Tesori gaddiani: i comodini da notte

Author di Ida De Michelis

«La polemica, per quanto mi consta, è in me il muro di cinta del territorio, delimitante il mio possesso, che io rabbiosamente contendo all’intrusione altrui, cioè alla moda e alle ideologie»

(C. E. Gadda, Lettere a Gianfranco Contini)

Le ipotiposi che l’Ingegner Gadda offre al proprio lettore sono numerose, e numerosissimi sono i fili tematici che le legano fra loro in una rete inestricabile di articolazione semantiche. Tra queste, un posto d’onore è riservato ai, privatissimi, comodini da notte, che segnano, con la loro reiterata epifania, svariati momenti testuali concettualmente fondamentali all’interno del sistema testuale gaddiano.

Essi rappresentano per sineddoche la valenza ambigua della stessa proprietà privata, che per il borghesissimo antiborghese Carlo Emilio contiene in sé il paradosso della difesa del sostanzioso “mio” proprio in contropartita all’attacco contro l’ontologicamente inconsistente, se non pure inesistente, “io”. In una dialettica modernamente marxista non meno che freudiana tra essere e avere, di fronte cioè all’inconsistenza dell’essere-monade, viene a essere difeso, ma al contempo inevitabilmente deriso e criticato, il diritto all’avere quale sostituto nevrotico del proprio essere patologico. E si rivendica polemicamente che sia l’arbitrio di ciascuno a decretare cosa si voglia possedere, fuori, se non contro, le convenzioni di ogni moda o ideologia collettive: «La polemica, per quanto mi consta, è in me il muro di cinta del territorio, delimitante il mio possesso, che io rabbiosamente contendo all’intrusione altrui, cioè alla moda e alle ideologie»[1].

“Ho quindi sono”: sembrerebbe suggerire il Gadda Ingegnere, che difende le sue scarpe nuove dagli sguardi cupidi di chi solo invidia e disprezza la loro colpevole, socialmente colpevole e socialisticamente riprovevole, lucentezza, senza però che minimamente si considerino le ore di lavoro, di fatica e di mestiere, nel senso gaddianamente più elevato e allora, sì, socialmente encomiabile, che sono state necessarie per comprare quel bel paio di scarpe nuove fieramente calzate dall’io borghese e soddisfatto.

Ed ecco, allora, subito emergere l’ambiguità di quel possedere, diritto inalienabile di ciascuno, sembra sostenere perentoriamente il liberale Gadda, contro gli sguardi critici, ingiustamente e superficialmente critici, in realtà acritici, ignoranti, nel senso etimologico, di socialisti improvvisati, manichei di turno. Diritto acquisito, non però premessa e fine dell’essere e dell’agire: o addirittura aspirazione all’apparire, far sembrare di avere per poter essere, e appartenere, spesso, nei suoi racconti, a quella della borghesia brianzola, o più in generale lombarda, ma poi anche romana o, semplicemente, provincialmente italiana: magari costruendo una villa costosissima quanto inutile e di certo inadeguata al proprio dolorante portafogli.

I comodini da notte, plausibilmente custoditi da proporzionate villone, presi qui come exemplum della libertà di autodeterminazione e di scelta individuale, risultano avere, cosa in cui Gadda riesce benissimo, alternativamente e talvolta simultaneamente, un significato e una funzione metonimica e un significato o funzione metaforici di oggetto privato per antonomasia, intimo, in virtù del luogo in cui si trovano, solitamente nella stanza da letto, nonché della funzione pratica che svolgono: ossia quella di conservare il vaso da notte con relativi prodotti fisiologici notturni. L’attenzione per il possesso, e per la conservazione del posseduto, scivola quasi per caso proprio sulla proprietà biologica e perciò più inalienabile di tutte: quella degli escrementi; a ribadire, ironicamente, la natura effimera di ogni possesso, la privatezza assoluta di ogni proprietà, nonché, in fondo, anche l’essenza negativa del desiderio, che si fa subito manìa, di possedere, che ben si manifesta nelle sue estreme forme di egoismo tirchio, nell’incapacità di elargire, di donare, perfino di liberarsi: finanche di liberare i propri intestini.

Si giunge quindi, come spesso in Gadda, a una pessimistica e disperata vanitas vanitatum, concretizzata in elenchi talvolta articolati in cataloghi, declinata talvolta ironicamente in direzione scatologica:

«Io, tu… Quando l’immensità si coagula, quando la verità si aggrinza in una palandrana… da deputato al Congresso,… io, tu… in una tirchia e rattrappita persona, quando la giusta ira si appesantisce in una pancia… nella mia per esempio… che ha per suo fine e destino unico, nell’universo, di insaccare tonnellate di bismuto, a cinque pesos il decagrammo… giù, giù, nel duodeno… bismuto a palate… attendendo… un giorno dopo l’altro, fino alla fine degli anni…» [2].

Ecco, allora, che, accanto all’odio per i poveri peones agli occhi del figlio eletti ingiustamente dalla madre della Cognizione come destinatari di elargizioni materiali di beni di sua propria proprietà privata, e quindi fraudolenti sottrattori del suo stesso affetto materno, subdoli ladri di attenzioni privatissime del sofferente io – e qui s’incontra la presentazione più dolorosa e lirica dell’attaccamento alla proprietà privata –, incontriamo il protagonista del racconto Accoppiamenti giudiziosi, eponimo della raccolta tarda del 1963. Il denaro, come fine piuttosto che come puro mezzo dell’avere, sta al centro del racconto: e proprio per quell’inversione funzionale che l’ha reso da mezzo, fine, passa, nel racconto, dal ruolo di oggetto a quello di soggetto. Tramite il gioco straniante dello sguardo sul reale di un «forte bimbo lombardo della seconda metà del secolo (decimonono)»[3] e attraverso un più o meno implicito gioco di parallelismi, torna in questo racconto proprio l’immagine scatologica di cacca-denaro che s’era incontrata insieme all’Ateuco nell’ironico falso sillogismo dell’Adalgisa.

Il ricchissimo zio protagonista del racconto Accoppiamenti giudiziosi, da parte sua, ossia lo zio Beniamino Venarvaghi[4], elargisce abbondantemente «pipì dal fianco sinistro, e pupù dal fianco destro»[5], mentre pone netto il diniego a elargire alcunché dal borsellino: «il borsino di Beniamino Venarvaghi faceva onore al tentennamento del capo, tendeva cioè a richiudersi precipitosamente al primo stimolo»[6]. E nello stesso racconto anche l’«insigne stitichezza» dell’Adelaide Carpioni viene fatta equivalere a un’«inclinazione tesaurizzante» non del solo intestino crasso quanto piuttosto delle «proprie grinfie sennate»[7].

I prodotti fisiologici, in quanto possedimento interiore, sono nucleo ontologico del privato, come tutte le scatole cinesi che li conservano e li preservano dallo sguardo estraneo e indagatore, giudicante, quando non anche bramoso, degli altri: il pitale, in primis, quindi il comodino e con esso la casa tutta.

Proprio rispetto a questa polemica sulla proprietà privata, sul possesso e sulla libertà dell’avere, e di scegliere cosa possedere, e cosa essere, ancora una volta pare evidente l’importanza dei soprannominati comodini da notte: tanto che nella sua dichiarazione di poetica Tendo al mio fine vengono nuovamente nominati, aprendo il dibattito contro i «laureati scrittori d’Italia»: essi sono digiuni «di sillabe e di patate», ignoranti, immorali e privi della consapevolezza che la fame sofferta in guerra ha dato a chi scrive; essi lo hanno collocato su «sfiancate seggiole» ed egli vuole da essi ben differenziarsi proprio in quanto «di tutti gli scrittori della Italia antichi e moderni è quello che più possiede di comodini da notte»[8].

Quello della libertà di proprietà era, d’altro canto, un nodo cruciale nella psicologia gaddiana e, di conseguenza, è tema largamente sondato e articolato nei suoi scritti; si pensi certo ancora a La cognizione del dolore, ma anche e soprattutto alla novella La casa, che risale all’inizio degli anni Trenta, se la si può riconoscere in quanto scrive Gadda nel 1931 a Tecchi: «una novella fantasioso-ironica (“La casa solitaria”)»[9]. Gli stessi comodini, o tavolini, ritornano ancora, assieme al “cesso”, definito «il superbo mio trono»[10], appunto nella fantastica residenza romana di questo racconto incompiuto scritto probabilmente tra il 1934 e il 1935, come risulta da una lettera a Carocci del 31 gennaio 1935 in cui gli propone «una specie di breve novella in cui descrivo un immaginario castello di mia proprietà con me dentro: la mia casa ideale»[11]:

«Io poi in una mia casa di campagna, posseggo ventitré comodini completi di accessori (se pure con qualche modanatura scollata sugli angoli), mi spiego? E pure vado in giro a testa alta, con l’animo sereno, senza temere gli architetti razionalisti, né le strombazzate dei futuristi tromboni»[12].

I comodini da notte, con tutto il loro contenuto, materiale e metaforico, s’impongono al lettore come baluardo contro una letteratura troppo incline ad adattarsi alle mode e alle ideologie, artistiche o politiche che siano: sono il pragma necessario a ogni teorema, sono il classico fuori da ogni tempo corruttore, sono il vessillo della libertà dell’arte, del poeta, il contributo della tecnica alle belle lettere, quasi a ribadire che «non basta l’architetto a far case: c’è la bravura del muratore, perché sian belle case»[13].

Ricompare così in forma di stipo, «mezzo armadiuccio e mezzo comodino»[14], nella scena della perquisizione dell’abitazione di Camilla Mattonari, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: «Il brigadiere aveva riadocchiato lo stipo […] Tirò lo sportello, s’avvide che era provveduto di una serratura, cosa incredibile per un comodino da notte: era un comodino sui generis»[15]. Proprio la peculiarità di questo «mobiluccio» lo rende “incredibile” perché con la propria serratura manifesta inopinatamente ciò che non dovrebbe essere manifestato: l’idea che un comodino da notte possa contenere qualcosa di desiderabile, di valore, proprio dentro al contenuto-contenitore più umile, il pitale, in cui il Brigadiere rinviene, infatti, una cornucopia di pietre preziose rubate.

Per concludere, uno di questi mobiletti resta tragicamente unico testimone della scena finale della Cognizione del dolore in cui ogni intimità privata è stata violata, e con essa la vita: è sullo spigolo di un tavolino da notte che sembra fosse stato «sbattuto il capo»[16] della madre morente sul cui volto tumefatto «parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: Io»[17].

  1. C. E. Gadda, Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario. 1934-1967, Milano, Garzanti, 1988, p. 14.
  2. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Garzanti, 1988, pp. 637-38.
  3. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Garzanti, 1989, p. 902.
  4. Analogo “impianto idraulico” ha un altro personaggio gaddiano nel racconto Villa in Brianza, edito in “I quaderni dell’Ingegnere”, 1, Napoli, Ricciardi, 2001, contenuto manoscritto in un quaderno del Fondo Roscioni, datato 9 gennaio [19]29: «Baffi […] barbone, tremolante anche lui, che pareva dire sì sì»: ivi, p. 17. Il vecchio ricco e senza eredi degli Accoppiamenti giudiziosi, io narcisista proiettato nel suo avere, è ossessionato da cinque P, quelle della «propria privata privatissima personale proprietà»; queste cinque P richiamano alla memoria il misterioso gioco di parole sulla lettera P nella leggenda medioevale della Papessa Giovanna, nella versione «pater patrum pecunia propria posuit». L’assonanza è abbastanza forte da mettere in allerta e autorizza a fare questo eteroclito collegamento pensando fra l’altro a quelli che Roscioni chiama gli «esempi di scrittura enigmatica, […] messaggi cifrati, o i più acrobatici virtuosismi della scrittura», in G. C. Roscioni, Terre emerse: il problema degli indici di Gadda, in Le lingue di Gadda, Atti del Convegno di Basilea, 10-12 dicembre 1993, a cura di M. A. Terzoli, Roma, Salerno Ed., 1995, p. 23. Si legga in proposito l’Introduzione di C. Cecchelli ad A. Bianchi-Giovini, La Papessa Giovanna, Roma, Bottega dell’Antiquario, 1944, p. 15. Questa versione, fra l’altro, riporta proprio cinque P, e non sei o sette come in altre tradizioni, e sostituisce al ricorrente «partum» la «pecunia». La leggenda della Papessa si colloca proprio nei vicoli del Celio a ridosso di via Merulana, accanto a San Clemente: la Roma che Gadda, ancora in una tarda intervista, dichiarava di preferire. Che egli potesse conoscere, dunque, tale leggenda sembra per lo meno probabile.
  5. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 894.
  6. Ibidem.
  7. Ivi, p. 896.
  8. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. I cit., p. 122.
  9. C. E. Gadda, A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. Carlino, Milano, Garzanti, 1984, p. 110. Il testo troverà poi posto nel volume Novella seconda, nel tardo 1971.
  10. C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 1117.
  11. C. E. Gadda, Lettere a «Solaria», a cura di G. Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1979. La polemica di Gadda con i “laureati scrittori d’Italia” trova sviluppo, all’interno del Castello di Udine, nella III parte, ma affiora ironicamente anche in altri testi, fra l’altro anche inaspettatamente all’interno della medesima raccolta del 1934 nel racconto La fidanzata di Elio. Tale polemica acquista toni ironici e allusivi al mondo dei letterati e alla dialettica tra tradizione e avanguardia; una lettura in questa direzione della metafora della casa-comodino come territorio privato e spazio di libertà dell’autore sembra essere incoraggiata da un brano di poco successivo in cui Gadda afferma: «tutto, in casa mia, è fatto in senso duramente classico, è per-fetto»: C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 1122.
  12. Ivi, p. 1118.
  13. C. E. Gadda, Le belle lettere e i contributi delle tecniche, in Id., Saggi giornali favole e altri scritti, vol. I, Milano, Garzanti, 1991, p. 475.
  14. C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Id., Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 226.
  15. Ivi, p. 227.
  16. C. E. Gadda, La cognizione del dolore, in Id., Romanzi e racconti, vol. I cit., p. 754.
  17. Ivi, p. 755.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)