“Tutto è santo”. Visioni ultraterrene nel romanzo “I vivi e i morti” di Giuseppe Antonio Borgese

Author di Andrea Schembari

Pubblicato da Mondadori nel 1923, il romanzo I vivi e i morti di Giuseppe Antonio Borgese è stato letto dai primi commentatori come ideale continuazione del precedente Rubé[1], o quanto meno come una sua derivazione[2]. Ma l’“inettitudine” di Eliseo Gaddi detto Elìo, protagonista del nuovo romanzo, appare ormai, nelle letture critiche più vicine a noi, più riflessiva e deliberata, se confrontata con quella infarcita di «autolesionismo dispersivo e disgregante»[3] di Filippo Rubè[4]; anche se l’eccessiva ponderazione del nuovo personaggio, nella sua scelta di autoescludersi dalla vita attiva[5], lo imprigiona a lungo in un sistema di tensioni e aspirazioni soffocate che pesa sulla compiuta definizione della sua crisi. A meno che non si guardi a lui come a «un inetto» intendendo

genericamente (ed improduttivamente) i personaggi che nella letteratura italiana degli anni ’20 sostituiscono gli eroi dannunzianamente atteggiati. Eliseo non è un uomo senza qualità, né un’anima debole o prigioniera di una vita grigia. Le incertezze e la goffaggine che caratterizzano talora il suo comportamento, accompagnano e manifestano doti spirituali preziose; sono il segno di una scelta (o di una vocazione); e non rattristano chi gli vuole bene. Eliseo è aperto alle rivelazioni; ispirato da un amore che ha le caratteristiche della caritas; addolorato dalla continua riscoperta del precario, del colpevole, del doloroso, che non rivive nei limiti ristretti del suo io, ma su uno sfondo collettivo ed universale[6].

In effetti, la scelta di Eliseo di una vita ritirata in campagna è declinata, nel procedere della lettura, nei termini di una ricerca spirituale vera e sentita, nell’attesa della rivelazione di una vera resurrezione. «Questo mito personale di risurrezione»[7] affiora dai testi critici di Giuseppe Antonio Borgese già nei primi anni del Novecento (in particolare nelle pagine dedicate a Thomas Carlyle[8]), e in alcune delle sue liriche dall’andamento narrativo, composte a partire dagli anni Dieci. Tra queste, il testo di Immortalità sembra rappresentare uno stadio intermedio del percorso di rivelazione compiuto poi da Eliseo nel romanzo; una tappa ancora fortemente connotata da inquietudine e disillusione, un approdo per nulla consolatorio, e che invece «postula […] la possibilità spaventevole di un’eternità funerea e senza senso»[9]:

Lo conosco il nome della cheta, macilenta filatrice

che m’ascolta e, trattenendo fra le dita un breve stame,

dice:

Passerà, sì che passerà.

Ma non cedere all’inganno di parole vane. Tu lo sai

che anche il sonno della morte ha il suo domani, che ti

sveglierai,

ed il fiume torbo della vita, pur mutando argini e corso,

volgerà gli stessi flutti d’ansia, di rimpianto, di rimorso.

Perciò è meglio che tu, vigile in un lucido, arido coraggio,

sappi riconoscere il deserto ove finge oasi il miraggio,

sappi che, se il canto dell’aurora ti promette una

chimera,

mente anche la cara squilla pacificatrice della sera.

Non ha porte onde il recluso evada la prigione della vita,

e perfino la speranza della morte gli sarà tradita.

Anche tu, povero cristo, chiedi: Eli, Eli, lamma saba-

ctani?;

ma anche in cielo all’oggi che tramonta segue identico

il domani.

Non passerà, non passerà[10].

Questi e altri versi apparvero nel volume di Poesie del 1922: è lo stesso anno in cui, dopo aver già interrotto la collaborazione con il «Corriere della Sera» come commentatore di politica estera, ed essersi votato all’insegnamento e alla letteratura, Borgese raccolse altri interventi critici giovanili, pubblicati con il titolo – guarda caso – di Risurrezioni; ed è anche il momento in cui la sua vicenda intellettuale inizia a connotarsi nel segno dell’isolamento[11].

Considerato già dai nazionalisti e dalla gerarchia del futuro regime tra i responsabili ideologici della “vittoria mutilata”[12], Borgese non godette in seguito di solide amicizie nemmeno sul versante antifascista (e la scarsa considerazione critica che gli fu riservata nel secondo dopoguerra aveva radici – lo ricorda Sciascia[13] – soprattutto nella classe intellettuale crociana e gramsciana). Una condizione, questa, che nel 1931 sfocerà – com’è noto – nella decisione di restare definitivamente a Berkeley, dove si era recato per alcune conferenze, sottraendosi così all’ingiunzione di prestare il giuramento al regime fascista in qualità di docente universitario.

L’insistenza di Borgese sul topos della resurrezione assume così un carattere fortemente programmatico sul piano etico e giocoforza letterario: lo dimostra la continua osmosi tra le diverse forme di scrittura con cui esso verrà ancora declinato nel cuore degli anni Venti, a partire dall’incessante speculazione metafisica di Eliseo Gaddi, protagonista come detto della sua seconda prova narrativa, passando per i saggi critici di Tempo di edificare (pubblicati nello stesso anno del romanzo, il 1923) e giungendo infine alla sua più compiuta “incarnazione” nella resurrezione messa in scena nella tragedia Lazzaro del 1926.

Quello che connota particolarmente I vivi e i morti, e che rappresenta un decisivo scarto rispetto alla lirica Immortalità, nel segno di una nuova speranza di palingenesi della condizione umana, è la compiuta traiettoria di ricerca seguita da Eliseo Gaddi, che ha il suo punto di svolta in un’inattesa visione ultraterrena che Borgese concede al proprio protagonista. L’esplorazione della vita oltre la morte è stato un tema non infrequente nel nostro Novecento, il più delle volte appannaggio di scrittori spesso sbrigativamente etichettati come sperimentali; li ha rubricati di recente Antonio Di Grado, componendo un mosaico dei romanzi e dei racconti che hanno tentato di gettare lo sguardo oltre la piega del tempo umano[14].

A legare questa variegata – negli intenti e negli effetti – rappresentazione, specie nel secondo Novecento, è spesso l’assunto dello “stare tra”, dell’«impermanenza dei confini»[15] tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra universi paralleli, tra realtà e sogno: una consapevolezza, questa, ancora non acquisita da Eliseo Gaddi, che però è conscio – si potrebbe dire – del proprio “esilio nell’esilio”, della condizione di solitario speculatore del conoscibile vissuta nella solitudine agreste che si è autoimposto, e della negligenza degli altri rispetto a quella sua «inestinguibile sete dell’Eterno»[16].

Nelle sue bulimiche letture Elìo si confronta dunque con la propria ansia di risurrezione, discutendo spesso anche con Arianna, l’affascinante e misteriosa donna con il «corpo fisico austro-ungarico e il corpo astrale russo»[17], esperta di scienze occulte, che lo introduce alla lettura dei testi di teosofia:

Fra altri, gli capitò un volume di gran formato e costoso, col titolo in rosso L’oltretomba rivelato; ed era rivelato davvero in tutte le più particolari minuzie, con le occupazioni quotidiane degli spiriti, e le loro gerarchie e regolamenti e perfino il loro modo di nutrirsi, tanto preciso, che al lettore nulla mancava tranne le fotografie delle città ultraterrene. Se ne adontò in tal modo, che buttò il libro, dopo averne letto cento pagine, nel camino acceso[18].

La pagina prosegue con una lunga, compiaciuta ed esaltata descrizione della furia iconoclasta con cui le fiamme divorano quel libro, «tutto impostura e arido arbitrio»[19]. La ricerca di quel titolo, in italiano, non ha dato riscontro, ma si può ragionevolmente arguire che qui Borgese metta insieme, nell’estrema e iperbolica rappresentazione di un mondo parallelo veicolata da quel libro, tutti i numerosi testi di teosofia (ma non mancarono romanzi né raccolte poetiche) comparsi in lingua tedesca tra la fine dell’Ottocento e i primi anni Venti, e che nel titolo riportano l’espressione Leben nach dem Tode (letteralmente ‘la vita dopo la morte’, l’aldilà), o Jenseits (‘ciò che segue’, che è “oltre”). E il suo bersaglio maggiore era verosimilmente Rudolf Steiner (che in un passaggio del testo viene espressamente e sarcasticamente dileggiato)[20], le cui conferenze venivano in quegli anni pubblicate a stretto giro dai seguaci; come quelle, tenutesi fra il novembre e il dicembre 1915, che recano, nel titolo del ciclo complessivo, proprio quell’espressione, Schicksalsbildung und Leben nach Dem Tode[21]: testi che in verità non si inoltrano in un’immaginifica descrizione di una quotidianità di vita, per le anime dei trapassati, esemplata su quella dell’esistenza terrena, ma postulano la verità di un «destino ulteriore delle anime umane, al quale esse sono sottoposte nell’esistenza universale cui la scienza dello spirito è anche indirizzata e che non si esaurisce nell’esistenza terrena e materiale»[22].

Pur nel crescente e costante rifiuto che Eliseo le oppone, quella vasta ed eterogenea letteratura con cui egli si confronta lo respinge e lo attrae[23], lo aiuta a definire la propria concezione di “resurrezione”, che – ad esempio – non può coincidere con l’idea di una continua reincarnazione:

Quel vivere e rivivere e reincarnarsi di cui parlano i vostri teosofi, quel risuscitare coi debiti non pagati dell’esistenza anteriore, quel risorgere con rimorsi che non conoscono il peccato da espiare, amica cara, mi sembra una sorte terribile e infernale. Qual’è [sic] il Dio che vuole sovraccaricarci così? dite di che ci punisce tutti quanti? Mi pare bello che i morti dormano a lungo il sonno dei morti e che si risveglino un giorno col loro corpo giovane e gli occhi per vedere e le mani per stringere, ciascuno accanto a quelli che amò, sapendo il suo nome, ricordando il dolore. E fosse pure per un giorno solo, per un’ora sola, ma senza angoscia e fiacchezza, eroici, sani, fraterni! e poi sparire nella luce divina! perdersi! dimenticare per l’eternità! Mi| pare bella la Resurrezione della Carne! A questa voglio credere[24].

Anche la resurrezione corporea, che resta per Eliseo «la promessa più consolante nella fede di sua madre»[25], ha bisogno di una sorta di prova “misterica”. La rivelazione finale giunge così solo dopo l’evento estremo in cui culmina la sua bulimica e affannosa ricerca di risposte: la partecipazione alla seduta spiritica[26] organizzata in casa dei Seragni, che abitano poco distante dalla Cascinetta. Trascinato nel clìmax della suggestione dalla medium Arianna, e avvertito «che la coscienza gli sfuggiva e che tutto di lui era spento, tranne gli occhi»[27], Eliseo vede

innanzi a sé, a tre, quattro passi di distanza, un’immagine stupefacente: sé medesimo […]. Pensò nettamente che per decidere s’egli vedesse se stesso bisognava che quell’immagine aprisse gli occhi, e fece uno sforzo per muoversi e, traversato il piccolo spazio, schiacciare col peso della sua viva realtà l’illusione. Ma vide l’immagine muovergli incontro per aderirgli petto a petto, per trasfondersi in lui, e cadde riverso con un tonfo, trascinando nella sua caduta il piccolo mobile e il lume, che si spense[28].

Nei quaranta giorni di convalescenza che seguirono la caduta, Eliseo stette «fra la vita e la morte, tra febbri roventi e silenzi esanimi»[29]: ed è in questo frangente che, dalla possibile narrazione di una necromanzia (nel suo senso etimologico di «[a]rte divinatoria, […] evocazione degli spiriti dei morti»[30]), Borgese fa invece scaturire un’esperienza opposta, a metà strada tra una catabasi e una visione spirituale ricevuta in sogno[31]. Una ricerca dettagliata di fonti specifiche della tradizione della visione (pagana e giudaico-cristiana), e di topoi così diffusi nell’immaginario letterario di ogni tempo e latitudine, non avrebbe, probabilmente, alcun esito particolarmente significativo, e non condurrebbe all’individuazione di un modello unico e riconoscibile che sia servito d’ispirazione a Borgese[32].

Ma alcuni elementi distintivi meritano a nostro avviso di essere segnalati. Lo scaturire della visione da un violento stato febbrile, che precipita il degente in una condizione di morte apparente («Egli era supino, terreo, con le mani scheletriche, e se apriva gli occhi parevano senza palpebre e senza sguardi»)[33] è un elemento costante nello schema delle visioni ultraterrene in epoca paleocristiana, almeno a partire dall’Epistola XXII di San Gerolamo alla discepola Eustochio[34], e confermato dai Dialoghi di Gregorio Magno[35]; e la lunga sequenza narrativa dedicatale da Borgese ha inizio con stilemi tipici della descensio ad inferos, ma si dispone poi secondo un andamento “orizzontale”, descrivendo un mondo che è, sì, “sotterraneo” ma si distende su una spazialità piana e parallela al mondo di sopra: ovvero, «l’andamento orizzontale del racconto serve […] a istituire una distanza, mentre l’opposizione tra i due mondi è verticale»[36].

La discesa procede in condizione di oscurità («il suo corpo, moveva verso lo spiraglio scuro dell’uscio, e vi s’introduceva, e proseguiva; ma quell’oscurità era infinita come il buio ch’è dentro alle pupille […]. Scendeva nella tenebra, senz’altro desiderio che di non toccare mai fondo»)[37]; e alla presenza di uno spirito guida, il fratello Michele defunto, che incarna la figura archetipica – nella letteratura apocalittica giudaica e cristiana[38] – dell’angelus interpres, cui sono affidate l’interpretazione e la spiegazione della visione:

A un tratto udì una voce che gli disse all’orecchio: – Fratello! e, voltosi al suo fianco, intravvide un barlume e dentro il barlume un’immagine simile a quella di pocanzi e pure diversa […]. – Michele! – egli disse; e fu sorpreso di notare che la sua voce non sonava. – Ehi ! – disse l’altro – Ci si ritrova? Da queste parti! Ma anche la voce di Michele non si udiva: ed egli ne leggeva le parole dal moto delle labbra[39].

Come è stato notato, la visione presenta elementi di facile traduzione simbolica[40]: la «distesa piana traversata da fiumi lenti», l’immancabile nocchiero (un po’ da operetta: «Un barchetto con un solo rematore e un panchetto nel mezzo s’accostava […]. Del rematore non si vedeva il viso, ma solo il vestito, ch’era bruno con larghi galloni d’argento»), il «passo leggero»[41]. L’arrivo di una moltitudine di «forme umane», rappresentato come un volo di stormi, evoca invece certe raffigurazioni di Hieronymus Bosch:

Michele accennava col dito a una breve distanza, ed Elìo vedeva, laddove un altro fiume o quello medesimo di dianzi si curvava ad ansa aprendo una specie di porto, una moltitudine immensa di forme umane approdare, forse volando, con un volo tacito e basso. Facevano una nube nera, del nero lucente che hanno i capelli neri. Ora anche accanto a sé Elìo vide sorgere forme volanti, a stormi, a squadre angolari come migrazioni d’uccelli, farfalle scure dall’ali macchiate di bianco, pipistrelli, gru volteggianti; riempivano l’aria di un odore slavato, di ombra su ombra, di uno squittio e pigolio, a esatti intervalli, che pareva giungere da lontananze precluse. Egli si sentiva dolere il cuore e si stringeva al fratello[42].

Nelle quattro pagine della sequenza non mancano però spie di un registro parodico[43], che interviene non appena il tono della descrizione tende a farsi un po’ più alto e solenne, alludendo ad altre e più recenti “fonti”:

Ora non si udiva più nulla nell’aria bassa e sulla terra piana, non si vedeva più nulla tranne un prato che finiva all’orizzonte ed era tutto fiorito di piccole cimette bianche. – Oh guarda – diceva al fratello. – Gli asfodeli! Ma Michele rispondeva alzando la voce, bruscamente. – Che asfodeli! In che libraccio l’hai letto? Non lo vedi ch’è il trifoglio ladino, quello della tua terra? Ce l’hai pure alla Cascinetta, che è tua. Che agricoltore sei, che non conosci nemmeno il ladino e t’impicci di quello che non sai, benedetto figliolo[44]?

Il «libraccio» cui allude Michele, che in questo caso sembra parlare a nome dell’autore, più che richiamare il modello autorevole dell’Odissea («…e presto giunsero al prato degli asfodeli, / dove hanno sede le anime, immagini degli estinti […]»[45]) o l’omonimo componimento di Sergio Corazzini (che si chiude celebrando «…il triste giglio del cielo / da l’eterno ammonimento.»[46]), può – più probabilmente – riferirsi al Piacere di d’Annunzio, dove fanno capolino «gli asfodilli che illuminavano i sentieri dell’Ade»[47].

Ma tornando alle fonti più antiche, e avviandoci alla conclusione di queste note, se la diretta conseguenza del sogno narrato da San Girolamo fu «l’abbandono dei classici e della loro lettura per dedicarsi allo studio dell’ebraico e delle Scritture sacre»[48] (che pure ricalca latamente il progetto di vita ritirata espresso da Eliseo nell’incipit del romanzo), la lunga visione tratteggiata da Borgese conduce, sì, il protagonista alla scelta della fede, ma anche all’acquisizione di una precisa consapevolezza, del tutto opposta alla finalità stabilita dai modelli paleocristiani, geronimiano e gregoriano, secondo cui i personaggi, «trasportati miracolosamente nell’aldilà, ne ritornano per ammonire i viventi»[49].

Segnato dall’ineffabile risposta dello spirito-guida Michele («– Dov’è Dio? – Sss – faceva il fratello ponendosi l’indice sulle labbra»[50]), Eliseo sceglie infatti la fede e il silenzio insieme, avvertendo che «non si deve sapere nulla, nulla dell’al di là. Nulla […]. – Tutto è santo – concluse. – La vita. La risurrezione. Il sonno. La grande oscurità»[51]; è un “approdo” della coscienza che solo parzialmente lascia intravedere quello che è forse il vero punto di discontinuità nel percorso spirituale compiuto da Eliseo, giunto ormai, sul finire del romanzo, ad una consapevolezza sempre meno “mistica” e sempre più risolta sul piano etico ed estetico, condensata tutta nei suoi nuovi propositi per gli anni a venire: « – Io sono tornato dalla morte, e voglio vivere il tempo che mi resta con pensieri di pietà e di bellezza»[52].

  1. Ovvero come parti distinte di «una sola biografia ideale, […] anelli d’una catena […] di una storia ideale tradotta in vicende materiali, di una angoscia interna che sale via via verso una meta più pura»: A. Momigliano, «I vivi e i morti» di G. A. Borgese, in «Nuova Antologia», fasc. 1241, 1° dicembre 1923, pp. 280-87, cit. a p. 280.
  2. Guido Piovene, che fu allievo di Borgese, annotò che esso era nato «dagli avanzi di Rubè», da «sviluppi possibili e scartati, ambizioni di completare il quadro»: G. Piovene, Scrittori contemporanei. Giuseppe Antonio Borgese, in «Nuova Antologia», fascicolo 1394, 16 aprile 1930, pp. 502-15, cit. a p. 510.
  3. A. Cavalli Pasini, L’unità della letteratura. Borgese critico e scrittore, Bologna, Pàtron, 1994, p. 270.
  4. «Rubè è il ritratto dell’uomo senza identità, che rivolge contro se stesso la sua arma più potente, “una logica da spaccare il capello in quattro”, l’arrovellarsi e contorcersi del pensiero che sfiora il delirio, l’inquisizione persecutoria della ragione che non trova risposte alla ricerca d’identità né nella storia degli uomini né nella fede in Dio»: A. Carta, Il cantiere Italia: il romanzo. Capuana e Borgese costruttori, Palermo, :duepunti edizioni, 2011, pp. 90-91.
  5. Eliseo Gaddi è un professore, con vaghe ambizioni letterarie, che alla soglia dei quarant’anni lascia la città e si ritira a vivere nel paese di Miriano, nella tenuta familiare della Cascinetta dove abita la madre Fiora, e con l’intenzione di votarsi a una nuova esistenza legata alla terra che lo allontani dalle «lusinghe della vita cittadina e qualunque cosa fa vago e desiderabile il futuro» (G. A. Borgese, I vivi e i morti, Milano, Mondadori, 1923, p. 11). La scelta si scontra con le mire del fratello Michele, che ambisce ad acquisire e gestire la tenuta; dopo un violento litigio con il fratello, Michele attraversa a cavallo un furioso temporale, che lo fa ammalare e morire in pochi giorni. Da quel momento, il pensiero della morte, e del destino che attende gli uomini dopo l’esistenza terrena, prendono il sopravvento su Eliseo, facendogli percorrere strade di conoscenza diverse e contrastanti, dalla teosofia all’occultismo; ma alla lunga, sulla pacificata attesa della fine terrena, sulla sua conquista della fede in Dio, avranno un ruolo determinante le conversazioni sulla vita e sulla morte scambiate con l’amata madre Fiora, spesso favorite dalle letture condivise, come i Pensieri di Pascal: sulla presenza di questo intertesto nel romanzo borgesiano mi permetto di rinviare ad A. Schembari, Il giunco e la piena. Condizione umana e pensiero della morte in Pascal, Borgese, Sciascia, in Immaginario e realtà. Percorsi della religione, a cura di A. Rella e S. Valerio, Alberobello (Ba), AGA Editrice, 2018, pp. 191-207.
  6. L. Parisi, I vivi e i morti di G. A. Borgese, in «The Italianist», XVII, 1, pp. 60-73, cit. a p. 67.
  7. G. A. Borgese, Giro lungo per la primavera, a cura di M. R. Olivieri, Pesaro, Metauro Edizioni, 2010, p. 38 (Milano, Bompiani, 1930, p. X).
  8. Cfr. G. A. Borgese, Piccolo breviario del romanticismo, in Id., La vita e il libro. Seconda serie, con un Epilogo, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1911, pp. 191-200, cit. a p. 197: «Basta, per non disperare, attraversar con lo sguardo della mente le vesti logore e consunte, le forme che svaniscono, le efimere costruzioni sociali che si sfasciano. Sotto quella putredine palpita l’incorruttibile divinità dell’anima umana. Essa avrà la forza di districarsi dai cenci e di riapparire nello splendore d’una nuova veste. Ciascheduno può, ciascheduno deve lavorare per quel lontanissimo giorno di risurrezione». Il saggio si soffermava sulla recente edizione italiana (Laterza, Bari, 1905, e ristampato nel 1910) del Sartor resartus di Carlyle, considerato da Borgese «creatura eccezionale fatta per lettori d’eccezione […] che non considerano la lettura come un ozioso giro di carosello, alla fine del quale, dopo qualche tinnito di musiche triviali, ci si ritrova al medesimo punto, e non disdegnano la fatica, purché all’ultima pagina del libro se n’abbia la ricompensa nella contemplazione di un orizzonte più vasto», a differenza di chi invece si abbandona «a un duro e cieco realismo, il cui unico insegnamento consiste nella necessità di vivere strenuamente la vita, così come si presenta giorno per giorno, senza curarsi né poco né molto né del domani né dell’al di là né del genere umano: una specie di eroico e sconsolato egoismo» (ivi, pp. 191-92, passim).
  9. G. P. Giudicetti, Le poesie (1922) di Giuseppe Antonio Borgese, in «Studi Novecenteschi», XXXIII, 71, gennaio-giugno 2006, pp. 79-96, cit. a p. 87.
  10. G. A. Borgese, Le poesie di G. A. Borgese, Milano, Mondadori, 1922, pp. 50-51.
  11. Cfr. S. Gerbi, Giuseppe Antonio Borgese politico, in «Belfagor», LII, 1, 31 gennaio 1997, pp. 43-69, cit. alle pp. 46-48.
  12. Borgese, nel 1918, era stato chiamato dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando a dirigere l’ufficio Informazione e Stampa del governo, con sede a Berna, e fu spesso coinvolto come consigliere sulla sorte dei territori contesi dall’Italia alla fine della Prima guerra mondiale. In quel ruolo, assunse posizioni che tentavano una conciliazione tra gli interessi italiani fissati nel Trattato di Londra del 1915 e il nuovo piano di pace del presidente americano Wilson, che disattendeva quell’intesa in relazione alle pretese italiane nei Balcani: cfr. G. Librizzi, La Fondazione “G. A. Borgese”. Storia di un progetto culturale, Palermo, s.e., 2012, pp. 211-14; e cfr. S. Gerbi, Giuseppe Antonio Borgese politico, op. cit., p. 45.
  13. Cfr. L. Sciascia, Cruciverba, in Id., Opere, a cura di P. Squillacioti, vol. II, Inquisizioni – Memorie – Saggi, tomo 2, Saggi letterari, storici e civili, Milano, Adelphi, 2019, pp. 491-805, cit. alle pp. 694-95 (il saggio, dal titolo Borgese, è alle pp. 691-97).
  14. Cfr. A. Di Grado, Al di là. Soglie, transiti, rinascite in letteratura e nel cinema, Napoli, ad est dell’equatore, 2020, pp. 81-97.
  15. G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, Milano, Adelphi, 2011, p. 242.
  16. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 213.
  17. Ivi, p. 260.
  18. Ivi, p. 220.
  19. Ibidem. Nella chiosa – un po’ allusiva – a una sua nota sul romanzo, Salvatore Battaglia non esitò a definire quel fantomatico volume «un sortilegio» che ben poteva simboleggiare il senso dell’intero romanzo: come se, provando a interpretare l’allusione del grande filologo, quel libro gettato nel camino, fosse una larvata mise en abyme, che trasformava in oltretomba il mondo abitato da Eliseo, popolato da individui che non si interrogano sul senso della vita e della morte: cfr. S. Battaglia, «I vivi e i morti» di Borgese: quarantadue anni dopo, in «Il Mattino», 11 marzo 1965, poi in Id., I facsimile della realtà, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 292-95, cit. a p. 295 (si cita dal volume).
  20. «– Sono stufo di queste favole – disse tornando indietro, nonostante i cenni premurosi che Ferrata gli faceva di calmarsi. – Stufo, stanco, disperato. Quando s’è ben bene concentrata l’attenzione si svi-lu-ppa-no gli organi della chia-ro-ve-ggenza superiore nel corpo a-strale. E come si chiamano? Fio-ri di loto si chiamano! E come sono? “Citeremo…” L’ho imparato a memoria. È Rudolf Steiner che parla, mica uno scribacchino qualunque; l’Aristotele del mondo astrale. “Citeremo il fiore di loto a due petali, collocato approssimativamente frammezzo alle sopracciglia, il fiore a sedici petali, nelle vicinanze della laringe; il fiore a dodici petali presso il cuore, e inoltre un quarto organo nel cavo dello stomaco.” Specialmente questo fiore di loto in fondo allo stomaco mi dà fastidio. Indigesto. Ah! ah! ah!»: G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., pp. 328-29. Il riferimento è a Wie erlangt man Erkenntnisse der höheren Welten, di cui proprio nel 1922 era uscita l’ultima edizione in vita di Steiner, poi tradotta per la prima volta in Italia nel 1926: per le allusioni di Eliseo alla teoria dei «fiori di loto» (altrimenti detti «ruote» o – con termine sanscrito ormai universalmente noto – «chakrams»), cfr. il capitolo Alcuni effetti dell’iniziazione, in R. Steiner, L’iniziazione: come si consegue la conoscenza dei mondi superiori?, trad. di E. De Renzis, Bari, Laterza, 1926, pp. 102-41.
  21. Cfr. R. Steiner, Formazione del destino e vita dopo la morte, Milano, Editrice Antroposofica, 2009.
  22. Ivi, p. 11.
  23. «Strano! — pensava — gli uomini moderni, spiritisti e teosofi e tutti quanti, hanno scritto e vanno scrivendo un enorme ciclo d’oltretomba, in cui si descrive e si narra l’al di là press’a poco come nei poemi cavallereschi si narrava la storia. Qualche cosa di vero c’era in quei poemi; e chi sa che cosa è il vero e che cosa è il falso in queste scoperte!»: G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 221.
  24. Ivi, p. 333.
  25. Ivi, p. 277.
  26. Alcuni dettagli richiamano la nota (e ben più distesa, nella narrazione) seduta spiritica in cui è coinvolto Adriano Meis nel Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello: la stanza sgombrata per metà (solo «un angolo» in Pirandello) ; la «penombra bluastra» che pure Eliseo crede di vedere cosparsa «d’innumerevoli pagliette rosse brillanti» (contro la «semioscurità rossastra» creata dal «lume del famoso lanternino rosso» di Anselmo Paleari); la «mano diaccia» di Arianna, che siede accanto ad Eliseo (come «fredda e tremante» è quella di Adriana Paleari, che siede accanto ad Adriano Meis: e sul «discorso fitto fitto» delle loro mani, Pirandello costruisce il lungo intreccio narrativo che conduce al primo bacio fra i due personaggi): cfr., rispettivamente, G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., pp. 342-45 (passim) e L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Id., Tutti i romanzi, a cura di M. Costanzo e G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973, vol. I, pp. 318-578: 493-506 (passim)
  27. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 344.
  28. Ivi, pp. 345-46.
  29. Ivi, p. 349.
  30. Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, Torino, UTET, 1961, vol. XI, p. 300.
  31. Nel corso della sequenza narrativa Borgese utilizza in effetti il termine “visione”, connotando quell’esperienza nei termini del genere letterario di diffusione medievale, ma va notato che Eliseo sogna spesso, e che sulla narrazione di quei sogni si fonda una parte del giudizio negativo sullo stile del romanzo: cfr. G. P. Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese. Una risposta alla crisi letteraria e di valori del primo ʼ900, Firenze, Franco Cesati, 2005, pp. 154-56.
  32. Ed è stato già notato che «[a]nche un uomo di ampie letture come Borgese è confuso trattando temi religiosi: nel calderone della sua ispirazione butta tutto ciò che per lui ha qualche collegamento con la spiritualità (la teosofia e l’esperienza mistica; la morte, l’aldilà e la preghiera […]), ma non è in grado di ricondurre quel magma a unità»: L. Parisi, I vivi e i morti di G. A. Borgese, op. cit., p. 68.
  33. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 348.
  34. «Verso la metà della Quaresima, una febbre acuta, penetratami fin nel midollo delle ossa, invase il mio corpo già esausto, e, senza darmi un attimo di tregua — cosa davvero incredibile a dirsi — mi divorò a tal punto le misere membra, da lasciarmi soltanto le ossa malamente congiunte. Frattanto mi si preparavano i funerali; il mio corpo era già tutto freddo e soltanto nel cuore, tiepido appena, indugiavano i palpiti estremi del calore vitale, quand’ecco, all’improvviso, fui rapito in ispirito e trascinato davanti al tribunale del Giudice: ivi, così intensa era la luce e così vivo lo splendore irradiante dalla cerchia dei presenti che, gettatomi a terra, non ardivo sollevare lo sguardo»: San Girolamo, Opere scelte, a cura di E. Camisani, Torino, UTET, 2013 (edizione digitale), pos. 316.
  35. «Un soldato ammalatosi nella nostra città giunse agli estremi. Abbandonato il corpo, giacque esanime, ma presto vi ritornò e raccontò quel che gli era accaduto»: Gregorio Magno, Dialoghi, IV, 37, cit. in Visioni dell’aldilà in Occidente. Fonti, modelli, testi, a cura di M. P. Ciccarese, Firenze, Nardini, 1987, p. 133.
  36. C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, p. 18.
  37. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 350.
  38. Cfr. D. Devoti, I sogni tra giudaismo e nuovo testamento, in Somnia. Il sogno dall’antichità all’età moderna, a cura di C. Buccolini e P. Totaro, Roma, ILIESI – CNR, 2020 (edizione digitale), pp. 141-66.
  39. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 350.
  40. Cfr. G. P. Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese. Una risposta alla crisi letteraria e di valori del primo ʼ900, op. cit., p. 156.
  41. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 351.
  42. Ivi, p. 352.
  43. Sulle più circostanziate riscritture parodiche del viaggio nell’oltretomba, nella letteratura italiana tra Otto e Novecento, cfr. G. Policastro, In luoghi ulteriori: catabasi e parodia da Leopardi al Novecento, Pisa, Giardini, 2005.
  44. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 354.
  45. Omero, Odissea, a cura di V. Di Benedetto, trad. di V. Di Benedetto e P. Fabrini, Milano, BUR, 2010, p. 1209.
  46. S. Corazzini, Gli asfodeli, in Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1994, p. 29.
  47. G. d’Annunzio, Il piacere, in Id., Prose di romanzi, a cura di A. Andreoli ed E. Raimondi, Milano, Mondadori, 1988, vol. I, pp. 3-358, cit. a p. 303. Sui rapporti tra Borgese e d’Annunzio; cfr. D’Annunzio e la critica, Atti del XIII convegno, Pescara-Penne, 10-12 maggio 1990, Pescara, Centro Nazionale di Studi Dannunziani – Ediars edizioni, 1990: in particolare i saggi di G. Bàrberi Squarotti, Idee, pregiudizi e scarsa conoscenza, pp. 37-56, specie le pp. 45-47; N. Mineo, D’Annunzio nella critica dal 1903 al 1938, pp. 93-118, alle pp. 99-102; R. Colapietra, Croce e crociani, pp. 119-207, passim.
  48. L. Gamberale, San Gerolamo intellettuale e filologo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, p. X.
  49. C. Segre, Fuori del mondo, op. cit., p. 28.
  50. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., pp. 353-54.
  51. Ivi, p. 358. L’estatica conclusione di Eliseo riecheggerà nel «Tutto è grazia» del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: cfr. A. Di Grado, Al di là, op. cit., p. 49.
  52. G. A. Borgese, I vivi e i morti, op. cit., p. 357.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)