Nuove patologie della ricezione letteraria. Malesseri biliari e saturnini morbi nella narrativa di Celati, Palandri e Tondelli

Author di Biagio Castaldo

Il contagioso desiderio triangolare

I casi classici di intossicazioni letterarie che contaminarono personaggi immaginari e lettori di romanzi sono stati a lungo oggetto di allarmismo giornalistico sulle cronache locali e di studi sull’uomo, per i quali si sono largamente spesi romanzieri, critici, sociologi. Memorabili e ormai abusati i casi di Don Chisciotte e Madame Bovary, che hanno dato esiti proverbiali e nuove formazioni deonomastiche[1]; proficue per gli psicologi ma moralmente scandalose per l’epoca furono le endemiche infezioni della Wertherfieber o Wertherkrankheit, l’epidemia che all’uscita del romanzo epistolare I dolori del giovane Werther minacciò l’esistenza dei giovani lettori in terra tedesca e che per molti fu fatale[2]. Il potere ipnotico e manipolatorio della letteratura continua a dispensare pezzi di vita sottratti all’angoscia sul finire del Novecento. L’inesploso furor pueri post ’77, che troverà cittadinanza nelle stanze della narrativa di Gianni Celati, Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli, contribuirà a diffondere il contagio di fantasie divoranti e a mietere vittime sul campo letterario[3].

Quando a Parigi nel 1961 René Girard introdusse la nozione di desiderio triangolare[4] nelle opere di finzione, complicò la più elementare rappresentazione geometrica del desiderio spontaneo, ossia una linea retta che congiunge il soggetto desiderante all’oggetto desiderato, attraverso la figura del mediatore. Posto quest’ultimo al vertice di un triangolo isoscele che involge sia il soggetto che l’oggetto alla base, lo schema psicologico di quello che il soggetto crede essere illusoriamente un autentico desiderio secondo sé si rivela come la proiezione di un desiderio secondo l’altro. Quest’introiezione, apparentemente inconsapevole, talvolta genera nel soggetto sentimenti contraddittori, meccanismi di sopraffazione e odio nei confronti del mediatore al quale riconosce, seppur segretamente, il merito di aver acuito in lui il desiderio. La distanza fra il mediatore e il soggetto stabilisce la tipologia di mediazione: Girard distinguerà una mediazione esterna, laddove i due coprotagonisti della sfera del possibile siano tanto lontani da non permettere il contatto; di contro, si parlerà di mediazione interna, qualora la loro prossimità permetta la condivisione di uno spazio fisico o morale. Il poligono manterrà la sua dimensione triangolare, anche se il lato obliquo che unisce i due punti-soggetto della contesa soffrirà la loro maggiore o minore vicinanza. Un mediatore letterario, quale Amadigi di Gaula per Don Chisciotte o il Werther di Goethe per i giovani suicidi tedescofoni, instaura un tipo di mediazione esterna in cui la distanza tra i due soggetti del desiderio risulta essere spirituale, prima ancora che geografica. Di conseguenza, il rapporto di discepolanza è più tangibile, non conoscendo il conflitto circostanziale, e si risolve in un meccanismo di transfert al quale segue una deputata emulazione. Sebbene il mediatore sia immaginario, la mediazione resiste. Di fatti, l’immaterialità e l’invalicabile distanza spazio-temporale permettono a questi adepti di legittimare la propria condizione esistenziale o, altresì, di pensarsi diversi da ciò che si è – secondo la definizione di bovarysme di Jules de Gaultier – e di mimetizzarsi fino a perdere i propri connotati, attribuendo al mediatore un ruolo catartico. In questo modo, l’identificazione letteraria risulta essere una scissione nella sfera dell’appartenenza, quella che Celati definisce «uno stato di incoscienza, l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori della famiglia»[5].

Il magone celatiano

Un sintomatico caso di soggetto coinvolto in uno schema triangolare di mediazione letteraria insieme interna ed esterna è Giovanni, il protagonista di Lunario del paradiso, romanzo di Gianni Celati pubblicato nel 1978. La mediazione interna che qui si impone nei rapporti amorosi ricalca solo in apparenza il tradizionale pattern narratologico protagonista-deuteragonista-antagonista e conserva della nozione di Girard esclusivamente lo spazio fisico condiviso dai due rivali, Giovanni e il turco, che si contendono le attenzioni delle donne di casa Schumacher. La letteratura agisce in modo mimetico e predittivo come mediatrice sul giovane narratore, che racconta in prima persona la sua storia su diversi piani cronologici. Egli osserva tutti i contraenti del patto della seduzione muoversi seguendo percorsi riconoscibili, già battuti dai suoi eroi di carta, e vede dispiegarsi davanti agli occhi trame e situazioni narrative alle quali prende parte con il suo personale bagaglio di lettore appassionato. «Giovanni è un personaggio in fuga attraverso i piani della vita e della letteratura: studente, attore, mimo, cavaliere antico, burattino, sensuale, malinconico, disperato»[6]. Non è casuale che Bazzocchi utilizzi il termine “burattino” – con il quale Giovanni si definisce a più riprese durante tutto il corso del romanzo – perché intravede nel personaggio celatiano la fisionomia di Pinocchio di Collodi; ma è altresì leggibile come cavaliere antico, viste le analogie, esplicitamente dichiarate, con un Tristano sofferente che, imbracciate la cetra e la spada, sbarca in terra straniera alla ricerca di una sua Isotta. Ma è nella lettura empatica di Shakespeare che Giovanni sente la seduzione della fantasia e conta nella sua testa, come nel celebre guscio di noce amletico, di poter essere il re di uno spazio infinito. Fagocita tutto il flusso d’immaginazione proveniente da quel grande tomo rilegato in pelle nera e bordato d’oro delle Comedies, Histories, Tragedies di Shakespeare, ritrovato nella biblioteca della casa di Sierichstrasse, dove è ospite di due bambine che sembrano essere uscite direttamente dall’Alice di Carroll. Sulle note di un disco jazz, seduto a terra nel soggiorno della grande casa, si lascia invadere dalle visioni beate del paradiso shakespeariano, «lasciando andare i pensieri che cavalcano le folli brame»[7]. Impugnata la bandiera che sovrastava il Globe Theatre, incarna il motto elisabettiano Totus mundus agit histrionem e comincia a recitare monologhi ad alta voce, preparando la scena e le quinte di un teatro fittizio nello spazio tra due sedie, gesticolando istrionico. Si atteggia al machiavellico Riccardo III con la postura del deforme e al malinconico Romeo nella posa dell’amante che sospira, ma con salti, facce spiritate e urla all’occorrenza diventa anche re Lear o Lady Macbeth in preda a un delirio di follia. Sembra essere qui al cospetto di un manierista, secondo la definizione di Binswanger in Tre forme di esistenza mancata, per il quale questi vive «l’angosciosa disperata impossibilità di essere se stesso e insieme la ricerca di un appiglio, di un punto di riferimento in un “modello” attinto alla pubblicità del “SI”»[8], laddove il modello di riferimento tradisca una condizione patologica di insicurezza nei confronti del mondo e dal quale sente incombere un presagio persecutorio.

La tragedia di Amleto assume agli occhi di Giovanni l’aspetto di una profetica illuminazione, una sottrazione dalla vita reale per ricreare autonomamente un suo teatro attraverso l’arte mimica; lo schermo su cui proiettare le ombre più scure di una commedia personale, nella quale è protagonista col proprio «dolore di ragazzo tradito nei suoi ideali massimi»[9].

Quella di Amleto mi sembrava la mia storia, pari pari, a tempo di jazz. Ofelia era la povera Antje. Gertrude la signora Schumacher grifagna. Il turco una via di mezzo tra re Claudio usurpatore e Polonio intrigante. Ma il sergente nazi riuscivo mica a piazzarlo. O magari era lui il fantasma? Poi coincidenza vuole che la signora Schumacher si chiamasse proprio Gertrude di nome. Fiamme d’immaginazione che divampano! Lei anela a gettarsi nella libidine tra le braccia del figlio Amleto, ma intanto Claudio l’usurpatore turco se la gode da maiale, installato nel castello di Elsinore![10]

L’Amleto celatiano, contrariamente al rifiuto anticonvenzionale del suo equivalente danese, ritiene necessario inseguire l’obiettivo del matrimonio. Trovatosi di fronte a una riluttante Antje-Ofelia, proietta il desiderio sulla madre dell’amata, riversando su di lei edipicamente la carica d’eros, le vertigini libidinose del giovane studente in terra straniera. Nell’identificazione col dramma shakespeariano, il mediatore interno, un giovane ingegnere turco, indossa i panni metaforici di patrigno e di futuro suocero e intrattiene un rapporto al limite dell’incesto nel desiderio triangolare. Il sergente-nazi Schumacher a capo della famiglia del paradiso, un po’ fantasma paterno un po’ Prospero di The Tempest quando cita «Ciofanni! Bevi Ciofanni e dimentica! we are such stuff as dreams are made of»[11], sovverte il rapporto tra realtà e sogno nel quale vive Giovanni e si fa portatore di un’idea calderoniana della vita, in cui tutto ciò che è reale per l’uomo è fatto di sogno.

La sovrapposizione con il romanzesco è un vizio di lettura di Giovanni che, ponendosi di fronte al dramma inglese senza alcuna distanza finzionale, compromette la sua stessa esperienza di lettore. Difatti, egli si ritrova a dialogare non con l’autore, bensì con il personaggio del libro che, riportando il pensiero del Celati di Finzioni occidentali, «costituisce solo la citazione di un “egli”, e non la produttività incontrollata d’un io parlante»[12]. Tutte quelle ardenti letture tessono una rete di pazzia che intrappola il giovane personaggio in disturbi paranoici, stati allucinogeni e manie di persecuzione e che fanno di lui un caso patologico di follia per identificazione letteraria. In Storia della follia, Foucault la inserisce tra le forme di follia che si collocano sulle soglie dell’epoca classica e la intende come «le chimere [che] si trasmettono dall’autore al lettore, ma ciò che da un lato era fantasia, dall’altro diviene fantasma»[13]. Tuttavia, una tale trasmissione della fantasia autoriale accolta concretamente dall’ingenuità del lettore sottintende ben più torbidi rapporti tra immaginazione e realtà nell’opera d’arte e nella vita. Difatti, Giovanni è diffidente nei confronti della popolazione locale che ai suoi occhi tenta di tagliarlo fuori, immagina che il mondo sia tutta una trappola fabbricata su misura dell’uomo affinché nessuno possa credersi diverso dall’essere un comprimario nell’ingannevole film di qualcun altro; sospetta congiure ordite ai suoi danni da parte di due giannizzeri al seguito di un malavitoso, ai quali riesce a sfuggire come Amleto con Rosencrantz e Guildenstern e nelle cui parole è facile avvertire il modello del principe danese: «I giannizzeri del Tino non mi beccano più: ah, gliel’ho fatta ai due cadaveri verdastri! Tanti saluti al cimitero!»[14].

Lo scollamento dalla realtà coincide con quello che Giovanni chiama il periodo dell’ululo, che nel calendario lunare equivale al plenilunio, al quale segue la malinconia, che viceversa combacia con la luna calante. La verve letteraria cui è sempre esposto ottunde la sua mente con nuvole grigie dalle quali vengono giù malumori e stralunamenti che si impastano con quei «discorsi che mi facevo nella testa leggendo Shakespeare, pagine e pagine di malinconia e ululo»[15]. Quando il giro delle lune manda sulla terra i segni del cielo, Giovanni sente il fremito di scappar via da se stesso e, ululando al vento e ai lampioni come un animale ferito, si trascina per i prati per inseguire una visione che gli sfugge. Questa visione è risultante dallo scarto che nasce tra l’ideale letterario che propone modelli fiabeschi di vita e la consapevolezza della propria esistenza; uno scombussolamento interiore, causato da una mancata aderenza alla propria storia, che stimola l’estro, nonché la voglia di ululato, ma anche la purga della malinconia. L’ululo è un idioletto da licantropo dotato di un lessico del dolore, un canto di disperazione che si traduce in un codice verbale, al fine dell’interazione nella socialità, oltre che un mezzo di igienizzazione pulsionale che trascina via tutti gli stimoli, i lamenti e le basse speranze. La condivisione generazionale dell’estro da parte di Giovanni con il fratello porta i due a immaginare di poter agire sulla propria angoscia mediante una follia distruttrice e, con lo scopo di ribaltare autorità, troni e imposizioni[16], l’ululo assume una potenza catartica e apocalittica, diventando «il suono del vento che spazzerà via tutto, nel giorno del Giudizio Universale»[17]. Giovanni vive soggetto a forze più grandi e incontrollabili, sospinto dall’effetto che le fasi lunari esercitano su di lui: alla luna calante, compare sotto le sue lenzuola la grama malinconia nelle vesti di un fantasma, l’infelice rassegnazione al dolore attanaglia lo stomaco e diventa «magone, che va su e giù fino alla gola come uno stantuffo»[18]. Il magone del malinconico di Celati agisce sulla sfera linguistica, promuovendo una nuova forma di espressione verbale: «Quando viene così forte io non parlo, mugugno. Ma mugugnare in lingua straniera, qui sta il difficile»[19]. Il mugugno è un rantolare convulso, un sistema linguistico sconosciuto, composto da pochi suoni foneticamente martellanti («tunf! tunf! tunf!»[20]), consonanti sommesse in prevalenza che si ripetono e si intercalano a grida e a pianti. Di notte la malinconia attacca la vittima nel suo complesso onirico, facendolo sprofondare nella regione dell’inconscio fatta di spaventosa oscurità, alterando altresì il suo sistema omeostatico e scatenando stati di ipertermia galoppante.

Seduto sulla panchina, c’era una statua lì vicino, mi è venuta giù la malinconia. Guardando quella statua d’un satiro o qualcosa del genere, sono sprofondato nell’umor malinconico nero, che conosco benissimo, posso farvi una conferenza. Io sono un malinconico nato, ve lo dico subito. Ho la malinconia che mi gorgoglia in basso, viene su dalla pancia, fa il giro delle budelle, poi si piazza nello stomaco e diventa magone. E col magone non sto più fermo, mi alzo, mi siedo, mi muovo, fumo come una ciminiera, tutto mi sta sui coglioni. Ah, con la mia malinconia ne ho fatti di viaggi all’estero; viaggi bellissimi, devo dire, da intronato. Me la porto sempre dietro, non so cosa farci, è una vita che va così[21].

Il magone celatiano si ascrive al marasma di patemi dettati dal taedium vitae e dichiara una certa vicinanza allo spleen di Baudelaire, ma prima ancora affonda le sue radici nella teoria umorale ippocratica e nella medicina galenica[22]. Se la milza che produce l’atrabile, uno dei quattro umori presenti nell’organismo, sovreccede nel suo quantitativo, avvelena il sangue, provocando uno squilibrio umorale che prende il nome di discrasia. Il temperamento derivante da questa alterazione è definito da Galeno “melanconico” e si manifesta a livello della personalità mediante un carattere ignavo, timido, ostile, preda di un’instabilità nella sfera del torpore. Giovanni accusa forti crampi al basso ventre e dolori lancinanti al fianco, ossia nella zona occupata dai lombi, immediatamente sottostante agli ipocondri, nonché sede della milza. Dalla regione addominale superiore si levano le esalazioni tossiche che raggiungono l’encefalo, offuscando l’intelligenza e provocando malinconiche allucinazioni e stati deliranti: «La testa è una brutta bestia che becca tutto, ingurgito tutto quello che viene dentro, e si gonfia e si sgonfia secondo quello che ha mangiato. Se ha mangiato qualcosa di indigesto, parte in viaggi allucinanti per conto suo, e tu hai un bel correrle dietro»[23].

Il cibo gioca un ruolo fondamentale nella comparsa di tristezze e malinconie: alcuni alimenti scuri e i vini densi sono già in origine carichi di timori, in aggiunta surriscaldano l’organismo che, nel tentativo di raffreddare la bile nera e riportarla al suo stato naturale, subisce sbalzi nel complesso di termoregolazione. Lo stato febbricitante, per quanto terapeutico perché revulsivo, genera diaforesi, una copiosa liquefazione e un disciogliersi dentro se stessi: «un male a tutta la testa, dovevo sedermi per terra ogni dieci passi, dal mare e dall’ondeggiamento marino del cranio, tipo mareggiata che mi sballotta di qua e di là»[24]. Le discussioni filosofiche col colonnello Schumacher mettono Giovanni in un ulteriore stato di subbuglio emotivo, nel quale egli sente un mare in tempesta tormentare le sue meningi, la testa abitata da personaggi sconosciuti che agitano le onde con soliloqui amletici e una “vocina” che arriva fino alle orecchie ponendo interrogativi esistenziali («cosa ci faccio qui? dov’è l’amore? dov’è la vita? quand’è che muoio?»[25]), che Bazzocchi ha identificato nel grillo parlante del romanzo collodiano[26].

Il processo di combustione umorale dà come esito quello che Celati chiama “magone”, una sorta di catrame denso, un carbone viscoso ulteriormente infiammabile che si trasforma in bile adusta e appesantisce lo spirito. Per mitigare gli eccessi dell’umore malinconico, Giovanni ricorre al passaggio di stato del magone canceroso: in aeriforme, trovando un fugace sollievo nella sublimazione in fumo di un pacchetto di sigarette al giorno; in liquido, quando, passeggiando per i prati sotto la pioggia, sente nel suo capo fondersi la disperazione e dai suoi occhi vengono giù rivoli di lacrime. La filosofia naturale del XII secolo, rappresentata dal pensiero di Ugo de Fouilloi nel trattato teologico Migne[27], proponeva un rimedio espulsivo mediante la fuoriuscita di lacrime dal canale oculare, conforme alla liberazione dei peccati attraverso la confessione. Al contrario, il medico romano del II secolo, Sorano d’Efeso, in Sulle malattie acute e croniche proponeva un rimedio alla malinconia alternativo al digiuno e all’astinenza sessuale. Nonostante egli vedesse la causa della malinconia in una costrizione di fibre situata nella regione epigastrica, non limitava la terapia ad antidoti farmacologici, bensì contemplava una misura “attiva”. Bisognava anzitutto condurre il paziente a teatro, esporlo a commedie allegre che predisponessero positivamente il suo animo; una seconda fase terapeutica avrebbe dovuto stimolare la sua creatività, attraverso la redazione di discorsi da leggere in pubblico di fronte a una platea che dimostrasse vivo apprezzamento. Si intuisce che l’istrionismo di Giovanni, che interpreta con mugolamenti e gesticolazioni i drammi shakespeariani e il benessere che ne deriva, si possa collocare in un momento psicoterapeutico. Di conseguenza, la maschera da ammaliante Sherazade in marcia per la pace nel mondo e la posa da favoloso raccontatore che vive nell’immaginazione delle storie hanno denotato per Giovanni l’insorgere della patologia letteraria e della sua relativa cura.

Il traboccamento in Boccalone: una malinconia universale

L’eco dell’ululo del gran lettore di Celati risuona nello stenografico flusso di pensieri di Boccalone, che sulla pagina non conosce maiuscoli, maiuscoletti o giustificazioni tipografiche. Il romanzo di Enrico Palandri, uscito nel 1979, condivide con il Lunario l’adozione di un narratore omodiegetico che, nel raccontare la propria storia, percepisce se stesso come un personaggio romanzesco e registra tutte le oscillazioni della scrittura umorale, mediante riflessioni metanarrative, correzioni e censure. La composizione del testo procede in presa diretta e scaturisce dal tentativo di raccontare una storia d’amore personale attraverso le parole di un soggetto collettivo, un racconto corale che non riguarda nessuno ed è «bucato»[28] dalle storie di tutti, coerentemente collocato in pieno clima settantasettino.

La letteratura che aleggia al di sopra del romanzo instilla desideri in Boccalone in un modo così pervasivo da plagiare il suo percorso di formazione, il bisogno di farsi delle storie. Ricalcando quei mediatori che ha investito di autorità e dai quali introietta illusioni, linguaggi e pose, arriva al punto di interrogarsi sul margine di intervento sulle sue scelte e «se la mia giornata è già scritta in qualche libro, o se posso reinventare la mia vita»[29]. L’educazione sentimentale di «enrico» passa attraverso le esuberanti letture di invasamento: La metamorfosi di Kafka e Il giovane Holden, che attecchiscono scopertamente sulla sua psiche, avvalorando la tesi di Celati per cui «i romanzi sono nocivi perché, in mancanza d’una difesa critica contro le loro fantasie, producono quel vizio di identificazione romanzesca che ha tanto afflitto Don Chisciotte»[30]. La fase di scoperta della sessualità si manifesta ancora una volta, come con Giovanni del Lunario, mediante una sovrapposizione con i drammi shakespeariani. Il rito di corteggiamento per Boccalone prevede una mimesi verbale, ossia la riproposizione delle parole di Giulietta del secondo atto, per cui va aggirandosi per Bologna ripetendo: «questo boccio d’amore che s’apre sotto il soffio d’estate quando quest’altra volta che ci rivedremo, forse sarà uno splendido fiore»[31]; e la condivisione di un contesto simil-poetico, nato come estensione della lettura della celeberrima scena del balcone, nel quale immergersi e abbandonarsi agli effluvi dell’amore. Anche quando gli sconvolgimenti emotivi rendono Boccalone insonne, sente su di sé l’eredità dell’usurpatore Macbeth che, nella tragedia scozzese, perde il sonno in preda alla paura e alle profezie delle streghe. L’espressione dell’innamoramento trova la propria cassa di risonanza in un citazionismo letterario postmoderno, che non teme accostamenti indifferenziati tra una cultura alta e il più basso quotidiano, rifuggendo da qualsiasi mito della fonte: «sedevo da qualche parte a declamare poesie: qualsiasi rima, dalla pubblicità dei tortellini fioravanti a ugo foscolo, a dante alighieri, a rimbaud, a majakowskij»[32].

La letteratura agisce altresì come tentativo di spersonalizzazione, uno smembramento del soggetto, al fine di appiattire un “io” arrogante nel ruolo di semplice agente dell’ordine narrativo e ne consegue uno scardinamento di tutte le strutture sintattiche, che fa saltare periodi e griglie ortografiche. La commistione di materiale narrativo che il rabdomante Boccalone va ricercando per la tessitura di un’alterità proteiforme, «un vestito policarpico»[33], ambisce solo parzialmente all’oggettivazione della propria esistenza, mirando piuttosto al riconoscimento, anche letterario, in un sistema di inclusione più complesso, generazionale. Tuttavia, nel mancato avvedersi della morte delle storie, Boccalone sperimenta il fallimento e percepisce il proprio corpo come limite esperienziale del romanzesco, perché esso si situa oltre quelle che Celati chiama «le soglie rituali della società»[34]. Le sue aspettative di militanza socio-letteraria si infrangono contro equilibri apparentemente totemici, che rivelano la precarietà di una condizione patologica generalizzata, fenotipicamente riassunta nell’immagine che «enrico» ritrae di sé: un querulo «psicodramma ambulante»[35] dotato di una straordinaria abilità di trovarsi al centro di cataclismi e con una tendenza al «traboccamento»[36]. Il “traboccamento” di Boccalone è uno straripamento emozionale seguito da una perdita di consistenza, una fuoriuscita incontrollata dalle zone di riconoscimento pregresso. Si trabocca quando «le categorie svaniscono come l’etere, quando vi sentite stretti in tutti i fidanzamenti»[37] e le contraddizioni si insinuano nella norma significante che ammette nel contempo il sé e la sua negazione. Si straborda dalla superficie delle storie che si era soliti rincorrere, dalle costrizioni ideologiche che ponevano un freno al deliberato flusso della continuità e si scivola nell’astratto e nell’amorfo. Talvolta segue perdita di controllo all’interno del proprio inconscio e non è raro udire gran baccano e gruppi rock statunitensi nei meandri misconosciuti della propria psiche: «vi traboccano i sogni che vi trascinano in zone inesplorate dove non vi spiegate più cosa ci fanno i doors e il contrabbasso nel vostro subcosciente»[38].

Anche i traboccanti si situano nello spettro dei malinconici. Freud in Lutto e malinconia riconduce a un’unica matrice, ossia alla perdita dell’oggetto della libido, l’eterna ferita narcisistica procurata al soggetto dal lutto e dalla malinconia. Ma se «nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia, impoverito e svuotato è l’Io stesso»[39]. Nel primo caso, il senso della mancanza si risolve mediante lo spostamento della pulsione libidica su un altro oggetto; nella malinconia la proiezione si rivolge verso l’Io, che risulta essere già narcisisticamente mancante. La descrizione del malinconico freudiano, per il quale questi vive «un profondo e doloroso scoramento, un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, una perdita della capacità di amare, un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie»[40], si riflette nel triste riconoscimento dei propri limiti patologici al quale Boccalone giunge nel finale: «il mio problema è che non so ascoltare gli altri, non so amare davvero, mi importa solo di me»[41].

I traboccanti di Palandri sono orfani di politica per causa e per elezione, fanno parte di «un popolo di incontentabili, rissosi, sfrenati esseri desideranti; malinconici e tristi come il tramonto»[42]. Nelle loro malinconiche nevrosi si intravedono le conseguenze più vistose delle due tornate di rivolte studentesche: la castrazione dell’autorità politica e la conseguente morte del padre simbolico. Le abbuffate ideologiche del ’68 e del ’77 hanno visto, per usare la terminologia di Jacques Lacan, l’epoca dell’evaporazione del padre e il vacillare della sua autorità totemica, rendendo questi relitti generazionali dei “sopravvissuti”. I grandi stravolgimenti politici non entrano spudoratamente nel romanzo di Palandri né vengono ridotti a una semplice scenografia di carta, gli echi della Storia si scorgono come un’estensione della psiche nei protagonisti dei racconti. Nella loro incapacità di omologarsi allo schema sociale, si sentono solidali alla condizione giovanile intercettata in Nord America nel secondo dopoguerra e battezzata con il termine hipster da Allen Ginsberg nel celebre poema Howl. Come con i beat, la Storia li ha lasciati soli di fronte agli scenari desolanti della loro apocalisse privata: per questo si sono ritagliati uno spazio nell’utopia letteraria, fidando solo nella propria macchina esistenziale. Il cambiamento del singolo nella società che ne è conseguito ha comportato quello che Lukàcs, nel saggio Il significato attuale del realismo critico, aveva definito una fuga nel patologico, che si pone «come protesta morale contro il capitalismo»[43], e ha inoculato il germe di una malattia dell’anima. Una malinconia traboccante che si è insinuata nelle pieghe della paranoia, ha inibito la facoltà di linguaggio in un ostinato mutismo e trova una via evacuante in accessi di catatonia e istinti suicidi[44].

Per una diagnosi boccaloniana, viene in nostro soccorso Robert Burton che, nell’Anatomy of Melancholy, considera la malinconia non come una malattia individuale, bensì come un fenomeno sociale che può essere compreso solo intervenendo sul binomio individuo-società[45]. Nelle ultime pagine dell’Introduction all’Anatomy, Burton universalizza la malinconia, per cui «tutti sono malinconici, pazzi, scriteriati»[46], dunque occuparsi di un rimedio alla malinconia significa intervenire sul destino non del singolo, ma dell’umanità tutta. Difatti, i traboccanti vivono come esclusi dalla grande macchina del consenso, come frammenti di culture post-apocalittiche, nella sensazione rabbiosamente enfatizzata da Boccalone: «non sono ospite del vostro sistema, ma sono derubato del mio, e […] questo vostro modo di morire ogni giorno, scientificamente, davanti e dentro la macchina della tristezza e della repressione, non ha possessori, ma solo posseduti»[47]. Tentano di restaurare un ordine ormai perduto e di rivendicare una propria indipendenza, come difesa morale a quella universalità burtoniana della malinconia che si rende manifesta a «enrico»: «una sera sono uscito con gigi per la città e sembra che soffra anche lui, che soffrono tutti»[48]. “Soffrono tutti” i personaggi in Boccalone: alcuni spariscono dopo aver letto Rimbaud, altri reagiscono come Asterix il gallo e sentono che il cielo sta per rovinare loro addosso e sembra che non ci sia consolazione, perché anche la letteratura rovina le cose, per quel vizio di deludere le aspettative. Sebbene Burton proponga, accanto alle cure farmacologiche e dietetiche, la restaurazione dell’ordine sociale, compromesso fin dal giorno del peccato originale, Boccalone esperisce l’infelice rassegnazione per cui «non riuscire a essere soggetti della propria esistenza porta spesso a sentirsi oggetti di un sistema più ampio»[49], alla quale segue un riscontro con l’incapacità di intervenire nella storia ultrasecolare della sopraffazione degli uomini e della politica.

Il suo “traboccamento” si consolida come forma ritentiva di malinconia, incurabile per l’impossibilità di esprimersi. La ritenzione umorale sfugge da qualsiasi pharmakon: dalla ‘bevanda dell’oblio’, una miscela di erbe egiziane che attenuava le lacrime, o dall’elleboro, specie quello coltivato ad Anticira, che nell’antichità si pensava potesse curare il corpo del malato liberandolo dalla bile nera. Per placare i morsi della sua disperazione, Boccalone trova una provvisoria requie in litri di Diampicil e nella scrittura del suo racconto, che gli permetterà la disgiunzione dal mondo, l’allontanamento dalla militanza, per ritrovare i sintomi all’origine del suo disturbo. Nel finale si chiede se sia il caso di consegnare il suo scritto a uno psicanalista, perché, riconoscendo la sua tendenza da drammatizzante nella narrazione del sé, Boccalone ha oltrepassato, sia da fruitore che da agente, la soglia della fiction ed è rimasto imprigionato nella sua stessa storia.

Patologie tondelliane

Il progetto del «cineocchio»[50] tondelliano, una dichiarazione di poetica cinematografica del narratore di Autobahn, il racconto che chiude Altri libertini [1980], promette di dare cittadinanza a tutti i traboccanti, gli istrionici e i boccaloni dei romanzi precedenti. Nella forma di prosa lirica, uno zibaldone psicotropo di fughe letterarie, l’esordio narrativo di Tondelli si chiude con un ambizioso programma, che il narratore definisce drunk-cinema: un luogo antropologico che, nel nome di una resistenza topografica, si pone come iperonimo per una comunità giovanile che sente di essere relegata ai margini. Il progetto si interrompe per la necessità di mettersi sulla strada; nella sua rapsodica corsa all’inseguimento dell’odore del Mare del Nord, egli spera di esalare l’invasamento del Maligno che, insidiatosi nel suo stomaco, ha originato nuove patologie della ricezione letteraria.

Lacrime lacrime non ce n’è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come un uovo e manda via il vischioso male, quando ti prende lei la bestia non c’è da fare proprio nulla solo stare ad aspettare un giorno appresso all’altro. E quando viene comincia ad attaccarti la bassa pancia, quindi sale su allo stomaco e lo agita in tremolio di frullatore e dopo diventa ansia che è come un sospiro trattenuto che dice vengo su eppoi non viene mai. […] E l’Angelo, anche ciò mi rammento ve lo passo, questa scoglionatura che dà sul neuroduro la chiama Scoramenti, al plurale perché quando arriva non vien mai in solitudine. Si porta appresso nevralgie d’ossa, brufoletti sulle labbra o nel fondoschiena ma poi i più gravi mali, quelli della vocina; cioè chi sei? cosa fai? dove vai? qual è il tuo posto nel Gran Trojajo? cheffarai?[51]

Quel sospiro che rimane a mezz’aria nello stomaco, che ricorda il magone celatiano, è il reflusso di una scorticatura sentimentale che martirizza la psiche e il corpo. La scoglionatura è lo spettro di una nausea postuma, esistenzialista, che assume fattezze abuliche nell’isolamento e nell’inettitudine. Ha anch’essa una genesi nel Lunario del paradiso di Celati, nella scena in cui Giovanni si dice «scoglionato»[52], paragonando l’effetto provato al suo rientro nella casa del Tino a quello nella caserma ai tempi del militare, ma viene patologizzata da Tondelli come uno dei «disturbi dubitativi della decadenza»[53]. La spossatezza gastrica che tormenta il soggetto può incollarsi addosso e cementificarsi nella forma di scoramenti, nevrosi duttili e vischiose, che perseguitano il soggetto mediante voci e visi tentatori. La “vocina”, che forzava Giovanni del Lunario a farsi delle storie, interroga il libertino tondelliano e contraddice i connotati della sua identità, provocandogli irreparabili inquietudini. È l’eco della globalizzazione (o «Internazionale Occidentale»[54]), della rivoluzione sessuale che ha messo in crisi i giovani sui segreti dell’amplesso, del loro rifiuto di fronteggiare gli scontri epocali e delle droghe che hanno tradito le promesse di salvezza, creato ulteriori abissi di disagio. La sensazione che segue gli scoramenti è uno stringersi nella cavità addominale, «come ti siringassero da dentro le budella e le graffettassero e punzecchiassero, insomma tanti scorpioncini appesi al tubo digerente»[55]. Queste fitte intestinali, associate a una puntura delle ossa, compaiono già nella teoria umorale ippocratica tra i sintomi dell’eccesso di bile nera nell’organismo. Per il malato, al quale «sembra avere nei visceri come una spina che lo punge»[56], Ippocrate propone come rimedi il noto elleboro, terapie con medicamenti purgativi e l’astinenza da cibi salati e dal vino. Ma nello stato convulso in cui gli scoramenti tiranneggiano con i nervi del libertino, il vino viene eletto a farmaco dei mali, perché provoca rigurgito, un flusso corporeo incontrollato, attraverso il quale il narratore si illude di liberarsi dagli scoramenti e di essere guarito.

Analogamente al primo atto dell’Henry IV shakespeariano, nel quale il principe Hal canzona Falstaff, che si dice malinconico, evocando la fogna di Moor-ditch, il fossato di melma fetida che si credeva provocasse malinconia, i libertini di Tondelli vivono costantemente nel timore di annegare nella «puzza d’italietta»[57], un paesaggio di sudiciume nella cui rete di acque di scarto si sono insediate colonie batteriche di malinconie altamente contagiose. In questi scenari di degrado scatologico, gli scorati si perdono in un minimalismo selvaggio, una vera reductio ad nihil che li colloca alla sola base della Piramide dei bisogni (Hierarchy of Need)[58], in cui lo psicologo statunitense Abraham Maslow ha inserito tutti gli elementi che costituiscono la spinta motivazionale alle radici del comportamento umano. I protagonisti dei sei racconti che compongono Altri libertini sembrano provare solo quei bisogni tipici degli stadi meno evoluti della comunità. Essi ignorano i bisogni sociali e dell’autorealizzazione, che invece costituiscono quelli situati ai vertici, ai quali cercano di sottrarsi per la frustrazione derivante da una vita standardizzata («a Coreggio è tutto una morte civile ed erotica ed intellettuale e desiderante»[59]), e per l’impossibilità di uniformarsi a canoni di realizzazione professionale. Sebbene condividano generalmente i bisogni primari dei bambini, che Maslow definisce fisiologici, e che si collocano nell’istinto di autoconservazione: Respiro, Nutrimento, Sonno, Sesso e Omeostasi, i personaggi tondelliani falliscono anche nel loro primitivismo sociale. Sono soggiogati a impulsi incontrollati, tutti vittime del caos gastrico, «gli sporchi della mia pancia, i puzzi e i rumoracci»[60], delle droghe e delle ipotermie; l’appetito è scarso, latitante e viene annaffiato da fiumi di vino; il sesso è istinto distruttivo e riparatore, il solo momento per ritrovare il paradiso perduto.

Di contro, se si sovrapponessero i sintomi del malessere dei personaggi tondelliani alla concezione della malinconia di Aristotele, lungamente descritta nel Problema XXX, 1[61], si ricaverebbe un’iper-dote epistemologica che fa di questi delle eccellenze filosofiche. Difatti, per Aristotele, sia l’habitus melanconico che l’abbondanza di vino surriscaldano la bile («entra vino santo strapazza il dolore, produci calore, sciogli l’uovo del mio cuore»[62]), eccitano le spinte più libidinose («il cuore palpita e anche il sesso, perdio»[63]) e provocano stati di esaltazione («sto correndo addosso alla mia felicità. Vai fin che puoi!»[64]). Questi elementi fanno degli scorati di Tondelli degli aristotelicamente melanconici, e dunque geni, superiori nella cultura e nelle arti. Sebbene questa correlazione aristotelica di umore melanconico-genialità sia stata largamente messa in discussione, almeno fino al tardo Quattrocento, quando è stata ampiamente rivendicata, il merito di Aristotele è stato quello di aver intravisto la presenza di aria all’interno dell’organismo come prerogativa comune dello stato di ubriachezza e di eccesso di bile nera. Un aspetto, quest’ultimo, rilevato anche da Galeno nella misura in cui la sintomatologia della malattia, quando questa tragga origine dallo stomaco e non dall’encefalo, presenti rigonfiamenti nella regione ipocondriale e manifestazioni di aerofagia, che trovano canali revulsivi in meteorismo, eruttazioni e digestioni lente. Un caso di paziente affetto, secondo la medicina galenica, da malinconia localizzata nello stomaco compare nuovamente in Autobahn, nel personaggio di Chiara, «che guardava l’aquilone del soffitto e ruttava invece che parlare. Ma io capito quei rutti e tradotto per voi “non ho caromio nessun progetto di me, menchemeno realizzazione libidica o razionale, ruth”»[65]. Le belve degli scoramenti contaminano la facoltà di linguaggio e creano una lingua dionisiaca e inedita, fatta di suoni gutturali, una langue saussuriana elitaria, e dunque decifrabile solo da chi ne è vittima. L’identità di una generazione che si è ammalata si manifesta nuovamente in un codice verbale che, in pieno clima postmoderno, ammette l’eclettismo lessicale del gergo del fumetto («è tutto un singhiozzare e sospirare e fare gulp e gasp»[66]), potenziato dalla blasfemia del turpiloquio, dalla miniaturizzazione di un Dio in minuscolo e da chiari riferimenti alla licantropia celatiana («così Miro prende a bestemmiare e ululare»[67]).

La terapia espulsiva contemplata da Tondelli per una tale bulimia letteraria annovera, accanto alle tradizionali vie evacuanti orali, quali il riso[68], l’eruttazione, il rigurgito, nuove purgazioni dell’anima: il «nottambulare pieni di alcool»[69], il «pensierare»[70], lo «spolmonare»[71] controvento lungo le strade dell’Emilia. Formazioni lessicali usate in maniera anticonvenzionale: lo “spolmonare”, transitivamente e nella sua diatesi attiva, indica un boccheggiare dei polmoni, l’aprirsi alla vita e il liberarsi attraverso il respiro dalla condizione di apnea nella quale ci si sente relegati; la morte civile e intellettuale nella cittadina di Correggio viene arrestata solo dai brevissimi momenti di abbandono al “pensierare”, in auto lungo la via Emilia, quando si «lascia che le storie riempiano la testa che così poi si riposa»[72]. L’approdo nelle storie permette di “nottambulare”, spostare la propria esistenza oltre i confini del mondo, verso un luogo utopico d’evasione, brillantemente riprodotto dall’immagine della biblioteca nella soffitta di Annacarla, nel racconto eponimo di Altri libertini. Il superamento della soglia del romanzesco ha messo i libertini di Tondelli sulla strada del vagabondaggio, alla ricerca non di una meta, bensì di uno stato d’animo che coinvolga sinestesicamente la dimensione sensoriale dell’olfatto: «l’odore che sento adesso come un prodigio e che sto inseguendo sulla mia ronzinante cinquecento con su gli scoramenti e dentro tanto vino e in bocca tanta voglia di gridare»[73]. Tuttavia, la fuga assume una connotazione chimerica, poiché non presuppone il raggiungimento di una destinazione, per quanto fortemente desiderata; piuttosto la sensorialità crea percorsi alternativi alla noia e all’insoddisfazione del vivere, che terminano in una necessaria circolarità. La bussola segnerà il Nord, ma l’itinerario sarà sempre inconcludente.

  1. Si pensi alle formazioni lessicali di “donchisciottismo” e “bovarismo”. Per quest’ultimo, si veda il luminare saggio di J. de Gaultier, Le bovarysme, Paris, Société du Mercure de France, 1902, trad. it. Il bovarismo, Milano, Istituto editoriale italiano, 1946, accostato al lavoro di A. Onzi, Jules de Gaultier, la filosofia del bovarismo. Un philosophe nouveau nella cultura francese del primo Novecento, Firenze, Le Cáriti, 2008.
  2. Sul Wertherwirkung, l’“effetto Werther”, rimane prezioso S. Calabrese, Wertherfieber, bovarismo e altre patologie della lettura romanzesca, in Il romanzo, vol. I, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2001, pp. 567-98. Per un’anatomia delle patologie letterarie segnalo G. P. Biasin, Malattie Letterarie, Milano, Bompiani, 1976.
  3. Il punto di vista critico da me adottato presuppone un approccio interdisciplinare che faccia interloquire letteratura e medicina, le cui tangenze sono state acutamente approfondite da Remo Ceserani in un’ottica comparatistica in R. Ceserani, Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, Milano, Bruno Mondadori, 2010, pp. 115-40.
  4. Cfr. R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961, trad. it. Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1981.
  5. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino, Einaudi, 1975, p. 31.
  6. M. A. Bazzocchi, Personaggio e romanzo nel Novecento italiano, Milano, Bruno Mondadori, 2009, p. 165.
  7. G. Celati, Lunario del paradiso, Milano, Feltrinelli, 1996 (I ed. Torino, Einaudi, 1978), p. 121.
  8. L. Binswanger, Drei Formen Missglückten Daseins: Verstiegenheit, Verschrobenheit, Manieriertheit, Tübingen, Max Niemeyer, 1956, trad. it. Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo, Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 14.
  9. G. Celati, Lunario del paradiso, op. cit., p. 75.
  10. Ivi, pp. 93-94.
  11. Ivi, p. 171.
  12. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, op. cit., p. 34.
  13. M. Foucault, Histoire de la folie, Paris, Gallimard, 1972, trad. it. Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976, p. 103.
  14. G. Celati, Lunario del paradiso, op. cit., p. 216.
  15. Ivi, p. 113.
  16. Nelle intenzioni dei due fratelli sembrerebbe scorgersi, seppure superficialmente, una comunanza con le prerogative dei movimenti studenteschi. Ma, a proposito della presa di distanza dal discorso politico-propagandistico, del quale il Lunario rappresenta un antidoto, si veda M. R. Stefanati, “Io ho passato la giovinezza tra i richiami della politica e della carne”. Il discorso politico in Lunario del paradiso, in «Elephant and Castle. Laboratorio dell’immaginario», n. 19, dicembre 2018.
  17. G. Celati, Lunario del paradiso, op. cit., p. 74.
  18. Ivi, p. 213.
  19. Ivi, p. 75.
  20. Ivi, p. 213.
  21. Ivi, p. 73.
  22. Per una raccolta completa delle più accreditate teorie umorali e sulla correlazione tra malinconia e Saturno, il testo imprescindibile è ovviamente R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, London, Thomas Nelson & Sons, 1964, trad. it. Saturno e la malinconia. Studi di storia della filosofia naturale, religione e arte, Torino, Einaudi, 1983.
  23. G. Celati, Lunario del paradiso, op. cit., p. 200.
  24. Ivi, pp. 129-30.
  25. Ivi, p. 73.
  26. M. A. Bazzocchi, Personaggio e romanzo nel Novecento italiano, op. cit., p. 165.
  27. Per ripercorrere la storia della malinconia e dei suoi rimedi, il rimando obbligato è a J. Starobinski, Histoire du traitement de la mélancolie des origines à 1900, Basel, J.R. Geigy, 1960, trad. it. Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Milano, Guerini e Associati, 1990.
  28. I termini “buco” e “bucare” compaiono in diverse forme e a più riprese nel corso del romanzo. L’immagine visiva del testo è quella di un vestito, nella cui trama possono insidiarsi le storie di tutti; oltre a un più sotterraneo rimando agli stupefacenti, protagonisti indiscussi della narrativa contemporanea a Boccalone.
  29. E. Palandri, Boccalone, Milano, Feltrinelli [L’erba voglio, 1979], 1988, p. 42.
  30. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, op. cit., p. 14.
  31. E. Palandri, Boccalone, op. cit., p. 18.
  32. Ivi, pp. 46-47.
  33. Ivi, p. 76. Il vestito policarpico è il titolo del progetto editoriale collettivo che Boccalone ha imbastito con i suoi amici. Il riferimento botanico rimanda a un vegetale che fiorisce e dà molti frutti eterogenei, equivalenti agli interventi che sarebbero apparsi sul libro corale.
  34. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, op. cit., p. 28.
  35. E. Palandri, Boccalone, op. cit., p. 138.
  36. Ivi, p. 15.
  37. Ivi, p. 16.
  38. Ibidem.
  39. S. Freud, Trauer und Melancholie, in «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse», vol. 4 (6), 1917, pp. 288-301, trad. it. Lutto e melanconia in Metapsicologia, in Id., Opere, 1915-1917, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri 1976, p. 105.
  40. Ivi, p. 103.
  41. E. Palandri, Boccalone, op. cit., p. 145.
  42. Ivi, p. 60.
  43. G. Lukács, Zur Gegenwartsbedeutung des kritischen Realismus, 1957, pubblicato in volume: Wider den missverstandenen Realismus, Hamburg, Claassen, 1958, trad. it. Il significato attuale del realismo critico, Torino, Einaudi, 1957, p. 29. La riflessione di Lukács riguardava la propensione al soggettivismo di Kafka e Joyce, ma ritengo che l’atteggiamento di rifiuto e di risposta patologica al sistema capitalistico si possa applicare anche ai personaggi di Boccalone e a molti altri protagonisti di quella che è stata definita la “giovane narrativa italiana”. Si veda Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli e Treno di panna di Andrea De Carlo.
  44. Per approfondire le pulsioni di morte correlate alla melanconia, sebbene patologizzata tra le psicosi maniaco-depressive, ho trovato illuminante la sezione La sofferenza, l’angoscia e l’impulso al suicidio nella melanconia, in L. Binswanger, Melancholie und Manie. Phänomenologische Studien, Pfullingen, Neske, 1960, trad. it. Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Torino, Boringhieri, 1971, pp. 50-60.
  45. A proposito dell’Anatomy of Melancholy di Burton e della malinconia come malattia ricorrente nella letteratura anglosassone, ho trovato un’agile guida nel testo di M. Simonazzi, La malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 2004.
  46. R. Burton, Anatomy of Melancholy, vol. I, London, Hollbrook Jackson, Dent [1932] 1968, trad it. Anatomia della malinconia, Venezia, Marsilio, 1983, p. 167.
  47. E. Palandri, Boccalone, op. cit., p. 43.
  48. Ivi, p. 104.
  49. Ivi, p. 64.
  50. P. V. Tondelli, Altri libertini, in Id., Opere. Romanzi, teatro, racconti, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 2001, p. 140.
  51. Ivi, p. 131.
  52. L’aggettivo “scoglionato” compare solo nella prima redazione del Lunario: «Proprio l’effetto che ti fa la caserma, quando torni alla sera per la ritirata, scoglionato e malinconico rinscemito» (G. Celati, Lunario del paradiso, Torino, Einaudi, 1978, p. 158). Nelle redazioni successive, riviste e ampliate da Celati, il più colorito “scoglionato” si tramuterà in: «Proprio come in caserma, quando tornavo alla sera dopo un turno di guardia, stanco e scocciato» (Lunario del paradiso, 1996).
  53. P. V. Tondelli, Altri libertini, op. cit., p. 132.
  54. L’espressione proviene da un altro personaggio tondelliano, Didi Oldofredi, in Dinner Party, la “commedia borghese di conversazione”, come l’ha definita lo stesso autore, uscita tra il 1984 e il 1986.
  55. P. V. Tondelli, Altri libertini, op. cit., p. 131.
  56. Ippocrate, Le malattie, II, in Id., Oeuvres complètes d’Hippocrate, a cura di E. Littré, Paris, Baillière, 1839-1861, trad. it. parziale Id., Opere, vol. VII, a cura di M. Vegetti, Torino, UTET, 1965, p. 109.
  57. Ivi, p. 143. Si potrebbe intendere “la puzza d’italietta” come uno smellscape, mutuando dalla geografia umanistica il termine, coniato da Porteous e riferito alla creazione di un paesaggio emozionale attraverso la sollecitazione percettiva dell’olfatto. Cfr. J. D. Porteous, Smellscape, in «Progress in Human Geography», IX, 3, trad it. Il paesaggio olfattivo, in Fatto e finzione. Geografia e letteratura, a cura di F. Lando, Milano, Etaslibri, 1993. Il termine smellscape è stato primariamente desunto da Giulio Iacoli che, attraverso il concetto di «bussola del proprio odore», ha definito la corsa verso il Mare del Nord del protagonista di Autobahn, in G. Iacoli, Atlante delle derive, Reggio Emilia, Diabasis, 2002, p. 98.
  58. Cfr. A. Maslow, Motivation and Personality, New York, Harper, 1954, trad. it. Motivazione e Personalità, Roma, Armando, 1973.
  59. P. V. Tondelli, Altri libertini, op. cit., p. 91.
  60. Ivi, p. 142.
  61. Cfr. Aristotele, Problemata physica. Tra le traduzioni e le edizioni critiche più accreditate: ed. Ruelle, Klekm Leipzig, Knöllinger, 1922; E. S. Forster: Aristotele, Problemata, Oxford, Clarendon Press, 1927.
  62. P. V. Tondelli, Altri libertini, op. cit., p. 132.
  63. Ivi, p. 95.
  64. Ivi, p. 139.
  65. Ivi, p. 132.
  66. Ivi, p. 117.
  67. Ivi, p. 127.
  68. Gianni Celati ha ripercorso la storia delle terapie espulsive che contemplano il riso e dedicato pagine preziose sul comico e sulle teorie umorali in Dai giganti buffoni alla coscienza infelice in G. Celati, Finzioni occidentali, op. cit., pp. 83-131.
  69. P. V. Tondelli, Altri libertini, op. cit., p. 92.
  70. Ivi, p. 49.
  71. Ibidem.
  72. Ibidem.
  73. Ivi, p. 134.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)