Scrivere l’assenza: il nichilismo gentile di Fleur Jaeggy

Author di Salvatore Presti

Beeklam: Chiudi le porte.
Victor: Le porte sono doppie e chiuse.
Beeklam: E cos’è quella luce che filtra
continuamente?
Victor: Sono le crepe.
Beeklam: Ebbene, spegnile1.

Übersprung è la parola tedesca che indica l’attenzione distratta e viene usata dagli etologi per descrivere il comportamento del gatto, di ogni gatto immediatamente prima dell’uccisione di una preda. Un allontanamento dall’oggetto che è al tempo stesso attesa indifferente e caricamento: la preda è già morta, ma ancora non lo sa. La sua condizione, propria di chi è afferrato, può essere espressa da un’altra parola opportunamente rilevata da Elias Canetti nel suo fondamentale Massa e potere che indica questo aspetto del rapporto tra predatore e preda: Ergriffenheit che significa, per estensione, ‘commozione’: «Essa esprime la condizione di chi è pienamente afferrato e bloccato da una forza sulla quale non si ha alcuna influenza»2.

Nel distrarsi dall’agonia, dall’attimo che anticipa la fine c’è il senso stesso della scrittura e della poesia. Übersprung è questa tregua che sa di tradimento, il momento in cui preda e cacciatore, vittima e carnefice sono apparentemente affratellati nella diversione. È un momento vuoto, di vuoto in cui tutto può succedere ma in cui succede esattamente quella cosa lì, l’ananke già scritta, che è nelle cose. Il rapporto con le parole sta in questa distanza dalla preda, nell’intervallo che governa l’uccisione e che può generare, ogni volta, un fraintendimento o un tradimento o un’attesa. È sempre Canetti che aiuta a capire l’intensità (e la definitività) della corrispondenza in termini di forza e potere: «Lo spazio sul quale il gatto proietta la sua ombra, gli attimi di speranza che esso concede al topo, sorvegliandolo però con la massima attenzione, senza perdere interesse per il topo, per la sua prossima distruzione, potrebbe essere definito come il vero corpo del potere, o semplicemente il potere stesso»3.

Quello di Fleur Jaeggy è sempre, mi pare, un gioco sottile col potere delle parole e con la simultaneità e la parvenza delle sue manifestazioni. Anche il ricordo assume i contorni del possesso e della commozione, e la presa di distanza dalla realtà è, a volte, solo il preludio di un ritorno che si annuncia imminente. E dunque:

Quando ha raggiunto il bersaglio, all’improvviso il gatto si distrae. Gli etologi chiamano questo movimento Übersprung. Avviene poco prima del corpo mortale. (…) La farfalla danza la sua agonia. Vibra impercettibilmente, tanto da destare ancora interesse nel gatto. E lui si distrae. Si allontana. Con calma muta la rotta. Muta la rotta mentale. E’ come un momento morto. La stasi. Sembra che nulla lo interessi. Sembra che abbia dimenticato ciò (…) che prima l’aveva posseduto come se fosse un’idea, un pensiero. (…) il gatto guarda altrove, è altrove. (…) Forse la farfalla e la foglia hanno anche loro lo stesso momento di Übersprung. Come il gatto. Si distraggono dall’agonia, si distolgono dalla loro morte. Dall’idea di morte. Così fa il gatto. Distoglie anche se stesso dall’agonia. Che ha inferto. Non sappiamo perché accada che il gatto volga il suo sguardo altrove. Lui lo sa. Chissà, forse è delectatio morosa questo Übersprung. Il malinconico disfarsi di un legame con la vittima.

Così continua in una delle sue rare ed efficacissime dichiarazioni di poetica:

Übersprung: parola che riguarda anche noi. È il volgersi altrove, passare ad altro, manifestare il gesto del distacco, come un addio. La divagazione dal tema, l’evasione da una parola, e insieme la caccia alle parole, il disfarsene: sono altrettanti modi mentali dello scrivere. C’è chi scrive grazie alla delectatio morosa. Thomas de Quincey, per esempio,una volta accennò alla “dark frenzy of horror”, all’oscura frenesia dell’orrore4.

Un autocompiacimento nell’atto di commettere il peccato, la delectatio morosa, commentata attraverso l’amato de Quincey: in ciò consiste quel nichilismo gentile che si coglie nelle pagine ˗ nelle dense, nelle rarefatte – dei racconti e dei romanzi. È spesso una sfida col vuoto, con l’horror vacui cui la scrittura e l’esistenza frappongono una fragile ma necessaria barriera. Ed è vita che avanza ma in difetto, come vista da fuori, appena sfiorata con movimento di partecipe disinteresse. Il sospeso riduce il confine (l’incomprensione) tra ciò che è raccontato e la vita, tra il punto da cui viene compresa la vita e la vita stessa. Perché la scrittura della Jaeggy è questo gesto che comprende attraverso l’assenza e, comprendendo, amplifica o riduce, sintetizza o sottintende, procede a sprazzi o spiega. Lo stile regge le pause, gli attimi che si succedono nella lentezza di un periodare che sceglie le parole con accuratezza. Le parole di ogni testo della Jaeggy pesano per suono e posizione. Come se suono e posizione arricchissero la narrazione.

L’ordine meticoloso che Jaeggy persegue è esso stesso un’anticipazione poetica del nulla, che si presenta in ciò come una variazione dall’ordine, uno scarto dal quotidiano che consuma i propri oggetti dall’interno.

La predilezione per autori quali Walser5, che viene citato nella prima pagina dei Beati anni del castigo, Keller o Trakl, o l’amore professato per le poesie di Emily Dickinson, trovano una motivazione possibile anche nella scoperta di una quotidianità dietro cui si nasconde quella che in un’intervista a Ranieri Polese l’autrice ha definito «umiltà visionaria»6. A interessarla credo sia il sottinteso che ha comunque bisogno di quell’ordine per inverarsi, credo sia il senso di privazione a volte bizzarro a volte sorprendente, spesso coglibile grazie all’orecchio attento di chi conosce le minute variazioni del tempo e sa interpretarne le incongruenze.

Avendo capito il limite intrinseco alle parole, che non sono meri indicatori, la Jaeggy si diverte a svuotarle perché consapevole del fatto che non tutto è linguaggio e dunque non tutto può essere detto. Questa impossibilità strutturale viene declinata mediante la ricerca di una purezza stilistica che assorbe l’io a tratti fino a farlo scomparire, oppure fino ad amplificarlo musicalmente in modo che occupi gli spazi fisici, storici e del racconto. In tale prospettiva il rapporto col lettore si complica. La severità della Jaeggy non contempla la possibilità di corteggiare il lettore, non concede niente e non esce mai dai suoi rigidi confini. Questa difficoltà nasce dalla qualità stessa di quella che Gottfried Benn, in una raccolta di saggi edita da Adelphi e pubblicata col titolo di Lo smalto sul nulla, chiama, sulla scorta di Schopenhauer, mondo dell’espressione:

Il mondo dell’espressione sta fra quello storico e quello nichilistico come un sopra-mondo umano che lo spirito ha strappato all’uno e all’altro, è dunque una sorta di terra di nessuno, agire lasciato dietro di sé e visione sciolta da legami. Per contenuto di realtà è quanto di più concreto; nell’arte, per esempio, si deve sempre esserci, subito, senza introduzione, senza spiegazioni, senza premesse: iniziare ed esserci – pura esistenza. Nella poesia, per esempio, si deve essere soli, vedere lontano, magari al di là dell’acqua, e attrarre parole, parole dense di circostanze di fatto, cariche di storia – parole tragiche, reali come esseri viventi7.

La terra di nessuno contempla questa possibilità per l’individuo, di concretarsi, di essere, attraverso l’espressione, anche quando l’espressione è esterna. In un testo inedito posto in calce alla bella monografia di Raffaella Castagnola e intitolato La mia lingua perduta, la similitudine di Benn, non sappiamo quanto consapevolmente, viene ripresa con estrema efficacia:

Rimane a volte in un bambino, come un compagno segreto, una lingua che viene dai suoi predecessori, da coloro che parlavano tedesco in un luogo dove non è mai stato. Nei documenti lo chiamano luogo d’origine. Una terra di nessuno. Il luogo dei morti. Ho spesso la sensazione che nello scrivere siamo visitati non solo dai morti, ma anche dalla lingua che loro tramandano. Una lingua che torna8.

È un’ambiguità originaria, questa di F. J. e riguarda la sua frequentazione col tedesco, lingua da cui ogni tanto è posseduta e che torna a frequentare come accade, per esempio, alla protagonista di Proleterka, la quale, verso la fine, quando il viaggio è compiuto e, di rivelazione in rivelazione, vengono tirate le somme, dichiara: «La mia voce cambia intonazione. Mi accorgo di parlare tedesco. Come se quella lingua mi venisse imposta»9.

Ingeborg Bachmann, amica di Fleur e altro suo punto di riferimento imprescindibile10, nella quinta delle lezioni francofortesi sulla poesia raccolte in volume col titolo di Letteratura come utopia, commentando una serie di appunti tratti dai diari di Musil in cui l’autore spiega il “concetto utopico” che ha della letteratura11, a un certo punto sostiene una tesi che mi pare rilevante (anche) per individuare la ricerca stilistica della Jaeggy:

Perché una cosa rimane: dobbiamo lavorare duramente con la cattiva lingua che abbiamo ereditato per arrivare a quella lingua che non ha ancora mai governato, e che pure governa la nostra intuizione e che noi imitiamo. (…) Mi riferisco (…) a una imitazione, appunto, della lingua, che intuiamo e che mai riusciamo a possedere appieno. La possediamo, come frammento, nella letteratura, materializzata in una riga o in una scena, e in essa sentiamo – con un respiro di sollievo – di essere finalmente arrivati alla lingua12.

Così Jaeggy: «Cerco di rendere tutto più distante, il modo di scrivere anche le parole, devono gelare, tento di scarnificare le frasi. È un modo per tenere le cose lontane»13. Si tratta di un’arte della distanza perseguita ˗ verrebbe da dire ˗ attimo per attimo, frase per frase. La prosa della scrittrice ha il senso del tempo che viene dilatato e trattenuto in un modo che va oltre la semplice ricerca memoriale, perché è ricerca di un suono originario. Da qui occorre scarnificare, privare le cose del contorno scrostandone il senso e restituendole a una purezza che mantiene comunque una propria larvata inafferrabilità.

I testi di Jaeggy hanno questo languore, sopravvivono alla forza dirimente dei ricordi perché sciolgono l’attimo, lo sezionano, ne mostrano la consistenza. Le parole hanno le storie in loro potere perché le storie dipendono dalle parole, dalla loro radicalità, dall’eterogeneità, dalla leggerezza e dalla pesantezza con cui vengono lasciate cadere. Ma se ogni parola, come ogni enunciato, nasconde un senso più profondo e dunque sintatticamente più leggero, c’è da chiedersi come quella particolare forma di esibizione che chiamiamo scrittura, sostituendosi al silenzio, vale a dire al non-detto, possa ancora comunicare qualcosa. L’intuizione leopardiana che lo stile significa in quanto tale, perché regge il discorso e fatalmente lo struttura, può essere qui usata per spiegare la dinamica dei testi della scrittrice italo-svizzera. Lo stile è (anche) senza la parola, proprio in quanto ne sottintende e ne concentra il senso – proprio quando (perché) essa è evocativa. Ed è evocativa in questo suo essere in limine, nella sua tendenza a sostare e a frequentare le soglie. Di cosa? Di volta in volta: di porte, dell’infinito, del quasi, del non ancora, del non senso. La sfera semantica del termine limen (‘soglia’) è interessante per un suo accostamento possibile con limes (‘confine’), con sublimis che, derivando da sub+limis, indica un sotto-la-soglia che in Jaeggy è condizione subliminale, appunto, non spaziale, o non solo spaziale, ma anche temporale. Oltre la soglia, si apre davanti a noi un territorio vastissimo che siamo costretti a intra-vedere ma che non riusciamo a esplorare.

Lo stile (dicevo) regge e dà forma, ingentilisce le frequentazioni col nulla – dà conto delle commistioni e della purezza, mimetizza, per un certo minimalismo, la nudità del vero e mitizza i personaggi perché li trascende, perché dona loro una patina a tratti arcaica, a tratti metafisica, reale e irreale.

Il rimando, la regressione e la relativizzazione del tempo storico sono altri elementi che vengono risolti dalla Jaeggy a colpi di stile. Lo sguardo, tuttavia, non è regressivo né implode. La regressione è uno degli effetti della libertà stilistica; la stessa contrazione dello stile introduce a un movimento in cui i protagonisti dei romanzi e dei racconti, liberandosi dalla pesantezza del reale, semplicemente si nutrono di altro. Delle loro ossessioni, per esempio. O delle rinunce. Il presente disturbato a cui sono inchiodati, spesso loro malgrado, libera una sorta di spazio circolare fatto di ripetizioni che non ripetono, di assenza di coscienza che è essa stessa coscienza perché, essendo oltre-la-soglia del dire, polarizza su di sé, sul suo punto di osservazione, ogni ipotesi di senso. In altre parole è come se il lettore, dopo essersi sentito irretito, accettasse il gioco e si proiettasse interamente negli algidi universi mostrati dalla scrittrice.

Secondo Klossowski Nietzsche chiama idiosincrasia sociale colpa pena onestà libertà amore14. A sentire Klossowski, Nietzsche interpreta in termini di ripugnanza e di ripugnanza sociale sentimenti che comunque sono assoluti e concernono sempre la dimensione individuale del soggetto. Sono tutti sentimenti che troviamo nella quasi totalità degli scritti di Jaeggy, ora attutiti ora suggeriti, ma senza di loro non c’è quadro, non c’è storia e non c’è scarto. Il senso è proprio quello dell’idiosincrasia, di un rigetto del banale quotidiano, di una reinterpretazione del quotidiano in funzione del valore che di volta in volta viene dato alla colpa, alla pena, alla libertà e all’amore. Amori saffici descritti nel loro tragico o “normale” fluire, come è per alcuni racconti di Sono il fratello di XX – raccolta che contiene, già nel riferimento cromosomico del titolo, la prospettiva al femminile lì seguita – o nel libro-simbolo della scrittrice, I beati anni del castigo, storia di un amore consumato nel silenzio di un Istituto per educande, tra l’io narrante e Frédérique, affascinante e irraggiungibile fanciulla, simbolo (anche) di un’idea di perfezione che diventerà follia. Le due ragazze, dirà la Jaeggy in un’intervista al settimanale «L’Europeo», sono violente. «(…) Potrebbero uccidere per gioco. Ma sono educate. Non lo fanno. Le ragazze si amano, ma sono educate, non si toccano»15.

Ecco, è l’educazione una delle cause dell’idiosincrasia: è un’educazione che limita, che tiene a bada forze personali e individualistiche (come personale e individualistico sa essere l’amore) e lega attraverso i sensi di colpa, mediante il silenzio, attraverso il richiamo costante all’onestà e alla probità dei comportamenti. Il romanzo è un vortice di pensieri attorno ad alcune impossibilità, è il romanzo della distanza in cui il rapporto tra le due amiche costantemente si definisce e si complica.

Fin dal suo apparire Frédérique si distacca da tutte le altre nell’immaginario dell’io narrante: quindicenne dai capelli «diritti come lame», dagli occhi «severi e fissi, ombrati», muta e altezzosa: «Forse per questo desiderai conquistarla. Non aveva umanità»16.

La protagonista, che appena sopra aveva dichiarato il proprio amore per le passeggiate nella ricerca costante di solitudine e “forse” dell’assoluto17, rimane soggiogata da quella forza inesplosa, dall’alterigia dei tratti e dai modi distanti sempre, anche quando appaiono confidenziali, della sua amica:

Quando camminavamo insieme, ormai tutti i giorni, noi due sole, qualche volta camminava davanti a me, e io la guardavo. Tutto in lei era giusto, armonico. Qualche volta mi metteva la mano sulla spalla e sembrava che dovesse durare così in eterno, tra i boschi, sulle montagne, nei sentieri, une amitié amoureuse, dicono i francesi18.

La vera cifra esistenziale di ogni personaggio pare essere la solitudine che alla lunga non sopporta legami. Il servo Victor, nel bellissimo e rarefatto Le statue d’acqua, ricorda a Beeklam il giorno del loro incontro. «Simili slanci, commenta il ragazzo, spossano sempre un poco, La vita in comune finisce per togliere quella specie d’innocenza che hanno le persone sole»19.

Dall’Appenzell, che fa da paesaggio necessario20 alle passeggiate della voce narrante, in lontananza, il lago di Costanza e la limpidezza dell’acqua intra-vista dalle montagne: ogni volta è come se Jaeggy giocasse con gli elementi, acqua aria terra fuoco, per restituire il percorso accidentato verso la perfezione che è in ogni caso un equivoco, una superfetazione della volontà: la perfezione raggiunta attraverso la rigida educazione di un collegio è vissuta alla fine come una malattia, come un oggetto estraneo e imposto o, come per Frédérique, autoimposto:

Era in ordine, Frédérique, ossessivamente ordinata come i suoi quaderni, come la sua calligrafia, come i suoi armadi. Ero convinta che fosse una tattica per passare inosservata, per nascondersi, per evitare di mescolarsi alle altre, o semplicemente per mantenere le distanze. «Tu es possédée par l’ordre». Mi rispose sorridendo: «J’aime l’ordre». Capivo quei bambini che si buttavano dall’ultimo piano di un collegio tanto per fare qualcosa di disordinato, e glielo dissi. L’ordine era come le idee, un possesso, una possessione21.

La perfezione come barriera fra sé e gli altri viene perseguita e raggiunta attraverso l’ordine che, si badi, oltre che un possesso è una possessione. L’irreprensibilità della forma, dell’espressione, nasconde sempre il tumulto di passioni represse ma che esistono e condizionano i pensieri se non i comportamenti. Gli anni descritti sono gli anni del castigo, della pena per la colpa di esser nati in un determinato contesto sociale e da quei genitori e da quella borghesia, ma sono anni beati per le passioni, per il cuore, per la spontanea – spontanea, nonostante tutto – visione del mondo e della vita come possibilità: «Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo»22.

L’educazione in questo senso non è solo un fatto borghese, è il sottotraccia che reprime la dimensione della soggettività che diventa marginale nella forma dei rapporti sociali: «Ancora oggi non riesco a dire che mi ero innamorata di Frédérique, è una frase molto facile da dire»23. E non ci riesce perché la severità dell’educazione ricevuta ha annichilito ogni forma di spontaneismo. Quella rigidità che il mondo ora liquido ha progressivamente perso è, per l’educazione novecentesca, fondamentale. Plasma i caratteri e ne impedisce la purezza.

Jaeggy ama i contrari. La forma di nichilismo che persegue non è solo giocata sull’assenza o sul dileguarsi, è giocata anche (se non soprattutto) sul rinvio, sui concetti che, sempre, portano l’impronta del proprio contrario. Così è, per esempio, nel rapporto tra vecchiaia e giovinezza, un rapporto che pare risolversi in una sostanziale adesione tra il giovane Beeklam e il suo domestico, non più giovane, Victor, che si riconoscono e che sono l’uno la compensazione dell’altro, in Le statue d’acqua. E così è, soprattutto, nelle considerazioni che la Jaeggy affida al proprio alter ego, la voce narrante dei Beati anni del castigo: «Nella giovinezza si annida il ritratto della vecchiaia, e nell’allegria lo sfinimento, come in alcuni neonati dove sembra di riconoscere il vecchio che ha appena lasciato la vita»24. Concetto che verrà ribadito nell’intervista rilasciata a Stella Pende citata prima25. Oppure nella descrizione del marito della direttrice: «Era un uomo asciutto con rughe precoci e la bocca stretta, sembrava addentare l’ultimo boccone di giovinezza che gli restava. Sfiorito prima del tempo»26.

Ricordando Ingeborg Bachmann nel bellissimo e brevissimo racconto intitolato La stanza asettica, il cui ritmo e le cui movenze sono quelle di una confidenza fatta ad amici, Fleur riferisce le sue divagazioni sulla vecchiaia, «una longevità senza morte», fatte al cospetto dell’amica in un periodo «affatto male», mentre lei sorrideva, assentiva e così rispondeva: «La vecchiaia, disse, è orribile. Ma tutto è orribile, le dicevo. Con una specie di allegria». Il riferimento improvviso alla stanza asettica violata da Fleur per due volte, dell’ospedale sant’Eugenio, reparto Grandi Ustionati, dove l’amica fu ricoverata in seguito all’incidente che l’avrebbe portata alla morte, sopravviene in conclusione e a tradimento27. Ed è un pugno allo stomaco. L’idea di una vecchiaia quale dimensione ideale da trascorrere assieme viene interrotta dalla crudele realtà. Ancora quella «calma violenta» che è la cifra interpretativa della quasi totalità dei racconti presenti in Sono il fratello di XX. Ma è anche un modo per indicare il rapporto tra gli esseri umani e la realtà. Così in Proleterka, a proposito del crack finanziario che ha sconvolto la famiglia di Johannes, si parla di «Quieta rovina. Come se la quiete fosse imposta dalla violenza»28. Johannes e la figlia «Hanno sempre saputo percepire i millimetri che separano l’equilibrio dalla disperazione»29. Un esile confine in cui c’è tutta la vita.

Nel gioco del mondo questa sostanziale sovrapposizione dei piani esprime una costante e reiterata presa di posizione nei confronti dell’esistere come atto volontario e involontario insieme, atto empatico con cui assumiamo su di noi la realtà delle altre vite. Il permanere è nella memoria che lega e mantiene e commistiona eventi perduti. In Vite congetturali c’è esattamente questa dimensione: «Mi divertiva, o forse è meglio dire mi affascinava, che alcune di esse potessero aderire perfettamente alla mia visione mentale. Parlo delle vite di de Quincey, Keats e Schwob. Vecchi amori. Terribilmente malinconici»30.

Ancora dai Beati anni:

I nostri antenati non sono forse anche quelle ragazze che troviamo nelle fotografie di persone anonime? (…) Scorgiamo nei loro volti le nostre sorelle. Una strana familiarità ci lega, è un culto dei morti. Tutte quelle ragazze che abbiamo conosciuto sono entrate nella nostra mente, e diventano così una progenie, tornano in una specie di fioritura postuma.(…) Anche nelle prigioni, non si dimentica il compagno di cella. Sono volti che nutrono e mangiano il nostro cervello, i nostri occhi. Non c’è il tempo, a quel tempo. Vetusta è l’infanzia.

Su tutto i visi. Nei visi il tempo che non è tempo. I visi, come i nomi dell’omonimo racconto presentato in Sono il fratello di XX, tengono inchiodata Basia alla panchina. Le protagoniste Basia e Anja sono in visita ad Auschwitz. Come in Boris Pahor di necropoli31 vive in loro, attraverso i nomi, attraverso le facce, il contrasto tra la quotidianità e l’orrore, tra l’allegria di una gita e la ferocia della tragedia. Tra l’attualità e la storia. Per l’autore sloveno si tratta, tuttavia, di un ritorno ai luoghi che l’hanno visto detenuto e sofferente, di un ritorno alle facce che spesso si sviluppa tramite il contrasto con le reazioni dei turisti nei confronti dell’orrore, per la Jaeggy è lo sviluppo dell’impossibilità di capire fino in fondo, di spingersi oltre nell’orrore. Pahor si confronta principalmente con la storia e dunque con la coscienza collettiva, Jaeggy con il racconto e dunque con la coscienza individuale. La chiusura terribile ha questa pesantezza devastante, e in un certo senso irricevibile:

Basia era ancora seduta sulla panca. Paziente. Le chiese se aveva bisogno di qualcosa. Basia non ha bisogno di nulla. Era seduta sulla panca per questo, per aspettare, nient’altro. Un riverbero scuro entrava nel corridoio. Insieme verso l’uscita. Basia si scusa. Non vuole più vedere visi. Il suo tono di voce è sempre uguale, forse più flebile. Smorzato. È abbastanza.

Se vuoi saperne di più allora va e diventa tu stessa – dicono i suoi occhi fermi – diventa tu stessa la vittima32.

I nomi, come i visi, perseguitano Basia e rischiano di nutrire e mangiarle il cervello. Ma sono di sconosciuti. E ritornano a dire. E si impongono. Con la loro pesantezza. Basia non sopporta ulteriormente la loro vista, perciò sceglie di rimanere sulla soglia 33.

Le facce fermano il tempo come accade alle parole del pastore durante il funerale di un ricco macellaio il cui nome è Angst, ‘Paura’, nel racconto Una moglie in La paura del cielo:

La voce del pastore sembra più lontana, come lontane sembrano le parole «dolore» e «sollievo». Hanno perso la loro configurazione. E anche il tempo è fermo. La chiesa fu avvolta da un torpore di pensieri spenti. Colpiva in quei visi un distacco così profondo e atavico ma non remissivo. La morte non commuove34.

Come Basia ad Auschwitz, il narratore in cerca di ispirazione rimane sulla soglia di quei volti nell’istante in cui il tempo si è fermato prima di essere interrotto dal suono umano di corni da caccia in lontananza. Un sonoro richiamo della vita che continua. E in sottofondo, ma come taciuto, c’è sempre il rapporto col divino che si complica e non arriva mai a definirsi, va dalla paura alla speranza all’indifferenza. «è irrisorio, il tempo», farà dire alla figlia di Johannes in Proleterka35, il racconto di un viaggio che è in realtà una resa dei conti col passato e col presente36. E proprio nel segno di una resa dei conti col tempo, col suo accidentale, e inutile, scorrere vengono organizzati alcuni dei più bei racconti consegnatici dall’autrice.

Che il fratello di XX si sia suicidato lo dice la sorella, e lui, il morto, s’indispettisce e non le perdona di averlo rivelato. Forse per questo il suo corpo «non sogna. Non c’è»37; spia della sua esistenza fantasmatica è la dichiarata vocazione alla scomparsa: «C’è un’antica querelle, lo sapete, tra essere e apparire. Essere mi sembra qualcosa di più sicuro. Apparire più adatto a scomparire. E io mi sentivo adatto a scomparire»38; il suo tempo interrotto non si è interrotto, continua attraverso il dialogo a distanza con la sorella (e con noi). Il tema viene ripreso mediante la scoperta dell’esistenza di un fratellastro morto all’età di cinque anni – più che un fantasma, un’ombra –, che la protagonista compie in Proleterka: «Ho sempre saputo di avere un fratello. Non sono mai stata sola. Penso che siamo stati molto uniti: lui morto, io viva»39.

Quella del fratello di XX, quella dell’anonima protagonista di Proleterka è una vocazione all’umbratilità: sempre nei racconti della scrittrice zurighese, potendo, l’ombra si estende. Sui personaggi, sui paesaggi, sui morti e sui vivi. E sempre sottintende la luce, il lucore: «frammenti d’ombra annunciavano il crepuscolo»40. Ogni oggetto è un ostacolo che devìa la luce, la rifrange. E ogni ostacolo è l’inizio di qualcos’altro di perversamente diverso. Nei libri di Fleur Jaeggy le leggi consunte del divenire (divenire cosa?) hanno nelle variazioni di luce la propria spiegazione e la propria sospensione in atto. E l’ombra si stende, simulacro in apparenza, e trascolora le case, le cose, la scrittura. Dà volume, l’ombra. Delirio di ombre cangianti che annunciano la sera dell’anima sono le parole: perciò vanno possedute, per questo vanno frenate. Come per l’ombra filamentosa proiettata dalla miriade di foglie mosse dal vento che va vista e va descritta senza le foglie. Per rendere giustizia all’ombra. Per far sì che l’ombra non dipenda.

Con le foglie la luce gioca ed esse, le foglie, nel soffio non si danno per vinte. Continuano la loro opposizione ai raggi; assorbono, è vero, quel che c’è da assorbire, il resto lo restituiscono in frescura. «Io seguo solo le ombre (…). Salii nella mia stanza ad accogliere la degradazione della luce, forse per non dimenticare l’esatta discesa della notte di quel giorno, di quel giorno mondano of my mother’s loss»41. Rabdomantiche, le ombre sanno la perduta unità delle cose con la materia, e delle idee con le cose, perché ombra, foglie, parole sono l’essenza di una perduta unità, astrazione in fieri, esserci e non esserci insieme. Si dice che Talete l’abbia misurata, quell’ombra, e sia stato annoverato tra i sapienti: ecco, questa è la scrittura di Fleur Jaeggy, l’ombra come metro dell’esistenza che sulla terra riproduce l’oggetto ma che disegna (anche) nelle sue variazioni giornaliere le minute e continue determinazioni del tempo. L’ombra che è penombra, e ripara: «Appena furono soli, i gemelli si misero a riflettere. (…) Avevano voglia di giocare a carte? No. Solo di ascoltare musica, nella penombra. O nel buio»42.

E in controluce, o in una penombra esistenziale, è visto anche il rapporto tra consanguinei. Le storie di famiglia raccontate dalla scrittrice sono tutte estreme, anche quando sono banali. Ama scavare nei rapporti, nella sensualità o nel distacco proprio di ogni relazione e ogni volta c’è sempre un elemento che sconvolge, che allontana dalla luce e altera la quotidianità. Figli che hanno difficoltà a partecipare al funerale dei propri genitori43 – accade a Beeklam di Le statue d’acqua, o al fratello di XX –, figli che hanno coi genitori un rapporto a dir poco problematico come per Frédérique che nei Beati anni, già pazza, tenterà di bruciare la madre. Genitori che nutrono verso i figli sentimenti contrastanti o crudeli, come accade a Marie Anne che, nel racconto Senza destino, detesta la propria bambina a tal punto da impedirle di essere adottata da una famiglia agiata e avere in tal modo una vita migliore della sua44. «Non hai bisogno di chiamarmi padre», dice Kaspar alla figlia Katrin, e si ha la percezione che il moto confidenziale sia già un allontanamento45. E di «paterno istinto omicida»46 leggiamo in Proleterka, a proposito della conoscenza fatta dalla protagonista di quello che si dichiara essere suo padre naturale, uno scienziato, che non aveva mai visto. Equivocando sui suoi veri sentimenti, verrà definita suggestivamente dal prete, alla morte dello scienziato (Johannes è già scomparso), Leidtragende, «colei che porta il dolore»47. Ma non c’è dolore. Il sangue non porta veramente dolore. Il dolore è altrove.

Distanti sono le famiglie delle educande del collegio dell’Appenzell. Estranei il padre e la figlia in Proleterka48, ma tenuti assieme da un legame che con Hölderlin potremmo definire aorgico, che va oltre la vita e non riguarda, sembrerebbe, semplicemente l’esistenza. Su un matricida, vicino di casa e amico di Johannes, così si esprime la figlia: «L’uomo dimostrava meno dei suoi anni, circa sessanta. Almeno dieci di meno. Levigato, senza traccia d’inquietudine. L’uccisione della madre deve averlo ringiovanito. L’aveva strangolata»49.

La famiglia, la morte, o il suo spettro sono spesso collegati. La prospettiva è quella descritta proprio da Beeklam che, parlando di se stesso in terza persona, afferma: «Aveva il terrore di tutto ciò che è ereditario, poiché ciò che viene a noi per eredità naturale è proprietà dei morti»50. Proprietà dei morti è l’invarianza, l’impossibilità di trasformarsi e dunque di uscire, l’essere obbligati sotto la soglia.

Pietro Citati parla per Fleur Jaeggy di un «nichilismo profondo»51, ma mai come per la scrittrice profondità e gentilezza si assomigliano: la superficie restituisce l’abisso, apre all’abisso. Il suo è un nichilismo estetico, da esteta che vive gli spazi e degli spazi l’assenza. Le sue riflessioni sul nulla sembrano sempre calate casualmente, come en passant, come se il senso del nulla si annidasse da qualche parte. I pensieri sono nelle cose e calano dall’alto, la mente estesa li assorbe da fuori anche quando, abbandonata a se stessa, non è in grado di partorirne o semplicemente non vuole.

La protagonista di Proleterka se ne sta sdraiata su una chaise-longue in sala da pranzo:

Non penso a niente. Il niente è materia di pensieri. Esseri, voci autonome, memorie dissotterrate, seguono lo sciabordare dell’acqua. Il niente non è vuoto. Come dagli artigli di un predatore in volo, i pensieri cadono nella nostra mente quando siamo convinti di non pensare52.

A proposito del vuoto e della scrittura, ecco quanto dichiara l’autrice ad Antonio Gnoli: «Vuoto è una parola giusta. Bisogna essere in un proprio vuoto. Vuoto è silenzio. È solitudine. È assenza di relazioni»53. E più sotto aggiungerà: «Il vuoto è una pianta che va costantemente innaffiata. Il desiderio di non esistere è un esercizio che si rinnova di volta in volta. Anche la creazione è una forma di distruzione. Anche chi non esiste muore a poco a poco».

Ancora:

Non è da escludere che alcuni luoghi mal sopportino i nuovi proprietari. Quelli che venivano dopo erano solo degli intrusi nel dolore che si era sedimentato. Gli oggetti a volte si ribellano. Forse nulla può essere distrutto totalmente. Come nulla è una vittoria54.

Gli scritti di Fleur Jaeggy sono, allora, questo costante dialogo con la morte e con l’annientamento per un campionario di persone scomparse o vive, che si sono rincantucciate nella mente e che ritornano perché, come i morti descritti da Satta nel Giorno del giudizio, ne hanno necessità, attendono che qualcuno li tiri fuori e li restituisca all’esistenza, pure questa effimera, delle parole. Persone che, come idee, riempiono gli spazi sopravvivono in quanto negli oggetti, prima ancora che nella memoria. In Proleterka la figlia si dice convinta che la madre, pianista, la venga a trovare nella stanza chiusa dove c’è il pianoforte Steinway che lei suonava sempre, si dice convinta «che i morti facciano esattamente le stesse cose di quando erano vivi»55. Anche questo è un modo di “svolgere la vita” – l’espressione è di Satta, ed è conclusiva –, degli altri e propria56.

  1. F. Jaeggy, Le statue d’acqua, Adelphi, Milano 2015 (1980), p. 18.
  2. Cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Claassen, Hamburg 1960 (ed. it. Massa e potere, trad. it. di Furio Jesi, Adelphi, Milano 2002, p. 247. È l’edizione da cui cito).
  3. E. Canetti, Massa e potere, op. cit., p. 340.
  4. F. Jaeggy, Sono il fratello di XX, Gatto, Adelphi, Milano 2014, pp. 95-96.
  5. Di una F. J. addirittura erede di Walser ha parlato incidentalmente C. Cherin, «Arcana bellezza iperborea»: il mondo terribile di F. J., «In limine» (www.inlimine.it/ojs/index.php/in_limine/article/viewFile/354/445, p. 3: ultima consultazione 7/12/2017).
  6. Intervista a Ranieri Polese, in «Corriere della sera», 4 ottobre 1998.
  7. G. Benn, Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano 1992, p. 350, corsivo mio. I testi sono tratti da Sämtliche Werke: Prosa 1, Prosa 2; Gesammelte Werke: Essays, Reden, Vorträge. La solitudine che consente di vedere di là dall’acqua anticipa il simbolico delle Statue d’acqua e ne può legittimamente essere commento.
  8. F. Jaeggy, La mia lingua perduta. Testo inedito, in R. Castagnola, Fleur Jaeggy, Cadmo, Fiesole 2006, p. 131.
  9. F. Jaeggy, Proleterka, Adelphi, Milano 2001, p. 112. Rivelatrice in questo senso un’Intervista: F. J. a proposito di Proleterka, di M. G. Rabiolo consultabile alla URL http://www.stefanomeneghetti.it/2010/03/fleur-jaeggy/ (ultima consultazione: 7/12/2017). Ne riporto uno stralcio: «L’italiano è la mia lingua materna, ma il tedesco è una lingua che mi è molto vicina, essendo nata a Zurigo. Per me, il tedesco è una sorta di lingua dei morti, una lingua che mi segue. Alcuni personaggi del mio libro parlano allora tedesco, in un luogo non nominato, in cui sorgeva la fabbrica di tessuti che ha fatto la fortuna della famiglia in questione».
  10. Di riconoscimento reciproco tra Ingeborg Bachmann e F. J. parla ancora R. Castagnola, F. J., op. cit., pp. 25-29. A un certo punto, nel libro viene citata un’intervista rilasciata a «Elle» nel febbraio 1990, in cui la scrittrice manifesta i propri sentimenti e il proprio duraturo riconoscimento nei confronti della Bachmann: «Devo a Ingeborg se sono diventata scrittrice. Le feci leggere il dattiloscritto de Il dito in bocca quasi per scherzo. Lei, con un’abnegazione rara, arrivò persino a correggermi le bozze».
  11. Cfr. R. Musil, Tagebücher, Essays, Aphorismen und Reden, Rowohlt, Hamburg 1955 (ed. it. Diari 1899-1941, a cura di Adolf Frisé, trad. it. di Enrico de Angelis, Einaudi, Torino 1980, quaderno 33, vol. II, p. 1376 e p. 1381).
  12. I. Bachmann, Frankfurter Vorlesungen: Probleme zeitgenössischer Dichtung, R. Piper & co., Munchen 1980 (l’ed. it. qui seguita è Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, a cura di Renata Colorni, trad. it. di Vanda Perretta, Adelphi, Milano 1993, p. 123). Le cinque lezioni tenute dalla Bachmann nell’inverno del 1959-1960 inaugurarono la cattedra di poetica offerta dalla casa editrice S. Fischer alla Johann Wolfgang Universität di Francoforte sul Meno.
  13. Dichiarazione rilasciata al «Giornale di Sicilia», 29/11/2001. Dello stile perseguito attraverso questo “processo di scarnificazione” ha discusso, tra gli altri, G. Montesano, La vita perduta: appunti su F. J., in «La rivista dei libri», marzo 2003.
  14. Cfr. P. Klosswski, Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano 2013, p. 33.
  15. Intervista rilasciata a Stella Pende, in «L’Europeo», 6 ottobre 1989.
  16. F. Jaeggy, I beati anni del castigo, Mondadori/De Agostini, Milano 1993 (1989), p. 10.
  17. Ibidem.
  18. Ivi, p. 19.
  19. F. Jaeggy, Le statue…, op. cit., p. 29.
  20. «Fuori dalle finestre il paesaggio chiama, non è un miraggio, è uno Zwang, si diceva in collegio, un’imposizione»: F. Jaeggy, I beati… , op. cit., p. 10.
  21. Ivi, p. 53. Nella monografia sugli scritti della Jaeggy così Raffaella Castagnola commenta la prima parte del passo qui citato: «La perfezione richiede un esercizio quotidiano. Per ottenere risultati eccellenti, senza sbavature e senza difetti, è necessario imparare a interpretare ruoli diversi, è necessario fingere costantemente. Ciò implica un costante addestramento oltre che una precisa tattica…»: R. Castagnola, F. J., op. cit., p. 87.
  22. F. Jaeggy, I beati…, op. cit., p. 78.
  23. Ivi, pp. 18-19.
  24. Ivi, p. 82.
  25. «Ma la vecchiaia si annida nella giovinezza. Nei collegi, certi visi di ragazza sono già contaminati, vizzi, scoloriti». Intervista a Stella Pende, op. cit.
  26. F. Jaeggy, I beati…, op. cit., p. 64.
  27. F. Jaeggy, Sono il fratello…, La stanza asettica, pp. 51-52. Il 2 ottobre, per un banale incidente probabilmente dovuto a una sigaretta che le incendiò la vestaglia, Ingeborg Bachmann fu ricoverata al Sant’Eugenio dove morì due settimane dopo per complicazioni.
  28. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 29.
  29. Ivi, p. 37.
  30. Intervista rilasciata ad Antonio Gnoli, in «La Repubblica», 2 agosto 2015. Vite congetturali è uscito nel 2009 per Adelphi e contiene versioni rivedute delle biografie pubblicate rispettivamente in T. De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983 e in M. Schwob, Vite immaginarie, Adelphi, Milano 1972. «John Keats» in Italia era fino a quel momento inedito.
  31. Cfr. B. Pahor, Necropoli, Fazi, Roma 2008.
  32. F. Jaeggy, Sono il fratello…, Nomi, op. cit., pp. 108-109.
  33. «Disse ancora che avrebbe accompagnato Anja sulla soglia, non oltre»: ivi, p. 106.
  34. F. Jaeggy, La paura del cielo, Una moglie, Adelphi, Milano 1994, pp. 34-35. Per un’analisi della struttura dei racconti si rinvia a R. Fajen, Gli idilli terribili. Su “La paura del cielo” di F. J., in «Paragone», 2005, nn. 60-62, pp. 114-31.
  35. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 50.
  36. Di viaggio immaginario parla R. Castagnola, Un viaggio verso l’Ade: “Proleterka” di F. J., in «Versants», 2005, n. 50, pp. 179-98.
  37. F. Jaeggy, Sono il fratello…, op. cit., p. 25.
  38. Ivi, pp. 24-25.
  39. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 110.
  40. F. Jaeggy, Le statue…, op. cit., p. 15.
  41. F. Jaeggy, Sono il fratello…, op. cit., p. 25.
  42. F. Jaeggy, La paura…, I gemelli, op. cit., p. 91.
  43. Si legga a tal proposito il saggio di F. Parmeggiani, Resisting Identity: Fleur Jaeggy’s Life Stories, in «Forum Italicum», 2004, n. 1., pp. 166-86, che, tra l’altro, sottolinea la tipicità dei personaggi osservati dalla Jaeggy, che sono quasi sempre figli orfani o senza amore, privi comunque di quella sfera di affettività che rende tale una famiglia.
  44. Cfr. F. Jaeggy, La paura…, Senza destino, op. cit., pp. 11-19.
  45. F. Jaeggy, Le statue…, op. cit., p. 60.
  46. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 109.
  47. Ibidem.
  48. Johannes viene definito dalla figlia «persona a me inverosimilmente ignota. Mio padre. Non una confidenza. Eppure un legame anteriore alle nostre esistenze. Una conoscenza nell’estraneità totale»: ivi, p. 20.
  49. Ivi, p. 35. «Se un uomo così terribilmente dolce, dirà in seguito, uccide la madre, doveva avere un’esasperazione così soave da scatenare il furore»: p. 37.
  50. F. Jaeggy, Le statue…, op. cit., p. 52.
  51. Cfr. P. Citati, in «La Repubblica», 10 novembre 1989: «A volte sospetto che il suo sia un nichilismo profondo: è nichilista come può esserlo una pietra scagliata dal cielo, o l’abisso estremo del mare». È un Citati, tuttavia, che nello sforzo di comprendere si lascia andare a immagini quantomeno ardite, perché, se l’abisso ha comunque naturalmente richiami nichilistici, davvero non si comprende come possa «una pietra scagliata dal cielo» essere nichilista…
  52. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 20.
  53. Intervista rilasciata ad Antonio Gnoli, cit.
  54. F. Jaeggy, Proleterka, op. cit., p. 35.
  55. Ivi, p. 45.
  56. «Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio». Si tratta della parte conclusiva del libro, una sorta di testamento spirituale: S. Satta, Il giorno del giudizio, Bompiani, Milano 1982 (I ed. 1979), pp. 291-92, corsivo mio.

(fasc. 18, 25 dicembre 2017)