Sul Baudelaire di Ripellino: primi appunti dai saggi alla poesia

Author di Federica Barboni

Le pubblicazioni che negli ultimi anni sono state dedicate all’opera di Ripellino, raccogliendone per esempio in volume le recensioni letterarie o commentandone i versi[1], sembrano aver definitivamente comprovato l’impossibilità di scorporarne la poesia dalla parallela attività critica e di traduzione. A emergere, man mano che la sua opera viene riscoperta, è infatti la formidabile poliedricità culturale che unisce, collegandole, le molte facce che costituiscono il “prisma” della sua attività, saldandole in un sistema di solida coerenza. Da Praga magica allo Splendido violino verde, da Siate buffi alla curatela delle Poesie di Blok, è sempre possibile verificare come il discorso critico di Ripellino si accompagni alla sua attività didattica e rifluisca nel discorso poetico, mentre l’attività giornalistica risponde agli interessi del traduttore, in un continuo «gioco di specchi»[2], uno «scambio incessante in cui il professore di letteratura russa e ceca, il saggista, il poeta e il traduttore si sarebbero dilettati a scambiarsi i ruoli»[3].

Le prossime pagine muovono da tale premessa per indagare attraverso qualche esempio come la poesia ripelliniana comunichi con la scrittura critica dell’autore, in particolare quella delle prefazioni e delle recensioni letterarie riunite nei volumi di Iridescenze. Solo scorrendo l’indice di questi ultimi è, infatti, già possibile rintracciare diversi titoli che alludono al tema della clownerie, tra i più frequentati da Sinfonietta ad Autunnale barocco[4]. Non è forse un caso, dunque, che le allusioni a clown e saltimbanchi si intensifichino, nelle recensioni letterarie di Iridescenze, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta: Un clown tra i carri armati (1968) è il titolo che Ripellino sceglie, ad esempio, per parlare su «L’Espresso» del buon soldato Švejk, un contributo nel quale la voce del poeta emerge nitidamente quando il giornalista sottolinea che «siamo abituati a leggere come un libro comico il romanzo di Hašek. E ci sfugge che spesso […] la clownerie si fa umore da forca e trapassa in tragedia»[5]. Il finale del passaggio consuona con molti dei versi che, nello Splendido violino verde, tematizzano l’ambigua alternanza di tragico e comico dell’atteggiamento buffonesco.

Un ulteriore ammiccamento alla clownerie si trova in un articolo ripelliniano del 1975, Il piccolo clown e il grande Fratello, che ripercorre l’opera di Michaìl Zòščenko: il titolo scelto risulta eloquente visto che, nel saggio, il tema della clownerie non viene affatto svolto, e tuttavia l’allusione alla natura clownesca dello scrittore può ancora una volta servire a sottolineare la tragicità della sua condizione. I titoli di Iridescenze che rimandano al feticcio ripelliniano per il mondo del circo sono comunque molteplici: nella sezione che include i saggi scritti dal ’71 al ’76 si susseguono La Russia è una giostra, Anche i mimi hanno fame, Lo strillone ha l’ugola stanca, L’acrobata sfida il giocoliere e a pochi anni prima risale Quando Amleto si veste da clown (1970). Sotto quest’ultimo titolo si colloca la recensione al Ritratto dell’artista da saltimbanco di Jean Starobinski, uno studio che, affrontando le declinazioni letterarie e pittoriche del travestimento clownesco dell’artista, deve aver colpito notevolmente il poeta-buffone tragico del Violino verde[6].

Nelle schede critiche ripelliniane emerge con costanza, anche altrove, quel sistema di rifrangenze per cui Ripellino, parlando d’altri, sembra in realtà parlare di sé stesso. Per averne un rapido esempio basti guardare, stavolta, all’Arte della prefazione, che comprende un’introduzione ripelliniana al racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič; qui, il significato epifanico del finale, per cui la morte del protagonista è «una apoteosi che vuol riscattare tutto il nulla dell’esistenza»[7], non convince Ripellino, che prosegue affermando che «c’è in questo terminale bagliore un sì redentorio che non ci entusiasma. Noi non vediamo un granello di albedine in quel nero sacco di tenebre, e ogni illuminazione è posticcia»[8]. L’introduzione risale al 1976: proprio «nulla» è la parola che chiude Lo splendido violino verde[9], pubblicato nello stesso anno, il cui finale esplicita proprio la negazione di qualsiasi «sì redentorio» alla fine della vita, per cui «il Nulla è l’orizzonte negativo che chiude [la raccolta], il buio che cala sul teatro quando il sipario “cade come una ghigliottina”»[10].

Quello offerto è solo un campione minimo, ma basta a farci sospettare che l’interazione fra la voce del poeta e la voce del critico sia dunque caratteristica peculiare e longeva della scrittura di Ripellino. Tornando alla recensione del 1970, Quando Amleto si veste da clown probabilmente rappresenta, in tal senso, uno dei casi in cui lo scambio di ruoli tra lo scrittore e il lettore si mostra in modo più evidente. Il probabile, speciale interesse dimostrato nei confronti del saggio starobinskiano[11] procede anzitutto sulla scorta del comune interesse, di Ripellino e Starobinski, per il tema che vi è trattato: l’attenzione dimostrata dagli artisti, nella Francia dell’Ottocento, per la figura del clown, nella quale sempre più era possibile identificarsi. Nel volume, il critico ginevrino individuava, dunque, un punto di svolta nell’evoluzione della figura del saltimbanco a partire dal caricarsi del riso carnevalesco di una forte ambivalenza, riassumibile nella diade allegria/morte. Lo sviluppo del topos del poeta-saltimbanco, tragicamente declinato, veniva dunque ricondotto all’archetipo del Vecchio saltimbanco, protagonista di un poème en prose di Baudelaire: ignorato dal pubblico, il buffone reietto, ritratto in disparte in un baraccone fatiscente, assume nel poemetto l’identità del poeta moderno[12].

Sin dalle prime righe della recensione al saggio starobinskiano è appunto possibile notare l’emergere della voce poetica di Ripellino, quella che canta la «buffoneria del dolore» e la «vita arlecchina». Spicca per esempio da subito, come già accadeva nella prefazione alla Morte di Ivan Il’ič, l’utilizzo di un’insistita persona plurale: «siamo in pochi ormai a infervorarci per il mondo variopinto del circo», scrive il recensore, per proseguire notando che «un aspetto meno appariscente della clownerie, la disperazione, è il nostro basso continuo». Poco oltre, il tema del volume del critico ginevrino viene riassunto al lettore come segue:

Con partizione che rimanda a Baudelaire, Starobinski discerne nella storia dell’identità tra il saltimbanco e l’artista due momenti contraddittori: volo e caduta, levità aerea e zavorra terrestre. […]. Ma com’è più vicino a noi il clown nel suo secondo aspetto: il clown balordo, che esprime la plumbea gravezza della terra. […]. Di qui il passo è breve alla parvenza del clown tragico, in sfacelo, ‘re di derisione’, il cui costume a lustrini nasconde l’amarezza dell’anima, la miseria della sua condizione[13].

Emerge allora nitidamente, come in filigrana a queste considerazioni, l’immagine di Ripellino stesso, quello che sul finire dello Splendido violino verde, dopo aver constatato che «un tragico è sempre un buffone», «si muta in pagliaccio e folleggia / con quella cosa aperta, con quella caverna, / con quel nòcciolo di ciliegia»[14].

Il gioco di specchi fra recensore, poeta e opera recensita è, quindi, molto solido; le righe di questo saggio lasciano, tuttavia, anche intravedere un certo riflettersi, da parte di Ripellino, nell’opera baudelairiana. La fulminea definizione inclusa nell’articolo, che identifica il clown come un «re di derisione», costituisce, credo, una pseudo-citazione dell’Albatros, «roi de l’azur» in cielo e «comique et laid» in terra, deriso dai marinai. La presenza di questa piccola incursione nelle Fleurs du mal in Quando Amleto si veste da clown, se da un lato rivela che l’albatro, come il Vecchio saltimbanco, viene identificato da Ripellino come simbolo privilegiato della clownerie del poeta moderno, rappresentando precisamente la polarità fra volo e caduta su cui si insiste nella recensione, dall’altro lato suggerisce anche l’ottima confidenza di Ripellino con i testi baudelairiani, visto che nel saggio di Starobinski L’Albatros è solo rapidamente citato e il critico ginevrino non si sofferma sul verso con cui il recensore gioca, «roi de l’azur» ‒ «re di derisione». Tale confidenza può venire ulteriormente confermata dal fatto che proprio L’Albatros dialoga a distanza (ma puntualmente) con il poème en prose menzionato poco sopra, e il punto di contatto, oltre che latamente tematico, è strettamente lessicale: se l’uccello marino sembra infatti «comique et laid»[15], il vecchio buffone è vestito di «haillons comiques»[16]. Che Ripellino espliciti, stringendo il legame fra i testi, il collegamento ideale fra Albatros e Saltimbanque può già suggerire un interesse davvero non superficiale per l’opera baudelairiana. Il saggio di Starobinski risale al 1970; il refrain della buffoneria e del circo risulta già, a quell’altezza, largamente presente nella poesia di Ripellino, ma, visto il grado di somiglianza fra questo saggio critico e lo sviluppo del tema del buffone tragico fra Sinfonietta e Lo splendido violino verde, è possibile a questo punto chiedersi se il Ritratto dell’artista da saltimbanco e la lettura di Baudelaire non possano aver ispirato qualche verso a Ripellino stesso, producendo quell’effetto di “rimbalzo” tra critica e poesia di cui si è detto.

Che la recensione al saggio di Starobinski reagisca nelle poesie dello Splendido violino verde è facilmente verificabile guardando alla lirica 43 della raccolta, nella quale la scena si concentra sulla descrizione di due pagliacci, ritratti in «una sequela di tomboli e burle». Il tema della caduta è esplicitato fin dai primi versi e ripreso circolarmente nel finale del testo, ma la risata a cui l’osservatore è invitato si carica infine di un connotato tragico, dovuto all’asserzione lapidaria che trasforma la scena da circo in una condizione dell’esistenza:

Non essere mesto come l’azzurro mischiato col verde.

Guardali: cascano per farti ridere

Bigoncio e Pancrazio Stornello.

Allez hop! Una sequela di tomboli e burle.

[…]

Pancrazio si rialza e si spolvera,

Bigoncio si spolvera e cade.

Viviamo nella caduta.

E che almeno sia gaia[17].

Gli ultimi versi riprendono da vicino le considerazioni di Quando Amleto si veste da clown, in particolare il passaggio relativo ai «due momenti contraddittori» che caratterizzano la «storia dell’identità tra il saltimbanco e l’artista: […] volo e caduta, ossia levità aerea e zavorra terrestre»[18].

È possibile rintracciare altri echi della recensione ripelliniana anche nella più antica Sinfonietta. Un altro elemento dello studio di Starobinski che deve aver attirato l’attenzione del recensore è, infatti, la connotazione cristologica che il clown può assumere, visto che, nella conclusione del pezzo, Ripellino faceva il punto sulle acquisizioni del critico ginevrino sottolineando che per quest’ultimo «ogni pagliaccio tragico è quasi uno spettro», e che da questa spettralità si diramano due interpretazioni: la prima vuole che il pagliaccio-artista sia una larva demoniaca, che proviene da un altro spazio varcando frontiere vietate e copre il proprio malessere «con un chiacchiericcio cocasse», mentre la seconda ipotizza «che l’olocausto del saltimbanco deriso, l’umiliazione […] siano una replica della passione di Cristo. […] Il Golgota e il tendone del circo sono contigui, e il clown, ovvero l’artista, è una vittima redentrice»[19].

In Sinfonietta, la lirica numero 10 sembra appunto gravitare intorno a una traduzione di tale passaggio:

Colui che deve venire

sarà un clown dal sopracciglio ad arco.

[…]

E se chiudi gli occhi, vedrai a piacimento Parigi

o incrostato di fredda cerussa l’antàrtico

o un’immensa folata di blu Tunisia.

[…]

Tu sei insaziabile come la morte

nel tuo desiderio di vivere

anche così, anche così.

Colui che deve venire

sarà lui pure un gran clown, un amico di Mozart,

un giocoliere volante, pieno di cocasserie[20].

Il riferimento a «colui che deve venire» sembra appunto un’allusione abbastanza esplicita al redentore, quel Cristo che un giorno tornerà sulla terra, qui identificato proprio con un gran clown, «pieno di cocasserie»: persino il lessico concorre, dunque, a rimandare alla recensione dello studio starobinskiano, nella quale il buffone-spettro «che varca frontiere» per Ripellino soffoca «il suo urlo ferino, il suo male», coprendolo – lo si è visto poco sopra – con un «chiacchiericcio cocasse»[21].

L’assetto formale di Sinfonietta 10 è tra l’altro simile, per struttura, alla lirica 43 dello Splendido violino verde: oltre alla stessa perfetta circolarità fra incipit ed explicit («guardali, cascano per farti ridere […] / viviamo nella caduta» e «colui che deve venire / sarà un clown […] / colui che deve venire / sarà pure lui un gran clown […]») viene, infatti, mantenuta l’allusione alla doppia natura del pagliaccio, preconizzata da Starobinski: là, nel Violino, Pancrazio si alza e Bigoncio cade, con un movimento ascensionale e discensionale che ricorda, appunto, il volo e la caduta; in Sinfonietta il clown-Cristo, «colui che deve venire», è di nuovo calato nei panni di «un giocoliere volante», ma ridicolo, ricordando così il pagliaccio spettrale di Quando Amleto si veste da clown e, allo stesso tempo, continuando a giocare con il binomio oppositivo fra alto e basso, aereo e terrestre, nobile e popolare. La datazione del testo può, infine, contribuire a saldare il legame con il saggio starobinskiano. La poesia di Sinfonietta risulta, infatti, composta tra il 1970 e il 1971[22]: la stesura coinciderebbe, quindi, con quella della recensione del Ritratto dell’artista da saltimbanco.

Anche il più diretto tramite di Baudelaire, non mediato cioè dal saggio del critico francese, può però intervenire nello sviluppo del tema del buffone tragico nella poesia di Ripellino. È noto che, spesso, i testi in cui quest’ultimo fa riferimento alla buffoneria, propria o altrui, costruiscono un discorso di metapoetica, e che la stessa pratica del fare versi viene riportata dall’autore alla sfera dell’esibizione acrobatica, clownesca. L’identificazione tra Vecchio saltimbanco e poeta, così come l’aveva raccontata Baudelaire, può essere, insomma, ripresa assieme a un dettaglio essenziale della riflessione baudelairiana: quello della riduzione, in epoca moderna, della poesia a oggetto mercificato, che il poeta caduto in disgrazia si troverebbe costretto a vendere, se pure qualcuno lo volesse comprare. È appunto da questa riflessione che nasce la Musa Venale delle Fleurs du mal[23]. Ripellino sembra alludervi in Sinfonietta 29, della quale spicca appunto il carattere di riflessione metapoetica:

[…]

Non ha nulla a cui attingere la poesia

questo capriccio della disperazione,

ha i piedi freddi, símula ironía

nel suo camerino odoroso di lisci e cerone.

Ha le narici piene di birra inacidita,

poesia-serva, ha bisogno di stufe,

non riesce a scaldarsi, vecchia cocorita,

coperta di piaghe e di brúfoli.

Straccivéndola, vendiparole,

stòlida, inetta, impedita[24].

L’immagine della poesia che tenta di scaldarsi appresso alla stufa rappresenta un prelievo testuale piuttosto esatto dal testo di Baudelaire, in cui la Musa venale cerca «un tizzo per riscaldarsi i piedi violacei»[25]. Il legame tra le due liriche sembra, però, consolidarsi guardando alla conclusione del sonetto francese, visto che lì l’ispiratrice baudelairiana viene descritta nei panni di un «saltimbanque à jeun» che, «pour gagner son pain de chaque soir», mercifica sé stesso, esibendosi sul palco: «Il te faut […] // […] étaler tes appas / Et ton rire trempé de pleurs qu’on ne voit pas, / Pour faire épanouir la rate du vulgaire»[26]. Anche tralasciando la presenza di una plausibile tessera testuale, il nucleo tematico attorno a cui entrambe le liriche gravitano apparirebbe in ogni caso molto simile.

Le suggestioni baudelairiane nella lirica di Ripellino possono persino allontanarsi dall’eredità del tema del poeta calato nei panni di un buffone tragico: Antonio Pane, ad esempio, ha significativamente segnalato come un testo precedente, per stesura, a quelli appena scorsi (risale al 1957)[27] possa riecheggiare, se non effettivamente riscrivere, il sonetto delle Fleurs che avrebbe inaugurato la storia del Simbolismo. I versi di Una grande nuvola dipinta, in particolare i vv. 13-24, sono infatti delle «Correspondances crivellate nel gaudio di uno chassidim. Ressa di immagini orbitanti nell’Uno. Poesia come operazione di conoscenza»:

Tutto somiglia e si ripete. Gli alberi

s’accartocciano in forma di violini,

su cui il vento suona i suoi ballabili,

imperlati di gocce smeraldine.

La nostra vita è una ricerca assidua

di nascoste e preziose affinità:

spuntano come le orecchie di Mida,

svelando il magico della realtà.

Noi versiamo nei suoni e nei colori

un rigoglio di accese somiglianze,

perché sia il verso analogia di gioia

e il quadro identità della speranza[28].

Il testo ha evidenti affinità con il sonetto francese, dagli «[…] alberi / […] / su cui il vento suona i suoi ballabili», che ricordano da vicino l’effetto “magico” dei profumi baudelairiani, «Qui chantent les transports de l’esprit et des sens», alla comunione di suoni e colori (vv. 21-22), che stringe il legame col verso centrale del francese, «Les parfums, les couleurs et les sons se répondent»[29], fino all’esplicitazione del senso dell’intero sonetto delle Fleurs, nella dichiarazione della ricerca delle Correspondances segrete del mondo: «La nostra vita è una ricerca assidua / di nascoste e preziose affinità».

Il discorso intorno all’eredità della poesia baudelairiana – riscontrabile, dunque, nelle liriche di Ripellino sin dalla fine degli anni Cinquanta – si può forse allargare ad altri temi e ad altri ipertesti; è per esempio interessante osservare come, in Sinfonietta 53, il poeta faccia riferimento al colore verde paragonando la fine della giovinezza all’arrivo di una demenza autunnale. Gli astratti a cui il testo si rivolge vengono, dunque, personificati nella descrizione degli occhi dei referenti:

È spenta la giovinezza, sebbene a volte sfavillino

ancora i suoi occhi verdastri e pungenti.

E invece freddi occhi caprini

ha questa autunnale demenza,

questa babele di maschere, in mezzo alle quali indovini

le bolle ectoplasmiche dei conoscenti.

[…]

Quante voci sa indossare la vita, quante

smorfie, ma riso e lacrime cadono nella stessa melma

insalúbre e bruciante[30].

Un paio di «occhi verdi» viene inoltre menzionato in Sinfonietta 67c, ancora a seguito della presentazione di una giovinezza che pare ostinata a resistere:

Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica

come le cicogne dello Zwin.

Ancora mi affligge la sua effigie gotica.

Non resisto agli occhi verdi che mi amano,

io, principe carpatico in rovina.

Con archi rampanti i suoi aguzzi violini

mi indemoniano ancora, mi infiammano[31].

Un tema simile è svolto nel Chant d’automne, nel quale l’arrivo dell’autunno è topicamente paragonato a un “appressamento della morte”: «Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres; // […] Pour qui? — C’était hier l’été; voici l’automne!»[32]. Se, come anticipato, il topos dell’autunno-morte risulta classico, nella seconda parte della lirica viene, tuttavia, interpellato un “tu” femminile che provoca un brusco stacco fra la prima e la seconda strofa, la quale inizia così: «J’aime de vos longs yeux la lumière verdâtre, / Douce beauté, mais tout aujourd’hui m’est amer»[33]. Insomma, anche per quanto riguarda questa lirica, è forse possibile intravedere una pur tenue prossimità del testo ripelliniano a Baudelaire, almeno a partire da un verso, «non resisto agli occhi verdi che mi amano», con inversione fra i referenti (l’io e il tu, nelle rispettive dichiarazioni) ma simile contestualizzazione (l’appressamento della morte nella stagione autunnale, a cui vengono opposti gli occhi verdi di un femminile solo ipoteticamente salvifico). La presenza del modello appare, in questo caso, molto meno stringente; tuttavia, il riferimento al «principe […] in rovina» con cui Ripellino si autoidentifica può anche far sì che si verifichi un fenomeno di diffrazione della fonte, dato che l’immagine potrebbe a sua volta trovare un antecedente nel protagonista dello Spleen LXXVII, testo che similmente si apre con una proiezione identificativa: «Je suis comme le roi d’un pays pluvieux, / Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très vieux»[34].

Concludendo, le facce del “prisma” dell’opera di Ripellino, se da un lato possono comunicare incessantemente con un ampio, variegato sostrato tematico, letterario e culturale, dall’altro riescono sempre a rivelare un sistema fortemente coeso, compatto e coerente. L’ultimo esempio che si propone intende proprio verificare in che modo il “gioco di specchi” della poesia ripelliniana possa proseguire anzitutto entro quest’ultima, da una raccolta all’altra, persino quando sostenuto da spie testuali minime. I primi versi dello Splendido violino verde 32 ripropongono il tema della “perdita dell’aureola”, alludendo al «foggiarsi [del poeta] con rappezzi, “scartabelli” e “sbréndoli”» e al suo «costumarsi Arlecchino»[35]; gli ultimi chiudono il testo sull’immagine di un crepuscolo terminale, silenzioso, nella cui contemplazione il pensiero divaga a considerare altri possibili dimenticati, perduti nella medesima condizione:

Chi potrò salvare con gli stracci dei versi,

con questo ingordo viluppo di inutilezze,

con questa inguaribile malsanìa di parole

[…]?

Assedia anche me il coprifuoco, il deserto lunare.

Penso ai cionchi sprovvisti di grucce,

ai vecchi e ai malati,

agli abbandonati.

Chi li andrà più a trovare?[36]

Il finale del testo pare condividere qualcosa con gli ultimi versi del Cigno, nei quali, dopo una sequenza di interlocutori simbolici chiamati in causa dallo stesso movimento del pensiero (v. 1, «Andromaque, je pense à vous!»; v. 34, «Je pense à mon grand cygne»; v. 40, «Je pense à la négresse, amaigrie et phtisique»; vv. 45-48, «À quiconque a perdu ce qui ne se retrouve / Jamais, jamais! à ceux qui s’abreuvent de pleurs / Et tètent la Douleur comme une bonne louve! / Aux maigres orphelins séchant comme des fleurs!») la chiusa della lirica si costruisce in modo simile: «Je pense aux matelots oubliés dans une île, / Aux captifs, aux vaincus!… à bien d’autres encor!»[37].

Tuttavia, il rimando del Violino «ai vecchi e ai malati», anche se può formalmente richiamare il Cigno delle Fleurs, non ha tanto a che vedere con Baudelaire quanto con la poesia di Ripellino stesso: vi si intravede, infatti, un legame con Sinfonietta e in particolare con l’ultima lirica della raccolta, nella quale il richiamo anaforico ai «vecchi» e ai «malati» fa quasi da ritornello:

L’inverno pèrfido abbranca

sul Gran Paradiso camosci e stambecchi.

Scendono a valle i superstiti a branchi.

Soccombono i deboli, i malati, i vecchi

[…]

Scendono a valle, braccati

dai cacciatori di frodo.

Soccombono i deboli, i vecchi, i malati,

si buttano giù dai dirupi, dirupano da crude crode.

In questo bianco, cinèreo dies irae,

nella nera demenza del bianco,

agli stambecchi e ai camosci che brancolano

sull’ altezzosa montagna corrusca

portate, vi prego, manciate di fieno e di crusca,

non li lasciate morire[38].

La poesia conclude Sinfonietta in modo inaspettato: non si era sino ad allora fatto riferimento agli stambecchi del Gran Paradiso. Tuttavia, è forse possibile intravedere, anche in questo testo, una riflessione metapoetica, che non si sviluppa propriamente nei termini di un appello alla resistenza della poesia ma che fa piuttosto riferimento alla resistenza di una sensibilità, che forse continuerà a rendere possibile, nel contemporaneo, persino l’esercizio desueto della scrittura in versi. Si tratta di quella stessa sensibilità che, a ben vedere, oltre alla poesia rende anche le traduzioni, le prefazioni e le pagine critiche ripelliniane così immediatamente riconoscibili: perché, come ha scritto Alessandro Fo, Ripellino «si sentì sempre, e a buon diritto, un poeta, e con questo spirito affrontò ogni pagina che si accinse a scrivere, indipendentemente dal genere, dalla sede o dalla destinazione»[39].

  1. Mi riferisco ad A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di U. Brunetti e A. Pane, voll. 2, Torino, Aragno, 2020; Id., L’arte della prefazione, a cura di A. Pane, Pisa, Pacini, 2022; Id., Lo splendido violino verde, a cura di U. Brunetti, Roma, Artemide, 2021.
  2. Con questa espressione Umberto Brunetti introduce A. M. Ripellino, Iridescenze, vol. 1, op. cit., p. XIX.
  3. R. Giuliani, Angelo Maria Ripellino e la sua “malsania”, in Catalogo di un disordine amoroso, a cura di M. Bonincontro, Chieti, Vecchio Faggio, 1988, pp. 384-94: 384.
  4. Sul tema, cfr. almeno G. Ceronetti, Ripellino poeta, in «Paragone», 252, 1971, pp. 7-23, in particolare le pp. 17-19.
  5. A. M. Ripellino, Iridescenze, vol. 2, op. cit., p. 593.
  6. Brunetti stesso fa riferimento all’«importanza baudelairiana nella definizione dell’archetipo del clown tragico», per la quale rimanda allo studio di Starobinski di cui si è appena fatto menzione (U. Brunetti, Introduzione, in A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 52, n. 69), e sottolinea che Ripellino «si collega […] alla lunga tradizione del simbolismo che, a partire da Baudelaire, identifica l’artista nel clown malinconico» (p. 52).
  7. A. M. Ripellino, L’arte della prefazione, op. cit., p. 104. È mio il corsivo.
  8. Ibidem.
  9. Riporto i vv. 14-17 dell’ultima lirica, n. 86: «Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla. / O vita, Anna Schygulla, / sciantosa di varietà, sulla riva / del Nulla», in A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 293.
  10. U. Brunetti, Introduzione, in A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 68.
  11. Testimoniato anche dal fatto che, fra le recensioni raccolte in Iridescenze, se ne trovano pochissime dedicate alla letteratura francese.
  12. È il finale del poemetto: «E mentre me ne ritornavo, ossessionato da quella visione, cercai d’analizzare il mio dolore improvviso, e dissi tra me e me: ho visto ora l’immagine del vecchio uomo di lettere, sopravvissuto alla generazione di cui fu l’intenditore brillante; del vecchio poeta […] degradato dalla miseria e dall’ingratitudine pubblica: e nella sua baracca la gente senza memoria non vuole più entrare!»: C. Baudelaire, Poemetti in prosa, a cura di P. Tucci, Roma, Carocci, 2019, p. 81. Per quanto riguarda il saggio del critico ginevrino, J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di C. Bologna, Milano, Abscondita, 2018, e la connotazione tragica che la figura del buffone assume a partire da Baudelaire, cfr. almeno p. 75: «la sua elaborazione letteraria [di Baudelaire] […] corrisponde allo sviluppo di una drammaturgia intima, e approda a un’immagine infinitamente complessa della condizione del poeta e della poesia. Baudelaire […] ha attributo all’artista, nei panni del buffone o del saltimbanco, la contraddittoria vocazione dello slancio e della caduta».
  13. A. M. Ripellino, Quando Amleto si veste da clown, in Id., Iridescenze, vol. 2, op. cit., p. 679.
  14. È la lirica 74, inclusa in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane e C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, p. 279.
  15. V. 10: «Lui, naguère si beau, qu’il est est comique et laid!», in C. Baudelaire, Œuvres complètes, edité par C. Pichois, Paris, Gallimard, 1975, p. 10.
  16. C. Baudelaire, Poemetti in prosa, op. cit., p. 80 (sono miei i tondi).
  17. Leggo il testo da A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 243.
  18. A. M. Ripellino, Quando Amleto si veste da clown, op. cit., p. 678. Il rimando appare esplicito; U. Brunetti vi fa menzione in A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 183: «I due “barilotti e villani” appartengono entrambi alla stirpe dell’augusto, il “clown balordo” che, come scrive Ripellino recensendo Potrait de l’artiste en saltimbanque di Starobinski, esprime “la plumbea gravezza della terra” ed è incapace di levarsi in alto perché “lo affascina il gouffre d’en bas”».
  19. A. M. Ripellino, Quando Amleto si veste da clown, op. cit., p. 670. Sulle connotazioni cristologiche della figura buffonesca, in particolare del Pulcinella impiccato delle tele di Tiepolo, torna G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Roma, Nottetempo, 2015; sulle connotazioni simboliche che rimandano alla divinità legate alle origini delle maschere carnevalesche cfr. anche E. Chiaravelli, Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti. Dallo sciamantismo alla “caccia selvaggia”, Roma, Bulzoni Editore, 2007. Entrambi gli studi sono citati e brevemente discussi, assieme al volume di Starobinski e all’archetipo baudelairiano per il tema del clown-artista, in F. Barboni, Lo spleen di Pulcinella. Appunti su lirica e buffone tragico, in «LEA. Lingue e letteratura d’Oriente e d’Occidente», 9, 2020, pp. 317-30, a cui mi permetto di rimandare dal momento che il presente contributo costituisce l’ideale prosecuzione di quell’intervento.
  20. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 114.
  21. A. M. Ripellino, Quando Amleto si veste da clown, op. cit., p. 680.
  22. Cfr. A. Pane e C. Vela, Bibliografia degli scritti poetici di A. M. Ripellino, in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 313.
  23. Cfr. la nota di L. Pietromarchi al testo, in C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di L. Pietromarchi, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 410-11: «la musa accede alla modernità nel segno dell’impoverimento e della degradazione. […] Sono entrambe figure [la Musa venale e l’Albatros] che esprimono la volontaria sottomissione della poesia ad un presente asservito alla legge del mercato e, nell’ultima terzina, dello spettacolo. Il povero saltimbanco del v. 12 [«Ou, saltimbanque à jeun, étaler tes appas», a p. 88] conoscerà […] una lunga vita, e sempre recherà, nel contrasto tra riso e lacrime (v. 13), le stigmate baudelairiane della dignità offesa dell’artista».
  24. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 133. Il testo è brevemente commentato da F. De Nicola, Sulla poesia di Angelo Maria Ripellino, in Operai di sogni. La poesia del Novecento in Sicilia, a cura di G. Raboni, Randazzo, Comune di Randazzo, 1985, pp. 161-81, come emblematico della perdita di fiducia nella poesia, «deprecata per il suo ruolo ammaliatore di vana salvezza», (p. 174).
  25. C. Baudelaire, I fiori del male, op. cit., p. 87. È il v. 4 del sonetto: «Ô Muse de mon cœur, amante des palais, / Auras-tu, quand Janvier lâchera ses Borées, / Durant les noirs ennuis des neigeuses soirées, / Un tison pour chauffer tes deux pieds violets?», che leggo da Id., Œuvres complètes, op. cit., p. 15.
  26. Ibidem.
  27. Lo segnala ancora A. Pane, Notizia, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, Torino, Aragno, 2006, p. 507.
  28. Il testo è incluso nei Versi inediti e rari inclusi (a p. 434) e sono appunto menzionati da A. Pane, Introduzione, in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. XXIV.
  29. Leggo il testo francese da C. Baudelaire, Œuvres complètes, op. cit., p. 11.
  30. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 157.
  31. Ivi, p. 173.
  32. C. Baudelaire, Œuvres complètes, op. cit., pp. 56-57.
  33. Ivi, p. 57. È mio il tondo.
  34. Ivi, p. 74.
  35. A. Pane, Introduzione, in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. XV.
  36. Ivi, p. 188.
  37. Leggo questi e i precedenti vv. da C. Baudelaire, Œuvres complètes, op. cit., pp. 85-87.
  38. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, op. cit., p. 188.
  39. A. Fo, Storia di Ripellino – prima parte, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», X, 1989, pp. 109-30: 109.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)