che gli argomenti, frequentemente adottati dai critici per ridimensionare il valore letterario del “pariginissimo” novellatore dell’Ottocento francese, siano considerati da Croce elementi caratterizzanti della liricità e della spontaneità creativa, veri e propri cardini per lui della capacità poetica di ogni artista che voglia dirsi tale. Se ne deve allora intendere la motivazione polemica nei confronti del lirismo che non è liricità e delle “ipocrisie moralistiche” tante volte introdotte con effetti, a parere di Croce, deformanti nella critica relativa ai giudizi su Flaubert, Baudelaire, Maupassant e altri[2]. Anni dopo, nelle Postille alla Poesia del 1936, “le forme effusive” attribuite a Proust, e a molte opere della letteratura contemporanea, saranno il mezzo di contrasto per elogiare ancora una volta la forma poetica del meno complicato Maupassant, pur egli espressione di sensualismo e di erotismo diffuso[3]. Croce trovava encomiabile anche il rifiuto da parte dello scrittore francese di una lingua rara e ricca, pago come fu «di un ristretto numero di parole che egli collocava al luogo loro in frasi variamente costruite e musicalmente ritmate»[4]. Nel saggio del 1920 l’analisi critica di Croce si concentra sul “sentimento” di Maupassant, in particolare sull’amore naturale e gentile dal quale nulla di concettuale deriva e a nulla esso s’innalza, permanendo necessario solo a sé stesso, delicato e dolce come fonte di conforto e di gioia. A lungo Croce indugia sul sentimento tutto senso e passione in Maupassant, il quale ben conosceva l’illusione e gli inganni che accompagnano l’unione di due epidermidi e di due fantasie; il quale, come Baudelaire, ebbe forse assai chiaro il gusto del male, ma sempre ricorrendo al corso naturale delle cose che include tradimenti e abbandoni senza che se ne debbano ricavare esclusivamente motivi di indignazione morale. Gli amori finiscono, ma non l’amore, «che rinasce in perpetuo sempre nuovo, sempre giovane, sempre affascinante»[5]. Il commento crociano, dal tono decisamente sdolcinato, è però solo il preludio alla “maledizione”, intrisa di umana pietà, che finì per colpire l’ancor giovane Maupassant, il quale a quarantatré anni concluse in solitudine la sua vita con la mente avvolta nelle allucinazioni della follia. Così finisce l’individuo, scompaiono la gioventù e la forza vitale, mentre la natura definitivamente ammutolisce. Nei racconti di Maupassant torna spesso il senso della disperazione che visita il quotidiano nel ripetersi delle stesse visioni, lo sconforto che è noia come per uno spettatore «entrant chaque jour au même théâtre»[6]. La solitudine esistenziale dello scrittore lasciò, certo, un’impronta negli scritti e non può essere tralasciata. A un critico pur così benevolo come fu il Croce nei riguardi di Maupassant non dovette sfuggire, peraltro, che la vita trascorsa da solo rappresentò talvolta il pendant di una sostanziale finitezza mentale, con l’esito di fissare la poesia nell’immobile immagine di un mondo senza Dio, senza cioè quell’idea religiosa di comunione col Tutto che per Croce non è mai assente nell’arte e che in Maupassant pure fu annuncio implicito di una naturalistica evocazione del Mistero. Incubi e paure ricorrono nei Contes del narratore francese, insieme a un sentimento di pietà basato sulla simpatia per gli altri piuttosto che sulla coscienza morale della giustizia nella speranza di una redenzione. Non è affatto vero che di quei racconti è destinato a restare solo il ricordo dell’aneddoto narrato, come invece annotava Alberto Savinio in un saggio critico su Maupassant del 1944. Le storie narrate, diceva, hanno troppa difficoltà a elevarsi verso il cielo, perché restano ben invischiate nella terra[7].

Ho, allora, ripreso a leggere il racconto intitolato La Paura, che non a caso si svolge in uno scompartimento ferroviario, quando tra viaggiatori che non si conoscono talvolta si scambiano discorsi tutt’altro che fatui. Al protagonista, che è lo stesso Guy, il vicino di posto, un uomo anziano all’apparenza un po’ squilibrato, comunicava riflessioni accorate sulla scomparsa dell’Inesplicato nei tempi moderni, tecnologici e miscredenti. Le nuove generazioni non credono più in niente perché ritengono che sia loro tutto descritto nei particolari, sicché l’immagine della terra come apparve ai primordi, oscura e terribile, si andava oramai dileguando insieme con la paura che ha bisogno del soprannaturale per sussistere. Al giovane Maupassant tornò alla mente in quell’occasione la storia di una paura immotivata, eppure talmente feroce da restare a lungo impressa, ch’ebbe a narrare una domenica in casa di Flaubert il romanziere russo Turgeniev, a conferma della tesi che si teme solo ciò che non si capisce. Il compagno di viaggio ricordò anch’egli nel contempo un analogo spavento vissuto alla maniera del terrore superstizioso dei primitivi. Era bastato il rumore nella notte in campagna di un carretto non guidato da alcuno per incutergli il brivido di un’estraneità minacciosa. In quegli anni imperversava per le vie di Parigi il colera, che aveva incusso nella gente lo stesso panico che dovette suscitare in età remote un invisibile spirito maligno. Per le strade il popolo impazziva di rabbia, ballava sulla morte, accendeva fuochi di gioia, ma non temeva il piccolo microbo indicato dai medici bensì il Colera, l’inesprimibile, che uccide come un antico genio del male al quale si guarda con la spavalderia con cui si affronta un nemico da abbattere[8]. Allo scenario paradigmatico di questo racconto si sono ispirati taluni critici che in Maupassant hanno voluto intravedere semplicemente l’autore di testi brevi, che fissano come in fotografia pochi istanti, tanto quanto dura presumibilmente un rapido percorso in treno o in metropolitana, mentre si è in movimento verso una mèta destinata. Sta di fatto che il tempo delle storie di Maupassant era stato quello dal 1870 al 1890, il tempo storico che va dalla caduta del secondo Impero, seguita al crollo dell’esperienza della Comune parigina, alla terza Repubblica francese[9].

Tornando al saggio di Croce, anch’egli si rifaceva ad alcuni celebri racconti di Maupassant, soffermandosi sui romanzi più famosi che furono Une vie e Bel-Ami. Storie di esseri fragili o estremamente ambiziosi, di borghesi e marinai, di madri e figli sfortunati. Sottolineava nei testi più volte l’edonismo ingenuo, l’amoralismo, l’irreligione nel riso e nel pianto, senza che l’autore, diceva, neppure fingesse intenti sociologici falsi o esigenze di riforme etiche, idee politiche o riferimenti storici per denunce di stupidità al potere come nel caso delle guerre fratricide. Men che mai Maupassant si era voluto impegnare nella formulazione di teorie dell’arte come aveva fatto il suo maestro Flaubert, sul quale scrisse un saggio in segno di deferente affetto, senza levarsi oltre il mediocre e le sparse affermazioni dottrinali[10]. Eppure molto aveva appreso dal grande maestro già cinquantenne, sin da quando ancor giovane, all’incirca ventenne, fu a lui affidato dalla madre Laure le Poittevin perché si rafforzasse nella scrittura narrativa. Croce non concede molto spazio al pur importante rapporto di Maupassant con Flaubert, ricordando soltanto il rifiuto del nome di “realista”. Del tutto sui generis fu, infatti, la lezione flaubertiana di “far parlare il mondo”, assai forse più prossima all’attenzione ch’ebbe Baudelaire per l’“oscurità naturale delle cose” che i realisti non sanno vedere, privi come sono della pazienza filosofica necessaria. D’altronde, Baudelaire aveva imparato da Balzac l’importanza di guardarsi intorno nella città per scovare un po’ di poesia[11]. All’allievo Flaubert insegnò parimenti a descrivere le cose in modo che non assomigliassero più a quel che tutti gli altri vedono in esse. Dinanzi a un fuoco o a un albero bisognerà restare a lungo fino a scorgere un fuoco o un albero che non siano quelli già comunemente osservati. Flaubert detestava lo sguardo superficiale che fa scomparire il mondo sotto una coltre di banalità.

A Croce piacque in particolar modo nell’opera di Maupassant l’ingenuo naturalismo, che non è realismo, che mai avrebbe tuttavia definito “patologico-fisiologico” alla maniera di Lukàcs, per esempio, al quale dispiacque proprio l’estrema frammentarietà dei temi narrati da Maupassant, insieme con il distacco dell’individuo dalla società, l’assenza di storia e di politica in componimenti ben lontani dall’ideale di romanzo storico[12]. Un certo ostracismo nei confronti dello scrittore di successo derivò, nei contemporanei di Maupassant, da molteplici ragioni, non ultima l’incredibile successo editoriale di un’opera come Bel-Ami, che ebbe ben 37 edizioni in pochi mesi. Un certo rancore si produsse nei suoi confronti anche per la ricchezza raggiunta che gli aveva permesso di viaggiare a lungo sul panfilo (intitolato a Bel-Ami) soddisfacendo l’amore assoluto che tutta la vita aveva nutrito per la navigazione in mare[13]. Era comunque entrato nel mondo letterario così rapidamente come ne era uscito per la morte prematura e a causa di quell’Altro che della sua mente si impossessò senza scampo[14]. Croce chiude il suo saggio riprendendo l’immagine di una “meteora” che lo stesso Maupassant, già debilitato, volle adoperare a segno di un lavoro svolto in un così breve lasso di anni. E, tuttavia, non è stata di breve durata la fama di uno scrittore che ancor oggi si legge volentieri per la “modernità” ottocentesca della narrazione che non pare mai passare di moda. La sua operosità artistica – ancora Croce – «nacque da un’abbondanza di esperienza e sentimento» che sgorgò impetuosa nell’arco di poco più di un decennio. Fu poeta, “poeta nella sua prosa narrativa”, e le sue novelle possono dirsi “liriche” perché prive di enfasi e di lirismo impoetico. Poeta, che non conobbe altro che i fremiti oscuri della materia e del senso, nei quali, tuttavia, Croce riconobbe l’intrinseca tonalità “morale” che appartiene all’esperienza lirica, nella forma del riso e del pianto trasfigurati nel gioco di desolazione e fuggevole felicità[15]. Persino Tolstoj aveva creduto di poter attribuire all’opera di Maupassant un carattere profondamente etico, che in verità Croce assegnava alla poesia come tale, cioè a quella sorta di “assicurazione sulla vita morale” che la letteratura offre alle società civilizzate, come amava dire senza ironia Karl Kraus. Benché sincero nel descrivere i sentimenti, Maupassant non era parso a Tolstoj, almeno in un primo momento, provvisto del necessario rapporto morale con i suoi argomenti né capace di dare al linguaggio chiarezza e bellezza della forma. Fu poi il romanzo Une vie a impressionare Tolstoj favorevolmente, perché alle avventure dissolute, di cui pure narra, univa sguardi penetranti sulla vita soprattutto nella reiterata constatazione che si debba poter distinguere il bene dal male[16]. Maupassant superò, così, positivamente il vaglio critico dello scrittore russo in virtù di alcuni buoni sentimenti espressi, e non già per l’interno valore morale della poesia che Croce intese ancora una volta sottolineare, a chiusura del suo unico saggio sull’autore francese.

Parte seconda

Per le ragioni ora esposte, il breve scritto su Maupassant offre utili spunti di riflessione sulla concezione della poesia e sul compito della critica letteraria secondo il nostro filosofo, del quale ricorrono nell’anno in corso i settant’anni dalla morte. Si è voluto, inoltre, segnalare il centenario della raccolta Poesia e non poesia allestita nel 1922 e pubblicata ai primi del ’23. Tra gli errori in cui non bisognerà incorrere va messo al primo posto quello assai generico e superficiale per il quale la poeticità del racconto in Maupassant, pur sempre pervasa di senso morale, sarebbe stata avvantaggiata dal fatto di essere andata esente il più possibile da analisi psicologiche, scorci sociali e dall’eccesso di effusioni dell’animo commosso. La poesia c’è o non c’è – e bisognerà approfondire il significato di questa presunta alternativa –indipendentemente dai contenuti talvolta estrinsecamente pretesi dall’opera di artisti che nel Novecento avremmo detto “impegnati”. Vorrei portare un esempio. Nei “racconti neri” di Maupassant risalta la storia di un uomo che vive da quarant’anni un’esistenza regolare monotona, di cui non si avvede fino a quando non spezzerà casualmente il ritmo rassicurante di quella quotidianità scandita nei minimi particolari. Una sera muta il programma del solito tran tran, concedendosi una passeggiata che gli sarà fatale. Scopre, percorrendo gli Champs Élisées e avviandosi verso le Bois-de-Boulogne, un fervore di vita amorosa che gli era rimasta sino ad allora sconosciuta. Resta sgomento al punto di vedere svelate in un attimo la miseria del suo passato e l’impossibilità dell’avvenire. Ne viene trovato il corpo tra i rami sul bordo della via al mattino seguente: si parlerà di suicidio, attribuito forse a un accesso improvviso di follia[17]. Il racconto è emblematico più che veritiero, per quanto non irrealistica appaia la storia di un vuoto esistenziale così aderente al clima di declino romantico tipico della fin de siècle. Il pensiero va a Hoffmannsthal, a un certo kierkegaardismo, a Nietzsche, alle pur lievi, antesignane, tonalità kafkiane.

Croce ebbe sempre un rapporto difficile con la critica letteraria francese, la quale, a differenza di quella dell’Italia e della Germania, non potette a suo avviso giovarsi di una robusta teoria dell’arte[18]. Per dirla in breve: meglio un critico psicologo capace di trasferirsi nel mondo dell’autore studiato, mettendo in parentesi le proprie tendenze o i suoi preconcetti e che, in ossequio all’autonomia dell’arte, sappia prescindere da presunti criteri oggettivi, che non un vieto intellettualismo dogmatico tipico della tradizione razionalistica cartesiana, insieme con quel “falso storicismo” che pretende di spiegare le opere come si trattano le cose pratiche, legate ai tempi e alle biografie. Indubbia è, tuttavia, la benevola attenzione di Croce per la letteratura francese dell’Ottocento, che trova una “spiegazione” nel moto d’animo avverso più in generale alla letteratura contemporanea espresso da lui senza mezzi termini nel corso degli anni Quaranta[19]. «Che cosa è rimasto – si chiedeva – della copiosissima e vivacissima e divulgatissima letteratura francese del tempo che corse tra il 1870 e il 1900? Flaubert, Maupassant, Becque, sì e no Zola, e qualcun altro»[20]. S’intende che un sentimento di dispregio del contemporaneo in nome dell’amore per il passato si giustifica soltanto di fronte all’eventuale palese sfoggio di un’esibita volontà del nuovo, al cospetto talvolta di una vile concezione della poesia e della letteratura, di un’idea edonistica che fa di essa materia di piacere senza esigere la spontaneità e la serietà del genio artistico[21]. Il vecchio filosofo non nascondeva la sua diffidenza nei riguardi della letteratura “nuova”, intrisa ancora di torbido romanticismo e spesso troppo propensa agli intrighi di potere. Incitava, tuttavia, i giovani a non negare all’oggi quello sguardo ampio ch’egli aveva dedicato alle lettere contemporanee nella prima metà del Novecento, non trascurando, perciò, lo sfondo universale dell’arte del passato per poter degnamente sceverare il meglio dell’arte presente.

Si rivedano le pagine crociane su Stendhal, su Flaubert, su Victor Hugo e su Balzac, tra altri, tutti appartenenti al medesimo ambito nazional-culturale. Si trattò per lo più di interventi brevi e articolati spesso in contrasto con le posizioni assunte dai critici francesi. Al Sainte-Beuve, che aveva visto nei personaggi di Stendhal una sorta di automi messi in funzione da idee prima assunte dall’autore, espressione di tipi freddamente scolpiti, Croce obiettava che, invece, nei celebri romanzi stendhaliani gli era parsa prioritaria la disposizione d’animo sommamente poetica dello scrittore, che si palesava infatti in «quell’inaspettato che è della vita»[22]. E ancora: il “romanzo sociale” di Balzac, letto in Francia come l’opera di un antico Menandro con alle spalle la rivoluzione di fine Settecento, rappresentazione didascalica su basi storiche alla maniera di una descrizione scientifica di specie zoologiche, veniva da Croce esaminato, invece, dal punto di vista, che fu anche di Baudelaire, per il quale Balzac, più che un osservatore meticoloso, fu un “visionario passionale” mosso da ardente vitalità. Balzac fu poeta, capace come pochi di tratteggiare con vigore caratteri, situazioni, ambienti[23]. In Victor Hugo, peraltro, Croce coglieva, in un saggio di alcuni anni successivo al 1920 apparso poi nella raccolta Poesia antica e moderna, la presenza di un’ispirazione poetica latente, oppressa dal prevalente barocchismo, in cerca del sorprendente e dello stupefacente[24]. La figura di Flaubert fu a Croce tra le più familiari sia per le teorie dell’arte che amò mettere anche in discussione sia per la purezza della forma narrativa. Anche in tal caso il filosofo invitava a mettere da parte le considerazioni sul romanzo psicologico o sociale per guardare all’artista in sé stesso, a quell’anima romantica e anelante all’infinito che, specie nell’Epistolario, si mostrò talvolta «come un mistico che passi dalla flagellazione all’estasi e dall’estasi alla flagellazione»[25]. In sintesi: non è la poeticità a escludere riflessioni socio-economiche, psicologiche e storiche, né queste negano quella; semmai, nella compresenza di elementi “ideali” o di analisi tipologiche “universali”, si può ottenere in alcuni casi felici la migliore riuscita del romanzo d’arte.

Le questioni che per lo più lo studioso di Croce deve porsi al cospetto delle sue analisi critiche sono tutte riconducibili evidentemente alla sostanza teorica dell’Estetica, che ebbe per lui un’efficacia incontestabile nelle varie parti della filosofia. Non s’intende cosa sia la poesia, l’arte, la letteratura per Croce, se non si rivedono i punti cardine delle sue opere principali sui singoli temi. Un lavoro troppo esteso perché si possa svolgere nel breve corso di alcune note conclusive. È, tuttavia, sufficiente il controverso titolo del 1922 (Poesia e non poesia) a suggerire una pur essenziale riflessione intorno alle delucidazioni che il filosofo intese formulare sul significato della differenza tra espressione poetica ed espressione prosastica, espressione oratoria ed espressione letteraria, tra non-poesia e anti-poesia. Quest’ultimo distinguo è il più rilevante allo scopo di fugare equivoci, che pure non sono mancati, dovuti all’accezione dialettica (poesia/non poesia) attribuita incongruamente a un rapporto che è, invece, un nesso di distinzione, intrinseco all’impianto generale della Filosofia dello spirito, il quale nasce, come si sa, ben incardinato sulla posizione autonoma della sfera teoretica rispetto a quella pratica. La “non poesia” non è, dunque, il brutto, il negativo, l’intruso che inficia la bellezza svilendone la sostanza che è teoretica, perché l’arte secondo Croce è conoscenza in un modo suo proprio, intuitivo e non argomentativo, luce dell’anima, egli diceva, che ha dato anch’essa nei secoli di storia dell’umano un alto contributo al processo di incivilimento. La non poesia è “letteratura”, la quale si colloca su di un piano altro rispetto alla spiritualità poetica, nell’ambito, non meno essenziale, di quella che gli antichi chiamarono Retorica (Aristotele), riconducibile alla sfera delle “istituzioni”, cioè a quelle figure costruite al fine di consentire il consenso tra le genti, costumi ingentiliti e anche progressi nel cammino difficoltoso della civiltà[26]. La distinzione di “poesia” e “letteratura” occupa l’intero primo capitolo del volume La poesia del 1936, al quale seguirono sul finire degli anni Quaranta alcuni limpidi svolgimenti del tema in occasione delle conversazioni con gli alunni dell’Istituto Italiano degli Studi Storici fondato da Croce a Napoli nel 1947. La poesia, opera di verità; la letteratura, opera di civiltà è il titolo di una memoria, uscita nei «Quaderni della Critica» nel ’49, che riporta l’argomento trattato nel corso di una conferenza/lezione dal filosofo tenuta nello stesso anno[27]. Qui il tono è evidentemente colloquiale, l’esposizione chiara, arricchita di aneddoti ed esempi, lucido il pensiero che pare seguire alle parole nell’improvvisazione di un inedito lume interiore. Il concetto che viene anzitutto portato all’attenzione degli allievi è quello di Civiltà, evocato, certo, nell’urgenza di tempi complicati, quando non però per la prima volta l’umanità si trovò a dover “sacrificare alle Grazie”, coltivando lo spirito come nell’incitamento di Platone allo scolaro Senocrate. Lo stesso Croce ricorda di avere molto tempo prima, agli albori del ventesimo secolo (1900/1902), rivoluzionato l’Estetica, buttando a mare i “generi letterari”, la divisione delle arti e la Retorica, collocandoli fuori della teoria della poesia. Come a dire: una cosa è la verità del poetico nella fusione di affetti umani e forma sua propria, altro è la veste allegorica che copre volutamente una verità. La parola poetica non è certo la veste di un contenuto. Nella poesia essa è tutt’uno con il carattere suo, con sillabe, virgole, accenti, da leggere insieme, senza separare elementi come in una somma di parti. Che ne è, allora, dell’antica Retorica, non a caso da Aristotele trattata in un libro a parte rispetto alla Poetica? che ne è del parlare ornato, dell’uso delle metafore, delle figure tipiche del linguaggio messo in bella forma? Croce ha, allora, una sola risposta: «la bellezza è fulgore teoretico, ma il conveniente è un carattere pratico, come di una scarpa che calzi bene il piede o di un contegno che giovi a un effetto che si vuol conseguire»[28]. La letteratura, meglio la letterarietà, se non rende lirico l’immediato sentire, si deve ammettere che lo “urbanizza”, lo rende civile e costumato, in una parola lo civilizza in contrasto con una sempre incombente barbarie. Se ne tenga fuori, ovviamente, la cattiva letteratura e quel tono di spregio che si è soliti attribuire all’espressione tout le reste est littérature! Croce rivendicava così il diritto della Retorica non tanto a esistere, perché ciò sarebbe innegabile, ma a svolgere un ruolo per nulla secondario, da accostare per analogia alla funzione di una logica utens, formale e sillogistica, per la quale molto si deve ad Aristotele e agli sviluppi della scolastica medievale. Se non è logica della filosofia, speculativo-dialettica, orientata a comprendere di volta in volta il significato della realtà, pure la logica formalistica di antica tradizione ha operato a fondo nel processo di crescita morale del mondo occidentale, obbligando alla forma corretta del discorso, al “bene” della non contraddizione che vince sull’impulso immediato, segno per lo più di ignoranza dei mezzi con cui si comunica ad altri il proprio pensiero. Il demiurgo della “letteratura” è in tal caso l’ingegno pratico, non però quello del tecnico o del chimico, ma di chi «vuol presentare in bell’assetto, e insieme nella pienezza dell’esser suo, ciò che ha prodotto come filosofo, storico, scienziato, oratore e uomo politico, o semplicemente ciò che lo ha commosso, i suoi affetti e sentimenti»[29]. Va de sé, infine, che opere letterarie si trovano anche in pittura, nella musica, nell’architettura.

Sulla base della distinzione così articolata di poesia e letteratura, si può meglio intendere il senso della visione ch’egli ebbe di uno scrittore come Maupassant, scelto qui tra altri profili per la verifica di dottrine estetiche, anche molto sofisticate, che Croce iniziò a formulare sin dagli anni giovanili e che poi mise in atto nel lungo esercizio di “lettura di poeti” che gli fu particolarmente caro. Il succo è il seguente: la prosa può essere lirica, cioè poesia nel senso alto del termine, se sa incarnare la verità che nell’arte è la bellezza, unità non costruita di forma e contenuto.

Si potrebbe, in conclusione, percorrendo a ritroso il tempo di una vita intellettualmente molto intensa, tornare alle prime riflessioni sulla Critica letteraria nel 1894, quando un giovane Croce affrontava con piglio tenace alcuni problemi teorici che avrebbe poi convogliato nel volume sull’Estetica, per la quale aveva avvertito sin d’allora in forma germinale il bisogno di un profondo rinnovamento[30]. Maestro di Anti-Rettorica, pur mentre espletava l’insegnamento di Rettorica, era stato Francesco de Sanctis, al quale Croce dedicava l’omaggio dovuto come a colui che, sebbene non con criteri sistematici, aveva esercitato la critica, penetrando con sguardo d’aquila nella ricostruzione storica del tempo in cui le singole opere d’arte avevano visto la luce. Benefico era stato l’effetto di un’intelligenza profonda degli esseri umani, dei loro ideali e della loro psicologia, della letteratura, dei “fatti” della critica, ai quali meglio si accosta chi più ha vissuto e più a lungo ha osservato la vita stessa che è storia. Croce si chiedeva cosa fosse diventata in Italia la cosiddetta critica letteraria, se confusa con il complesso dei lavori che all’opera è pur opportuno riferire, ma la cui somma non produce che una sintesi per parti aggiunte: cioè la biografia dell’autore più la ricerca delle fonti e le classificazioni per generi di scrittura, e così via, in un vasto piano di operazioni sul quale rischia di non tramontare mai il sole. D’altronde, andava fatta una distinzione tra gli studi di Estetica, scientifici, relativi ai concetti del bello e della poesia, universali perché teorici, nati in Germania nel Settecento con Baumgarten (e già annunciati nel nostro Vico), e il particolare su cui si impegnano in concreto gli “studi letterari” propriamente detti. Occorreva, allora, saper entrare «nella cella del nume», esercitare la contemplazione estetica che talvolta procede di pari passo con la lettura (anche a voce alta) del testo, perché infine si dia vita a «una creazione sopra un’altra creazione», a un lavoro sopra un altro lavoro[31]. Il giovane Croce, è pur vero, inframezzava allora più domande che risposte entro questioni teoriche che gli apparivano assillanti e imperiose. Il saggio del 1894 conteneva, tuttavia, un importante riferimento al tema del giudizio di gusto in Kant, là dove nella Kritik der Urtheilskraft (1790) il piacere del bello, necessario e disinteressato, svelava, infine, la possibilità di un’assolutezza d’altro tipo, aprioristica ma non perciò priva del rapporto con l’individuale. Si trattò di un lume straordinario, pur tra molte contraddizioni che il sommo Kant non seppe diradare nell’opera della sua avanzata maturità[32]. Alla mente di Croce cominciava ad affacciarsi l’esigenza di considerare il giudizio estetico non più assoluto, nel senso di una verità incondizionata per via di dimostrazione logica, ma in ogni modo valido su base valoriale, pur nella relatività di una lettura “personalissima” della poesia. Aveva, dunque, ragione De Sanctis: «la critica germoglia dal seno stesso della poesia»[33], e mettere in dubbio la sua utilità vorrebbe dire decretare la morte di entrambe.

  1. B. Croce, Maupassant, in Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono [1923], terza edizione riveduta, Bari, Laterza, 1942, p. 301.
  2. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], Edizione Nazionale a cura di C. Castellani, con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2017; cito dall’edizione Bari, Laterza, 1966, p. 238.
  3. Ivi, p. 217.
  4. Ivi, p. 233.
  5. B. Croce, Maupassant, op. cit., p. 303.
  6. Ivi, p. 304.
  7. A. Savinio, Maupassant e «l’Altro», nel volume di G. de Maupassant, Racconti bianchi, racconti neri, racconti della pazzia, Milano, Adelphi, 2004, pp. 13-109.
  8. G. de Maupassant, La paura, in Id., Racconti bianchi, racconti neri, racconti della pazzia, op. cit., pp. 193-201.
  9. Cfr. D. Fernandez, Preface a G. de Maupassant, Miss Harriett, Paris, Rombaldi, 1978, pp. 35-47.
  10. B. Croce, Maupassant, op. cit., p. 308.
  11. Alcune note postume su Baudelaire si trovano ora in di R. Calasso, Ciò che si trova solo in Baudelaire, Milano, Adelphi, 2021.
  12. G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1976.
  13. Cfr. Guy de Maupassant e il suo tempo. Con un saggio di Carlo Bo, a cura di A. Fumagalli, Bergamo, Bolis, 1989.
  14. A. Savinio, Maupassant e «l’Altro», op. cit., in particolare le pp. 100-109.
  15. B. Croce, Maupassant, op. cit., p. 312.
  16. L. Tolstoj, Zola, Dumas, Guy de Maupassant, Paris, L. Chailley, 1896, pp. 203-11.
  17. G. de Maupassant, Passeggiata, in Id., Racconti bianchi, racconti neri, racconti della pazzia, op. cit., pp. 155-62.
  18. B. Croce, Poesia e non poesia, op. cit., p. 234.
  19. B. Croce, L’avversione alla letteratura contemporanea [1945], ristampato in Id., Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia [1950], Bari, Laterza, 1966, pp. 300-304.
  20. Ivi, p. 303.
  21. Ivi, p. 300.
  22. B. Croce, Stendhal, in Id., Poesia e non poesia, op. cit., pp. 84-96.
  23. B. Croce, Balzac, in Id., Poesia e non poesia, op. cit., pp. 234-45.
  24. B. Croce, Victor Hugo. «Booz endormi», in Id., Poesia antica e moderna. Interpretazioni [1940], Bari, Laterza, 1950, pp. 383-94 (Edizione Nazionale a cura di G. Inglese e apparati critici a cura di G. Macciocca, Napoli, Bibliopolis, 2009).
  25. B. Croce, Flaubert, in Id., Poesia e non poesia, op. cit., pp. 260-72. Rinvio al saggio di P. D’Angelo, La teoria dell’arte di Flaubert nell’interpretazione di Croce, nel suo volume Il problema Croce, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 209-29.
  26. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura [1936], edizione cit., pp. 5-60.
  27. B. Croce, Dieci conversazioni con gli alunni dell’Istituto Italiano di Studi Storici di Napoli, a cura di G. Sasso, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 33-51.
  28. Ivi, p. 36. Si veda l’ampio capitolo sulla Rettorica o teoria della forma ornata nella parte storica dell’Estetica (1902), edizione a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, pp. 542-60 (Edizione Nazionale a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2014).
  29. B. Croce, Dieci conversazioni…, op. cit., p. 47.
  30. B. Croce, La critica letteraria. Questioni teoriche (Roma, Loescher, 1894), in Id., Primi Saggi [1918], Bari, Laterza, 1951, pp. 73-168.
  31. Ivi, p. 88.
  32. Ivi, pp. 99-100.
  33. Ivi, p. 126, nota 1.

(fasc. 43, 25 febbraio 2022)