Il decennio degli anni Settanta è stato caratterizzato da un alto tasso di violenza: il terrorismo, lo stragismo e il movimentismo sono tutti fenomeni distinti e al tempo stesso connessi che hanno concorso a determinare la denominazione poco felice di “anni di piombo”. In sede storica Indro Montanelli[1], Sergio Zavoli[2] e Guido Crainz[3] hanno interpretato il periodo come la dissoluzione dei processi democratici, segnato dalla forte instabilità politica, e seppure in maniera differente ne hanno dato una valutazione sostanzialmente negativa. Quando agli inizi del nuovo millennio la narrativa italiana riscopre il decennio di piombo (delle Brigate rosse e delle stragi), questa si pone in continuità con quanto emerso in campo storiografico, sebbene diventi ancora più lampante la volontà di leggere gli anni Settanta come momento fondativo del nostro presente.
La vasta produzione letteraria sugli anni Settanta costituisce una «nebulosa narrativa»[4] nella quale si intersecano storia, memoria e fiction. Il tema della violenza attraversa l’intero corpus letterario, declinato in violenza subita e in violenza inflitta, che spesso caratterizza lo sviluppo esistenziale dei personaggi, alla ricerca di un principio identitario e performativo nella Storia. Da un’analisi puramente quantitativa emerge che il terrorismo nero e rosso è il plot più gettonato dagli scrittori[5], che in alcuni casi si sovrappone ad altre forme di violenza politica, come quella perpetuata dagli extraparlamentari. Pur nella sua perniciosità e pur avendo dei punti di contatto con la lotta armata, l’area movimentista merita una valutazione autonoma, soprattutto per l’alta incidenza e diffusione che ha avuto, tanto da coinvolgere due generazioni (quella del ’68 e quella del ’77). Sottrarre gli anni Settanta alla stagione del terrorismo serve appunto a smarcarsi da un’interpretazione monolitica, con frequenti ricadute moralistiche, tese a connaturare eticamente il fenomeno e a scorporarlo dal resto della società: come ha scritto Daniele Giglioli[6], il terrorista è sempre l’altro. Si rischia di aderire a una vulgata preconfezionata sul decennio di piombo, refrattaria a trattare le numerose zone grigie tra movimento, criminalità e lotta armata, nelle quali al contrario si annidano questioni salienti del periodo[7], senza che ci sia inoltre un’adeguata analisi del variegato panorama sociale e del complesso contesto politico.
Accanto alla violenza, che senza dubbio ha giocato un ruolo cardine per molti gruppi più o meno politicizzati, è altrettanto vero che, dall’autunno caldo fino alla marcia dei quarantamila, si sono susseguite profonde trasformazioni in seno alla società, con ricadute nella sfera lavorativa e in quella culturale. Lo shock della modernizzazione, finito il boom economico, ha contribuito sia ad acuire il conflitto tra i gruppi politici sia a dar vita a fenomeni di cittadinanza attiva[8], i cui effetti più fecondi hanno portato ‒ a partire dallo Statuto dei lavoratori emanato nel 1970 ‒ a conquiste civili come il divorzio, l’aborto, e l’assistenza per i malati psichiatrici (Legge Basaglia).
Proprio il lavoro, non a caso, è una questione preminente durante gli anni Settanta, che, come ha mostrato Paul Ginsborg[9], rappresenta una peculiarità italiana nel contesto globale delle agitazioni sessantottine, a cui guardare per capire l’andamento del Paese. L’uscita degli studenti dalle università verso le fabbriche e la nascita dell’operaismo, al quale aderirono molti esponenti del ’68, infatti, hanno contribuito a creare un sodalizio fertile e virulento allo stesso tempo che coniugava il principio di cittadinanza con la tutela e il miglioramento delle condizioni lavorative. Quest’importante eredità del decennio, più di altre, viene oggi a scontrarsi con la precarizzazione e la preponderanza delle politiche neoliberiste, trovando al contempo molti narratori pronti a rappresentare le condizioni dei lavoratori, se non anche a prendere posizioni militanti che hanno permesso di riattivare uno sguardo politico e impegnato della letteratura verso la realtà[10].
Lavoro e violenza politica si incrociano ancora una volta alle soglie del nuovo millennio, quando nel 2002 viene ucciso dalle Nuove Brigate Rosse il giuslavorista Marco Biagi: oltre a riaprire un capitolo doloroso della storia italiana, l’omicidio, preceduto da quello di Massimo D’Antona nel 1999, è per molti studiosi del periodo una delle ragioni dell’imponente revival degli anni Settanta. L’anno seguente, quando verrà promulgata la legge omonima, «i primi sintomi del disagio economico e sociale»[11] inizieranno a mostrarsi, producendo una situazione di incertezza lavorativa ad oggi indelebile, che riattiva la riflessione letteraria sul lavoro.
Il ritorno della narrativa agli anni Settanta, oltre ad essere figlio dei drammatici eventi del nuovo millennio, è coinciso in letteratura con il “ritorno alla realtà”, fenomeno che ha posto l’attenzione su storie vere che si traducono in scritture a «bassa finzionalità»[12], attraverso il ricorso al reportage, alla non fiction novel e al memoir. In questo confine sottile si inserisce Piove all’insù di Luca Rastello[13], romanzo che affronta gli anni Settanta senza ricorrere a tematiche plumbee come il terrorismo, ma, partendo dall’esperienza del singolo, riesce a esprimere il senso di una generazione: una storia scevra da sovrastrutture ideologiche che senza censure risulta familiare pur non usando la retorica sentimentale e oleografica alla “meglio gioventù” [14], tipica di molti racconti sugli anni Settanta.
Il fulcro saliente della storia ruota intorno al Movimento del ’77, un coacervo proteiforme, animato dallo scopo di riformare la società per dare vita all’homo novus. Nel corso di quell’anno, commenta Rastello, avviene «la scoperta di due cose: la prima che il lavoro non è liberazione, ma schiavitù, la seconda è che il potere non è un orizzonte desiderabile […] è come se i ragazzi del ’77 avessero visto il postmoderno, la precarietà, il meccanismo del consumo», ma «l’hanno interpretato male e non l’hanno capito»[15]. Lo scopo del romanzo è quindi quello di rintracciare il «momento in cui qualcosa è mutato», in cui «le aspirazioni di quanti trent’anni prima si erano detti rivoluzionari hanno cambiato forma e si sono parodicamente inverate nelle forme del lavoro precario e nell’assenza di tutele sociali»[16]. Quando al passaggio del decennio le condizioni economiche e politiche porteranno alla sconfitta extraparlamentare, la trasformazione del sistema lavorativo determinerà la conclusione della fase storica iniziata con la nascita della Repubblica, mentre il desiderio di cambiare il mondo si capovolgerà nel proprio contrario: in un presente subìto, nel quale il singolo non ha possibilità d’azione.
Ambientata a Torino dal 1958 al 1989, l’opera racconta la storia di Pietro Miasco, alter ego dell’autore, una «sintesi equilibrata e insieme smisurata», scrive Giorgio Vasta, «di come si possano usare insieme memoria e invenzione»[17]. Nonostante i contorni spazio-temporali siano ben circoscritti nel romanzo (ogni capitolo, ad esempio, esplicita il periodo d’ambientazione a partire dal titolo), le vicende storiche «sono seguite senza alcun rispetto per la cronologia o la verosimiglianza (i sei episodi ostentano sovrapposizioni, sincronia, ritorni all’indietro); e la storia è fortemente soggettivizzata da un io narrante trasparente doppio dell’autore, che certo si nutre delle sue esperienze “reali”, ma non è lui»[18].
Il motivo incipitario di Piove all’insù è il licenziamento della compagna del protagonista: in attesa del loro prossimo incontro, per consolarla e distrarla, Pietro le invia novantaquattro e-mail che corrispondono ad altrettanti paragrafi dell’opera (a loro volta raggruppati in sette capitoli). Così comincia il lungo racconto-confessione[19] del protagonista, un percorso a ritroso, discontinuo e accidentato. Tra i ricordi di Pietro si affacciano numerosi personaggi, richiamati grazie alla funzione negromantica della memoria e della scrittura: «sono spiriti dei cieli bassi quelli che senti camminare, perché sto operando la chiamata dei morti, e loro vengono»[20]. La voce del narratore è un intarsio di storie e di ricordi che si susseguono per analogia, quasi un flusso di coscienza, come appunto la memoria che, insicura, si lascia trasportare dal tempo senza dominarlo: «ho paura che se prendo fiato questa storia s’inalbera e non esce più, torna indietro come il dentifricio nel tubetto, per questo te la racconto come viene, distratta e interrotta»[21].
A rendere il racconto ancora più straniante è l’inserto di brani fantascientifici che sfumano i contorni mimetici con tratti allucinati e onirici. Pietro tenta di abitare luoghi, tempi e parole, usando come «traccia (come le briciole di Pollicino nel bosco) certe storie di fantascienza psichedelica pubblicate negli anni ’70 nella collana Urania»[22]. La letteratura fantascientifica, «vero e proprio controcanto utopico alla storia italiana»[23], intercetta il sostrato simbolico e possibile della realtà, per convertirlo nell’intreccio narrativo della memoria, diventando metafora di quella generazione futuribile («le nostre vite cominciavano tutte dopo»[24]), eppure immanente («ci sembrava di vivere dentro la storia, addirittura dentro le nostre storie»[25]), di chi appunto vive il presente come un futuro concreto senza rinunciare all’afflato utopico: «la rivoluzione piomba sulla terra, perde quel suo maledetto tendere e attendere all’infinito»[26].
La commistione tra memoria e storia si ritrova anche nel racconto della genesi dell’opera. L’idea di scrivere Piove all’insù, spiega Rastello, nasce, infatti, a seguito di un’inchiesta sul golpe Borghese: dallo studio della Commissione stragi lo scrittore riesce ad avvalorare l’ipotesi, dovuta a certe memorie familiari, che a partecipare al colpo di Stato non furono una sparuta cerchia di fanatici, ma una parte consistente dell’esercito. Quest’episodio rappresenta uno dei nuclei narrativi all’interno del romanzo: il padre di Pietro, militare di professione, si scopre essere legato a operazioni eversive, guidate dai servizi segreti deviati, salvo poi scegliere di rimanere fedele allo Stato democratico. Attraverso la figura del genitore i ricordi di Pietro ripercorrono un passato doloroso, nel quale la violenza irrompe per mezzo dello schermo televisivo, diffondendosi a macchia d’olio in tutto il Paese. Eppure, anche in questo caso Rastello rifugge da letture emozionali e moralistiche: a fronte della condanna perpetuata contro la lotta armata, non possono essere ignorati i depistaggi, le manipolazioni e i travisamenti, anche a costo di avventurarsi su una china dietrologica. Il racconto degli anni Settanta non può sottrarsi a mettere in evidenza episodi ambigui che restituiscono il clima feroce e instabile di quel periodo: come quando «il generale Vito Miceli, comandante dei servizi segreti, imputato per il golpe, per la strage, per depistaggi, guarda sereno il giudice Alessandrini e dice: “Il terrorismo di destra è finito. D’ora in poi sentirete parlare soltanto delle Brigate Rosse”. Mio padre sbotta: “Ma se sono tutti in galera!”»[27].
Le vicende legate al terrorismo e all’eversione stragista rimangono però sullo sfondo rispetto alla narrazione dell’area movimentista a cui Pietro sceglie di aderire. L’educazione sentimentale e politica del protagonista ha solo apparentemente i tratti di una contestazione alla figura paterna; centrale risulta, semmai, il racconto di un nuovo modo di percepire la soggettività in rapporto alla società e alle istituzioni che la rappresentano, attraverso il quale Rastello dà corpo a un romanzo che, pur partendo da un punto di vista circoscritto, assurge a manifesto esistenziale di un’intera generazione.
Pietro e i suoi compagni sono gli epigoni di una coscienza politica basata sul rifiuto del lavoro, grimaldello per ripensare l’organizzazione sociale e baluardo di resistenza nei confronti della riqualificazione neocapitalistica. I ragazzi assurgono a versione spontanea e ingenua che dal margine vuole comunicare l’humus culturale e politico allo stadio più quotidiano e prosastico. Durante un periodo estivo trascorso in fabbrica, Pietro, infatti, sperimenta quel processo di dominio del corpo che si imprime nei gesti attraverso il movimento ripetitivo: «Otto ore. Intervallo a Mezzogiorno. Ho le mani che vanno da sole, a fare il gesto del plateau, devo ricordarmi di tenerle ferme nella pausa, se no chissà cosa pensano gli operai più esperti di me»[28]. Una condizione totalizzante che occupa pure i sogni del protagonista («di notte sogno le pile di cassette»[29]) e per questo rigettata («voglia di lavorare è una bestemmia»[30]), se non come forma esclusivamente remunerativa («io non ho vista di lavorare, ho voglia di soldi»[31]). L’esperienza in fabbrica è foriera di una nuova consapevolezza, avvertita prima di tutto con il corpo («i miei piedi, più saggi, sono scappati in avanti dove la testa non vuole ancora arrivare»[32]), che si risveglia e diventa arma contro il sistema vigente: come i «fianchi di quel ragazzo, si era fermato tenendosi il polso con una mano per dirigere il tiro della pistola, piegando le ginocchia e il culo all’indietro»[33]. È Giuseppe Memeo, ritratto nella foto simbolo del ’77 e di tutti gli anni di piombo, sintesi iperbolica di una generazione e allo stesso tempo, come scrive Eco[34], di quell’eroe solitario che palesa prima del tempo la fine dell’individuo-massa e l’affermazione dell’edonismo individualista del decennio successivo.
La questione lavorativa è còlta, come nota Morena Marsilio[35] sulla scorta dello storico Andrea Sangiovanni[36], in un momento di snodo fondamentale nella storia della Repubblica italiana. In questo frangente avviene il distacco tra il movimento operaio e quello giovanile: tra chi vede ancora nel lavoro una possibilità di riscatto e chi invece lo rigetta come forma di lotta estrema al capitale per aderire al ritmo autentico della vita. La stagione delle lotte, pertanto, sembra ormai aver perso consenso tra i lavoratori, inclini ad accettare la dottrina berlingueriana dell’austerità. Poco tempo dopo il progredire della decrescita economica determina la battuta d’arresto finale, simboleggiata dalla cosiddetta marcia dei quarantamila, con la quale gli operai della Fiat dichiarano finito lo sciopero, rientrando in fabbrica guidati dai colletti bianchi. Prima del declino definitivo, la generazione del ’77, invece, elabora un percorso di contestazione originale, pronta a imporsi sulla crisi economica e la ristrutturazione del mercato del lavoro. Rileggendo le teorie nate sulle riviste «Quaderni rossi» e poi «Classe operaia», dirette da Raniero Panzieri[37] e Mario Tronti[38], il rifiuto della società del lavoro diventa uno strumento contro l’alienazione della persona, attraverso l’insubordinazione e il boicottaggio, per riattivare creatività e umanità all’interno della fabbrica. Al tempo stesso l’anti-lavorismo, grazie agli apporti della filosofia francese, che rappresenta un importante anello di congiunzione tra l’operaismo degli anni Sessanta e le sue applicazioni nei Settanta, assume anche una funzione conoscitiva, utile per decodificare il paradigma biopolitico. In particolare il pensiero di Michel Foucault[39] risulta centrale per comprendere il dominio del lavoro sul corpo, contrastabile con pratiche di “illegalismo” quali lo sciopero, l’assenteismo e il nomadismo, in sostanza tutto ciò che comporti la mobilità nello spazio come forma di controllo del corpo contro la reificazione.
Sempre dalla Francia arriva uno dei contributi più significativi per la riformulazione dell’operaismo nel ’77, l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari[40] che, assieme al successivo Mille piani[41], costituisce una guida imprescindibile per la teorizzazione del desiderio e di quel “vogliamo tutto” di marca balestriniana, come si evince dalla riflessione di uno dei più importanti leader del ’77, Franco Berardi[42]. Pur con le sue criticità, queste teorie rappresentano una delle eredità più importanti del periodo, capaci ancora oggi di dare apporti significativi alla comprensione dei processi socioeconomici vigenti.
Con l’adesione al Movimento, anche Pietro entra nel laboratorio dell’uomo nuovo, una miscela alchemica di libertà sessuale, rifiuto del lavoro e dell’autorità, con pratiche vitalistiche e collettive al limite tra la violenza e l’illegalità:
Illegalità diffusa è così che avevamo chiamato il nostro modo di stare sulle soglie: formula magica che nomina gesti scomposti, mare aperto dove prende senso il furto del pallone alla Rinascente, il sacco di un autogrill, la preparazione di una bottiglia esplosiva, l’autoriduzione proletaria, una rissa due sotterfugi e quattro balle alla fidanzata[43].
Assieme alla rielaborazione del lavoro e delle pratiche di lotta, la generazione ’77 tenta di plasmare una nuova concezione affettiva e amorosa, non più basata sul possesso e l’esclusività, ma sull’apertura e la fluidità. Pietro intrattiene una relazione sentimentale con due sue amiche, Giuliana e Marina, ma le situazioni che nascono tra i tre danno vita a quadretti tra il comico e il grottesco: uno dei tanti episodi che Rastello racconta per mezzo della sua ironia sferzante.
Tra le pieghe dei misteri italiani capeggiati dal Principe nero, alias Junio Valerio Borghese, si nasconde un altro principe, Gianni Agnelli, «il protagonista di questa storia»[44] e nemesi del Movimento. L’avvocato è infatti il rappresentante dei processi neoliberisti, icona di un’epoca e padrone dei corpi: «ogni volta che guardo la Juve in tv, prima o poi inquadrano la figura elegante dell’avvocato Agnelli che sorride in tribuna, l’orologio che regola ogni movimento in città»[45]. Due mondi, quello di Agnelli e del Movimento, destinati a contendersi la dimensione cronotopica dell’esistenza, il cui campo di battaglia è rappresentato dal lavoro. Di conseguenza, come Pietro da adulto tenta di ritrovare il tempo della giovinezza, così orde di giovani vogliono riprendersi il tempo, abolendo il lavoro e convertendolo nel desiderio hic et nunc:
I fratelli grandi del ’68, impegnati in un corso di formazione da classe dirigente, non ne parlavano, il loro obiettivo era semplice: la presa del potere. Nel loro mondo il tempo libero è un cognato scemo, un tic, un’abitudine sessuale non standard, un pacco di soldi guadagnati male. Ma adesso c’è gente che non si vergogna più, che passa come noi pomeriggi vuoti sui giardini di certi monumenti, senza soldi per il cinema e il lavoro non è più un valore e, certo, l’avvenire del corpo sociale[46].
Da questo campo di scontro derivano pratiche di lotta più o meno violente, come mostrato nel racconto dell’occupazione della mensa dei ferrovieri a Torino: «noi assaltiamo lo spazio, scendiamo nelle cantine e saliamo per vecchie scale e così conquistiamo la terza dimensione della città, e non solo: in virtù dei nostri corpi giovani siamo padroni del tempo, e dunque ignoriamo il denaro»[47]. La dimensione futuribile e utopica si concretizza, perciò, attraverso la Geometrica Potenza, la formula che converte «la forza che senti scorrere nelle tue braccia nelle gambe e nell’asfalto della strada» in «forza lucida di metallo, coerente e meccanica, e può spaccare il mondo»[48] e dà vita alla «violenza collettiva […] impossibile, un sogno di dilatazione, un modello, come la sfera perfetta […] ci faceva tutti artisti e nessuno assassino»[49].
Eppure quella stessa tensione all’infinito, alla fine, si dissolve nell’immateriale, nel privato e nell’edonismo consumistico:
avevamo sognato una guerra in cui non moriva nessuno, e ogni scontro durava per sempre senza vincitori né vinti, abbiamo pensato la violenza come un paesaggio ideale, per non doverci abitare, e continuiamo a usare il nostro potere seduttivo per vivere cacciare possedere assoggettare, dare forma alle cose, alle persone e fagocitare[50].
Dal nuovo millennio, Pietro ormai guarda a quegli anni come al tempo della dissoluzione, in cui l’insistenza sulla corporeità si converte in denaro e l’immanente si frantuma in un universo precario e meritocratico:
Siamo di fronte alla fine, motore di ogni mercato, virtù delle banche, lacuna delle utopie: il denaro, nei suoi canali immateriali, conosce le ragioni del tramonto e sa mettere a frutto le risorse. Noi inadatti alla rivoluzione perché il luogo della rivoluzione è l’infinito, il futuro, sogno da figli dei fiori in tempo di benessere, svanito, noi passeremo dal potere infinito della nostra adolescenza carnale all’infinita frustrazione che muove il consumo. Di sé o di merci. E di vite come merci. Vite di morti, persi in grovigli di ribellioni, furti d’appartamento, droghe pesanti, pistole, delusione o carriera. Alcuni finiranno per decidere che sopravvivere significa emergere, schiacciare, tagliare, votati infine alla regola della supremazia naturale, partiti da lontano per approdare al fascismo elementare della vita vissuta come un diritto del migliore, del più forte, della più bella[51].
Anche la Fiat di Agnelli e Romiti «cambia pelle, scorpora settori su settori e perde la consistenza fisica di lento gigante produttivo»[52] per diventare «una fabbrica da fantascienza»[53], nella quale tutto diventa virtuale, anche il denaro.
Mentre il lavoro si dissolve, la violenza si ritorce contro quel corpo unico, il Movimento, portandolo ad annientare altri corpi, come quello di Roberto Crescenzio bruciato vivo dentro il bar l’Angelo azzurro. Con la fine del decennio il narratore annuncia «l’età di Tersite», della resa e dell’accettazione incondizionata, con la quale «dichiariamo con enfasi la nostra adesione assoluta alla vita com’è» e «facciamo il nostro ingresso, piccoli e spettrali nell’impero del kitsch»[54]. Il progetto dell’uomo nuovo, pertanto, è un esperimento finito male, «capace solo di violenza e morte» che ha dato vita appunto all’homunculus (titolo del terzo capitolo dell’opera), «brutta copia di quanto desiderava il Movimento»[55]. Questo si è estinto in un esercito di fantasmi che voleva fare la rivoluzione, utilizzando la violenza come principio liberatore del corpo, la sessualità come espressione, ma che ha confuso «il bisogno collettivo con l’interesse individuale»[56]. Cosa è rimasto di loro è materia del romanzo, costante dei ricordi di Pietro Miasco: come Tano, morto nell’incendio del cinema Statuto a Torino; Marina «che più tardi sognerà come un porto di salvezza, più tardi, affogata in un mare velenoso, sognerà a Milano il teatro di una vita normale, e tornare indietro e diventare fisioterapista, sposata magari infedele, ma in modo normale, con un camice e uno studio a Milano, e sognava mentre annegava»[57]; oppure ancora Mauro di Lagnasco, il numero centoquarantanove dei cassaintegrati Fiat, morto suicida: «ha infilato la testa in un cappio appeso a un chiodo e si è lasciato cadere»[58].
La rappresentazione degli anni Settanta in Piove all’insù è conseguenza del deserto del presente: una visione postuma che guarda ai destini generali attraverso la dissoluzione delle istanze di cambiamento, dei progetti rivoluzionari, ormai relegati al passato. Al netto di una concreta disamina dei fatti e della realtà storica degli anni Settanta, lo scrittore preferisce raccontare il lascito di una generazione con il setaccio della memoria, sempre selettiva e problematica, sottacendo l’importante eredità teorica di quegli anni. Possiamo leggere questa rimozione e il conseguente porre l’accento sull’ingenuità del Movimento del ’77 e sulla sua mancanza di comprensione del periodo storico, come la presa di distanza da un’epoca dolorosamente rimpianta, nella quale il futuro poteva ancora essere determinato dal singolo; frutto anche di quella damnatio memoriae contro gli esponenti dell’Autonomia a seguito del processo del 7 aprile che si estese anche alle teorie tardo-operaiste bollate come irrazionali, avulse dalla storia e violente. Sembra più lecito, però, cogliere nella desolazione comunicata da Rastello lo smarrimento di fronte a un immaginario che fatica a comunicare e a farsi parte attiva e integrante della contemporaneità: fin dalle prime battute assume, infatti, un atteggiamento conflittuale verso la storia ufficiale, perché «ciò a cui la letteratura può servire è più aprire le ferite, che illudersi di sanarle»[59].
Luca Rastello con Piove all’insù «si avvicina più di ogni altro a realizzare la grande ambizione» di tanti scrittori, «quella di produrre “il grande romanzo degli anni Settanta”»[60], senza «rabberciare retoricamente una ipotetica pacificazione anodina; semmai per ricostruire una memoria intima e pubblica, dolorosa e buffa che consenta di fronteggiare il presente e immaginare il futuro»[61]. Lo scrittore riesce a restituire la complessità di un’epoca, affrontando anche aspetti spinosi del periodo, la violenza politica su tutti, restituendo la voce a una generazione che pur con tanti limiti aveva tentato di immaginare una società diversa, mettendo in discussione il lavoro e il rapporto di coppia convenzionale.
Del Movimento rimane oggi un ricordo doloroso, a cui nemmeno la scrittura di Rastello sembra porre un freno, se non attraverso una rabbia che dal passato continua a testimoniare la presenza di un’epoca che ancora fatichiamo a capire.
- I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo 1965-1978 [2018], Milano, Rizzoli, 1991. ↑
- S. Zavoli, La notte della Repubblica [2017], Milano, Mondadori, 1992. ↑
- G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003. ↑
- Il termine è mutuato da Wu Ming I, usato dallo scrittore per descrivere il panorama della narrativa italiana a inizio millennio, in Wu Ming I, New Italian Epic, Torino, Einaudi, 2009, p. 10. ↑
- La preponderanza del terrorismo in letteratura si ritrova anche in ambito critico, come dimostrano numerosi studi, tra i quali possiamo citare: Imagining Terrorism: the Rethoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, a cura di P. Antonello, A. O’Leary, Leeds, Legenda, 2009; E. Conti, Gli “anni di piombo” nella letteratura italiana, Ravenna, Longo, 2013; R. Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969-2010), in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palermo, Palumbo, 2011, pp. 439-65; D. Paolin, Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Nuoro, Il Maestrale, 2008; G. Simonetti, Nostalgia dell’azione. La fortuna della lotta armata nella narrativa italiana degli anni Zero, in «Allegoria», 64, 2011, pp. 97-124; G. Vitello, L’album di famiglia: gli anni di piombo nella narrativa italiana, Massa, Transeuropa, 2013. ↑
- D. Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia, Milano, il Saggiatore, 2018. ↑
- Cfr. F. Ferrarotti, Alle radici della violenza, Milano, Rizzoli, 1979. ↑
- Le pratiche di cittadinanza attiva, controcanto della violenza politica, sono al centro della riflessione di G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007. ↑
- P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi [2006], Torino, Einaudi, 1989. ↑
- Tra coloro che si sono occupati del rapporto tra letteratura e lavoro segnalo: P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2013; Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, a cura di S. Contarini, in «Narrativa», 31/32, 2010; M. Jansen, Narrazioni della precarietà: il coraggio dell’immaginazione, in Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, a cura di C. Boscolo, S. Jossa, Roma, Carocci, 2014, pp. 69-128; E. Zinato, Il lavoro non è solo un tema letterario: la letteratura come antropologia economica, in Id., Letteratura come storiografia? Mappe figure della mutazione italiana, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 55-78. ↑
- M. Jansen, Narrazioni della precarietà: il coraggio dell’immaginazione, op. cit., p. 69. ↑
- C. Tirinanzi De Medici, Fatti, politica, fantasia. L’impegno narrativo contemporaneo attraverso due casi di studio: Presente e Piove all’insù, in «Between», V, 10, novembre 2015, pp. 1-27, cit. a p. 6: https://doi.org/10.13125/2039-6597/1708 (ultima consultazione 18/04/2024). ↑
- L. Rastello, Piove all’insù, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. ↑
- Si vedano a questo proposito le recensioni di Marco Belpoliti (Passione Torino, in «l’Espresso», 29/06/2006) e Marco Revelli (Un romanzo tellurico tra perdita e salvezza, in «il Manifesto», 22/07/2006). ↑
- C. Ghidotti, Gli anni Settanta non sono il fine. Tra rimosso e iper-esposizione: scrittori italiani contemporanei e racconto degli anni Settanta, in «Studi culturali», XII, 2, agosto 2015, pp. 217-34, cit. a p. 227. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- A. Cortellessa, La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), Roma, L’orma, 2014, p. 572. ↑
- Non a caso Matteo Di Gesù compara Piove all’insù con Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, trovando parallelismi tra Pietro e Carlo Altoviti: «a ciascuno di essi è toccato l’onere di essere protagonista e al contempo narratore delle proprie vicende romanzesche, entrambi garanti di un patto narrativo con il lettore su cui si fonda l’assioma della verità storica che raccontano; ma soprattutto perché, appunto, la loro formazione individuale procede parallela ad avvenimenti cruciali della storia politica e sociale dell’Italia moderna e con essi s’allaccia stretta» (M. Di Gesù, I paralleli. Narratori contemporanei e classici italiani a confronto, Palermo, Edizioni di passaggio, 2009, p. 19). ↑
- L. Rastello, Piove all’insù, op. cit., p. 43. ↑
- Ivi, p. 31. ↑
- L. Rastello, Quando come e perché uno dei più grandi scrittori del 900 mi mandò una email, in «la Repubblica», 12/10/2014: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/10/12/quando-come-e-perche-uno-dei-piu-grandi-scrittori-del-900-mi-mando-una-mail36.html (ultima consultazione: 18/04/2024). ↑
- M. Marsilio, La crisi della figura operaia tra vecchio e nuovo millennio, in «La parola mi tradiva» Letteratura e crisi, a cura di N. Di Nunzio, S. Jurišić, F. Ragni, Perugia, Università degli studi di Perugia, 2017, pp. 41-51, cit. a p. 45. ↑
- L. Rastello, Piove all’insù, op. cit., p. 10. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 42. ↑
- Ivi, p. 192. ↑
- Ivi, p. 21. ↑
- Ivi, p. 22. ↑
- Ivi, p. 26. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 104. ↑
- U. Eco, Una foto, in Id., Sette anni di desiderio [2018], Milano, Bompiani, 1983, pp. 108-12. ↑
- M. Marsilio, La crisi della figura operaia tra vecchio e nuovo millennio, op. cit., p. 45. ↑
- A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006, p. 261. ↑
- R. Panzieri, Lotte operaie e capitalismo, a cura di S. Mancini, Torino, Einaudi, 1976. ↑
- M. Tronti Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966 [Roma, DeriveApprodi, 2006]. ↑
- M. Foucault, La società punitiva: corso al Collège de France (1972-1973), Milano, Feltrinelli, 2016. ↑
- G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975. ↑
- G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani: capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1980. ↑
- F. Berardi, L’anima al lavoro. Alienazione estraneità autonomia, Roma, DeriveApprodi, 2016; Id., Quarant’anni contro il lavoro, a cura di F. Campagna, Roma, DeriveApprodi, 2017. ↑
- L. Rastello, Piove all’insù, op. cit., p. 199. ↑
- Ivi, p. 116. ↑
- Ivi, p. 31. ↑
- Ivi, p. 40. ↑
- Ivi, p. 117. ↑
- Ivi, p. 43. ↑
- Ivi, p. 199. ↑
- Ivi, pp. 200-201. ↑
- Ivi, p. 155. ↑
- Ivi, p. 118. ↑
- Ivi, p. 120. ↑
- Ivi, p. 165. ↑
- C. Tirinanzi De Medici, Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci, 2018, p. 246. ↑
- L. Rastello, Piove all’insù, op. cit., p. 38. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 129. ↑
- R. Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969-2010), op. cit., p. 462. ↑
- A. Cortellessa, La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), op. cit., p. 572. ↑
- M. Di Gesù, I paralleli. Narratori contemporanei e classici italiani a confronto, op. cit., p. 19. ↑
(fasc. 52, 31 luglio 2024)