Pavese è stato un attento lettore dell’opera di Pirandello. In un brano diaristico Pavese stronca il suo romanzo storico, I vecchi e i giovani, facendo una critica di bottega, tendente cioè a individuare argomenti cardine della sua poetica:
I vecchi e i giovani è un romanzo sbagliato perché farcito di antefatti e spiegazioni sociali e politiche che dovrebbero farne un poema morale di idee in organismo e sviluppo drammatico, si frantuma invece in figure che hanno per legge interiore la solitudine e concludono ognuna – con la logica della solitudine – alla pazzia, all’inebetimento, al suicidio o alla morte senza egoismo. Tutte sono deformate in un ticchio, in un abito interiore, che tende a esprimersi o in monologo o in macchietta. Manca al racconto un ritmo di alternanze di prosa stesa e di dialogo; e non c’è la forma della solitudine se non per ciascun personaggio in separata sede: manca l’epopea del mondo di solitari. Anche, ogni personaggio separato, è dall’esterno costruito di antefatti, di analisi, di uscite, che non hanno un ritmo; si sente che l’autore butta giù con calcolo logico molta roba a giustificare i momenti in cui il solitario culmina e s’esprime, talvolta molto efficacemente.
La prova dell’essenziale composizione a freddo è lo stile, lucido, vitreo, anche se ogni tanto si colora di passionali scatti. Sono calcolati, ragionati, anche questi[1. C. Pavese, Il mestiere di vivere, Milano, Il Saggiatore, 1972, pp. 54-55.].
È risaputo che Pavese regala le Novelle per un anno di Pirandello a un suo alunno prediletto, Paolo Cinanni. Pavese ha una solida conoscenza non solo delle Novelle per un anno ma di quasi tutta la produzione pirandelliana, incluso il saggio su L’umorismo. Lo evidenzia anche il suo romanzo Tra donne sole.
Come una serie di Novelle per un anno, anche questo romanzo breve si avvale di uno stile nitido, incisivo, analitico, ricco di toni drammatici; sfrutta al massimo il dialogo orientato a lasciare buchi e vuoti, a rendere le cose sospese ed enigmatiche, a puntare sui mezzi dell’allusione, della spezzettatura, del contrasto, mezzi cioè che articolano una rappresentazione “apparentemente caotica” tanto prediletta da Pirandello ed efficace a spronare il lettore a mettere insieme i puzzles della trama; si ambienta nella Torino dell’immediato dopoguerra, anche se contiene scene che si svolgono in altri luoghi; è popolato da una galleria di personaggi, molti appena abbozzati, mentre altri sono più sviluppati, per lo più appaiono fuori della sfera della normalità, tanto che richiamano i personaggi pirandelliani o bizzarri o affabulatori di micro-storie dal taglio fiabesco, assurdo, mitico (ad es. Il figlio cambiato, Lo storno e l’Angelo Centuno, Padron Dio).
Il ritorno del personaggio, dopo un periodo d’assenza breve o lungo che sia, al luogo d’origine in Pirandello e in Pavese è un luogo comune. Di solito è un ritorno che non esprime l’allegria, ma l’inizio di un’avventura triste e angosciosa, in cui il personaggio in modo immediato o gradatamente non riesce a mettere radici nel proprio ambiente, vi si sente alienato, forestiero. Ciò in Pirandello traspare dall’azione dei protagonisti di Lontano, dei Nostri ricordi, del Fu Mattia Pascal; in Pavese dall’agire dei protagonisti di varie poesie di Lavorare stanca, di Villa in collina o La luna e i falò.
E anche in Tra donne sole c’è il ritorno al luogo dell’anima. La protagonista e narratrice è una trentenne realizzatasi nella professione; dopo aver trascorso diciassette anni a Roma a lavorare in un’azienda di alta moda, è inviata a Torino per sorvegliare l’apertura di un negozio all’avanguardia. Come succede ai personaggi pirandelliani che approdano a Roma (ad es. in Mal giocondo, I vecchi e i giovani, Suo marito), Clelia Oitana ha un impatto straordinario con la città natia. Ci arriva nel periodo di Carnevale. La sua vicenda è fusa all’avvenimento farsesco del Carnevale, parodiato e dissacrato con approcci d’ironia filosofica dall’autore. Il Carnevale è un evento mitico voluto dall’autore per combinare particolari strategie fantastiche, e per caricare la vicenda di messaggi paradossici e inquietanti, come aveva fatto Pirandello in certe Novelle per un anno come La paura del sonno e nel dramma Enrico IV[2. A proposito del Carnevale nell’opera pirandelliana rimando al mio studio Un mondo fuori chiave. Il fantastico in Pirandello, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, pp. 133-63.]. Per Pavese è una festa del calendario che contamina e profana il luogo sacro di Clelia. E questa vuol essere un’altra sfaccettatura del suo io portato a prendere di mira il disordine della realtà sociale, pur con un approccio pirandellianamente umoristico.
L’ambiente festivo e gioioso del Carnevale è un evento strano in quanto le regole del vivere quotidiano si capovolgono e si impone un mondo alla rovescia e inusuale. Secondo storici, sociologi, e mitologi, il Carnevale è una festa simbolica, specie perché si oppone alla Quaresima, ed è anche un’evasione dalle pressioni di una società poco aperta, dando all’individuo la possibilità di ristorarsi dal punto di vista fisico e psicologico. La tecnica del tempo infantile che si ripropone in altre fasi della vita del personaggio adulto ricorre in Pirandello (ad es. in La scelta, Non si sa come, Enrico IV), e in Tra donne sole, la scena del passato Carnevale si ripete nel presente, davanti agli occhi di Clelia:
Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone. Mi ricordai ch’era carnevale vedendo sotto i portici le bancarelle (…) Quand’ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo col batticuore le stagioni dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torrone e nasi di cartapesta. Poi, con la mania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli insieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest’innocenza era finita[3. C. Pavese, Tra donne sole, in Id., La bella estate, Torino, Einaudi, 1995, pp. 223-24. D’ora in poi il numero della pagine nel testo rimanderà a questa edizione.].
Quando imboccai la larga strada e vidi in fondo la collina pezzata di neve e la chiesa della Gran Madre, mi ricordai ch’era carnevale. Anche qui, bancarelle di torrone, di trombette, di maschere e stelle filanti riempievano le arcate dei portici (…) Passai mezz’ora tra la folla. Non camminai verso piazza Vittorio, fragorosa di orchestre e di giostre. Il carnevale mi è sempre piaciuto fiutarlo dalle viuzze e nella penombra[4. Ivi, pp. 238-39.].
In Pavese il Carnevale rinforza non solo lo stilema polifonico della diegesi, ma anche le assurdità e le stranezze della gente che circonda la protagonista, e tutto sommato la fa apparire una sorta di occhio cosmico, di telecamera che mette a fuoco mascheramenti, bizzarrie, vanità, corruzioni, tanti comportamenti stravaganti e irregolari dei torinesi che stravolgono il significato delle parole e parlano con il linguaggio contaminato, strano, incomprensibile, non diverso da quello usato dal giornalismo, spesso demistificato anche da Pirandello[5. Si veda il mio saggio, Pirandello e il giornalismo, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2011.]: «questa gente parla difficile solo per gusto, e succede che di certe parole nessuno sa il senso (…) Sono parole come quelle dei giornali»[6. C. Pavese, Tra donne sole, in Id., La bella estate, op. cit., p. 249.]. Se negli scrittori tradizionali Carnevale si presenta come spettacolo fieristico, mangereccio, spazio di Cuccagna, festa libera e allegra, dello sperpero di vivande e di bevande, in Pirandello si mostra intriso di toni sferzanti e satirici dell’umorismo, e Pavese si rivela in questo modo. La rappresentazione del Carnevale, oltre a echeggiare elementi pirandelliani, permette a Pavese di sviluppare la filosofia della vita intesa sia come tradimento, dato che alla Clelia fanciulla proprio nel milieu carnevalesco viene a mancare il padre («Strana cosa. La sera del giovedì grasso, quando papà s’era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l’odiai pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capì quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai pedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morire mi spaventava e m’impediva dentro di abbandonarmi al carnevale»)[7. Ivi, p. 224.] sia come un vuoto abissale che spinge l’individuo a togliersi la vita, dato che Clelia, appena arrivata nella camera d’albergo, diventa testimone del tentativo di suicidio di una ragazza, di cui è informata anche da una cameriera: anche in Pirandello c’è chi misteriosamente va a suicidarsi in albergo, come in Nell’albergo è morto un tale:
Due camici bianchi portarono fuori una barella. Tutti tacquero e fecero largo. Sulla barella era distesa una ragazza – viso e cappelli in disordine – vestita da sera di tulle celeste, senza scarpe. Benché avesse le palpebre e le labbra morte, s’indovinava una smorfia ch’era stata spiritosa. Guardai d’istinto sotto la barella, se gocciava sangue (…) – S’è sentita male, che disgrazia, – disse entrandomi nella stanza (…) Prendere il veleno a carnevale, che peccato. E i suoi sono così ricchi… Hanno una bella villa in piazza d’Armi. Se si salva è un miracolo (…) La ragazza era entrata in albergo al mattino – veniva da una festa, da un ballo[8. Ivi, pp. 225-26.].
Una sorta di tentato suicidio che richiama altri più o meno simili rappresentati nei racconti pavesiani: in Viaggio di nozze si scorge il trauma di un signore che abortisce, o rimanda, il suicidio; in Suicidi operano due adolescenti mostrando che l’uno ha il coraggio di realizzarlo e l’altro è incapace di farlo; nel Cattivo meccanico c’è un giovane poeta lunatico che si toglie la vita con la moto; in Una domenica figura un giovane che si porta su un fiume innominato per farla finita, prima scrive su un taccuino e dopo si mette a contemplare l’acqua del fiume, ma, invece di andare avanti, torna “indietro”. In Pavese ci sono persino suicidi finti e personaggi che ritualmente preparano e attuano il suicidio, come suggerisce la “ragazza” di Tra donne sole che ingoia il veleno, come fa la ragazza pirandelliana della Veste luna: «mi chiesi se la ragazza di ieri aveva fiori nella stanza. C’è gente che per morire si circonda di fiori? Forse è un modo di darsi coraggio»[9. Ivi, p. 227.]; in Pirandello il rito di apparecchiare la propria scomparsa è enfatizzato dalla rappresentazione del giovane di In silenzio: «Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta (…) Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio (…) si stese sul letto (…), chiuse gli occhi». Suicidi, questi di Pavese, affini a quelli di tanti personaggi pirandelliani, quelli delle opere Il fu Mattia Pascal, Il Coppo, La levata del sole, Sole e ombra, anche nel senso che in modo drammatico esprimono, oltre alla profonda disperazione, “la tragedia del personaggio” e il pessimismo dei rispettivi autori, Pirandello e Pavese, per i quali la vita non è che una cosa “sciocca”, una ridicola commedia.
Come avviene in tanti racconti di Pirandello (ad es. Donna Mimma), anche nella narrazione di Tra donne sole la vena fantastica si irrobustisce e si dirama, con Pavese che intreccia continuamente due storie: quella di Clelia è restituita con un procedimento cronologico che incorpora i frammenti di ripiegamenti retrospettivi ed evocativi, inclini a recuperare un “passato fantastico”; e quella di Rosetta è narrata con un andamento a spiragli, a tasselli. Con queste due storie si incastrano altre storielle raccontate da altri personaggi; le une e le altre hanno il fine di creare controcanti e opposizioni, di mettere in evidenza una moltitudine di miti del passato diversi dai miti delle recenti generazioni, perse in illusioni infeconde, in fantasie velleitarie, in sogni astratti e vani, come era avvenuto anche nei Vecchi e i giovani di Pirandello. A tutto ciò fa da ricco sfondo l’ambiente cittadino di Torino, movimentato e febbrile, mentre in Pirandello così ritorna quello di Roma; una Torino che sembra contendersi il ruolo di protagonista con Clelia e che tuttavia non perde i connotati della città dei tempi non tanto lontani: «nessuno andava a spasso, tutti sembravano occupati. Per la strada la gente non viveva, scappava soltanto. Pensate che un tempo quelle strade del centro m’erano parse, passandoci col mio scatolone al braccio, un regno di gente in ferie e spensierata, come allora immaginavo le stazioni climatiche»[10. Ivi, p. 228.].
Il gioco pirandelliano delle immagini si intensifica quando Pavese porta la protagonista a riscoprire e ad avere contatti non solo con i vecchi luoghi, con amici, conoscenti, ma anche ad avere rapporti con nuove persone. Persone con cui Clelia lavora per aprire il negozio, e l’etica del lavoro la fa apparire una creatura emblema del capitalismo, tutta concentrata a salire sempre più la scala del successo, oltre a uno spettro che si muove nel clima cittadino; persone con cui esce e si intrattiene, va al cinema, al ristorante, alle feste, fa delle gite. Perlopiù sono anziani ricchi che si godono la vita mettendosi a realizzare cose che fanno i giovani e anche osceni spogliarelli; sono giovani dell’alta borghesia, non solo bighelloni e pieni di vizi, ma anche individui immersi nel mondo della professione o che sognano di realizzarsi nel campo culturale e artistico (teatro, pittura, danza, letteratura ecc.). Si tratta di gente mondana e dell’alta società, egoista, vana, eccentrica, molto simile alla gente romana rappresentata in Suo marito di Pirandello, e molto differente da quella del quartiere dove Clelia è cresciuta.
Nella sua quest, parimenti a quella del personaggio pirandelliano, c’è sempre qualcuno a ricordarle che non è più quella di una volta, quella nata nell’eden di un quartiere della città: «Lei non ha più nulla a che fare con la ragazza ch’è nata a Torino»[11. Ivi, p. 255.]. Quando Pavese glielo fa visitare, le si profila un luogo incisivo del degrado della città e le fa esperire uno sgomento acuto anche perché la memoria tira in ballo gli spettri dei suoi scomparsi; non riconoscendovisi, subentrano timori e crisi, e tra la sua gente si sente “nessuna” («”Nessuno lo sa” mi dicevo, “che sei tu quella Clelia”»)[12. Ivi, p. 261.], come accade al personaggio pirandelliano (ad es. in I vecchi e i giovani, Il fu Mattia Pascal, Quand’ero matto):
Fingevo di fermarmi a guardare le vetrine, ma in realtà esitavo, mi pareva impossibile d’essere stata bambina su quegli angoli e insieme provavo come paura di non essere più io. Il quartiere era molto più sporco di come lo ricordavo. Sotto il portico della piazzetta vidi la bottega della vecchia erborista; c’era adesso un ometto magro, ma i sacchetti di seme e i mazzi d’erba erano gli stessi. Di lì, nei pomeriggi d’estate veniva un profumo intenso, di campagna e di droghe[13. Ivi, p. 233.].
Avrei voluto andarmene. Quello era tutto il mio passato, insopportabile eppure così diverso, così morto. M’ero detta tante volte in quegli anni – e poi più avanti, ripensandoci – che lo scopo della mia vita era proprio di riuscire, di diventare qualcuna, per poi tornare un giorno in quelle viuzze dov’ero stata bambina e godermi il calore, lo stupore, l’ammirazione di quei visi familiari, di quella piccola gente. E c’ero riuscita, tornavo; e le facce la piccola gente eran tutti scomparsi[14. Ivi, p. 263.].
Clelia sembra ritrovare se stessa ed essere sull’onda del sollievo euforico quando ritrova la città immutata, con i suoi vicoli, con i suoi rumori e odori, con le persone semplici e umili, con la gente della sua origine di popolana e di povera sartina. E tenero e affettuoso è l’incontro con Gisella, un’amica dell’infanzia. All’inizio dell’incontro le due amiche non si riconoscono, motivo ricorrente nelle novelle pirandelliane quali Amicissimi e Toccatina. Infatti, Clelia fa fatica a riconoscerla perché è invecchiata e per certi versi Gisella diventa un suo specchio. In sostanza, l’amica le fa riscoprire un passato triste e tragico, quando le parla di come il destino avverso, sempre molto crudele nei riguardi del personaggio pirandelliano e pavesiano, si è accanito sulla sua vita fin da orfana, si è portato via il marito precocemente, si è messo a seminare infinite pene durante la guerra, e le racconta di come si è sacrificata per essere una madre esemplare, come tante madri pirandelliane (ad es. in Quando si comprende), al punto che ha cercato di dare alle due figlie una vita migliore della sua. Se la suocera merciaia rende la nuora Gisella «un’altra se stessa»[15. Ivi, p. 264.], Gisella fa le figlie diverse e identiche a se stessa, per cui Pavese imbastisce il gioco pirandelliano di specchi e di rispecchiamenti.
Clelia e altri personaggi pavesiani, anche quando sono fuori dello spazio del loro tempo passato, lo ricercano in tanti modi e vi si radicano con fervida immaginazione; una cosa simile trapela dal comportamento di svariati personaggi pirandelliani, da Lars Cleen a Mattia Pascal. Clelia non riesce neanche a seppellire i ricordi del tempo trascorso a Roma, e nel tessuto narrativo le si presentano a intermittenza, come succede ai personaggi pirandelliani (in Berecche e la guerra, La disdetta di Pitagora, I nostri ricordi). E, oltre a Gisella, ci sono altre amiche di Clelia pronte a dirle che è un’altra persona e «non ha più nulla a che fare con la ragazza ch’è nata a Torino»[16. Ivi, p. 255].
Il lettore comincia a familiarizzarsi con la nuova gente frequentata da Clelia dal momento che il vecchio amico Morelli la invita ad accompagnarlo a una festa, in cui tutti si divertono facendo cose non comuni, impastando discorsi futili e dicendo barzellette sui poveri cristi, sui ciechi, e sui sordi. Perlopiù le feste vengono usate dall’autore, come aveva fatto Pirandello in tanti suoi racconti (ad es. in Musica vecchia, Tu ridi, o nel romanzo Suo marito), per sottolineare il carattere strambo, capriccioso, e istrionico dei partecipanti, per rilevarne il camuffamento, la maschera dell’apparenza e dell’ipocrisia, l’assurda teatralità. Nel frattempo Clelia si rende conto di trovarsi in una città in cui è costretta a recitare “il gioco delle parti”: da una parte vive la vita («s’era decisa di godere»)[17. Ivi, p. 257.] e dall’altra la riflette («non mi sarei cambiata con nessuna di loro. La loro vita pareva una sciocchezza, tanto più sciocca perché non se ne rendevano conto»)[18. Ivi, p. 300.], in una città che è un palcoscenico fantastico e il fantastico per Pirandello e Pavese è il realismo dei nostri comportamenti e dei nostri tempi; un palcoscenico assurdo e selvaggio ma reso tale anche dalla ferocia degli uomini d’affari, detestati da Pirandello specie nelle novelle siciliane imperniate sull’economia dello zolfo: «a Torino ero entrata sulla scena e adesso recitavo anch’io. ‘È carnevale’, pensavo tra me , ‘sta a vedere che a Torino fanno tutti gli anni questi scherzi’ (…) La gente vive in modi strani. A sentirli parlare del loro mestiere e del diritto che avevano di vendere la roba non finita, era chiaro che più che i soldi difendevano la loro arroganza»[19. Ivi, pp. 250-51.] («anch’io facevo il teatro come gli sfaccendati di Torino»)[20. Ivi, p. 297.]. Per certi versi Clelia vuol essere una sorella di tanti personaggi pirandelliani e pavesiani che appassionatamente analizzano se stessi e la vita, apparendo anche amletici, e forse questo è indice di un vizio nichilista e autodistruttivo. In tanti modi Clelia sa indossare e portare la maschera pirandelliana, anche per difendersi; in certe scene se la toglie e se la rimette con disinvoltura.
In Tra donne sole tutto comincia a ruotare attorno alla riscrittura del canone pirandelliano dell’essere e dell’apparire, del grottesco colorito, sfarzoso, inconsueto, come illustra una scena di una festa di Carnevale che si svolge intorno a un catafalco “surrealista”. E mentre pirandellianamente si asserisce che «nella vita tutti recitiamo» e tutti sappiamo portare la maschera delle buone maniere[21. Cfr. p. 246.], in una festa carnevalesca Clelia si trasforma in personaggio osservatore sia del desiderio di Mirella e di altri di calarsi nel ruolo di attori di una commedia da fare, sia della parlata del pittore Loris, ombra di Pavese che tende a impostare il rapporto tra l’arte e la vita, e la visione del fare teatro d’avanguardia, alla maniera di Questa sera si recita a soggetto o di altri testi relativi al teatro nel teatro di Pirandello:
Mariella piombò su una sedia e ci disse:
˗ Su su, parliamo dei costumi.Quando alla fine ebbi capito di che cosa si trattava – una ragazza strillando più forte degli altri si mise a spiegarmelo – feci finta di nulla e sorrisi impassibile. Ormai Mariella e gli altri parlavano loro.
˗ Senza costumi e senza scene non si può.
˗ Gigionate. Allora è preferibile Carmen.
˗ È meglio che facciamo un ballo in costume (…)Da noi Loris disse, adagio: – Non si tratta di rifare il vecchio teatro. Non siamo tanto civili. Si tratta di dare la nuda parola di un testo, ma senza messa in scena non possiamo perché anche adesso in questa stanza, così vestiti, tra queste pareti, facciamo parte di una messa in scena, che dobbiamo accettare o respingere. Qualunque ambiente è messa in scena.
˗ E allora recitiamo al buio, – strillò una ragazza (…)
˗ Sciocchezze – disse una piccola signora seduta, foderata in un vestito di raso che valeva più di molte parole, – si va a teatro per vedere. Date o non date uno spettacolo?[22. Ivi, pp. 242-43.]
In queste feste la cifra teatrale si arricchisce con i partecipanti che danno vita a un’atmosfera anormale, e fanno osservazioni ridicole o riferite a un “nudo” simbolico: «Chi fa all’amore si (…) mette nudo»[23. Ivi, p. 246.]; che si criticano a vicenda a volte con garbata malizia e altre volte con durezza destinata a smascherare o ad aprire la coscienza: «Voi non siete bambine, siete vere donne… Viziose, maligne, ma donne… Sapete»[24. Ivi, p. 258.]; che parlano con ansia e frenesia, spettegolano e si sforzano di capire le ragioni del tentato suicidio di Rossetta, un’immagine di spettro assente-presente che Clelia viene a conoscere sempre più: «Ma lei, la ragazza, come sta? – Sì sì, sì è rimessa, ma non vuole vederci, non vuole vedere nessuno (…) – Sarà la nausea del veronal, – dissi allora»[25. Ivi, p. 2467]; che si portano a discutere l’idea lanciata dalla scultrice Nene, forse per essere stata profondamente scossa dalla vicenda di Rosetta, di mettere in scena un suicidio. Onde esala una dichiarazione di poetica implicante, soprattutto tramite Loris che ora si appropria della maschera dell’autore, la concezione che la realtà quotidiana è di natura fantastica, e che, come aveva suggerito Pirandello in certi racconti meta-artistici quale Ciascuno a suo modo, l’arte prevede e si fa vita, e osserva la realtà delle cose «con altri occhi» (questa e altre locuzioni quali “l’uomo solo”, “pena di vivere”, e “ciascuno è fatto a suo modo” vengono riprese da Pavese anche dai titoli delle novelle pirandelliane e le fa sue al punto da usarle in modo ossessivo):
˗ Sono storie di donne, – disse Loris sprezzante, – interessa ai padroni di casa. Per me, figuratevi (…) Mi piace anzi, questa fantasia della realtà, per cui le situazioni dell’arte perdono quota e diventano vita. Dove cominci il fatto personale non interessa (…)
˗ Che c’entra? – disse Mariella. – L’arte è un’altra cosa…
˗ Ne siete sicure? ragionava Loris – È un altro modo di guardar la cosa, se volete, non è un’altra cosa. Per me, vorrei mettere in scena proprio il fatto della suggestione drammatica, sono sicuro che sarebbe fantastico… un papié collé di cronaca teatrale… considerare questi vestiti che portate, questa stanza, questo letto, come le robe di teatro di Maria Maddalena…[26. Ivi, p. 250.].
La scena metateatrale rasenta l’assurdo quando lo sguardo della protagonista si porta a osservare un quadro composto di un “pasticcio” di colori che sembra far parte della sceneggiatura: dapprima non riesce a decifrare «cosa fosse» e poi vi scorge il volto di Loris pittore e di tutto quell’ambiente[27. Cfr. p. 251.]. O quando Pavese, volendo dare un giudizio sulla natura in generale dell’artista, si serve della scultrice Nene che discute con un suo amico delle messe in scena di drammaturghi francesi e la fa apparire a Clelia come una «strana ragazza» che «sembrava una lucertola. Probabilmente era davvero in gamba, e un’artista è così che dev’essere»[28. Ivi, p. 303.], e che si esprime con linguaggio oscuro, pur sostenendo che gli artisti sono «due volte bambini»[29. Ivi, p. 106.]. O quando Nene, Mariella, che è un’aspirante attrice, e gli astanti litigano sul dramma da fare, al punto che ciascuno manifesta una condotta egocentrica ed egoistica; e tutto appare una reminiscenza conscia o inconscia di Pavese delle personalità litigiose e discordanti non solo degli attori-teatranti della trilogia del teatro nel teatro di Pirandello:
dicevano che non c’era più tempo a trovarne un altro, e va bene, per quest’anno non si fa più niente. – Quella stupida! – diceva Mariella, e – Leggiamo un atto unico, senz’azione e senza scena, – diceva la Nene, e allora saltava su Loris, le guardava disgustoso, come matte che erano, e diceva: – Va bene. Ma non venite a cercar me, allora (…)
Chiesi per quando fosse la recita. – Chi sa? – disse la Nene. – Nessuno ha messo un soldo finora.
˗ Non avete chi paga?
˗ Chi paga, – disse Mariella cattiva, – pretende d’imporre i suoi gusti anche a noi… Ecco perché.
Loris disse: – Sarei felice se a me qualcuno m’imponesse un gusto… Ma non si trova più nessuno che abbia un gusto. Non sanno quello che vogliono.
Mariella rise soddisfatta, nella pelliccia. La Nene agitandosi disse: – Ci sono troppe Martelli e troppe Mizi in questa storia. Troppe femmine isteriche… Momina…
˗ Quella esagera, – disse Mariella.
˗ Momina sa quello che vuole. Lasciatela fare.
˗ E allora chi viene a sentirci? – disse secca Mariella. – Chi recita? le femmine isteriche?
˗ Recitare è escluso. Basta leggere.
˗ Storie, disse Loris, – volevamo colorire un ambiente…
Continuarono un pezzo. Era chiaro che il pittore ci teneva a sporcare dei teloni, per pigliare qualcosa. E che Mariella ci teneva a far l’attrice. Soltanto la Nene non aveva pretese, ma qualcosa c’era sotto, anche per lei[30. Ivi, pp. 251-52.].
Questi personaggi pavesiani appaiono identici a quelli di parecchie opere pirandelliane che si impongono, si attivano con vitalismo per far valere il proprio punto di vista e per persuadere gli altri, si scontrano e si urtano. Altre simili scene rimanipolano gli stilemi pirandelliani: anche con Momina che appare quasi una Madama Pace, anche con Mariella e Loris che sembrano scambiarsi il ruolo di regista, pur mentre tutti continuano a contendersi il protagonismo e a scivolare nella discussione dissonante e insincera. Così si affaccia l’idea pirandelliana non solo dell’impossibilità di comunicare ma anche dell’impossibilità di dar luce a un’opera d’arte(-dramma), intesa pure come allegoria della creazione di un testo e/o di un personaggio che non si lascia realizzare:
˗ Nessuno ci sta, – disse la Nene. – Non ci sto neanch’io. Si perde tempo per delle stupide storie e ancora non sappiamo che cosa si farà. Ha ragione Clara, reciteremo al buio (…)
Fu allora che arrivò Momina (…), sorrise, in quel suo modo (…)
Mariella intervenne a voce alta e chiacchierarono e risero e la Nene disse: – Roba da matti, – e del teatro non parlarono più. Adesso Momina portava lei il discorso e venne fuori la storia di un Gegé (…)
Mariella (…) s’era rimessa a riparlare del dramma, di Maria Maddalena, e si lagnava di Momina, di noi, ci accusava di mandare a monte le cose. Momina le rispose freddamente, si urtarono[31. Ivi, pp. 253-54.].
Nel romanzo i mezzi teatrali sono adoperati con finezza dall’autore (infatti, uno dei suoi ultimi sogni era di mettersi a scrivere per il teatro) non solo per seminare qua e là suggerimenti relativi alla metascrittura ma anche per presentare un mito festivo pirandelliano (ad es. in Un matrimonio ideale, Prima notte, Marsina stretta) in cui c’è chi ride e chi piange («Dal piano di sopra veniva un rimbombo di piedi e un gran fracasso. – Fanno anche loro carnevale, disse con un’aria seria che mi scappò da ridere. Ma dentro mi aveva colpito quella storia (… di aver paura di vivere. Mi venne in mente la ragazza dell’albergo (Rosetta)»)[32. Ivi, pp. 259-60.], un Carnevale umoristico alla Pirandello in cui la tragedia e la commedia si perdono in un intreccio senza demarcazione, senza poter dire dove l’una finisce e dove l’altra inizia, in cui tutto al contempo appare reale e finto («dichiarò ch’era finto»[33. Ivi, p. 225.]; «Torino una città finta»[34. Ivi, p. 228.]), un gioco di enigmi («chiesi a che gioco giochiamo»[35. Ivi, p. 291.]), di maschere («Chi fa l’amore si toglie la maschera»[36. Ivi, p. 246.]), di simulazioni e dissimulazioni («se nella vita si è se stessi o si deve recitare»[37. Ibidem.]), di finzioni e recite («pensai che la recita fosse già cominciata e tutto si svolgesse per finta»[38. Ivi, p. 250.]); c’è chi «ci tiene alla recita e ci vede nessuna illusione»[39. Ivi, p. 271.]; non c’è uno che non finge («Morelli finse (…) Io gli dissi ch’era strano che proprio gli uomini tenessero tanto all’apparenza»)[40. Ivi, p. 258.]; e c’è anche la Mariella attrice consapevole che recitare è fingere e che caparbiamente vuole «recitare a tutti i costi»[41. Ivi, p. 287.]. Tutti indizi stilistici di come la diegesi di Pavese porta avanti un suo pirandellismo. Lo stile di questo suo romanzo si nutre abbondantemente del linguaggio pirandelliano, si avvale soprattutto di stilemi, di sintagmi, di espressioni, di vocaboli, e di parole-chiave tipici della scrittura pirandelliana. Basta pensare all’ampio uso dell’aggettivo “finto” e del verbo “recitare”.
Nell’immaginario di Pirandello e di Pavese la recita è un gioco molto “serio”, anche quando nei loro racconti si intride di ironia filosofica o fantastica. La vita come recita e la recita come vita permettono a Pirandello e a Pavese di trattare una quantità di temi disparati, dalla metascrittura alla psiche umana, al sentimento cinico. E li portano a ribadire che la realtà-vita è sempre un concreto simbolo di un buffo e triste Carnevale, di una tragica farsa.
Tra donne sole svela un Pavese che riscrive a suo modo Pirandello, che coltiva il proprio pirandellismo su un nuovo terreno. Le descrizioni delle feste mettono l’enfasi sulla fantasmagoria di immagini che sono connesse o appartenenti alla sfera della drammaturgia e della maschera, che configurano Torino come un insolito spazio teatrale, che rendono la recita-finzione una miniera di chimere, profondamente detestate da Rosetta: «era stufa di Momina, della recita, di lei, di tutti quanti»[42. Ivi, p. 307.]. Quando Pavese ritrae Clelia al mare con delle nuove amiche, usa la sua visione-riflessione che gioca sulle immagini della vita reale e della vita virtuale, dello spettacolo teatral-cinematografico, imparentandola in questo senso all’attrice Nestoroff e al cameraman di Si gira: «Quella villa era uno splendore, piena di mobili massicci e poltrone, ma tutto incamiciato, perfino i lampadari. I pacchetti di legno erano ancora incerati. – Sembrava il castello medioevale – (…) Pensavo a quei film di ragazze americane che vivono tutte in una camera, e una più vecchia che la sa lunga fa da balia alle altre. E pensavo che è tutta una finta: l’attrice che fa l’ingenua è la meglio divorziata e pagata. Ridevo tra me»[43. Ivi, p. 306.]. E, quando Pavese descrive Clelia e gli amici a giocare al casinò di Saint Vincent, fa rievocare l’avventura di Mattia Pascal a Montecarlo, in un’ampia scena in cui si alternano i momenti di profonda disperazione dei perdenti a quelli di baldoria carnevalesca dei vincitori.
Dalla realtà carnevalesca di Torino Clelia, il cui “vero vizio” consiste nel piacere di starsene sola, è assorbita consciamente e inconsciamente. Ma in questo ambiente di personaggi di ricchi squallidi, di affaristi diabolici, di figurini fittizi, di artisti contraffatti, è sempre più travolta dallo straniamento: «a Torino mi succedeva di evitare la gente. Tanti pittori, palloni gonfiati, musicisti – dappertutto»[44. Ivi, p. 287.]. Un ambiente che Pavese ritorna a smascherare con toni di umorismo sarcastico che riecheggiano quelli pirandelliani, concentrati a dissacrare il mondo artistico di Roma nel romanzo Suo marito. Clelia vi opera come se fosse un’anima gemella del pirandelliano Enrico IV, piazzato davanti ai suoi visitatori borghesi rivestiti, come se fosse convinta che «fingere è virtù; e chi non sa fingere non sa regnare», come stesse dicendo che per Pirandello e Pavese “fingere” è una somma “astuzia” che può produrre anche la vendetta e il male[45. L. Pirandello, Maschere nude, vol. II, Milano, Mondadori, 1971, p. 665.]; come se fosse dotata della virtù magica di mettersi e di togliersi la maschera alla maniera di Enrico IV per proteggersi, per sopravvivere. Anche l’indole caparbia che mostra nell’ambito lavorativo la imparenta a Enrico IV e ci fa capire che Tra donne sole è il romanzo più pirandelliano di Pavese.
Nello spazio di una Torino grottesca, Clelia si trova con un piede dentro e uno fuori, spaesata, estranea. È un’altra creatura pavesiana che vive dimezzata, tra due mondi, e viaggiando tra uno stato e l’altro, compresi quelli euforici e disforici: si rivela incapace di integrarsi nel mondo dell’haute e non è in grado di ritornare al mondo di una volta; vive tra un passato perduto e inafferrabile, e un presente effimero che la respinge. È costretta a vivere in un mondo non suo e ad accettarne contro voglia i riti, i ritmi, gli stili di vita, persino le follie. È un’emarginata in tutti i sensi, un’esclusa nell’accezione pirandelliana. La sua avventura si fa assurdamente paradossale e grottesca perché, dopo aver covato ardenti sogni e compiuto enormi sacrifici per raggiungere l’elisio dell’haute, viene a trovarcisi prigioniera, le si rivela un labirinto soffocante, un mondo mostruoso, “finto e tragico” . E così riflette la parabola della Torino alla rovescia e sfingea, che è il palcoscenico del teatro dell’assurdo, che fantasticamente giustappone il paradiso e l’inferno, che incredibilmente è vile e selvaggio. Ciò è reso esplicito dall’azione bestial-diavolesca di Febo che seduce Clelia: «L’ebbi addosso come un diavolo e strappò le coperte. S’agitò poco e fu subito fatto. Momina non era ancora rientrata che Febo era già in piedi accanto al letto coi peli dritti come un cane e si ravvivava la testa»[46. Ivi, p. 276.]. Pirandello e Pavese convergono sul punto di credere fermamente che l’uomo è più bestia della bestia: l’uno lo drammatizza in rappresentazioni quali Lo spirito maligno, Zia Michelina, Il Signore della Nave e l’altro lo rende un tema inquietante anche in Paesi tuoi e nella Casa in collina. In Nome Pavese sviluppa il giovane protagonista Pale sulla falsariga del Ciaula pirandelliano che, vittima di un destino crudele, è più animale che uomo. Anche Pale ha una fisionomia animalesca, «con bocca da cavallo» e con «denti leonini»[47. Ivi, II, p. 86.]; la mattina si sveglia all’«urlo lamentoso» di qualcuno; si nutre di cibi miseri e di erbe («calava dai denti il sugo verde»)[48. Ivi, p. 87.]. Anche Pale, come Ciaula, fa parte della cultura primordiale in cui vale la legge della giungla, dove si comunica tramite il linguaggio non umano e le persone vengono chiamate con le urla, con le grida, con le modulazioni degli animali.
Nella visione di Pirandello e di Pavese c’è la nozione che «l’uomo è il solo animale che guadagna a vestirsi»[49. Ivi, p. 230.], ad acconciarsi, a camuffarsi. E in certe loro opere, come ad esempio la Sagra del Signore della Nave dell’uno e Tra donne sole dell’altro, il rivestimento e il mascheramento hanno finalità ben precise, compresa quella di aumentare il grado della teatralità, specie dell’atmosfera carnevalesca.
Essendo Clelia una sarta di alto valore e di gusto, non può dare attenzione a come le persone tengono ad atteggiarsi, a truccarsi, a indossare questi o quegli indumenti: («Lei ha gusto ma la mia sarta mi basta… È un piacere parlare con chi vive un’altra vita»; «Momina vestiva benissimo, un tailleur grigio sotto la pelliccia di castoro, e aveva pelle massaggiata, il viso fresco»)[50. Ivi, pp. 254-55.].
Il grottesco di stampo pirandelliano si accende quando a una festa osserva con viva curiosità una contessa e una «piccola signora» che appaiono come se fossero dei manichini o personaggi di un museo di cera, e un signore «in smoking con berretto rosso»[51. Ivi, p. 234.]; a volte, si sente a disagio in compagnia di individui stravaganti e camuffati come divi «esposti in una vetrina»[52. Ivi, p. 266.]. L’umorismo alla Pirandello prende di mira anche i giovani che seguono la moda, i loro modi effeminati di imbellettarsi, facendo anche uso dei “profumi”. E si tratta di un umorismo teso a mettere in risalto messaggi esistenziali, psicologici, soprattutto sottolineando come l’adornarsi è un modo di costruirsi, di darsi un’altra personalità, di essere quello che non si è o di recuperare quello che si era, in una dimensione in cui l’elemento dello spazio-tempo svolge un ruolo primario. Se Pirandello ci regala una «vecchia signora» che si riveste da giovane alla moda, forse per acquistare un nuovo compagno, o forse per ripescare il tempo favoloso della «bella estate» che non ha mai avuto, Pavese ci offre una giovane Nene che si riveste da “bambina” e secondo una Momina sua rivale, lo fa non solo per «innamorarsi, sbronzarsi» ma anche per prostituirsi[53. Cfr, p. 326.].
Questo mondo falso e abietto di Torino è il bersaglio delle stroncature ciniche di Momina, figlia di nobili che vive separata dal ricco marito. Clelia, una pirandelliana che si porta con frequenza davanti allo specchio (incluso quello delle vetrine: «indugiavo davanti alle vetrine»[54. Ivi, p. 223.]; «Parlavo allo specchio»[55. Ivi, p. 232.]; «rividi la mia faccia allo specchio»[56. Ivi, p. 242.]), che comprende con compassione come «ciascuno è fatto a suo modo»[57. Ivi, p. 325.], che capisce l’importanza di “fingere” per (soprav-)vivere («Mentre giravo nei corridoi, per calmarmi mi ripetevo: ‘Brutta stupida. Così impari a voler esser un’altra’. Credo che fossi anche arrossita. Mi fermai davanti allo specchio»)[58. Ivi, p. 271.], si trova a suo agio in compagnia di Momina e di Rosetta, anche scherzando, mangiando e bevendo «misteriosi vini». È un trio di donne che rappresentano i lati disparati di un io scisso, i risvolti personali di Pavese: Momina, lo spirito nichilista; Clelia, il mito della solitudine e l’anima ostinata, egoistica, narcisistica («se volevo qualcosa, ottenere qualcosa dalla vita, non dovevo legarmi a nessuno, dipendere da nessuno»[59. Ivi, p. 224.]; «Non si può amare un altro più di se stesso. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno»[60. Ivi, p. 240.]); Rosetta, la coscienza della disperazione e del «vizio assurdo», di chi «aveva letto tutto»[61. Ivi, p. 302.] e di chi sa «che la vita è difficile»[62. Ivi, p. 331.]. Clelia ha pietà per la situazione di Rosetta, specie quando la vede, alla maniera dei personaggi strambi di Pirandello (Enrico IV, Vitangelo Moscarda, Fausto Baldini ecc.), bollata dagli altri come una «pazza, pazza secca»[63. Ivi, p. 230.] («Se avessi io una figlia che mi fa questi giochi l’avrei già chiusa in un convento»[64. Ivi, p. 299.]), o quando la vede, non diversamente da tanti tormentati personaggi pirandelliani (cfr. Suo marito, Uno, nessuno e centomila, Chi fu ecc.), in preda alla distrazione e ai pensieri morbosi, e prontamente capisce che, con questo modo di essere, Rosetta si contraddistingue dal suo mondo artificiale e assurdo. Tra loro subito si stabilisce una relazione confidenziale:
m’aveva condotto di sopra, su un terrazzo, dove – mi disse – da bambina si confinava ore e ore per leggere e guardare le cime degli alberi. Laggiù c’era Torino – mi disse – e nelle sere d’estate da quel cantuccio lei pensava (…) ai visi che un giorno avrebbe conosciuto.
˗ Sovente ingannano, – le dissi, – non crede?
Lei disse: – Basta guardarli dentro gli occhi. Negli occhi c’è tutto.
˗ C’è un altro modo, risposi, – lavorare con loro. La gente lavorando si tradisce[65. Ivi, p. 279.].
Come certi adolescenti pirandelliani, Rosetta è il paradigma di una personalità complessa. In vari momenti Rosetta ricorda a Clelia che è una creatura matura e non più una «che gioca con la bambola»[66. Ivi, p. 307.] e le racconta particolari della propria vita: dal meditare il suicidio una notte in balia della solitudine che instilla spavento, ribrezzo, disperazione («Rosetta, stupita, mi disse (…), l’idea di esser sola (…), di attendere distesa nel letto il mattino, le riusciva insopportabile (…), non poteva far nulla, e trovandosi nella borsetta il veronal…»)[67. Ivi, p. 291.]; all’avventura amorosa avuta con Momina, singolare nella narrativa nostrana di quel tempo («Mi guardò, magra, con quegli occhi di gatto (…) – Che cosa mi fa dire Oitana (…) Non mi vergogno. Sa com’è tra ragazze. Momina è stata il mio primo amore. Tanti anni fa, prima che si sposasse… Adesso siamo amiche»)[68. Ivi, p. 292.], e poi Momina ne dà con linguaggio ermetico una versione diversa e a metà: «”mi entra in camera (…) Lei allora volle far la coraggiosa, ma le è rimasta l’impressione e mi considera… qualcosa… come il suo specchio. Capisci?” Capivo. La storia era così assurda che doveva esser vera. Ma non aveva detto tutto, era chiaro»[69. Ivi, pp. 309-10.]. L’avventura lesbica sembra un altro espediente con cui l’autore esplora con ansia pirandelliana oltre i ritmi normali delle cose e della natura, vuole andare oltre i confini di certi tabù, precisare un atto di contestazione e di evasione. È un’avventura che ha segnato la vita di Rosetta, e che rende non sempre disteso l’attuale rapporto delle due amiche. Come testimonia la scena in cui Momina rimprovera duramente l’amica («gli occhi ossuti di Rosetta si empivano di lacrime»)[70. Ivi, p. 288.] per non essere stata capace neanche di suicidarsi:
˗ Io… ti odio, – balbettò Rosetta, ansante.
˗ Ma perché? – disse Momina seria, – di che cosa mi rimproveri? di essere stata troppo per te, o troppo poco? (…) Dicci almeno che cosa si prova. A chi si pensa in quel momento. Ti sei guardata allo specchio? (…)
Rosetta disse che non s’era guardata allo specchio. Non ricordava se nella stanza c’erano specchi. Anche allora aveva spento la luce. Non voleva veder niente, nessuno, soltanto dormire. Aveva un grosso un terribile mal di testa. Che a un tratto era passato, guarito, lasciandola distesa e felice. Com’era facile, le pareva un miracolo. Poi s’era svegliata, all’ospedale (…)
˗ Seccata? – mormorò Momina.
˗ Uh, – disse Rosetta -, svegliarsi è orribile.
˗ Ho conosciuto una cassiera a Roma, – dissi -, che a forza di vedersi allo specchio, lo specchio dietro il banco, diventò pazza… Credeva di essere un’altra.
Momina disse: – Bisognerebbe vedersi allo specchio… Tu Rosetta non hai avuto il coraggio[71. Ivi, pp. 288-90.].
Se Rosetta non si guarda allo specchio è perché, come accade a certi personaggi pirandelliani quale Enrico IV, ha una limpida coscienza di essere differente dagli altri, di non essere un caso clinico di infermità mentale, di essere se stessa e anche un’ingenua che prende le cose con viscerale serietà e che è artefice del proprio destino, come lo è anche Clelia: «Quest’è un destino come un altro (…), e me lo sono creato io»[72. Ivi, p. 296.]. Come per vari personaggi pirandelliani (ad es., in Sogno (ma forse no)) e pavesiani, compresa Rosetta, svegliarsi è un avvenimento “orribile” perché si aprono gli occhi alla realtà orrenda, a tutto ciò che produce l’orrore traumatico, il perturbante. Pavese lo ribadisce con il punto di vista di un “gobbo” che conversa con Rosetta che, mentre descrive la remota società primordiale dei “negri del Tombolo”, in realtà sta mettendo a nudo la nostra incredibile società contemporanea, simboleggiata dall’haute torinese: «Le diceva: – Erano sempre ubriachi di liquori e di droghe. Di notte facevano orge e si tiravano coltellate. Quando una ragazza era morta, la sotterravano nella pineta e ci appendevano alla croce le mutandine e il reggiseno. Giravano nudi, – diceva. – Erano primitivi autentici (…) Lei disse: – Le stesse cose si fanno a Torino»[73. Ivi, p. 333.]. Un altro passo esemplare della sua scrittura che si basa sull’ironia morale, la linfa di ciò che Pirandello chiama il sentimento del contrario. Sentimento vissuto non solo da Clelia e Rosetta, ma anche da tanti altri personaggi dei racconti pavesiani (ad es., in Ciau Masino). Sentimento che in sostanza è espressione del sentimento tragico della vita, simboleggiato drammaticamente dal suicidio non solo di una folla di personaggi pirandelliani che si ribellano a un destino crudele, ma anche di Rosetta, che viene trovata morta in una camera d’affitto, e qui culmina la sua immagine di vittima di un mistero assurdo, descritta con toni di elegia, pietà, poesia. Con questo epilogo Pavese chiude la struttura circolare del racconto, prediletta da Pirandello, e rende Rosetta la sua maschera spettrale. Come si nota in tante trame pirandelliane in cui due o più personaggi rappresentano le particelle della coscienza disintegrata di Pirandello, in Tra donne sole Rosetta è la parte fragile di Pavese, Clelia ne è la parte stoica. Sono parti emblematiche delle inquietudini di un io in cerca di un angolo di serenità. E Pavese, più appare convinto che l’unica serenità(-salvezza) si trova nell’abbracciare la morte, più si sforza di credere che tale serenità(-salvezza) possa essere trovata con il ritorno al luogo natio e quindi al tempo favoloso dell’infanzia: un’illusione che non ha quasi mai esiti felici, anche perché trascina sempre più nel baratro della crisi, come suggerisce anche la vicenda di Anguilla, protagonista di La luna e i falò.
Il pirandellismo di Pavese è la linfa di tanti suoi racconti. Soprattutto quelli incentrati sulla crisi dell’io, spesso in balia della disintegrazione e della moltiplicazione, in cerca di se stesso o di qualcosa che non riesce a trovare, ascrivibile anche alla personalità mutevole di una sua stagione passata. Questo avviene quando Pavese sviluppa il suo pirandellismo riscrivendo i miti classici nei racconti dei Dialoghi con Leucò, cosa che Pirandello fa fin dall’opera d’esordio, Mal giocondo.
(fasc. 20, 25 aprile 2018)