Recensione di Chinua Achebe, “Le cose crollano”

Author di Giulia Iacchini

Le cose crollano è il primo libro della trilogia che ha determinato il successo di Chinua Achebe, considerato tra i più grandi scrittori africani. La prima edizione, Things fall apart, fu pubblicata nel 1958, ma in Italia arrivò solo vent’anni dopo, nel 1976, intitolata Il crollo ed edita per la casa editrice Edizioni e/o. A tre anni dalla morte dello scrittore, avvenuta nel 2013, la Nave di Teseo ha deciso di riproporre una nuova traduzione della trilogia, il cui primo romanzo ha visto la luce nel 2016, con il titolo appunto di Le cose crollano.25

Il romanzo trasferisce il lettore dapprima in una Nigeria precoloniale, in cui viene presentata una società che a un occhio occidentale risulta fortemente “primitiva”, poiché ancorata a credenze e costumi atavici. Successivamente, i primi contatti con gli occidentali e il delinearsi del progetto coloniale plasmano il territorio con una velocità sorprendente, e altrettanto repentino e inesorabile si presenta il disfacimento di quella società che per secoli ha mantenuto inalterata la propria identità.

Protagonista della storia è Okonkwo, uno degli uomini più noti e stimati presso i nove villaggi di cui si parla. Grazie alla propria caparbietà e alla propria ambizione, riesce a liberarsi della pessima reputazione del padre, acquistando rispetto e considerazione da parte degli altri membri del clan. Okonkwo è un gran lavoratore e un grandissimo guerriero. Crede nella distinzione tradizionalista dei ruoli tra uomo e donna, per cui al primo spetta la coltivazione degli ignami (ed è dovuta l’obbedienza assoluta da parte di mogli e figli), alla seconda l’obbligo di occuparsi della prole.

La sua vita, scandita solo dai ritmi lavorativi, e quella del clan vengono scombussolate dall’arrivo degli inglesi, che in un primo momento tentano un approccio con gli indigeni, spingendoli alla conversione al cristianesimo, ma in seguito impongono le proprie leggi tramite un tribunale. Okonkwo vorrebbe combattere, uccidere l’invasore, ma, abbandonato da tutti gli altri membri del clan, è costretto alla resa.

A una trama debole e piuttosto scontata si contrappone la complessità del protagonista. La storia, a grandi linee, è nota: per secoli l’Africa è stata un continente popolato perlopiù da tribù le quali, a causa della notevole estensione del territorio nonché di una vegetazione che non facilitava gli spostamenti, si incontravano sporadicamente. Non esistevano città, ma solo villaggi di capanne di fango e paglia, in quanto la popolazione era nomade. Non si conosceva nemmeno la ruota. Poi, a un tratto, sono arrivati gli europei e hanno imposto il proprio modo di vivere all’Africa. Da un giorno all’altro sono sorti tribunali, scuole, chiese, prigioni. Sono state costruite strade e ferrovie. Sono nati, così, gli stati coloniali.

Okonkwo nasce e cresce in un’Africa ancora non toccata dagli europei, ma da adulto si ritroverà ad assistere a un capovolgimento di quella realtà. Egli crede fortemente nelle vecchie tradizioni e fin da bambino si dà da fare per acquisire valore agli occhi degli altri membri del clan. Diventa un instancabile lavoratore e un temuto guerriero, poiché è così che dovrebbe essere un uomo che si rispetti. Altrimenti, viene considerato efulefu, “buono a nulla”, ed è privato della stima sociale.

Okonkwo è scontroso, scorbutico, aggressivo, intrattabile. Non si fa scrupoli a picchiare mogli e figli, anche se è la settimana della pace e vige l’astensione da qualsiasi forma di violenza. Verso gli uomini che condividono il suo stesso grado sociale, tuttavia, è rispettoso e ossequioso. Reprime i propri sentimenti, in quanto li percepisce come sintomo di debolezza e mai vorrebbe mostrarsi vulnerabile agli occhi degli altri. A tal proposito, ad esempio, quando il clan decreta la morte del ragazzino che per anni ha vissuto con il guerriero, egli stesso lo uccide senza vacillare. Non può mostrarsi debole di fronte agli altri uomini; poco importa se poi trascorre i giorni successivi avvolto da profonda tristezza, tanto da non toccare cibo, dal momento che al ragazzo si era affezionato: nessuno può leggere nella sua mente.

Quando Okonkwo vedrà annientare ogni cosa in cui aveva sempre creduto, emergerà tutta la tragicità del personaggio.

Chinua Achebe ha uno stile fluido e pulito. Difficile non divorare il libro. Le descrizioni di personaggi e luoghi sono essenziali, ma tanto bastano a inquadrarli. Ciò che colpisce è l’elevato utilizzo di proverbi, che aiutano a connotare i tratti culturali del clan. Achebe inserisce parecchi termini in lingua igbo che non possono essere tradotti, in quanto non veicolano concetti presenti anche nella cultura europea.

Si tratta, pertanto, di un romanzo allo stesso tempo semplice e raffinato, considerato dalla critica una delle opere di spicco della letteratura africana.

(fasc. 18, 25 dicembre 2017)

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