ANGELO MARIA RIPELLINO POETA. Appunti

Author di Salvatore Presti

Tiens! l’Univers

est à l’envers!

-Tout cela vous honore.

Lord Pierrot, mais encore?

Jules Laforgue, Complainte de Lord Pierrot

A Jacques Rivière, editore della rivista «Nouvelle Revue Française» che gli consigliava di pubblicare la loro corrispondenza con particolare riferimento alla lettera del 29 gennaio 1924, definita «veramente ragguardevole»[1], il giovane Antonin Artaud tenterà di spiegare che

Un uomo si possiede per schiarite, e anche quando si possiede non raggiunge se stesso completamente. Non realizza quella coesione costante delle sue forze senza la quale ogni vera creazione è impossibile. Eppure quell’uomo esiste[2].

Ed è pur vero quanto Angelo Maria Ripellino sostiene a proposito del poeta francese:

Lui stesso recitava la propria esistenza: «J’assiste à Antonin Artaud» asserisce in Le Pèse-nerfs. Faceva spettacolo di ogni sua azione. […] È triste pensare che l’esuberante e caparbia teatralità, la mania di spettacolo che lo possedeva si sia dispersa in frantumi di inattuati progetti, in tentativi falliti, in manifesti, in ruoli episodici[3].

E mi veniva da pensare esattamente a questo, riflettendo sulla figura del poeta e critico palermitano, che, se un uomo si possiede per schiarite, lo sforzo di tutta una vita per il famoso slavista è stato quello di realizzare, attraverso schiarite successive, la creazione possibile data dalla coesione di interessi diversi uniti da un’unica stupenda sensibilità.

A proposito di Esenin, nell’Arte della fuga, Ripellino scrive:

È che la critica è un ‘travesti’ di romanzo e poesia, un alibi. Il critico dissimula una parte di sé e trucca a suo modo in parte gli autori che si studiano, e li illumina attraverso le proprie predilezioni o i propri ‘difetti’ (non c’è, credetemi, esattezza scientifica). Ogni ‘prelievo’ è una reinvenzione del ‘sistema’ del poeta in cui un lettore critico versa tanto di se stesso [4].

In questo passo la reciprocità tra la cosa studiata e il critico che ne scevera i significati viene svolta attraverso l’idea che il prelievo reinventi la cosa stessa, ne renda creativamente la sostanza.

Ovviamente Ripellino parla di sé, e del suo alibi, e questa preoccupazione ha un filo conduttore che da una battuta di Wilde, secondo cui ogni critica è autobiografia[5], passa per Sainte-Beuve che commenta Montaigne e lo dice preoccupato solo «della propria opera che si compie attraverso l’opera dell’altro, e qualche volta a sue spese»[6]. Sainte-Beuve smetterà di scrivere poesie, ergendosi a critico di sé stesso, e Marina Cvetaeva ne loderà il comportamento[7], aggiungendo – nella parentesi di un ragionamento condotto contro il critico N. che le aveva contestato la capacità poetica – una cosa per noi oltremodo degna di attenzione:

(Cos’altro è la poesia di un critico di poesia, scaltrito da tutti gli errori altrui, se non un modello? E – di perfezione? Chiunque pubblichi dei versi con ciò stesso dichiara: «sono buoni». Ma il critico, quando pubblica i suoi con ciò stesso dichiara: «sono esemplari». E dunque: l’unico poeta che non merita indulgenza è il critico […])[8]

Quella che potremmo chiamare “naturale” mancanza di indulgenza nei confronti del critico che si professa poeta è stata esercitata contro il Nostro da più parti, e continuamente. Giovanni Raboni dichiarerà di aver giudicato la poesia di Ripellino come «la valvola attraverso la quale, legittimamente e impropriamente, si sfogava il troppo pieno della sua genialità critica»[9].

Di sfoghi impropri è piena la grande letteratura, ma no, le poesie per Ripellino non sono sfoghi, sono pura energia che attraversa la vita per quel tanto di sorprendente o scontato che essa ha. Oppure si pensi al giudizio di Calvino, di una poesia «fuori dal tempo» e in ritardo sulla propria epoca[10], con cui l’autore del Barone rampante rende la maledizione dell’outsider[11], scordando che lo spirito del tempo è solo un grande fraintendimento generazionale, un abuso con cui contrassegniamo di volta in volta la nostra periodica (e attuale) ricerca di un senso.

Ripellino, relegato a fare lo slavista per scelta propria ma altrui, si confessa in un passo ormai famoso:

Noi viviamo dentro caselle da cui gli altri non ci permettono di uscire. Noi siamo solo l’immagine che gli altri hanno costruito di noi. Per anni e anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scriverne. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere[12].

Sostenere che gli altri non ci permettano di uscire da caselle predeterminate che abbiamo contribuito noi stessi a costruire non è solo lamento pirandelliano sulla differenza tra vita e forma o sulla molteplicità frammentata dell’io spacciata per unità, è viceversa il grido di un intellettuale fondamentalmente incompreso nella sua essenza.

Sappiamo, tuttavia, che il Ripellino critico non può prescindere dal Ripellino poeta, che il suo gusto alchemico lo porta alla commistione che reinventa le cose. E il poeta è puro proprio grazie alle sue multiverse frequentazioni e agli “attraversamenti” di cui è capace.

«Lei è poeta? Allora non è scrittore. / Ma se è critico, come può esser poeta?»[13]. Per uno scrittore che ha predicato la trasversalità e la contaminazione come modi privilegiati del sapere e della sua complessità, sembra paradossale la condanna alla briglia che questa prospettiva contiene. Perciò, la proclamata morte della critica suonerà, piuttosto, come la liberazione da un confine o da una prigione: «Judith, mia cannella, mia tortora, / anch’io un tempo ero un critico, e molto stizzito, / ma ora, deogratias, la critica è morta»[14]. Ripellino, esiliato nella critica, ne annuncia il superamento e l’indifferenza e, trasformandosi da «grancassa»[15] in «fievole primo violino»[16], scopre quella verità appena sussurrata ma definitiva: che il poetico è nel sottile, nella vita che diventa flebile, e che timida è la finzione attraverso cui è possibile accogliere il mondo. Così si giustifica la morte quotidiana, si assolvono i ricordi e si trova pure (per sovrappiù) il modo di ridere, trascinando lo sguardo prima immobile (o spento), allenando l’orecchio, agendo come in sospensione: «[…] Trattieni col fiato / i fili bui della vita che si consuma»[17].

Eppure, per dirla con Valèry, «un io è convergenza, e variazioni»[18] e le “ripellinie” comportano sempre la convergenza dei molteplici interessi e le variazioni come ars combinatoria, ricerca di spazi interstiziali in cui sopravvivere, ricerca di linee intertestuali che diano ossigeno all’interpretazione per accostamenti mai forzati, tesi a superare il canone o la rigidità del fatto culturale. Ogni volta si ha la sensazione che a Ripellinia si proceda per innesti, per superfetazioni, frequentando uno spazio di libertà che solo la grande conoscenza delle lingue e l’immensa erudizione possono consentire.

Lo stesso titolo del libro incompiuto, L’arte della fuga, sottolinea la direzione seguita dal critico, il suo percorrere i generi in parte reinventandoli; l’abilità, che è di pochi, di raggiungere la verità di un autore o di una cosa anche parlando d’altro, per aggiunte progressive, per apparenti deviazioni o in equivoco, arrivando di lato al nocciolo della questione attraverso lo scarto.

D’altra parte, l’incapacità dichiarata di tenere a bada i rimorsi fa sì che lo scrittore siciliano agisca sempre come in fuga, la sua essendo una stanchezza esistenziale professata come momento della cattiva coscienza del ribelle, del poeta «[…] naviglio in perenne avaría / così ligio al rituale della depressione […]»[19].

La vita scolora mostrandosi con residua autenticità e «[…] il mondo si sbriciola a guardarlo troppo»[20]: l’ardente certezza raggiunta osservando un oleandro sul punto di dar via i petali lo induce a riflettere sulla potenza dello sguardo che «[…] denuda lo sfarzo mendace del creato»[21]. Ma ancora una volta l’idea di reciprocità interviene a mettere tutto in discussione «[…] tu pure sei fragile / e polvere, se ti osserva un oleandro»[22].

L’inversione, lo spiazzamento sembrerebbero nietzschiani. Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male dal titolo Detti e intermezzi, il filosofo tedesco aveva spiegato che, se guardi l’abisso, l’abisso ti guarderà dentro, ne risulterai contaminato e stravolto[23]. Il mondo esiste alla maniera del reverendo Berkeley secondo cui esse est percipi, il mondo esiste perché percepito. Ma, nell’inversione, a esistere è chi guarda proprio perché viene guardato a sua volta.

Intercetta, questo spostamento di senso, una folgorazione di Giulio Paolini, il quale, fotografando il Ritratto di giovane uomo di Lorenzo Lotto, gioca con l’inversione restituendo una verità diversa all’arte e alla vita. Il titolo della foto, meravigliosamente provocatorio, è infatti Giovane che guarda Lorenzo Lotto, dove lo spiazzamento non è solo nel titolo scelto, ma nell’autostrada di senso che quel titolo apre. Così Ripellino scruta ed è scrutato in un unico movimento, ma questo movimento diventa appartenenza. Ripellino a Praga è Praga, la città magica, multiforme, che lo accoglie in ogni sua manifestazione, ed egli ne riproduce fedelmente le mappe geografiche e intellettuali, ne scova la dimensione onirica, ne succhia la storia in un costante dialogo con cose e uomini, con scrittori e monumenti.

E perciò come potrei scrivere con distaccata e sussiegosa dottrina, in bell’ordine, un esauriente trattato, soffocando la mia irrequietezza, il mio argentovivo col rigor mortis dei metodi e con la lana caprina delle pedanti disàmine? Vado invece intessendo un libro a capriccio, un agglomerato di meraviglie, di anèddoti, di numeri eccentrici, di brevi intramesse e di pazze giunte […][24].

Passeggia accanto a Kafka e ne ripercorre i vagabondaggi notturni e Franz è con lui perché la sua anima sopravvive tra le strade. Segue la zoppìa di Gustav Meyrink, e scruta la teatralità di Praga, che viene fuori dalla sua architettura, e ne coglie le contraddizioni e la multiformità, in cui commedia e tragedie si intersecano in un tutto indissolubile[25]. Praga è città «in cui gli spettri corseggiano senza riposo e si propagano a guisa della mal’herba»[26], che è già densa immagine poetica. Ma la città vltavina ci viene restituita attraverso il flusso, la corruzione, il lento scadere delle cose nel nulla, la memoria, le nebbie, i vicoli deserti, la vita vista a tratti come un approssimarsi, attraverso la dispersione, alla morte o alla notte che restituisce appendici d’esistenza ai grandi personaggi scomparsi e agli eventi accaduti la cui eco sopravvive tra le mura.

Errerebbe, tuttavia, chi pensasse che in Ripellino la parola è salvifica, che attraverso la memoria e le parole si possa succhiare vita al tempo. Egli sa che così non è, e ci avverte: «Le parole sparute che io scrivo / non hanno virtú di salvarmi»[27], servono piuttosto a costruire una «meschina eternità»[28], a impagliarsi in una nicchia, sorte, la sua, di un cavallo ammaestrato, dirà appena sotto, che danza la vita. Sarebbe bello poter vedere l’eternità come la ripetizione amplificata di ogni singolo atto, pensiero, parola avuti in vita, di ogni gesto, delle intuizioni, dell’intenzione che non si traduce in atto e perciò ritorna. Lo svolgersi della vita nella dimensione postuma dell’essere ancora. Le parole disperdono e si disperdono, dunque, ma l’invito alla rassegnazione nasconde ancora un respiro di libertà.

Rassègnati ormai: ciò che è dissipato non torna.

Eppure era bello, signor Vanellino: hai destato

vòrtici di ingannevoli mantelli,

e amori e fervori e sussulti e incantamenti[29].

La vanità di Ripellino sta tutta nel disagio dell’inganno con cui affronta l’illusione che la parola poetica possa rendere il cedimento dei fatti di vita, possa in qualche modo alleggerire il peso del flusso o evitare il pericolo dell’azione.

La vita si danza, sì, con difficoltà ma con la levità del gioco, usando l’arma dell’ironia per rendere leggero ciò che è pesante. È proprio della morte (anche della morte!) emettere un «clownesco biancore»[30] “ballettando” su un carro funebre.

Di ironia funeraria l’autore scriverà, avvertendoci che «Anche le esequie sono un giuoco»[31] e che «saltimbanca»[32] è la sua poesia. Lo aveva rivelato in apparente contraddizione, appena prima:

Chi dice che io ami le maschere di orrida calce, i pierrots lunari, le cere,

i violini di Krespel avvolti di nero crespo,

io, scrittore faceto e motteggévole,

negato al pianto, non saltimbanco, non mesto?[33]

«Pierrotici»[34] erano gli anni della giovinezza e a un Pierrot lunare, dunque, il poeta finisce col paragonarsi, con evidente riferimento alla marginalità del Pierrot lunaire di Laforgue. E, come per Laforgue, per Ripellino Pierrot è una sorta di doppio, il riferimento ermeneutico necessario proprio di chi ha «Le cœur blanc tatoué / de sentences lunaires»[35]. Una condanna alla notte, all’umbratilità che non cerca la luce ma ne ha nostalgia come di condizione appena sfiorata e già persa.

La sostanziale reciprocità in Pierrot dell’elemento triste e di quello comico (o farsesco), la sua riconoscibilità, il bianco e nero del suo costume così facilmente assimilabile al bianco e nero dell’esistenza, affascinano Ripellino e riflettono in parte le sue intenzioni poetiche, lo scherzo in tono minore, il sarcasmo, la tragedia che muove al riso, l’assenza di malizia, il disorientamento, il gioco. In un giudizio sull’opera giovanile di Majakovskij troviamo la verità dell’arte poetica di Angelo Maria Ripellino: l’opera è «un continuo oscillare tra il ghigno clownesco e gli spasmi della crocifissione»[36], con la malattia in sottofondo, aggiungiamo, e la sana strafottenza di chi non ha più niente da chiedere all’esistenza e perciò si permette di sbertucciarla.

Come per Laforgue, si tratterebbe di un riso glaciale che ricorda l’instabilità tonale di un altro Pierrot lunaire, quello di Schönberg, in cui – attraverso lo Sprechgesang, il canto parlato – viene riprodotta disarmonicamente l’afasia del sogno, la sua irrazionalità. La politonalità[37] è di per sé stessa una rinuncia alle convenzioni musicali e apre alla mescolanza dei suoni e alla variazione dei registri espressivi.

In particolare, dalle 21 liriche del Pierrot lunaire composto nel 1912, emergono le caratteristiche di Pierrot: dal primo Lied al settimo, la dimensione è sognante, Pierrot è poeta romantico che dialoga con la luna, ma è idillio destinato a essere spezzato dalla furia della notte. Il gruppo di Lieder 8-14 mostra il lato macabro delle frequentazioni notturne della maschera. Le liriche dalla 15 alla 21 hanno del clownesco e sottolineano l’ambivalenza[38] della figura. Tratti che riconosciamo nei modi con cui Ripellino affronta l’arte e la critica, e con esse l’esistenza.

Anni dopo, in Das letze Varieté il poeta riprenderà l’immagine:

Nella mia tristezza entravano masnade

di pierrots, di pagliacci, di stracci sgargianti,

ma soprattutto ragazze dal muso di topo,

argentee donnine di pasta lunare,

gentiluzze con occhi come bragia di fuoco,

desiderabili, desiderabili[39].

Lo sguardo è spinto al limite, le “masnade di pierrots” malinconicamente si alternano alle immagini di ragazze che paiono circuire il poeta, di donne che rimestano torbidamente nei sensi, ma è un gioco, un alternarsi di sequenze. La prevalenza del pagliaccio, immagine che ritorna nei componimenti con una frequenza straordinaria, indica la mancata permanenza in uno stato, lo scherzo che illude e allontana, il divergere, la variazione propria della burla o del trastullo, a rendere quella «buffoneria del dolore» che in Ripellino è cifra esistenziale privilegiata.

Dov’è il mio furore di vivere, il mio barocco?

Stanco, mi fermo a guardare con invidia talvolta

la dolce follia dei bambini che giuocano[40] .

Anche l’attesa (della morte? della vita? «Tu sei insaziabile come la morte / nel tuo desiderio di vivere»[41]) rischia di essere attesa clownesca di un clown: tra i primi versi di Sinfonietta scopriamo che «Colui che deve venire / sarà un clown dal sopracciglio ad arco», «[…] un amico di Mozart, / un giocoliere volante, pieno di cocasserie»[42]. Lo spirito buffonesco si ravviva nell’elemento del ludo presente a più riprese nella raccolta, per esempio «Un lupo nero addenta la luce, / ma niente paura: è il giuoco di un ombròmane»[43], parola quest’ultima usata anche per descrivere il lato onirico di uno Stanislavskij la cui maniacalità era avversata dalla vecchia guardia di attori «[…] che mal sopportavano di trasformarsi in parvenze da ombròmane, di svaporare nel nero velluto o di servir da arabeschi agli scenografi stilizzatori»[44]. In Ripellino l’ombra è un’estensione (anche psicologica) degli oggetti, ne condiziona la fruibilità, ed è anche luogo in cui stare, da frequentare o da cui osservare il mondo[45]. Esercito d’ombre, come gli invitati al matrimonio che ruttano tutta la loro malevolenza, le parole. E «un invitato che stenta ad esprimersi […]»[46], si sente l’autore; dicendosi ospite della propria lingua, racconta la sua sfida alla lingua perché non inganni e alle parole perché suonino e si infiammino.

Questo gusto evidente per la teatralizzazione[47] lo porta, allora, a giocare con città, cose, autori, artisti, situazioni, costruendo così una narrazione che contenga riferimenti ad altro, che vada per assonanze, che usi la paronomasia come strumento di un gioco artificioso fondamentale per l’indagine sulla phoné che presuppone. La poesia è, allora, momento necessario di una distruzione che rompe le regole, ridiscute la cosiddetta realtà, la inchioda a una sospensione problematica, cogliendone le contraddizioni: «Sei della stirpe dei dèmoni e dei giocolieri»[48]. E la ricerca di un equilibrio ne esige, per contrappasso (o come contravveleno), la perdita. Anche in questo troviamo una distorta reciprocità:

l’equilibrio invoca un distruggitore,

un uragano che rompa le norme del giuoco,

qualcosa che mandi in frantumi, in malora

lunghi anni di consuetudine[49].

Se l’ultima lirica della Fortezza d’Alvernia, la seconda opera poetica consegnata alle stampe nel 1967, si era chiusa con un inno al “vivere nonostante” ottenuto attraverso la ripetizione esasperata della parola «vita»[50], le due raccolte, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, si chiudono rispettivamente con la parola «morire», lì riferita a stambecchi e camosci del Gran Paradiso, e con la parola «Nulla».

agli stambecchi e ai camosci che brancolano

sull’altezzosa montagna corrusca

portate, vi prego, manciate di fieno e di crusca,

non li lasciate morire.

(Sinfonietta, 82, p. 188)

Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla,

O vita, o Hanna Schygulla,

sciantosa di varietà, sulla riva

del Nulla

(Lo splendido violino verde, 86, p. 292)

L’invocazione disperata, ancora una volta, si risolve in malinconico scherzo: la musa di Fassbinder, «sciantosa di varietà», viene evocata sulla rima del Nulla.

E sembrerebbe, il riferimento al morire e al nulla, quasi un commento alla chiusa di Notizie dal diluvio, in cui, in un mondo che ignora la sofferenza umana, il poeta si obbliga (si invita?) a fermare «[…] lo sguardo sgomento […] / sull’estranea bellezza di questa caraffa in cui luccica / tutto il ghiaccio del mondo»[51], indicando così la dissoluzione di tuttecose, cui corrisponde la fragile resistenza dell’uomo e della poesia. Credo che il componimento abbia più di un’assonanza con Funeral blues di W. H. Auden. Per il ritmo innanzitutto, poi per l’uso delle forme imperative. In Ripellino: «Lascia perdere», «Osserva», «Ferma»; in Auden: «Stop», «Prevent», «cut», «Silence». Infine per il riferimento al cane: «Prevent the dog from barking with a juicy bone», ‘Con un osso succulento proibite al cane di latrare’, in Auden[52]; «Tu pensi che quando cresca il tuo male […] si proibisca ai cani di latrare», in Ripellino.

Se, secondo Danilo Kiš, «L’enumerazione è soprattutto la riduzione di un oggetto a immagine del mondo. Nominare significa creare»[53], la frequenza degli elenchi ripelliniani è un aspetto importante della sua creatività. Perché Ripellino sente il bisogno di elencare, di mettere in fila? Può questa tendenza interpretarsi anche qui nel senso della ricerca di una reciprocità tra sé e il mondo? O è solo una via tracciata? Può essere l’accumulo il segno di una visione della realtà e dunque della poesia?[54]

In una critica a Mandel’štàm, dopo averne rilevato il gusto per le classificazioni, chiamerà «distacco da inventario»[55] l’atteggiamento del poeta russo nei confronti dell’apocalisse in atto in seguito alla rivoluzione. È lo stesso distacco, a ben vedere, con cui Ripellino elenca gli spazi, rende il vortice degli eventi che si susseguono, nomina cose che si accavallano, lavora per accumulo, quasi organizzando improbabili tassonomie o accumulando tracce sonore, costruendo insomma trame fonetiche contrassegnate dal gusto per le corrispondenze.

Fin da Notizie dal diluvio, la sua è un’estetica dello smottamento raggiunta attraverso la sovrapposizione di piani che tuttavia non reggono all’urto delle parole, o del sentimento. Lo smottamento ha bisogno, com’è ovvio, di un precedente accumulo. Facciamo qui un esempio, ma potrebbero essere millanta.

Tiriamo fuori dai solai tube e cilindri,

altissime mitre a cassetti, marmitte, pamele,

cupole con ali d’uccellacci,

morioni-catenacci, bacinetti sfondati,

pani schiacciati, panieri con fiorellini e pistacchi,

àrnie di felpa, tricorni per guitti senili,

colbacchi a scacchi, tiare da tetrarchi,

grétole di marabú, baldacchini di velo,

feluche fossili, chepí, cuffie, zucchetti.

Sul cranio calvo della terra

come una guerra di Fiandra fiammeggia il cielo[56].

Rispetto al crescente agglomerato di cose che coprono e contengono, lo smottamento è qui causato dal riferimento alla guerra e dall’invocazione all’ennesimo copricapo:

Cappello-demonio, tu che trasformi gli aspetti,

ferma le stragi della mia generazione, ferma gli scaltri,

quelli che mandano gli altri a morire,

restituisci il sorriso ai nostri occhi deserti,

[…][57]

Per applicare a Ripellino quel che egli sostiene su Mandel’štàm, le stesse «cattedrali verbali» costruite «con una attenzione spasmodica ai particolari, ai piccoli nulla»[58], introducono (conducono) all’adulterata perdizione propria di chi non cerca il senso della vita, piuttosto ne reclama il consenso, ottenendolo attraverso gli elenchi reiterati e solo in alcune formidabili epifanie.

Così andarsene, o fuggir via, oltre i confini, a mimare (a fingere) una primavera d’accatto è cifra esistenziale ineludibile che viene costruita attraverso l’accatastamento. L’agglomerato straripa, invade la mente e suscita sensazioni particolari, indecidibili, infine frana. Poetico è, allora, questo sovrapporsi di attimi che scontano congiunture e replicano con una propria piccola musica le sonorità consuete dell’esistenza, e ogni variazione altro non è che una strada, scontata, sconfinata, sottile – una strada che conduce a una tana. Anfratti sono le idee sovrapposte che bucano il cervello e vi si ostinano contro, e bussano per uscire.

E i colpi sono tuoni, o tosse.

  1. A. Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H. J. Maxwell e C. Rugafiori, Corrispondenza con Jacques Rivière, lettera di Rivière del 24 maggio 1924, Milano, Adelphi, 2009, p. 21. Il volume vuole essere una silloge in grado di fornire al lettore le indicazioni più probanti della parabola ascendente/discendente di Artaud, dai suoi rapporti con sé stesso, con l’editore, alla sua scoperta del peyotl.
  2. Ivi, lettera di Artaud del 27 maggio 1924, p. 22.
  3. A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di U. Brunetti e A. Pane, 2 voll., Torino, Aragno, 2020, II, Crudeltà di prima mano, pp. 689-91: 691.
  4. A. M. Ripellino, L’arte della fuga, a cura di R. Giuliani, Milano, Guida, 1987, p. 158, corsivo mio.
  5. «La più alta come la più bassa forma di critica sono una specie di autobiografia»: O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, trad. G. Luciani, in Id., Opere, a cura di M. d’Amico, Milano, Mondadori, 1996, pp. 5-241: 7.
  6. C. A. De Sainte Beuve, Teoria e critica, Milano, Bompiani, 1945, p. 364.
  7. «Sainte-Beuve critico che condanna Sainte-Beuve poeta è il grado massimo dell’infallibilità e dell’impunità del critico», in M. Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 1984, p. 12.
  8. Ibidem.
  9. G. Raboni, Per Ripellino, in Angelo Maria Ripellino poeta-slavista, Atti del Convegno di Studi di Acireale (9-12 dicembre 1981), a cura di M. Grasso, in «Lunarionuovo» V, 21-22, 1983, pp. 133-35: 134, corsivo mio. Il titolo da me scelto per il presente saggio si riferisce all’epitaffio che Angelo Maria Ripellino ha voluto sulla sua tomba nel quale sta il senso di una ricomposizione, di un’eversione e di una protesta portate avanti proprio contro la narrazione diffusa che nega al grande critico la possibilità di essere grandissimo poeta.
  10. I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 493.
  11. Nell’accezione chiarita da Colin Wilson, L’outsider, Roma, Atlantide edizioni, 2020, “outsider” è l’autore fuori contesto, oltre la sua epoca, che assume la vita e la risputa dopo averne succhiato gli umori.
  12. A. M. Ripellino, Congedo in Id., La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli, 1967, p. 133.
  13. A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde: Don Pasquale, in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane e C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, n. 52, p. 256. Nel presente saggio farò riferimento principalmente alle tre raccolte riunite in Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, utilizzando gli altri scritti e in ispecie quelli del Ripellino critico e chiosatore come il sottofondo esegetico che permetta di comprendere al meglio alcune delle linee poetiche che seguirò qui.
  14. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Lo splendido violino verde, op. cit.: Das letze Varieté, n. 34, p. 234.
  15. Ivi, n. 37, p. 237.
  16. Ibidem.
  17. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta n. 50, p. 154.
  18. P. Valery, Quaderni, I, Milano, Adelphi, 1985, p. 241: «Il mio sistema? – sono io. Ma io – in quanto un io è convergenza e variazioni. Senza di che, questo sistema non sarebbe che un sistema tra i tanti che potrei fare».
  19. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta n. 55, p. 159.
  20. Ivi, n. 33, p. 137.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Naturalmente Nietzsche si muove nell’ambito di un nichilismo extramorale che, se non del tutto estraneo a Ripellino, risulta comunque esposto a ben altre conseguenze e implicazioni.
  24. A. M. Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 2014, p. 23.
  25. In questa coesistenza di comico e tragico anche i dolci «hanno parvenza di piccole bare» e «un gioiello di opale annuncia sventura». Praga magica, p. 219. All’angelo fulvo, il fu Ripellino spiegherà che «un tragico è sempre un buffone», SPV, 74, p. 279.
  26. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 220.
  27. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta n. 36, p. 140.
  28. Ibidem.
  29. Ivi, n. 50, p. 154.
  30. Ivi, n. 44, p. 148.
  31. Ivi, n. 47, p. 151.
  32. Ivi, n. 49, p. 153.
  33. Ivi, n. 30, p. 134.
  34. Ivi, n. 50, p. 154.
  35. «Il cuore bianco tatuato di sentenze lunari»: J. Laforgue, Imitation de Notre-Dame la Lune selon Jules Laforgue (1881-1886), Pierrot, II, in Id., Poesie, a cura di L. Frezza, testo francese a fronte, Roma, Newton Compton, 1997, pp. 126-27. Il componimento finale di Lo splendido violino verde, poi, ha in epigrafe un verso del poeta francese: la richiesta agli astri di non morire, perché egli, Laforgue, ha del genio: A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Lo splendido violino verde, n. 86, p. 292.
  36. A. M. Ripellino, Iridescenze, II, Vladìmir Majakovskij. Poesie, op. cit., pp. 699-700: 699.
  37. Ricordiamo che Schönberg non amava la definizione di a-tonale per la sua musica, preferendo l’accezione di pan-tonale o politonale o «semplicemente tonale», per il fatto che «atonale potrebbe solo indicare qualcosa che non corrisponde affatto all’essenza del suono». Si tratta, insomma, di un «rapporto di suoni» che, come tale, non può avere niente dell’atonalità. Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 509-10 nota. Nel commento alla traduzione italiana della rivista «Il cavaliere azzurro» di Kandiskij, parlando del rapporto tra pittura e musica, Ripellino ricorda che, sull’almanacco, del compositore austriaco è stato pubblicato un «saggio suggestivo sulla discordia concorde tra il testo e le note»; A. M. Ripellino, Iridescenze, II, Il cavaliere azzurro, 547-49: 548.
  38. Le liriche, composte dal poeta belga Albert Giraud nel 1884, verranno tradotte in tedesco nel 1893 da Otto Erich Hartleben che esaspererà l’elemento guignolesco.
  39. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Lo splendido violino verde, n. 39, p. 239.
  40. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta n. 56, p. 160.
  41. Ivi, n. 10, p. 114.
  42. Ibidem.
  43. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta, n. 57, p. 161.
  44. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Torino, Einaudi, 2002, p. 73.
  45. Riporto qui di seguito alcuni esempi del gioco delle ombre tanto caro al critico-poeta: «Ombre ruffiane attorno agli occhi delle donne»: A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta, n. 2, p. 106; «La vita fugge come l’ombra di Euridice», in Id., Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Lo splendido violino verde, n. 4, p. 204. O, col significato di fantasma (o come appendice), in riferimento al Peter Schlemil di Chamisso: «la tua ombra vi oscilla, Schlemihl», in Id., Lo splendido violino verde cit., n. 76, p. 281.
  46. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta n. 1, p. 105.
  47. «Ripellino è interessato sin da subito alla teatralizzazione del linguaggio che non serba alcuna traccia di sperimentalismo, per così dire, sanguinetiano ma tenta di ipotecare la nozione di diagnosi della sofferenza attraverso il «bailamme» e l’esaltazione nominalistica»: A. Fraccacreta, Ripellino pirotecnico, in «Doppiozero», 3 marzo 2021.
  48. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Sinfonietta, n. 26, p. 130.
  49. Ivi, n. 38, p. 142.
  50. Al tema della dissoluzione si oppone la fragile ma risoluta volontà: «tu rogna e affrantura, tu amore, mia vita, / tu limpida vita, tu vita inimica, ma vita»: A. M. Ripellino, La Fortezza d’Alvernia, n. 51, Milano, Rizzoli, 1967, p. 61.
  51. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Notizie dal diluvio, n. 77, p. 95.
  52. W. H. Auden, Un altro tempo, Milano, Adelphi, 1997, p. 148, trad. mia.
  53. D. Kiš, Homo poeticus, Milano, Adelphi, 2009, p. 201, trad. di D. Badnjevič.
  54. Rita Giuliani nell’introduzione all’Arte della fuga, op. cit., p. 7, annota: «Tutta l’opera di Angelo Maria Ripellino – la sua lirica, la narrativa, la saggistica – è costellata di ricorrenze e di “segni”, ovvero di oggetti che, per usare le parole dello stesso scrittore, “suscitano col loro ripetersi irradiazioni poetiche” e, dotati di “sostrato designativo”, assurgono a “segni d’una dimensione vitale”». Parole, quelle virgolettate, scritte dallo stesso Ripellino nel suo saggio su Esenin contenuto nella stessa raccolta di cui abbiamo precedentemente fatto cenno.
  55. A. M. Ripellino, Iridescenze, II, Note sulla prosa di Mandel’štàm, op. cit., pp. 521-29.
  56. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde, op. cit.: Notizie dal diluvio, n. 17, p. 31.
  57. Ibidem.
  58. A. M. Ripellino, Iridescenze, II, Note sulla prosa di Mandel’štàm, op. cit., pp. 521-29: 522.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)