Pregi e limiti della creatività linguistica secondo Bréal. La teoria della comunicazione dopo l’”Essai”

Author di Simone Scognamiglio

Introduzione

Il movente di questo articolo è dovuto al caso, o forse al destino: il notevole interesse suscitato dalla scoperta del libro di Brigitte Nerlich[1] (una critica delle opere di Bréal e di Whitney che ha messo a confronto fra loro i rispettivi modelli) e la curiosità di approfondirne la spiegazione teorico-scientifica. In seguito, si è scelto di proseguire con la lettura del Saggio di semantica di Michel Bréal, del quale si sono percepiti la lungimiranza e i limiti, considerando anche lo stadio di sviluppo delle scienze linguistiche e cognitive al momento in cui esso è stato scritto.

Pubblicato per la prima volta nel 1897, il Saggio aveva in Appendice i seguenti scritti: Qu’appelle-t-on pureté de la langue, L’Histoire des mots, La linguistique est-elle une science naturelle?; nell’edizione del 1904 si aggiunse anche Les commencements du verbe. La rilevanza di tale contributo di Bréal, frutto di oltre trent’anni di ricerche e studi, sta anzitutto nel fatto che, come spiega proprio Nerlich[2], fino ad allora la semantica non aveva avuto importanza primaria negli studi di linguistica: ad esempio, anche se hanno introdotto e legittimato il ruolo del parlante grazie alla nozione di “analogia”, i Neogrammatici, applicando la legge dell’ineccepibilità alla fonetica, hanno forse rafforzato il descrittivismo linguistico, o almeno vi sono ricaduti, senza aggiungere progresso alla ricerca diacronica ma solo incentivandola.

D’altra parte, come si vedrà, la linguistica ha cozzato spesso anche successivamente con altre discipline, quanto più sfiorava ‒ e in seguito approfondiva ‒ i processi mentali retrostanti l’elaborazione della lingua parlata, in ogni suo aspetto. Vale la pena di leggere, al riguardo, una testimonianza di Tullio De Mauro:

La linguistica ufficiale preferì non contaminarsi con la possibilità d’errori e si tenne stretta al più sicuro campo delle descrizioni diacroniche e, più tardi, sincroniche delle forme linguistiche, trascurandone la funzione semantica e sintattica e la parte che esse hanno nel costituirsi del patrimonio conoscitivo delle comunità e dei singoli[3].

Seguire le teorie espresse nell’Essai, la critica successiva e le più recenti trattazioni sulla semantica consente di comprendere gli aspetti di novità e di limite delle teorie di Bréal rispetto al tempo in cui le ha elaborate e scritte, e di conoscere punti di vista più moderni in merito allo studio del cambiamento linguistico, oltre che, nello specifico, del processo di trasmissione e comunicazione del significato.

Il presente contributo è strutturato in cinque paragrafi. Il primo introduce il profilo di Bréal e i suoi studi in merito alla questione del cambiamento semantico; il secondo, invece, segue alcune testimonianze più interessanti estratte dall’Essai de semantique, che permettono di fare ipotesi riguardo all’opinione di Bréal in merito alle dinamiche della comunicazione e all’origine del linguaggio. La terza parte, dopo un piccolo salto indietro a Whitney, si immerge negli studi successivi al XIX secolo, mostrando i progressi fatti, confermando i punti di forza e smentendo i difetti dell’Essai; il quarto paragrafo entra nel vivo della logica conversazionale. Il quinto e ultimo, infine, è una suggestione: apre semplicemente una prospettiva diversa, ma tanto connessa a quella che si proverà a mostrare nelle parti precedenti del saggio.

Bréal: intellettualismo e psicologismo

Una delle prime posizioni prese da Bréal è stato schierarsi contro l’esclusività del naturalismo e dell’organicismo applicati alla linguistica: essi, a suo avviso, sono limitabili a essere soltanto metafore, come quella di nascita-vita-morte delle lingue e delle parole, dal momento che è lo spirito umano, accompagnato dalla sua volontà, «il primo motore che rende possibile alle parole di nascere, crescere e morire»[4]. Fondamento della ricerca storico-linguistica per Bréal sono le leggi intellettuali[5], leggi che operano da sempre nella comunicazione e nella creazione umana del linguaggio, o almeno da quando le lingue più antiche hanno raggiunto un certo grado di sviluppo sintattico-grammaticale. Gli esempi più datati che Bréal propone nella sua trattazione risalgono, infatti, al sanscrito, al greco e al latino e, tra lingue diverse, lo studioso francese mette in pratica quella che è definibile come una “grammatica comparata sul modello boppiano”.

Di Bopp, infatti, Bréal aveva tradotto la seconda edizione della Grammatica comparata tra gli anni 1866 e 1874, periodo in cui le sue ricerche linguistiche si approfondiscono e preparano il terreno ai primi più importanti interventi in campo prettamente storico-linguistico. Distaccarsi da un’impostazione che prevede “nascita-crescita-morte” delle lingue lo porta inevitabilmente a prendere le distanze dagli studi, ad esempio, di Schleicher[6] e, pertanto, a rifiutare qualsiasi ricerca post-illuministica ottocentesca sull’origine del linguaggio, assieme ai tentativi di ricostruire lingue non più attestate o perfino una lingua originaria indoeuropea.

Lo “sviluppo” delle lingue negli studi ottocenteschi si contrappone, in accezione positiva, a quella negativa di “consumo” ‒ inteso come ‘perdita’ ‒ che i comparativisti sostenevano riguardo all’indoeuropeo o al sanscrito: essendo convinti della filiazione delle altre lingue a partire da queste antiche, secondo Bréal, da Schlegel in poi molti studiosi sarebbero stati sostenitori della tesi di una progressiva corruzione delle lingue e dell’impoverimento delle forme, che avrebbe seguito la diversificazione della flessione morfologica nelle diverse lingue.

Le radici, per Schlegel[7], sono le porzioni originarie delle parole, sono realmente ricche di significato e rappresentano i concetti; quindi, la radice fono-morfologica ha un legame indissolubile con la cosa di cui è semantizzazione, pertinentizzazione; dall’altro lato, le flessioni sono le porzioni di parola che dimostrano l’inventiva umana, sono prova della creatività degli esseri umani (teniamo fisso in mente questo termine, di cui si dirà qualcosa di interessante dopo in riferimento a Bréal).

Bréal, in un suo testo del 1866 (De la forme et de la fonction des mots), afferma chiaramente che allo studio delle forme, legate indissolubilmente alle cose che rappresentano, secondo una filosofia aristotelica ormai radicata nel mondo “occidentale”, predilige invece uno studio anche della funzione delle parole. Non tutte le forme grammaticali possiedono un corrispettivo, un referente nella realtà che viviamo e percepiamo, bensì spesso la funzione di una forma si individua per comparazione e differenziazione con le altre inserite nel contesto sintattico-grammaticale della frase. Tale concezione si configura come un salto in avanti anche rispetto a Bopp, nella cui opera, di contro, «è quasi totalmente assente una teoria della sintassi»[8].

Ovviamente, analizzare la funzione delle parole significa studiare i processi umani che hanno portano a un determinato significato: ad avere agito, per Bréal, sono state sempre le leggi intellettuali, poiché è sempre l’uomo col proprio pensiero che genera cambiamento linguistico. Ciò si riconduce limpidamente alla teoria dell’Uniformitarismo, la quale afferma la costanza nel tempo delle leggi che intervengono sul cambiamento e che, come ha dimostrato Nerlich (nel 2005), ha influenzato maggiormente Whitney ma sembra essersi riversata anche su Bréal, o comunque può essere ritrovata nelle sue opere. Il pensiero umano è la struttura cosiddetta “latente”, per riprendere il titolo della Prolusione del 1868 pronunciata da Bréal al Collége de France (Les idées latentes du langage): il pensiero spiega e chiarifica costantemente la struttura superficiale, cioè il linguaggio pronunciato, di cui ha prodotto il cambiamento e la cristallizzazione.

Tali leggi intellettuali del cambiamento semantico, come si desumono dall’Essai de semantique, in breve sono:

  • la specializzazione: l’acquisizione di una funzione grammaticale da parte di una specifica forma, ad esempio la stabilizzazione dei suffissi latini per la creazione del comparativo o del superlativo dell’aggettivo[9];
  • la suddivisione: la differenziazione dei significati tra due forme in partenza sinonimiche, ad esempio la separazione tra il coraggio attivo e quello passivo nel greco omerico[10];
  • peggioramento/miglioramento: l’accezione o il senso vengono smorzati, per non urtare la suscettibilità dell’interlocutore, oppure esagerati e generalizzati, perdendo l’eccezionalità del valore iperbolico (cfr. il cap. IX dell’opera);
  • restrizione/ampliamento del senso: le due tendenze opposte sono mostrate con gli esempi di tegmen, ‘copertura’ in latino, che è passato a indicare il tetto delle abitazioni[11], mentre in verso contrario pecunia, ‘ricchezza in bestiame’, ha indicato dapprima il danaro e poi qualsiasi forma di ricchezza[12];
  • la metafora: trattata nel capitolo XII, ove Bréal fa alcuni esempi di cambiamenti di significato associati a immagini ricorrenti nella cultura del popolo che parla una certa lingua; ricorrendo al “figurative speech[13];
  • il contagio: particolari associazioni di idee intervengono nel cambiamento d’uso di alcune parole, secondo rapporti metonimici (cfr. il cap. XXI).

Il continuo riferirsi al pensiero umano ha portato Bréal a essere liquidato spesso sbrigativamente dalla critica contemporanea e successiva, a causa della sua presunta ricaduta, attraverso lo psicologismo, proprio nel naturalismo che tanto si impegnava a osteggiare. Lo psicologismo di Bréal, che gli proviene dal pure avversato Darmesteter[14], è in realtà la grande novità della sua ricerca: provare a descrivere le leggi intellettuali che sottostanno al cambiamento semantico e linguistico in generale fa assumere al suo lavoro di linguista un punto di vista orientato sullo speaker (SP), sul parlante. Da tale prospettiva, infatti, egli può evitare di utilizzare i termini naturalistici che Darmesteter ancora conservava, e interiorizzare la struggle, la lotta delle parole per la sopravvivenza di ascendenza darwinista, la quale cede il posto all’iniziativa dei parlanti sul piano della produttività linguistica.

L’essai de semantique: la creatività linguistica e l’elemento soggettivo

Una prova di ciò, nell’Essai de semantique, si ritrova nella nozione di value sottesa alla definizione della polisemia (cfr. il cap. XIV): si parla, infatti, di «una parola che sembra moltiplicarsi, producendo nuovi esemplari che, identici nella forma, assumono diverso valore»[15]. Nerlich si sofferma molto su questa nozione, contrapponendola al sense, il significato invece etimologico, o comunque quello di attestazione più antica. Ci dice, infatti: «the less the word reminds you of its origins, the better and the more easily you can use it in your mental operations»[16].

In diacronia, si può tener presente anche esclusivamente il senso originario o, in ogni caso, un particolare significato (meaning) e collocarlo lungo la linea cronologica. Di contro in sincronia, in un dato momento del sistema linguistico, un’enunciazione assume un preciso valore nella mente del parlante e il suo tentativo comunicativo sarà volto a mediare quel particolare valore, dell’espressione o della singola parola, di fronte al quale gli «altri sensi non avremo neppure bisogno di soppiantarli: semplicemente non esistono in quel momento per noi, non giungono alla soglia della coscienza […] in quanto l’associazione delle idee si realizza per la presenza delle cose, e non per quella del semplice suono»[17].

Per Bréal, a seguire fedelmente il tentativo, la proposta o comunque lo sforzo del parlante, c’è immediatamente l’intelletto del destinatario: «il suo pensiero, infatti, segue, accompagna o precede il pensiero del suo interlocutore; […] pertanto, anche l’ascoltatore non si fa fuorviare dai significati collaterali che dormono nei meandri più riposti della sua coscienza»[18]. Oltre all’accettabilità della forma selezionata per far permeare il senso desiderato, Bréal accenna ‒ ma non tiene esplicitamente in considerazione ‒ anche all’adeguatezza della scelta, ovvero la conformità al contesto, la variabilità diafasica e situazionale, che paiono invece essere lasciate al caso o alla naturalità della connessione fra le menti dei parlanti. Quando spiega, per fare un esempio, che la forma sostantivale danger in inglese e francese non esiste più nel significato di ‘potere, potenza’, ma solo nelle accezioni di ‘pericolo o situazione rischiosa’, non c’è però un’effettiva sistemazione in ordine cronologico delle attestazioni delle parole tramite un corpus collezionato o consultato; agli occhi di un lettore più moderno, la dimostrazione delle ipotesi, quindi, risulta fortemente minata da tale mancanza.

«Il linguaggio designa sì le cose, ma in un modo che è incompleto e inesatto»[19]. Così Bréal esordisce nel capitolo XVIII dell’Essai, dal titolo Modi di dar nomi alle cose (Comment les noms sont donnés aux choses). La modernità dell’idea è indubbiamente riscontrabile anche nell’affermazione successiva:

i sostantivi sono come dei segni attaccati alle cose: […] sarà impossibile per il linguaggio far rientrare nella parola corrispondente tutte le nozioni che essa comunque ridesta in noi. Il linguaggio così deve necessariamente scegliere […] un nome che ben presto diverrà un segno. […] una volta accettato, esso si svuota infatti del proprio significato etimologico[20].

Tale dichiarazione, però, contiene la personificazione del linguaggio come entità demiurgica che “sceglie”, seleziona la forma adatta, aspetto che pare perpetuare l’errore organicistico naturalista del considerare le lingue come fossero in grado di assumere comportamenti umani. Inoltre, tale accettazione da parte dei parlanti del legame forma-cosa, nome-oggetto, viene spiegata in maniera insufficiente o quantomeno sbrigativa: poco più avanti, infatti, si legge che «queste denominazioni […] vengono accettate grazie a un consenso tacito di cui non siamo, appunto, consapevoli»[21].

Bréal sta sicuramente dichiarando l’astrattezza ‒ o forse l’astrattività ‒ dei nomi, i quali quanto più vengono usati più si allontanano da qualsiasi legame motivato tra forma linguistica e oggetto. Più avanti, infatti, aggiunge che «quanto più una parola è separata dalle proprie origini, tanto più è al servizio dell’astrazione»[22], facendo a tal proposito l’esempio dell’onomastica: i nomi propri di persona e di luogo (antroponomastica e toponomastica) «dal punto di vista semantico […] sono i sostantivi per eccellenza»[23] e il loro progresso «consiste proprio nella capacità di allontanarsi dal loro punto di partenza»[24]. Così mostra il caso di “Cesare”, che non designa più il titolo dell’imperatore ma è diventato nome proprio, perdendo valore semantico: più la forma si cristallizza, meno referenti reali possiede; più è astratto il concetto rappresentato, minore, ravvisa Bréal, sarà la tendenza del significato a variare.

Per il linguista francese, quindi, ha un ruolo fondamentale la creazione individuale, l’iniziativa del parlante, che successivamente, in diacronia, può venir accettata nel sistema ed entrare a far parte del bagaglio della tradizione. Solo gradualmente perciò il sistema, stavolta in sincronia, opporrà un limite al cambiamento, tendendo a conservare intatto l’accoppiamento forma-significato per un intervallo di tempo dalla durata variabile e in parte imprevedibile, prima di tornare a essere “trampolino”, base di lancio per nuovi usi e cambiamenti. Ma il linguista francese non giunge ad approfondire il concetto, non afferma chiaramente l’arbitrarietà del segno come aveva fatto Whitney e come in Europa farà solo successivamente Saussure[25].

Alla creatività del locutore, nota Nerlich[26], si collega perfettamente la nozione di “elasticità” del segno. Nel capitolo finale del Saggio di Semantica si legge: «nella misura in cui cresce l’esperienza del genere umano, però, le parole, in virtù della loro elasticità, si riempiono di nuovo senso»[27]. I segni, con il passare del tempo e al prolungarsi dell’uso, diventano materiale vecchio, che può riplasmarsi e acquistare nuovi sensi (in entrambi le accezioni meanings/values), oppure restringerli e ampliarli.

Proseguendo il discorso sulle Presunte tendenze delle parole[28], Bréal nel capitolo X tratta appunto della restrizione del senso e afferma che, nella comunicazione, la parola si proporziona alla cosa grazie a «il contesto, il luogo, il momento e ovviamente l’intenzione»[29] del parlante; ancora una volta, si legge che l’attenzione dell’ascoltatore si conforma istantaneamente e istintivamente all’intenzione del parlante per sua iniziativa tramite il flusso contiguo di pensiero tra i due intelletti. Di nuovo, una spiegazione psicologica: quasi del tutto convincente, certo, ma etichettabile come neo-illuminista, razionalistica in un certo modo.

Si nota, quindi, quanto per Bréal sia importante il così denominato “elemento soggettivo”[30]. L’elemento soggettivo è «fondamento originario» del linguaggio, «cui si è andato in seguito aggiungendo il resto»[31]. A parer suo, «i primi usi del linguaggio sono stati quelli con cui veniva espresso un desiderio, intimato un ordine, sottolineata una presa di possesso»[32]. Sempre, in una situazione comunicativa, «ogni parlante […] oppone la propria individualità al resto del mondo»[33], ed è questa la prima persona verbale; della seconda persona verbale egli dice, invece, che «la sua unica ragion d’essere è quella di mantenersi in stretta relazione con la prima»; di conseguenza, afferma che «solo la terza persona esprime la parte obiettiva del linguaggio»[34], l’argomento esterno di cui si parla.

Il giudizio soggettivo è sempre presente nelle enunciazioni in prima persona, dal momento che esprimiamo, in tal modo, il nostro personale modo di vedere il mondo. Tramite avverbi e congiunzioni, poi, riusciamo a rendere il discorso più o meno convincente, oltre che strutturato logicamente, con successioni causali e cronologiche. Esempi più antichi proposti da Bréal al riguardo provengono dall’ottativo e dal congiuntivo in greco, che esprimevano le “disposizioni della psiche”, e successivamente si attesta il futuro latino con la stessa funzione: esternare desideri, dubbi, timori. Col passare dei secoli, in diacronia, è il condizionale romanzo che ha «ereditato alcuni degli usi più sfumati sia del congiuntivo che dell’ottativo»[35], come l’espressione del dubbio o della cortesia.

La possibilità, in questi casi, di scegliere tra diversi modi verbali è data, secondo Bréal, dal potenziale di inclinazione e di modulazione di un’espressione orale, tramite «la trasposizione dell’azione a un livello di intonazione diversa»[36]. Si tiene conto, quindi, tanto del discorso riportato e della deissi quanto del tono e della prossemica che, durante una conversazione, intervengono a mediare tra gli interlocutori.

Inoltre, subito dopo Bréal afferma che è «molto verosimile ritenere che alcune forme molto stringate» del modo imperativo «siano le più antiche della coniugazione»[37]. Si può notare in ciò una forte differenza con Muller, che sosteneva che l’origine del linguaggio sussistesse come strumento apriori nel pensiero e consistesse nell’innato bisogno di narrare, nel mito come narrazione originaria dell’uomo[38]; per Bréal, di contro, il primo bisogno comunicativo è prettamente psicologico, individuale e intellettivo, cioè affermare sé stessi e la propria esistenza nel mondo.

A Bréal, quindi, sembra mancare ancora qualcosa per poter spiegare in maniera convincente i processi che conducono al cambiamento semantico e linguistico in generale, nelle spiegazioni sia diacroniche che sincroniche.

Solo studiosi successivi affermeranno, più correttamente, che l’origine del linguaggio consiste nel rivolgersi al tu, nell’intento e nel bisogno dei parlanti di essere compresi, e che la riuscita della comunicazione dipende anche dalle condizioni e dalla predisposizione degli ascoltatori.

Lo sviluppo della ricerca semantica da prima a dopo Bréal

Una prima novità rispetto alle teorie di Bréal sopra evidenziate è quella di porre il focus dell’analisi dei processi linguistici e comunicativi anche sull’ascoltatore, cosa che era stata espressa già dal contemporaneo Whitney[39]. Appartenente a un orizzonte culturale molto diverso rispetto al francese, il linguista americano è molto vicino al Pragmatismo. Di questo una causa è certamente la sua formazione scientifico-induttiva, geologica nello specifico, basata sulle teorie dell’Uniformitarianism[40] di Lyell.

Il punto di arrivo è la prassi, la lingua intesa come «adaptation of means to ends»[41], in riferimento all’utilizzo degli strumenti fonatori per produrre mezzi espressivi da combinare e adattare al fine comunicativo; ma il processo che gli permette di affermarla prende avvio dall’attenzione rivolta all’ascoltatore, lo hearer, indicato con AD (addressee, ‘destinatario’). Egli considera fondamentali le inferenze prodotte da esperienze e fatti vissuti o conosciuti, da cui dipende la riuscita della comunicazione, che è la funzione del linguaggio:

strict induction from the determinate items of knowledge is no longer applicable; its place is taken by inference from general views and theoretical conditions – these views being themselves, of course, not arbitrarily assumed but derived by inductive process from facts of language and human history[42].

Del resto, un aspetto fondamentale per Whitney, fin dalla definizione del linguaggio, e solo dopo anche per il cambiamento linguistico, è che «the whole body of uttered signs» debba essere «employed and understood by a given community as expression of its thoughts»[43], cioè condiviso da una comunità di parlanti, dalla società che ne attua il cambiamento. E ancora, quando afferma l’arbitrarietà e la convenzionalità del segno linguistico, anticipando Saussure, spiega che «the one» (il segno) «we acquired had its sole ground and sanction in the consenting usage of the community of which we formed a part»[44]: quindi, deve esserci accettazione e consapevolezza da parte di una comunità linguistica per poter attuare l’uso linguistico.

Dal canto suo, invece, Bréal non utilizza mai, nell’Essai, i termini “inferire”, “inferenza” (inférer, inférence in francese), che invece ritornano nelle opere di Whitney, come si nota sopra, oltre che di seguito: «of what we call our expression, a part consists merely in so disposing a framework of words that those who hear us are enabled to infer much more than we really express, and much more definitely than we express it»[45].

Ogni essere umano può comprendere ciò che gli viene detto esercitando la propria facoltà di «active matching skills, in which preexisting information has to be combined with information extracted from the context»[46]. Bréal aveva già colto questo aspetto, ma non l’ha sviluppato a dovere nel Saggio di semantica, relegando sempre l’ascoltatore a uno stadio secondario e a un ruolo che segue meccanicamente lo speaker. Nel già citato articolo Les idées latentes du langage, contenuto anche nei Mélanges, si legge infatti:

C’est ce travail mental de subordination ou d’association que nous sommes obligés de faire, pour lequel le langage ne nous fournit aucun secours, que M. Adolphe Regnier a appelé la “syntaxe intérieure”. Les formes de ce genre nous aident à comprendre les idiomes qui, comme le chinois, négligent habituellement l’expression des rapports, en laissant à la pensée le soin d’assembler et de lier les mots de la phrase[47].

Tale abilità umana si accompagna e si completa vicendevolmente con la vaghezza e l’elasticità dei segni, di cui anche Bréal tratterà, come si è visto in precedenza. I segni devono essere necessariamente vaghi, “arbitrari” potremmo dire con i termini già di Whitney, affinché si prestino alla strutturazione di enunciati caratterizzati da una sintassi anche molto complessa; d’altro canto, l’espansione della frase ad opera del parlante induce l’ascoltatore a dover necessariamente riordinare e collocare le parole logicamente, per estrarre il messaggio e dedurre il senso complessivo che ha recepito dalla propria interpretazione delle intenzioni del locutore. Anche se di alcune parole non ha carpito il preciso significato selezionato, il meccanismo nell’ascoltatore si attiva inevitabilmente.

Per tornare a usare termini brealiani, più la storia e la società dei popoli progrediscono e più la mente dei parlanti sviluppa significati che si diffondono, più di conseguenza le forme tendono a risultare insufficienti all’uso linguistico di una comunità. Le forme linguistiche necessitano, pertanto, di un nucleo polisemico in espansione; esso sviluppa come delle cellule figlie e, in qualunque momento l’osservatore si trovi a fare ricerca, non sarà mai in grado di prevedere del tutto quanto esse vivranno, quando morranno e quale sopravvivrà all’altra, o in che ordine. Le leggi intellettuali possono aiutare a spiegare a posteriori i cambiamenti che investono le lingue, grazie a un metodo che unisce la grammatica storica alle regole della sintassi. Rimane da capire in quale modo e grazie a quali dinamiche specifiche la comunicazione risulti efficace, di fronte a una “situazione” semantica sottoposta al potenziale di variazione delle diverse leggi intellettuali e di vari fattori di cambiamento.

L’intersecazione delle teorie di Bréal e Whitney dà lo spunto per una breve revisione della filosofia occidentale plurimillenaria. Ancora all’inizio del Novecento Benedetto Croce poteva affermare il legame indissolubile tra forma e contenuto linguistici. Come afferma De Mauro[48] in maniera un po’ troppo perentoria, «la fortuna di Croce fu largamente legata alla sostanziale incomprensione di quel che realmente Croce diceva e pensava»[49]. Si evince dalle considerazioni riguardanti l’Estetica (1902) e la Logica (1908) che per Croce non soltanto un linguaggio verbale non è distinguibile da altre forme espressive ‒ quali quelle artistiche ‒, ma si tratterebbe addirittura di una “pseudoconcettualizzazione” pretendere di poter distinguere concetti costanti o categorie verbali. Perciò, per Croce un atto può essere conoscitivo ed espressivo soltanto se è un atto intuitivo, mentre le singole forme linguistiche che adoperiamo sono attività pratiche dell’individuo che astrae, e pertanto vengono denominate astrazioni o pseudoconcetti. Da queste premesse deriva anzitutto che «il parlare non può non apparire altro che un continuum indivisibile»[50] e quindi inconoscibile, impossibile da scandagliare e da studiare empiricamente; inoltre, ogni pseudoconcetto sarebbe un concetto individuale, nuovo e del tutto unico, dal che deriverebbe il «carattere in sé conchiuso d’ogni atto espressivo, perfetto perché irrelato a ogni altro […] significante perché indissolubilmente congiunto al suo contenuto»[51].

Se forma e contenuto fossero stabilmente legati nell’unicità e nell’individualità della loro enunciazione, nell’unità di espressione e rappresentazione, però, come sarebbe possibile la comunicazione? da cosa risulterebbe la comprensione reciproca? L’idealista Croce la risolve con lo Spirito Assoluto dell’uomo, e con l’unione sotto l’ala divina di tutti gli uomini, una sorta di magia mistica che consente la convivenza e il dialogo fra gli uomini: «gli uomini s’intendono tra loro, perché tutti sono, vivono e si muovono in Dio»[52]: tralasciando i contrasti fra laicismo e religiosità, la spiegazione in termini pragmatici e linguistici non sembra convincente.

Ne consegue quindi la necessità, ancora ottanta anni fa, di una totale messa in discussione della pur rivisitata filosofia aristotelica applicata al campo linguistico. La stessa lezione del Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure mostra dei limiti: per quanto si definisca il segno linguistico come unione di significato e significante, che pare richiamare il binomio crociano forma-contenuto, e si trasmetta che nessuno dei due poli possa essere definito senza il supporto dell’altro, per affermare l’arbitrarietà del segno Saussure ricorre alla spiegazione della “cosa esterna”, dicendo che appunto non sussiste motivazione alcuna nella realtà del legame tra un certo significante e un preciso significato.

Ogni forma (anche fonema) linguistica è per Saussure inserita nel sistema (langue) di una lingua, e possiede un determinato valore disgiuntivo, che la differenzia dalle altre: essa allaccia con le altre forme relazioni oppositive, paradigmatiche, di funzione e di significato, che le distinguono; e relazioni positive, sintagmatiche, cioè i legami che intervengono nella strutturazione delle parole, della sintassi e del discorso. Anche Saussure, però, pare ricadere nel vortice dell’individualismo e dell’incomunicabilità: «due individui parlano sempre lingue diverse, poiché, salvo il caso eccezionale di perfetta e totale coincidenza dei due patrimoni linguistici personali, anche le parole che sembrino estrinsecamente comuni […] sono in realtà parole di significato diverso, in quanto inserite in diverse reti di rapporti»[53].

Queste mancanze, o quantomeno difficoltà negli studi dei due diversissimi intellettuali, sembrano accordarsi alla definizione che Ludwig Wittgenstein dà del “solipsismo linguistico”. Nel Tractatus Logico-Philosophicus (1921) il filosofo arriva a dimostrare che, nell’aristotelica corrispondenza nomi-cose, dal punto di vista comunicativo e pragmatico vige l’assoluto isolamento individuale. Per poter comprendere una parola è necessario conoscere i rapporti che possiede con le altre parole della frase in cui è inserita, perché è impossibile pensare una parola senza pensare subito alle altre con cui si lega e che costituirebbero un enunciato che può contenerla; ma, poiché ognuno quando parla dice solo il proprio enunciato, senza ricorrere ad altri enunciati per spiegare ogni singola parola adoperata, allora ecco che il solipsismo appare come l’inesorabile paradosso della comunicazione verbale.

Pertanto, per il Wittgenstein degli anni ’20: o si nega la corrispondenza nomi-cose, realtà-segno, come ha fatto Saussure; oppure si crede ‒ o si spera ‒ nella possibilità che «una mistica comunione di anime, garantisce che il significato di una frase sia capito da una persona diversa»[54], come del resto affermava Croce; oppure, in ogni altro caso, la riuscita della comunicazione umana è da considerarsi del tutto negata e impossibile.

Superato nel corso dei decenni tale dubbio dualistico, Wittgenstein nelle Philosophische Untersuchungen (1953), dopo aver ribadito la scissione fra parole e cose, sostenendo che «l’oggetto in quanto avente una data consistenza […] non è un dato precostituito […] rispetto all’esperienza dell’uomo»[55], giunge a dichiarare che «il significato di una parola è il suo uso nella lingua»[56]. Il significato dà regolarità ai denotati di un segno, è l’uso più o meno diffuso, più o meno accettato, più o meno marcato ecc. Di conseguenza, il linguaggio «consiste nel produrre certe frasi e nell’usare forme ponendole in correlazione secondo certe regole con dati e comportamenti extralinguistici»[57].

L’ambiente educativo in cui si cresce, in cui si vive, il contesto in cui si comunica creano un insieme di coordinate comuni agli interlocutori, entro le quali essi riescono ad assicurarsi comprensione reciproca. «Il significato e il valore linguistico fanno corpo con la etnografia della società nel cui ambito il segno è adoperato»[58] e, spiega ancora De Mauro, «questo legame con tutto il resto del meccanismo d’una determinata società è ciò che permette al singolo segno di funzionare: […] il significato è funzione […] di un uso socialmente regolato e coordinato»[59].

Le idee di Wittgenstein si sposano, quindi, da un lato con la sproporzione tra parole e oggetti già individuata da Bréal nei capitoli sull’allargamento e la restrizione del senso (cfr. i capp. X-XI della sua opera), dall’altro con la nozione, precedentemente fatta emergere da Whitney, dell’uso vivo di una certa comunità come unico fattore che permette di determinare, sempre a posteriori e mai a priori, il significato di una forma. L’appartenenza alla stessa comunità culturale e linguistica, ipotizzato che abbia gradi di uniformità e coesione crescenti e tendenti al massimo, fa sì che due soggetti che dialogano possano attribuire ai rispettivi enunciati pressappoco lo stesso significato e che riescano a scambiarsi dei segnali di assenso, di conferma della comprensione, costruendo insieme il senso della conversazione e verificando e controllando continuamente il lineare e positivo andamento della stessa.

Studio pragmatico della comunicazione

Ciò che la linguistica del Novecento ha permesso di aggiungere al discorso che qui si sta portando avanti sono, appunto, le dinamiche della comunicazione umana, analizzate nello specifico e trattate con una nomenclatura chiara e appropriata. Traugott e Dasher, nella loro ricerca accorpata sulle lingue occidentali e sul giapponese, hanno individuato due macro-cause costanti del cambiamento semantico nelle implicature conversazionali e nell’intersoggettività. Nella loro opinione, «the link between “grammar” and “use” is the SP/W – AD/R dyad», cioè la diade parlante/scrivente e destinatario/lettore[60], «who negotiate meaning in interactive ways, both responding to context and creating context»[61]. Secondo tale visione, il parlante, SP, ha ovviamente preminenza perché produce enunciati che possono o non possono essere compresi dall’ascoltatore, AD, nella maniera in cui il parlante li ha intesi (intenzionale previsto). Da parte sua, AD è invitato a comprendere, a rispondere o a dedurre dalle implicature evocate da SP ed è pertanto il secondo negoziatore del significato (constructional meaning). In merito ai destinatari della conversazione si può pertanto convenire che: «their main task in response to SP/W is to determine what is meant […] to find the relevance of what has been said to the situation […] AD/R also exerts influence on the formulation of the linguistic communication by SP/W: SP/W can be assumed to take into consideration expectations about AD/R’s knowledge and linguistic competence, other conventions and also factors such as […] degree of attentiveness»[62].

Si ritiene a questo punto doveroso fare riferimento alla teoria delle implicature nella conversazione di Grice. Come spiega Antonelli[63], Grice distingue tra il significato naturale, quando è un fatto (potremmo dire “sociale”, risaputo) che un segno significhi qualcosa, e lo speaker’s meaning, quando il parlante vuole significare qualcosa di specifico o connotato tramite un segno. Ma, cosa vuole “significare” (to mean) significa cosa vuole intendere con un’enunciazione alla quale ha vincolato un effetto inteso, previsto, che si aspetta che avvenga tramite il palesamento della propria intenzione e il riconoscimento della stessa da parte dell’uditorio. La reazione avverrà non necessariamente se il parlante invita l’ascoltatore a considerare le inferenze, le informazioni da dedurre, ma solo se l’ascoltatore riconosce, capta e attribuisce quelle stesse inferenze al parlante.

AD, quindi, partecipa alla creazione del significato da parte dello SP tramite il calcolo delle intenzioni, sulla base di un bagaglio culturale ed esperienziale più o meno condiviso: tale reciprocità intenzionale tra parlante e uditorio viene denominata cooperative principle[64]. A tal proposito Grice[65], sulla base della teoria degli atti linguistici[66], delinea delle massime conversazionali euristiche (empiriche), quattro principi che agiscono nella conversazione ideale e che trasmettono implicature per uno scambio comunicativo efficace. Esse sono della quantità, della qualità, della relazione e del modo: «say/write as much as is needed for the occasion»[67]; non dire il falso, o ciò di cui non si hanno prove[68]; «say/write no more than you must, and mean more thereby»[69], dare più informazioni pertinenti possibili; «avoid prolixity»[70], evitare pedanteria e costruzioni marcate, adeguando il registro, la “maniera” del parlato, all’interlocutore e alla situazione (formale/informale).

In tale orizzonte comunicativo, e considerati gli enunciati p e q, un’implicatura si definisce nel modo seguente:

Di un uomo il quale dicendo (o facendo mostra di dire) che p abbia implicato che q, si può dire che ha implicato conversazionalmente che q, nel caso in cui

(1) si abbia motivo di presumere che egli stia conformandosi alle massime conversazionali, o almeno al Principio di Cooperazione;

(2) per rendere coerente con questa presunzione il fatto che egli dice o fa mostra di dire che p (o che fa l’una o l’altra cosa in quei termini) è richiesta la supposizione che egli si renda conto che, o pensi che, q;

e (3) il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2)[71].

Quindi, se c’è un’implicatura, per SP produrre un enunciato p è impossibile senza pensare a q; non è stato fatto sforzo comunicativo per evitare di sollecitare AD a pensare a q; si è voluto palesare all’interlocutore che si è coscienti di q. Ovviamente, come già detto, l’uditorio può o meno inferire la porzione di contenuto che il parlante ha reso accessibile oltre ciò che ha apertamente pronunciato; pertanto, la comunicazione è compiuta alla totalità del contenuto solo se l’ascoltatore inferisce l’enunciato, ricevendo così tutto il messaggio. Inoltre, l’uditorio può considerare significati diversi degli enunciati del parlante in base alle intenzioni comunicative che gli attribuisce, e ciò dipendentemente da diversi fattori: contesto, cultura, situazione, ecc.

La cooperazione appena illustrata può far accettare senza difficoltà la nozione di “instersoggettività” introdotta da Benveniste[72] e ripresa da Traugott e Dasher[73]. Ogni soggetto partecipante all’atto comunicativo riconosce sé e gli altri in quanto soggetti parlanti che esprimono ognuno la propria coscienza e si impegnano alla riuscita della conversazione per lasciare la propria impronta (speaker’s imprint). La diade intersoggettivistica, quindi, aggiunge molto al soggettivismo intellettualistico di Bréal: egli già aveva sottolineato l’importanza del soggetto parlante come primo motore della comunicazione in quanto esprimente il proprio «point of view, for example in deixis, modality, and marking of discourse strategies»[74], ma non aveva espresso schematicamente e completamente le dinamiche di comunicazione soddisfacenti per legittimare le costanti sottese al cambiamento linguistico, le sue “leggi intellettuali”.

Riprendendo ora il concetto di polisemia secondo Bréal, esso può essere decisamente rivalutato. Anzitutto egli, affermando la connessione inconscia tra gli intelletti del parlante e dell’ascoltatore, non aveva tenuto presente il criterio di economicità linguistica. De Mauro[75] sostiene che la polisemia, l’uso di frasi (più in generale potremmo dire “forme”) identiche per denotare situazioni diverse, sia una diretta conseguenza dell’economia linguistica[76]: i parlanti una certa lingua di una certa comunità, nel corso della loro storia, attribuiscono significati sempre diversi alle forme, il cui significato si viene in tal modo a “stratificare” in base al contesto d’uso. Proprio l’uso prolungato e condiviso determina, così, «la loro plurivalenza semantica»[77]. Inoltre, la stratificazione dei significati di una polisemia richiama il concetto di “layering” introdotto da Hopper[78], che è così schematizzabile:

L 🡪   M1, M2, …

         S1, (S2), …

         P1, (P2), …

Da un determinato lessema L (Lexeme) sono attivabili più di una famiglia di significati M1, M2Mn (Meanings), cui possono corrispondere una o eventualmente più proprietà morfosintattiche S1, … (Sn) (moprhoSyntactic) e allo stesso tempo (ma più raramente) una o eventualmente più forme fonologiche P1Pn (Phonological). Ovviamente, «older meanings coexist with newer meanings of the same item, as for example, older and newer meanings of since (the temporal is older, the causal more recent)»[79]. Si smentisce perciò la tesi di Bréal secondo cui «l’associazione delle idee si realizza per la presenza delle cose, e non per quella del semplice suono»[80]. Come spiegano ancora Traugott e Dasher, la scelta del parlante o dello scrivente non dipende dal legame in praesentia tra forma e cose, ma può riferirsi anche a qualcosa di molto lontano concettualmente dal contesto comunicativo. Bensì, la selezione degli strumenti comunicativi: «from the grammatical repertoire may be conscious or unconscious. […] Choices are correlated with register (e. g. scientific writing in this century has been expected until recently to be maximally “objective”), and with degree of attention to an audience […]. In all cases choices are particularly highly correlated with strategic intent and explicit coding of that intent»[81].

Un esempio applicativo di tutto ciò che si è detto lo si trova in Bybee[82]. Inizialmente il verbo inglese cause seguito da sintagma nominale (SN) non possedeva accezione negativa, non era cioè “connotato” in senso negativo; denotava semplicemente una relazione causa-effetto tra il sintagma che seguiva e quello che precedeva. Soltanto l’uso prolungato nel tempo e diffuso nello spazio e nei contesti comunicativi della costruzione cause + SN con accezione negativa quale accident, damage, problem, ha permesso a tale verbo (anche in italiano, se ci si pensa) di subire «the diachronic development of this negative prosody»[83].

Una breve parentesi: gli apporti linguistici di Malinowski

Cogliendo lo spunto già citato di De Mauro[84] secondo cui «il significato e il valore linguistico fanno corpo con la etnografia della società nel cui ambito il segno è adoperato», si vuole qui fare una breve riflessione interdisciplinare sul contributo in materia linguistica proprio di un etnografo di inizio secolo scorso, Bronislaw Malinowski.

Il metodo applicato sul campo da Malinowski, soprattutto nelle sue ricerche nelle isole Trobriand in Nuova Guinea, è quello dell’osservazione partecipante, o partecipata, per attraversare in maniera qualitativamente più approfondita la popolazione indigena e conoscerne meglio la cultura. Ma l’antropologo ha forse un mestiere complicato, poco teorizzato ma intrecciato con tutte le discipline scientifiche e umanistiche: occuparsi di cultura significa anche provare talvolta a fare il mestiere del linguista, perché per assorbire gli usi e le tradizioni deve necessariamente studiare la lingua del popolo da cui deve farsi accettare e con cui familiarizzare.

Infatti, Malinowski ha scritto anche saggi di linguistica pragmatica, o meglio di pragmatica linguistica, diverse e più moderne denominazioni della linguistica antropologica. Come spiega Senft[85], è una disciplina che si occupa dello studio della cultura e dell’ambiente in cui vive una popolazione con uso linguistico differente rispetto a quello dello studioso e ha l’obbiettivo di comprendere il linguaggio come sistema di pratiche culturali e insieme di rappresentazioni interpsicologiche (tra gli individui) e intrapsicologiche (nello stesso individuo, es. tra nomi e cose).

Tra i suoi scritti in merito si legge infatti una chiara espressione della necessità, a suo avviso, di una teoria linguistica che mostri chiaramente:

ciò che è essenziale nel linguaggio e che quindi deve rimanere uguale in tutta la gamma delle varietà linguistiche; come le forme linguistiche siano influenzate da elementi fisiologici, mentali, sociali e culturali; quale sia la vera natura del significato e della forma, e come si corrispondano; una teoria che, in definitiva, ci darebbe una serie di definizioni plastiche ben fondate dei concetti grammaticali[86].

Ovviamente, come in parte si è visto, alcuni di questi punti sono stati approfonditi, nel corso dei lavori di fine XX e inizio XXI secolo, ma non del tutto saturata è la portata delle ricerche che è possibile svolgere a tal proposito, e Malinowski ha centrato i punti focali e complicati della questione semantica.

Aggiunge ancora Senft che anche per Malinowski l’inizio della ricerca semantica è nell’uso, e quindi si può parlare di funzione pragmatica, o “pragsemantica”, del linguaggio. Tra gli usi primitivi del linguaggio da lui ravvisati ci sono: il discorso attivo, la funzione narrativa, la comunione fatica (atti espressivi che servono a legare l’ascoltatore al parlante, ovvero a mantenere attivo il canale comunicativo). Ogni lingua, in definitiva, è espressione del comportamento dell’uomo nell’ambiente e con altri uomini, e non solo espressione del pensiero; quindi, per Malinowski il fatto linguistico è l’enunciato inserito nel contesto di enunciazione (situazione comunicativa): studiare l’uso linguistico può essere congeniale per studiare la pratica religiosa, sociale, famigliare, gli usi tradizionali in genere.

Conclusioni

Come affermano chiaramente Traugott e Dasher[87], il cambiamento semantico è certamente difficile da prevedere, analizzare e circoscrivere in leggi predeterminate: per molti studiosi, poste le giuste circostanze e direttive, il suo studio può rivelare esiti sistematici, per altri nella maggior parte dei casi è imprevedibile e caotico, quando non contraddittorio.

Bréal, come Paul e Whitney prima di lui[88], esprime l’idea di un’evoluzione graduale: le azioni individuali a breve termine, le iniziative dei parlanti, i tentativi di comunicazione possono avere effetti inconsci a lungo termine sulla comunità parlante. Il linguista francese aveva tracciato la linea con la nozione di value, ma non era stato convincente nelle spiegazioni in merito alla variazione semantica. Per lui, avverso al sentimento romantico e tipicamente tedesco di decadenza da una lingua originaria e perfetta, qualsiasi cambiamento linguistico è visto come un progresso, un miglioramento delle strutture comunicative e testuali, attribuito al progresso del pensiero occidentale. Tale aspetto influenzerà molto Meillet, esponente primonovecentesco della teoria, fra le altre cose, secondo cui la semplificazione delle lingue nel tempo è considerabile come sintomo di un maggiore sviluppo del pensiero del popolo o della comunità che condivide una particolare competenza linguistica. Si leggano alcune sue argomentazioni al riguardo:

Tandis que l’allemand, qui ne s’est pas encore débarrassé entièrement de la flexion casuelle et qui continue à distinguer inutilement un nominatif, un accusatif, an génitif et un datif, distingue aussi le masculin, le féminin et le neutre, […] l’anglais, plus avancé, a profité de la destruction totale de la fin de mot où figurait la marque du genre pour écarter une distinction inutile. […] l’anglais a réalisé sur ce point un progrès décisif[89].

E ancora, più avanti:

néanmoins il y a une action de la mentalité des sujets parlants. Les langues dont le développement est le plus avancé tendent soit à perdre le genre, comme il est arrivé en anglais, […] soit à le réduire, comme il est arrivé dans les langues romanes qui, tout en gardant la. distinction du masculin et du féminin bien vivante, ont éliminé le neutre[90].

Il seguace di Bréal, quindi, sembra aver smarrito in parte il filone di ricerca da lui introdotto in merito alle dinamiche psicologiche che continuamente intervengono in ogni scambio comunicativo. Restando non approfondita, la lezione del maestro è rimasta incompleta, dato che per Bréal tutto il potenziale di riuscita dell’atto comunicativo si esaurisce nell’iniziativa individuale, nel tentativo di comunicazione.

Si è visto, però, che l’intero processo comunicativo, specialmente quando orale, è sempre precario, costantemente insidiato dal mancato arrivo del messaggio al destinatario, per fattori linguistici (ad es. il lessico adoperato dallo SP) o extralinguistici (cultura, situazione, livello di attenzione). Perciò, solo l’uso linguistico delle forme e l’abitudine a determinate inferenze condivise dalla comunità può consentire agli studiosi di affermare che la comunicazione umana, seppur con un qualche scarto dalle proporzioni variabili, ha sempre una probabilità di riuscire con successo. Volendo riprendere la terminologia della sintassi strutturale, cioè lo studio gerarchico delle connessioni tra gli elementi della frase, secondo cui essa è costituita dagli elementi e dalle connessioni strette fra loro, si può aggiungere che: perché la comunicazione possa riuscire e continuare, l’AD deve cogliere il maggior numero di connessioni possibili di quelle intese e previste dallo SP, emanate insieme al suo enunciato.

Come si è visto, in definitiva, una novità introdotta nel linguaggio, secondo la linguistica più recente, può entrare a far parte del bagaglio culturale comune agli interlocutori che, in un dato contesto e in una precisa situazione comunicativa, collocata nel tempo e nello spazio lungo la linea storica dello sviluppo di una lingua, sono impegnati in una conversazione. Perciò, la conoscenza condivisa del concetto, del significato e della forma, assieme alle correlazioni testuali ed extratestuali del discorso, anche alternativamente o nell’impossibilità di decodificare alcuni tra questi fattori, può consentire alla conversazione di avvenire con un discreto margine di successo nonché di soddisfazione degli interlocutori coinvolti.

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  1. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener [1990], London, Taylor & Francis e-Library, 2005.
  2. Ivi, pp. 9-10.
  3. T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], Bari, Laterza, 1966, p. 176.
  4. A. Martone, Introduzione a M. Bréal, Saggio di semantica, Napoli, Liguori Editore, 1990, p. XLI.
  5. Cfr. M. Bréal, Les lois intellectuelles du langage. Fragment de sémantique, Annuaire de l’Association pour l’encouragement des études grecques en France, vol. 17 (1883), pp. 132-42; published by «Revue des Études Grecques», p. 133; prima volta che utilizza la parola semantique.
  6. Cfr. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, op. cit.
  7. Cfr. l’opera scritta nel 1808, Sulla lingua e la saggezza degli indiani.
  8. A. Martone, Introduzione a Bréal, Saggio di semantica cit., p. XXVI.
  9. Cfr. M. Bréal, Saggio di semantica, op. cit., p. 12.
  10. Ivi, pp. 22-23.
  11. Cfr. M. Bréal, Saggio di semantica, op. cit., p. 68.
  12. Cfr. M. Bréal, Saggio di semantica, op. cit., p. 74.
  13. Cfr. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change [2001], Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2005, p. 57.
  14. Cfr. M. Bréal, L’histoire des mots, in «Revue des Deux Mondes», 82, 1887, pp. 187-212.
  15. M. Bréal, Saggio di semantica cit., p. 87.
  16. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, op. cit., p. 56.
  17. M. Bréal, Saggio di semantica cit., p. 88.
  18. Ibidem.
  19. Ivi, p. 106.
  20. Ibidem.
  21. Ivi, p. 107.
  22. Ivi, p. 108.
  23. Ivi, p. 109.
  24. Ibidem.
  25. Cfr. W. D. Whitney, Steinthal on the origin of language, in «North American Review», 114, 1872, pp. 272-308; F. de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari-Roma, Laterza, 2009.
  26. Cfr. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, op. cit., p. 96.
  27. M. Bréal, Saggio di semantica cit., p. 149 (corsivo nostro).
  28. Cfr. cap. IX.
  29. Ivi, p. 68.
  30. Cfr. M. Bréal, Saggio di semantica cit., p. 140.
  31. Ivi, p. 145.
  32. Ibidem.
  33. Ivi, p. 144.
  34. Ibidem.
  35. Ivi, p. 143.
  36. Ibidem.
  37. Ibidem.
  38. Cfr. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, op. cit., pp. 7, 33.
  39. Cfr. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, pp. 50-56.
  40. Cfr. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, p. 6.
  41. W. D. Whitney, Steinthal on the origin of language, op. cit., p. 289.
  42. W. D. Whitney, Oriental and Linguistic Studies. The Veda; the Avesta; the science of language, New York, Scribner &Armstrong, 1873, pp. 284-85.
  43. W. D. Whitney, voce Language, in Century Dictionary, I ed., New York, Century Co., 1889-1891, 6 voll., 1897, p. 3346.
  44. W. D. Whitney, Language and the Study of Language: twelve lectures on the science of language, New York, Scribner, 1867, p. 14.
  45. Ivi, p. 412 (tondo nostro).
  46. J. Aitchison, Words in the Mind. An Introduction to the Mental Lexicon, Oxford, Basil Blackwell, 1987, p. 155.
  47. M. Bréal, Mélanges de mythologie et de linguistique, Parigi, Hachette et Cie, 1877, p. 309.
  48. Cfr. T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], op. cit., pp. 101-11.
  49. Ivi, p. 107.
  50. Ivi, p. 105.
  51. Ivi, p. 108.
  52. B. Croce, La poesia. Introduzione alla critica e storia della letteratura e della poesia, Bari, Laterza, 1935, p. 270.
  53. T. De Mauro, Introduzione alla semantica [1965], op. cit., p. 132.
  54. Ivi, p. 89.
  55. Ivi, p. 175.
  56. Ivi, p. 183.
  57. Ibidem.
  58. Ivi, p. 186.
  59. Ibidem.
  60. SP/W = speaker/writer; AD/R = addressee/reader. La terminologia e le sigle adoperate da Traugott/Dasher e qui riportate sono riprese da M. L. Geis, A. M. Zwicky, On invited inferences, Linguistic Inquiry 24, 1 June 1971, pp. 561-66 (cfr. l’URL: chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://web.stanford.edu/~zwicky/on-invited-inferences.pdf).
  61. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change [2001], op. cit., pp. 6-7.
  62. Ivi, p. 18.
  63. Cfr. C. Antonelli, Intenzioni ed inferenze nella teoria della comunicazione di Grice: un’interpretazione, in «Esercizi filosofici», I, 2006.
  64. C. Antonelli, Intenzioni ed inferenze nella teoria della comunicazione di Grice: un’interpretazione, art. cit., p. 92.
  65. Cfr. P. Grice, Studies in the way of words [1975], Cambridge (MA), Harvard University Press, 1989.
  66. Cfr. J. L. Austin, How to do Things with Words, Oxford, Oxford University Press, 1962; si descrivono qui gli atti locutivi, illocutivi e perlocutivi nonché gli effetti che essi hanno sugli ascoltatori.
  67. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., p. 18.
  68. C. Antonelli, Intenzioni ed inferenze nella teoria della comunicazione di Grice: un’interpretazione, art. cit., p. 93.
  69. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., p. 19.
  70. Ibidem.
  71. Cfr. P. Grice, Logic and conversation in Id., Studies in the way of words [1975], op. cit., pp. 22-40, citato in C. Antonelli, Intenzioni ed inferenze nella teoria della comunicazione di Grice: un’interpretazione, art. cit., p. 94.
  72. E. Benveniste, Subjectivity in language, in Problems in General Linguistics [1958], trans. by Mary Elizabeth Meek, Coral Gables, FL, University of Miami Press, 1971, pp. 223-30 (publ. as De la subjectivité dans le langage, Problèmes de Linguistique Générale, Paris, Gallimard, 1966, pp. 258-66. Orig. publ. in «Journal de psychologie», 55, 1958, 2671).
  73. Cfr. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., p. 20.
  74. Ivi, p. 22.
  75. Cfr. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, op. cit., p. 190.
  76. Cfr. A. Martinet, Éléments de linguistique générale, Paris, Armand Collin, 1960.
  77. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, op. cit., p. 191.
  78. P. J. Hopper, On some principles of grammaticalization, in E. C. Traugott, B. Heine, Approaches to grammaticalization, Amsterdam, Benjamins, 1991, vol. I, pp. 17-35.
  79. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., p. 12.
  80. M. Bréal, Saggio di semantica, op. cit., p. 88.
  81. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., pp. 20-21.
  82. J. Bybee, Language change, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2015, p. 201.
  83. Ibidem.
  84. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, op. cit., p. 186.
  85. Cfr. G. Senft, Bronislaw Malinowski and linguistic Pragmatics [2005], in «Lodz Papers in Pragmatics», 3, 2007, pp. 79-96.
  86. B. Malinowski, Classificatory particles in the language of Kiriwina, in «Bulletin of the School of Oriental Studies», Vol. I, part IV, 1920, p. 69, traduzione mia dall’inglese citato in G. Senft, Bronislaw Malinowski and linguistic Pragmatics, art. cit., p. 83 (corsivo mio).
  87. E. C. Traugott, R. B. Dasher, Regularity in semantic change, op. cit., p. 60.
  88. B. Nerlich, Change in language. Whitney, Bréal and Wegener, op. cit., p. 105.
  89. A. Meillet, Le genre grammatical et l’élimination de la flexion, in Id., Linguistique Historique et Linguistique Générale, Paris, Slatkine & Champion, 1982, p. 206 (tondo nostro).
  90. Ivi, p. 210 (tondo nostro).

(fasc. 53, vol. II, 25 agosto 2024)