Quella di Gesualdo Bufalino è una scrittura che si compiace costantemente della riscrittura, che ama ripiegarsi su di sé, sul già scritto o su pagine di altri autori, in una forma di recupero che assume appunto la fisionomia di un insistito ritorno e insieme di un rispecchiamento, parimenti nutrito di elementi narcisistici e vocazione memoriale per ciò che è stato, autentici tratti distintivi di uno stile inconfondibile. Il travaglio variantistico e la revisione prolungata dei propri scartafacci, il “guazzabuglio” delle carte preparatorie e delle striscette incollate sui dattiloscritti a mo’ di palinsesto, così come la tentazione citazionistica (talora esibita, talora nascosta) e la passione traduttoria mettono, infatti, in evidenza una modalità di intendere la composizione letteraria che dice da sola già tanto del professore di Comiso e della sua scrittura.
Il ritorno sulle proprie pagine prima del ne varietur e il rispecchiamento di sé nelle pagine altrui si configurano, intanto, entrambi chiaramente come forme di ripresa e di ripetizione, anche se di ripetizione con variazione, quasi in un esorcismo volto a ribaltare la mortifera riproposizione dell’identico in una nuova e vitale creazione, esattamente come nella visione bufaliniana dei processi mnestici inventivamente destinati a restituire qualcosa di diverso rispetto agli accadimenti reali.
In questo sistema intimamente nutrito di riprese e ripetizioni è singolare tuttavia notare come nella produzione edita di Bufalino vi sia un solo caso di “riscrittura” ufficiale di un proprio testo, di un raddoppiamento cioè espressamente concepito e licenziato dallo scrittore, che nell’89 riduce in atto unico per la scena il racconto La panchina già pubblicato nella raccolta L’uomo invaso (con una trasposizione d’autore che ricalca modalità di riusi letterari ampiamente praticati in passato da altri grandi siciliani come Verga e Pirandello).
Un’analisi ravvicinata di questo scritto double face permette di mettere a fuoco proprio quel processo di ripetizione con variazione che non riguarda in questo caso il passaggio da una redazione preparatoria o provvisoria a una finale, ma due esiti parimenti “ultimi” e assolutamente esemplari dell’approccio bufaliniano alla rilettura di sé e alla riformulazione delle proprie pagine, ripensate qui per una differente destinazione. Il cambio di modalità di fruizione determina per certi versi una nuova invenzione, così come per lui è costantemente il ripescaggio dei ricordi, l’attività infedele della memoria, non a caso al centro di molti passaggi dei due testi, e che racchiude proprio negli scarti dall’originale elementi di pregnante significanza.
In forma di racconto La panchina esce all’interno del volume L’uomo invaso e altre invenzioni, apparso da Bompiani nel 1986[1]; tre anni dopo, nel 1989, il Teatro Stabile di Catania propone a Bufalino, su idea di Antonio Di Grado, di comporre un atto unico per un trittico firmato dai tre maggiori scrittori siciliani viventi (Consolo, Sciascia e lui stesso), e la sua scelta cade appunto su una riduzione scenica della Panchina; il Trittico debutterà con successo di critica e di pubblico nel novembre di quell’anno, pochi giorni prima della scomparsa di Leonardo Sciascia[2].
La trasposizione rispecchia fedelmente lo spirito di fondo del testo narrativo (peraltro già concepito ab origine con un’ideale scansione teatrale in tre giornate sostanzialmente corrispondenti a tre scene), ma sono le variazioni intervenute tra l’uno e l’altra – apparentemente non determinanti, ma in realtà semanticamente assai rilevanti nell’economia complessiva del lavoro – a connotare la reinterpretazione delle proprie pagine compiuta dallo scrittore. Le modifiche apportate al tessuto dei dialoghi tra i personaggi (un vecchio, un bambino e la giovane che gli fa da baby sitter) sono sotto questo aspetto assai più significative dell’unica modifica strutturale relativa all’eliminazione dalla pièce teatrale della terza e ultima giornata di ricreazione al parco del bambino, contenuta nel racconto e nella quale il vecchio e la giovane non erano più presenti, sostituiti da un altro uomo che leggeva il giornale sulla panchina e da una più matura governante a fianco del piccolo.
In entrambi i testi, l’anziano protagonista e la ragazza mettono a confronto i loro rispettivi drammi di una vecchiaia di solitudine ipotecata dalla malattia e di una giovinezza tormentata, tentata dalla droga e dal suicidio; ma le due opere presentano sfumature differenti, non frutto, certo, di modifiche casuali, ma all’interno delle cui pieghe si mostrano, anzi, elementi variamente riconducibili all’immaginario bufaliniano e quindi pienamente inseriti in una rete di significato più ampia.
Per un claustrofilico confesso quale lo scrittore di Comiso, sicuramente indicativa è intanto l’ambientazione del racconto, e parimenti dell’atto unico, in uno spazio aperto: non si tratta in questo caso di uno scarto tra le due forme del testo, ma di una modifica di paradigma rispetto alla diceria di una sofferenza formulata da luoghi chiusi (il sanatorio, la stanza dell’albergo romano) dai protagonisti dei due romanzi editi prima dell’Uomo invaso (Diceria dell’untore e Argo il cieco), nonché rispetto alla notturna reclusione dei condannati a morte delle Menzogne della notte, uscito l’anno prima della riduzione teatrale della Panchina.
La Villa Bellini di Catania si presenta sin dall’inizio in modo esibito quale scenario en plein air in entrambe le versioni del testo: il racconto si sofferma infatti, nel suo secondo lungo passaggio, proprio sulla descrizione minuziosa del parco[3], laddove la didascalia di apertura dell’atto unico raddoppia il giardino comunale ricostruito dalla scenografia in uno schermo su cui vengono proiettate immagini della stessa villa[4]. Nel 1984, Bufalino aveva steso e pubblicato lo scritto “Vicino a un grande giardino…”, edito all’interno del volume miscellaneo della De Agostini Ville e giardini, a cura di Franco Borsi e Geno Pampaloni[5], nel quale egli restituiva il senso che il giardino aveva assunto nella sua prospettiva di lettore e narratore, nonché alcuni spunti interessanti per una lettura in controluce di questo giardino della Panchina. In quel brano lo scrittore sovrappone memorie letterarie e memorie di vita e riconduce da subito al ricordo di un passo dell’Anabasi di Senofonte la propria idea di giardino, «che conserva […] colori da Mille e una notte», «metafora […] del paradiso», da cui «si può uscire una volta ma non ritornare», «divieto e delizia», tanto più proibito e inarrivabile per il fatto che – aggiunge – nel suo paese natale «non c’erano né parchi né ville»[6]. E a questo giardino senofonteo Bufalino associa, in quelle pagine dell’84, la propria scoperta personale dei giardini palermitani («la Favorita, Villa Giulia, l’Orto Botanico»), la testimonianza di Goethe che lo aveva guidato «su quelle panchine» (e che in una pagina del 7 aprile 1787 menzionava addirittura a paragone «l’isola beata dei Feaci»), ma ricorda anche in modo contrastivo come i giardini siciliani siano anche quelli della villa dei mostri del principe di Palagonia, o quelli del Don Fabrizio Salina del Gattopardo in cui «un cadavere […] marcisce tra i fiori». Nei paradisi fioriti di quella terra contraddittoria che è la Sicilia trovano, quindi, posto a un tempo elementi di sgomento e di morte, nonché di malinconia e decadenza, come richiamano i versi incisi su un muro di una villa di Bagheria citati da Bufalino («Ya la esperanza es perdida / y un sol bien me consuela / que el tiempo que pasa y vuela / llevarà presto la vida»), o come suggeriscono altri passaggi di questo scritto dell’84 dedicato ai giardini che proiettano anche in interni in disarmo l’abbandono delle ville nobiliari siciliane[7].
In tal senso è curioso notare come queste pagine sui giardini che per composizione precedono La panchina tendano idealmente la mano all’attacco della sceneggiatura bufaliniana Io, Franca Florio, risalente agli anni ’90 ma ritrovata nel 2021, in cui una vicenda di decadenza e morte viene narrata proprio a partire dal parco di una villa (con tanto di panchine), cui corrisponde a ruota la descrizione dei saloni ormai dismessi di casa Florio[8].
Tra questi due estremi testuali si colloca idealmente il giardino comunale della Panchina, del quale nel racconto si dice che, nelle ore meno affollate, «differisce poco da un parco privato», quasi in una strizzata d’occhi alle ville in cui il paradiso ha profanato la propria natura, descritte nelle pagine De Agostini dell’84, e al parco privato che Bufalino avrebbe tratteggiato ad apertura della sceneggiatura su Franca Florio. Nel sistema semantico costituito dalla scrittura bufaliniana, il parco – proprio grazie al riferimento ai parchi fattisi specchio (e dallo scrittore eletti a specchio) delle contraddizioni siciliane – reca, dunque, in sé ipoteche di disfacimento e morte ben lontane dall’originaria immagine paradisiaca derivante dall’Anabasi senofontea, e in tal senso anche il giardino, quale spazio aperto ed estraneo alla claustrofilia dello scrittore, può pertanto ospitare, come scenario non eterogeneo, bufaliniani confronti tra personaggi segnati dalla sofferenza e dalla malattia.
Sofferenza e malattia sottolineano, appunto, l’attacco del racconto pubblicato all’interno del volume L’uomo invaso e altre invenzioni in cui la narrazione in terza persona esordisce dicendo di una gara tra l’incombente cecità («Rètina a pezzi, black-out in arrivo») e la debolezza del cuore del vecchio protagonista; ma in realtà, nel dettato del testo, è presente un altro elemento che compare da subito nelle dinamiche semantiche della Panchina, ancor prima del riferimento alla condizione di malato del personaggio: si tratta di un libro, che l’anziano individuo porta con sé alla Villa Bellini, malgrado l’impossibilità di leggervi dentro per via della vista danneggiata; un ideale fidato compagno, attraverso il quale Bufalino ripropone ab initio anche in queste pagine il nesso tra letteratura e malattia da sempre al centro del suo immaginario. A questo binomio si aggiunge da subito la rievocazione di un ricordo, saldando significativamente pure l’elemento memoriale alle logiche del testo: «Ricordò che suo padre, sentendo avvicinarsi la fine, s’era raccomandato che gli mettessero le scarpe ai piedi, prima che li gonfiasse la morte. Pretendeva una morte decente e l’aveva avuta. Ma lui?»[9].
Il ricordo ha in questo caso a che fare con la morte (e con le scarpe), ma altresì con la rielaborazione narrativa, come dimostreranno entrambe le versioni della Panchina attraverso la favola del principe e del gigante che il vecchio racconterà al bambino, dal canto suo attratto e incuriosito da subito dalle statue a mezzobusto che adornano nel parco il viale dei Grandi, «uomini importanti, uomini morti», secondo quanto gli viene prontamente spiegato dalla giovane governante che lo accompagna e che inaugura in tal modo il dialogato all’insegna di un preciso e insistito riferimento mortifero: «Morti? Che vuol dire, morti?», prosegue infatti ad incalzarla il bimbo, prontamente esortato ad andare piuttosto a giocare con la palla, risucchiata così anch’essa, da simbolo ludico, in quest’orbita di influenza funerea (secondo quanto, d’altronde, anticipato dal Bufalino di uno scritto dell’anno precedente, Allegrezze di morte: «Si sa, l’uomo sulla terra fa soprattutto due cose, giocare e morire: homo ludens, homo moriens. E fa una cosa in forza dell’altra»)[10]. In entrambe le versioni della Panchina proprio la palla è al centro della prima azione, allorché da oggetto in movimento ed emblema di vitalità si incastra fra le gambe del vecchio signore seduto sulla panchina, dando a questi poco dopo occasione di una prima tirata sulla vita e sulla fine di essa rivolta al bimbo, orfano di madre e che continua a chiedere insistentemente notizie sulla morte, fino a ricevere una risposta esemplificata appunto dall’anziano interlocutore attraverso la stasi della palla al termine del suo moto: «“La morte”, disse il vecchio, “è quando uno non sente più rumori, non vede più colori. Quando non cammina più: sta. Come una palla che, se non la fai ruzzolare, si ferma e sta”»[11].
Nel racconto il concetto è addirittura ribadito dal bambino che contempla la palla ferma e dice «È morta», ma è interessante notare anche il riferimento all’assenza dell’udito e della vista quali emblemi della morte, riferimento che nella versione narrativa sembra simbolicamente riguardare e identificare proprio il vecchio afflitto dall’incipiente cecità e la giovane baby sitter che all’arrivo al parco «allacciò l’auricolare di una radiola, sembrò murarvisi dentro, al riparo, sola». Gli spettri della malattia e della morte segnano in tal senso la versione narrativa della Panchina attraverso dettagli e sfumature che non confluiranno nell’atto teatrale, ma che contribuiscono a legare tutti e tre i personaggi a questa dimensione mortifera, prontamente ricondotta dal Bufalino del racconto alla sua matrice autobiografica originaria affidata alle pagine di Diceria dell’untore e qui rievocata da un insistito cenno a un attacco di tosse dell’uomo, non riproposto nella stesura per la scena («la voce lo tradì, gli si ruppe in un ingorgo di tosse che pareva non dovesse sciogliersi più. Noemi pazientemente aspettava […]. E continuava a fissare il vecchio, aspettando una tregua di quella tosse»)[12]. Soffermandosi sui particolari presenti esclusivamente nel racconto, è interessante notare come la dominante ipoteca di Thanatos (più diffusamente e minutamente rintracciabile in questa redazione dell’86 e qui restituita indirettamente anche dall’immagine del tempus edax resa dal calendario perpetuo che i giardinieri aggiornano quotidianamente alla Villa Bellini) irretisca pienamente nella prima Panchina anche il bambino, non solo attraverso l’esemplificazione di morte riferita alla palla con cui gioca, ma anche tramite i riverberi che l’iniziale ricordo delle scarpe ai piedi richieste dal padre morente dell’anziano protagonista getta sulla fiaba che quest’ultimo racconterà al suo giovanissimo interlocutore: la favola “vera” («Il bambino protestò: “No, io voglio una favola vera”») narratagli dal vecchio resta in realtà in sospeso in entrambe le versioni del testo e si compone di due parti, la prima che ha a che fare col tempo (con un principe che in un castello trova una scala magica che invecchia chi sale e ringiovanisce chi scende) e la seconda con la ricerca di calzature adeguate da parte di un gigante con piedi grandissimi, in qualche modo indiretta, velata trasposizione dei piedi gonfiati dalla morte di quel padre evocato all’inizio del racconto (ma non nella piéce) e che voleva anche lui indossare le scarpe prima di spirare.
Tutti questi elementi (insieme ad altri di cui si dirà più avanti) contribuiscono a creare una rete di tasselli semantici a connotazione di un testo narrativo concentrato sui motivi della morte, della malattia e della sofferenza (puntualmente filtrati dalla letterarietà) in modo molto più specifico di quanto non accada nell’atto unico, dove a queste componenti di significato se ne aggiungono altre differenti e originariamente non presenti, ma comunque ad esse collegate sempre per il tramite della letterarietà. E la letterarietà esercita apertamente il proprio ruolo di rilievo nel racconto proprio ad inizio dell’incontro tra il vecchio e la giovane baby sitter: il dialogo tra l’anziano uomo e la ragazza si apre, infatti, nel testo narrativo intorno al libro che lui reca con sé, incomprensibile per la ragazza che non conosce il greco antico, da lei scambiato per arabo, e invece lingua familiare per il vecchio che un tempo la insegnava a scuola e che aveva studiato da giovane proprio su quella panchina. La confidenza con i libri caratterizza il presente così come il passato dell’uomo rievocato attraverso il ricordo, restituendo il senso stesso di una vita segnata dalla lettura anche a discapito di amori giovanili, cosa che, stupita e ironica, gli fa notare invece la protagonista dell’atto unico («Da giovane, qui, con un libro? Anche se c’era una ragazza seduta accanto?»)[13], chiamando in causa l’eterna contesa bufaliniana tra vita vera e vita vissuta attraverso la letteratura[14].
Nella piéce, invece, lo scambio di battute sul libro non è l’occasione di avvio del dialogo tra i due, perde cioè in qualche modo la sua importanza incipitaria, anticipato com’è dal veloce accenno a un altro spunto di conversazione, primo segnale della più articolata struttura tematica dell’atto unico; il riferimento al libro è, infatti, qui preceduto da un breve confronto sulla gioiosità dei fanciulli e sul ruolo materno, argomentati dall’uomo per avviare la conoscenza e negati l’uno e l’altra immediatamente dalla giovane che prende le distanze non solo da quella ipotetica maternità ma anche dai bambini, colpevoli di non aver più fantasia e di non dire più neanche le bugie[15]. Questa difformità del testo teatrale rispetto al racconto anticipa ulteriori accenni alla genitorialità presenti nella piéce, saldandoli da subito ai motivi dell’invenzione e della menzogna, declinati in negativo in questo primo contesto, ma che riemergeranno in positivo in associazione ancora una volta alla finzione quale cifra identificativa della letterarietà e di una vita ad essa subordinata.
In realtà, il lavoro di riduzione del testo per la scena, portato avanti da Bufalino all’insegna di un arricchimento degli spunti presenti nei dialoghi tra i due personaggi principali, può idealmente trovare in una sottolineatura della dimensione metateatrale la direttrice che aggrega le numerose varianti rispetto al racconto edito nell’Uomo invaso, in un progetto di riscrittura che modifica tematicamente la “nuova” Panchina in piena sintonia con la nuova destinazione.
Il teatro parla di teatro nel lavoro steso per il Trittico dello Stabile di Catania che piega a questa curvatura tutti i motivi che si intrecciavano già nel racconto, dove peraltro il libro chiamato in causa sin dall’inizio e che l’uomo porta con sé contiene non un romanzo o delle poesie, ma un testo per la scena, l’Edipo a Colono di Sofocle, come lascia chiaramente intendere un passaggio narrativo specifico:
Il vecchio lisciò con le dita il volume: «È la storia di un cieco a braccio d’una ragazza». Poi, senza leggere, recitò: «O figlia d’un cieco invecchiato, Antigone, dove siamo arrivati? Una campagna, un paese d’uomini? E quale? Ci sarà qualcuno anche oggi ad accogliere con doni anche poveri questo Edipo errabondo?…»[16]
Il vecchio professore conosce a memoria la traduzione del testo greco e ne “recita” l’inizio senza neanche leggere dal libro; come si diceva, il motivo della teatralità non verrà, tuttavia, compiutamente sviluppato in questa prima Panchina e troverà in realtà espressione in maniera ben più articolata nell’atto unico, dove la presenza di Edipo e Antigone sarà piuttosto calata all’interno della vita inventata narrata dal vecchio alla ragazza. Nel racconto, al di là della citazione letterale delle prime battute del dramma, il riferimento all’Edipo a Colono sembra casomai riverberare il proprio riflesso sul rapporto tra i due personaggi dialoganti alla Villa Bellini, ovvero sul confronto timido e sofferto tra un vecchio (quasi cieco) forse in cerca di una figlia e una ragazza tormentata e sbandata forse in cerca di un padre (e che non a caso si specifica sia orfana). Nulla vien detto, tuttavia, in modo esplicito su ciò nel testo edito all’interno dell’Uomo invaso, e l’atteggiamento protettivo dell’anziano verso quella giovane bisognosa di una guida resta solo suggerito e lontano da un’aperta tematizzazione in termini di genitorialità. L’immaginario della tragedia sofoclea viene, comunque, richiamato indirettamente nel racconto anche attraverso il motivo dell’incesto, confessato dalla ragazza che vive more uxorio col fratello, nonché attraverso la sua tentazione suicidaria che, pur evocando la fine della figlia di Edipo, ribalta in ogni caso radicalmente la vicenda di Antigone, toltasi sì la vita sempre a seguito di un rapporto di amore per il fratello, contraddistinto però, nel dramma greco, da ben differente connotazione e anzi mosso dal nobile e pietoso intento di dargli sepoltura. Come Antigone, anche Noemi, così si chiama la giovane baby sitter, è inoltre una che accompagna qualcun altro, in questo caso un fanciullo, variante che pare edulcorare e declassare il ruolo di dolente assistenza della figlia al vecchio Edipo errabondo, ma che in realtà si tinge anch’essa da subito di alternativi e degradati colori mortiferi nella delineazione di tutti e tre i personaggi presenti sulla scena, bambino con palla incluso.
La memoria del mito sembra non riuscire a conservarsi senza corrompersi, senza doversi nascondere e camuffare, trasformata in vergogna misteriosa («Ho dentro un’altra vergogna più micidiale che non ti dico, che ti dirò domani»)[17], e addirittura concretamente interdetta, visto che la giovane, pur ritenendo che in quel libro possa esserci forse una risposta ai propri tormenti, non riesce a leggervi tra le righe perché non conosce il greco. Nelle proprie riflessioni Bufalino si era, del resto, già soffermato su questioni connesse a questo tema, come ad esempio nel caso delle argomentazioni affidate a un breve pezzo del 1983 (È kafkiano e un po’ boccaccesco)[18] dedicato all’abuso linguistico del riferimento ad alcuni personaggi celebri attraverso approssimative antonomasie che prosaicizzano e snaturano la grandezza di miti antichi e moderni, «ne degradano la leggenda a stilema di consumo, a poverissima emissione di fiato», in un inevitabile abbassamento popolare che in quell’articolo riguardava espressamente anche Edipo e l’utilizzo fin troppo diffuso dell’aggettivo “edipico”[19]. Di quella dimensione perduta trovano spazio nel presente solo flebili e confusi riflessi, e così il bosco in cui scompare l’Edipo sofocleo con la sua colpa e la sua cecità si scolora nella villa comunale che, dopo il “Secondo giorno” del racconto edito nell’Uomo invaso, inghiotte il vecchio cieco e la giovane ragazza che porta su di sé tanto l’anelito di morte di Antigone quanto la colpa dell’incesto.
Il libro che l’anziano professore di greco tiene in mano diviene in tal senso una sorta di “occasione”, che Bufalino ingloba totalmente nella tessitura del suo racconto, che rifonde perfettamente con gli altri elementi narrativi propri di un suo riconoscibile immaginario e in quest’ottica non è senza significato che nella prima Panchina anche l’incesto resti bufalinianamente irretito nelle spire della malattia, la cui ombra viene proiettata sui due fratelli concubini tramite la presenza di un’altra sorella con «due reni fradici e la mente furiosa», ridotta in sedia a rotelle e compiaciuta testimone degli incontri notturni tra i due («Va con lui sorellina, passa la notte con lui. Ama per me, grida per me. A me basta sentirvi dalla mia stanza»)[20], nonché tramite l’assimilazione, da parte della giovane baby sitter, di questa ossessione fisica tra lei e il fratello alla paura per un topo, che anticipa il legame tra l’immagine del topo e della malattia che caratterizzerà alcune descrizioni del Governatore delle Menzogne della notte[21].
L’“occasione” intertestuale si mostra e si nasconde ad un tempo dietro maschere del presente, si fonde e si confonde con topoi bufaliniani, tanto che molti dei nuclei tematici forti della Panchina risultano direttamente o indirettamente legati al dramma sofocleo, a partire naturalmente dalla riflessione sulla morte che riveste un ruolo centrale nel racconto dello scrittore di Comiso e che era altresì il fuoco tematico intorno a cui ruotava il testo stesso dell’Edipo a Colono; ma in tal senso vanno ricordate le riflessioni del vecchio della Panchina (significativamente messe in dubbio dalla baby sitter, Antigone mancata) sui morti di tutti i tempi, ormai fatti polvere, più numerosi delle costellazioni nel cielo, pronti a dare qualsiasi cosa per un nuovo attimo di luce e che sembrano trovare anticipazione in una pagina bufaliniana dell’anno prima (1985), tratta dal già citato Allegrezze di morte, in cui viene apertamente chiamata in causa proprio Antigone:
Nessuno sa più contarli, i morti di carta e di carne che sfilano insepolti nel cuore: marinai annegati come Palinuro e Fleba fenicio; guerrieri trafitti come Polinice o Buonconte […] truppa di larve che nella notte implorano ad una voce la stessa offa di lacrime e di parole. D’altronde, per cos’altro Antigone sfiderebbe il tiranno, se non per la seduzione di quella voce nelle sue orecchie?[22]
Così come Edipo verrà da Bufalino espressamente associato all’idea della malattia in uno scritto di inizio anni ’90 (Da stigma a stemma. Il malato come eroe letterario) che dà modo allo scrittore di Diceria dell’untore di articolare una sua speciale galleria letteraria sub specie morbi[23].
Diversamente orientato, invece, l’atto unico dell’89 che tematizza lo spunto offerto dalla recita dei versi iniziali dell’Edipo a Colono da parte del protagonista del racconto in una riformulazione del testo che aggancia alla teatralità tutti i nuovi elementi presenti nella piéce. A cominciare dalla dichiarazione del vecchio di non essere solo ma di avere una figlia che amorevolmente lo accompagna ai giardini ogni mattina e poi lo riporta a casa, salvo a confessare poco dopo di aver mentito («È un’altra favola, sì, una fantasia. L’ho battezzata Antigone»)[24], con un’esplicita saldatura tra il motivo della genitorialità (al centro del rapporto Edipo-Antigone e comparso da subito in questa seconda Panchina attraverso la pronta smentita della ragazza di essere la madre del bambino) e quello della finzione, tratto distintivo della letterarietà e in modo ancora più marcato della teatralità. Antigone non è Noemi, è una figura inventata, un personaggio, come sancisce indirettamente la stessa ragazza con una negazione esplicita, in riferimento a se stessa, proprio del ruolo avuto da Antigone: «Ma io non assisto nessuno, sono da assistere, io»[25].
L’invenzione di questa figlia che lo accompagna (drammatizzata proprio sin dal nome scelto di Antigone) ha, del resto, un’immediata ricaduta “scenica”, col protagonista che rivela alla sua giovane interlocutrice che, dopo che la figlia lo lasciava alla Villa, quella panchina gli si trasformava idealmente e quotidianamente in un palco, surrogato di un palcoscenico che non calcava più. Già, perché il professore del racconto si svela qui con una doppia identità: quella inventata e menzognera (alla stregua di una narrazione letteraria o di una recita teatrale) di docente di greco, e quella veritiera (ma per sua natura non meno segnata dalla dimensione fittizia) di attore teatrale, scoperta sulla scorta dei ricordi dalla giovane baby sitter, un tempo accompagnata ai suoi spettacoli dal proprio padre, appassionato spettatore e ammiratore delle sue interpretazioni. Ed ecco che il motivo genitoriale torna a intersecare quello della finzione, come a sottolineare l’impossibile riattualizzazione nella verità del presente del mito di Edipo e Antigone e come ribadisce indirettamente anche la memoria-favola sui propri genitori raccontata dal vecchio alla ragazza e al bambino, con lui, fanciullo, che si nascondeva sugli alberi a mo’ di spettatore e ascoltava le fantasie che padre e madre imbastivano sul suo futuro, castelli in aria senza fondamento, palesemente irreali come l’invenzione letteraria («Mio padre mi vantava a mia madre. Avrei avuto una sposa grande e bella un giorno, e terreni sott’acqua, e un cavallo con le ali da cavalcare. Mia madre diceva di sì, e che avrei anche scritto un’altra Bibbia e la gente si sarebbe voltata quando passavo»)[26].
Le tragedie esistenziali del vecchio e della ragazza vengono ad essere minate da toni in falsetto, ostentatamente inautentici come in una recita che si mescola alla vita vera, mentre la teatralità senza cielo di carta strappato del mito classico viene intaccata alle fondamenta da vistosi influssi pirandelliani, che tramano questa seconda Panchina con molti elementi non presenti nel racconto. La vicenda personale della giovane Noemi perde, non a caso, nella riduzione teatrale la componente incestuosa (derivante dalla memoria classica) legata nello specifico a una sessualità “empia” consumata tra fratello e sorella[27], per borghesizzarsi in un’alternativa tra matrimonio di convenienza e triangolo vissuto all’interno della dimensione familiare con il cognato, dimidiata riformulazione di un incesto che non è più veramente tale e che ha perduto la tragicità della violazione di un tabù di cui Edipo è appunto emblema: sulla storia di Noemi si allungano, così, le ombre dei personaggi pirandelliani, da quelli del Turno e di Pensaci, Giacomino, che progettano nozze di interesse, al padre e alla figliastra dei Sei personaggi in cerca d’autore, quasi sul punto di consumare un rapporto proibito, ma comunque deprivato della portata di infrazione suprema di un vero incesto; senza dire che nella carrellata di ruoli rivestiti sul palcoscenico («Re Lear, Enrico IV, Agamennone»), citati dal vecchio della “seconda” Panchina prima dell’evocazione delle battute iniziali dell’Edipo a Colono, è facile scorgere un cenno, più che al poco noto e poco rappresentato dramma shakespeariano dedicato all’Enrico IV re d’Inghilterra, al sedicente Enrico IV di Pirandello, simbolo di una vita recitata che si sostituisce alla vita vera in una cornice, però, di sofferenza reale e di tragedia autenticamente vissuta in corpore vili, secondo una contraddittoria contaminazione che caratterizzerà variamente molti dei personaggi bufaliniani, compresi il vecchio e la Noemi della Panchina.
Ma la cifra pirandelliana di questa riduzione teatrale dell’89 arriva a farsi ancora più esplicita allorché il protagonista, dopo aver favoleggiato dei sogni che i genitori facevano sul suo futuro, con lui spettatore ad ascoltarli, spiega alla ragazza come tutto si infranse allorché gli regalarono un binocolo. Nel testo scenico bufaliniano emerge a questo punto chiaramente la memoria del cannocchiale rovesciato del pirandelliano dottor Fileno, di cui nella celeberrima novella La tragedia d’un personaggio viene esposta la singolare ma efficace teoria per allontanare la sofferenza:
un pover uomo, un certo dottor Fileno, che credeva d’aver trovato il più efficace rimedio a ogni sorta di mali, una ricetta infallibile per consolar se stesso e tutti gli uomini d’ogni pubblica o privata calamità. Veramente, più che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno […]. Gli era morta, per esempio, da pochi giorni una figliuola. Un amico era andato a trovarlo per condolersi con lui della sciagura. Ebbene, lo aveva trovato già così consolato, come se quella figliuola gli fosse morta da più che cent’anni. La sua sciagura, ancor calda calda, l’aveva senz’altro allontanata nel tempo, respinta e composta nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e con quanta dignità ne parlava! In somma, di quel suo metodo il dottor Fileno s’era fatto come un cannocchiale rivoltato. Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose subito le apparissero piccole e lontane. E attendeva da varii anni a comporre un libro, che avrebbe fatto epoca certamente: La filosofia del lontano[28].
Fin troppo smaccata la ripresa bufaliniana, quasi a voler ostentare come elemento significante della propria piéce il richiamo a uno dei testi fondativi della riflessione pirandelliana, felicemente anticipatore della stessa idea di fondo del progetto metateatrale dei Sei personaggi. Il misterioso accenno al binocolo da parte del vecchio professore/attore della Panchina suscita, infatti, subito la curiosità dei suoi interlocutori e gli dà modo di spiegare per cercare di rasserenare la ragazza:
la donna – Un binocolo?
il bambino – Cos’è un binocolo?
la donna (al bambino) – Una cosa che serve per vedere le cose più grandi.
il vecchio – Non solo più grandi, più piccole anche. E fu questo che mi spaventò: che le cose non avessero più una dimensione sicura […]
la donna – Beh, e con questo? C’è il grande e c’è il piccolo […] io non ho mai posseduto un binocolo […]
il vecchio – Un binocolo tu ce l’hai, dentro di te. E ti fa vedere grande la pena che provi, mentre ti basterebbe guardare a rovescio, con l’oculare minore. E allora vedresti minimo questo nodo che ti fa male, si scioglierebbe da solo[29].
Grazie al metodo del cannocchiale rovesciato, il Fileno di Pirandello si era consolato della morte della figlia; l’anziano personaggio di Bufalino con lo stesso metodo prova ad allontanare la morte da quella ragazza che non gli è figlia, e che alla fine della piéce dimenticherà significativamente sulla panchina la borsetta contenente gli strumenti di morte, la siringa e la pistola, quest’ultima del tutto assente nel racconto, ma che nell’atto unico contribuisce ad arricchire i vaghi richiami al più celebre testo pirandelliano per la scena, con un padre che non è padre, una simil figliastra, un simil incesto, un bambino, una pistola, un attore che parla del proprio lavoro e che nell’interpretare i personaggi cerca di discostarsi deliberatamente dalla volontà autoriale per recitare la propria storia: «non è che scordassi le battute, è che mi veniva voglia di cambiarle, di andarmene per conto mio, di raccontare ogni volta la storia mia. E non osavo, m’impuntavo, non sapevo che fare, finché l’imbeccata del suggeritore mi forzava a continuare»[30].
E bufaliniana e pirandelliana insieme è anche una quasi impercettibile ma significativa variante introdotta in questa seconda Panchina, in cui l’originario richiamo del gelataio del parco («Piangete, bimbi, che la mamma ve lo compra!»)[31], si muta in un’espressione densa di risvolti e chiaramente allusiva della dimensione teatrale: «Piangete, pupi, che la mamma ve lo compra!»[32]. Anche i bimbi fattisi pupi partecipano di questa rete semantica che riconduce al discorso metateatrale gli elementi più diversi, e del resto nella piéce il bambino prende per un attimo in mano il libro, come facendolo suo, per sillabarne il titolo («e-di-po») in un ideale contatto con quella antica tragedia da palcoscenico subito allontanata da lui dall’intervento del vecchio: «Lascia stare, sono meglio le favole»[33]. Le favole narrate sono, però, quella della finta figlia Antigone, del gigante in cerca delle scarpe come il padre morente, della fiducia nei castelli in aria dei genitori arenatasi intorno a un binocolo, del recitare la parte del professore invece che dell’attore (o, mutatis mutandis, dell’attore invece che del professore): tutte diverse, eppure tutte tra di loro connesse perché – come ammette l’anziano protagonista – «alla fine tutte le favole ne fanno una»[34].
Se è vero che tutte le favole ne fanno una, assume in prospettiva un particolare significato la specificazione, all’interno dell’atto unico, della malattia agli occhi di cui soffre il protagonista, nel racconto genericamente attribuita alla rétina, e nel testo scenico così invece da lui riferita alla giovane, in relazione alla diagnosi ricevuta: «E ieri un oculista ha sentenziato: “Si risparmi gli occhi, abbiamo un glaucoma”»[35]. Proprio un glaucoma segnerà significativamente la cecità del fotografo raccontato da Bufalino nell’ultimo suo romanzo e tentato da un’attrazione incestuosa e prolungata per la sorella, un desiderio carnale che lui stesso, prima di morire, così si trova ad argomentare con l’amico e narratore Tommaso:
“Uno stupro,” commento freddamente. “Raddoppiato da un incesto.”
“Ma no,” replica lui. “Un vicestupro, un viceincesto, semmai”[36].
In una forma di incesto che anche in questo caso non è veramente tale, il fratello fotografo, in effetti, non toccava la giovane donna ma la desiderava e le rubava scatti proibiti con la sua Nikon, tanto da spingere Tommaso a una riflessione su questo anche dopo l’uccisione di lui: «Ripenso alla sua cecità. Venutagli da un glaucoma come lui asseriva, o non piuttosto, come all’omonimo profeta, per punizione d’aver visto una dea nuda bagnarsi? Una dea? Sua sorella?»[37].
Nel romanzo il fotografo cieco viene chiamato Tiresia, dal nome dell’indovino anche lui cieco che aveva svelato ad Edipo di essere l’uccisore di Laio, predicendo che il colpevole di quella morte sarebbe andato in esilio mendico e cieco; le verità del rullino fotografico di questo nuovo Tiresia non verranno, tuttavia, mai svelate e non potranno essere diffuse tramite il giornale intitolato «Il Binocolo»; Tommaso, curioso come Edipo delle verità di Tiresia, cercherà a lungo di conoscerle, ma non ci riuscirà, malgrado una lunga inchiesta che lo porterà fino in casa della losca Badalona e, quando lei gli chiederà il suo nome, lui risponderà: «Mattia Pascal»[38]. Certo, quella di Tommaso e Tiresia è un’altra storia, ma nella compattezza del sistema letterario di Bufalino è suggestivo riscontrare come i tasselli narrativi del suo immaginario si richiamino ad eco dall’uno all’altro testo[39]; perché tutte le storie in qualche modo si tengono fra di loro, proprio come sentenziato dal vecchio signore sulla panchina. Con buona pace di Sofocle e Pirandello.
- Su questo testo, sempre attuali le riflessioni di Giuseppe Traina, ora in G. Traina, «La felicità esiste, ne ho sentito parlare». Gesualdo Bufalino narratore, Cuneo, Nerosubianco, 2012, pp. 43 e sgg. ↑
- Su questa operazione teatrale cfr. N. Zago, Sul “Trittico” di Bufalino, Consolo e Sciascia, in Id., L’ombra del moderno, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992, p. 182. ↑
- Cfr. G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, ora anche in Id., Opere. 1981-1988, a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, Bompiani, 1992, pp. 511-12. ↑
- Cfr. G. Bufalino, La panchina, ora in Appendice a Id., Opere. 1981-1988, op. cit., pp. 1305-1306. Sulla presenza di una memoria visiva, veicolata nella scrittura bufaliniana dal cinema e dalla fotografia, cfr. il bel volume di A. Sciacca, Le visioni di Gesualdo. Immagini e tecniche foto-cinematografiche nell’opera di Bufalino, Acireale-Roma, Bonanno, 2015. ↑
- Poi in G. Bufalino, La luce e il lutto, ora in Id., Opere. 1981-1988, op. cit., pp. 1170 e sgg. ↑
- Ivi, pp. 1170-71. ↑
- Chiaramente restituita da Bufalino l’immagine di morte e decadenza di queste ville: «muovendo alla ricognizione di quel mondo perduto, quante cose scopro andate in rovina: mangiati dall’espansione urbana i parchi antistanti alle ville; scomparsi i grandi vialoni d’accesso […] All’interno dei saloni ammutoliti, il pavimento esibisce frantumi di specchi, di stucchi caduti. Dalla finestra si mirano giochi d’acqua immobili, peschiere svuotate, ninfei deserti» (ivi, p. 1173). ↑
- Così l’inizio del dattiloscritto inedito, recentemente ritrovato: «Esterno giorno – Parco di Villa Florio // inverno 1929. Il parco appare deserto, le panchine bagnate // Un rastrello abbandonato sul prato, foglie secche sul viale, mulinate dal vento // In un angolo, un’altalena, tesa fra due alberi, dondola vuota. L’obiettivo risale lentamente alla finestra principale del palazzo, dove, dietro i vetri, una faccia di donna appare. È Franca Florio. […] L’obbiettivo esplora, alle spalle di Franca, il grande salone. Vi sono accatastati mobili e arredi di pregio, coperti da teli bianchi, in attesa di imballaggio. Gli specchi sono tutti, tranne uno, velati. Con la faccia contro il muro quadri dalla ricca cornice. Su una scrivania alla rinfusa scrigni di gioielli, fasci di lettere, vassoi colmi di fatture e conti non pagati, oggetti di ricordo… dappertutto un’aria di desolazione». Su Bufalino e il cinema cfr. il volume Bufalino al cinema, a cura di G. Traina, Comiso, Salarchi, 2020. ↑
- G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., p. 511. ↑
- G. Bufalino, Allegrezze di morte, poi in Id., Cere perse, ora in Id., Opere. 1981-1988, op. cit., p. 1014. ↑
- G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., p. 514. ↑
- Ivi, p. 515. ↑
- G. Bufalino, La panchina, ora in Appendice a Id., Opere. 1981-1988, op. cit., p. 1307. ↑
- La vita vera, simboleggiata dall’ipotetica fidanzata sedutagli accanto sulla panchina negli anni di gioventù, trova non a caso nell’atto unico un pronto collegamento con la morte attraverso gli stessi busti degli illustri defunti che adornano il viale della Villa e che il vecchio confessa di aver danneggiato una volta proprio per l’esaltazione di un bacio (cfr. G. Bufalino, La panchina, op. cit., p. 1312). ↑
- Cfr. G. Bufalino, La panchina, op. cit., p. 1307, in cui si legge: «Madre io? Accompagnatrice pagata. […] Hanno così poca fantasia i bambini, oggi. Non dicono nemmeno più bugie». ↑
- G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., pp. 518-19. ↑
- Ivi, p. 520. ↑
- Poi con il titolo Di talune antonomasie in G. Bufalino, Cere perse, op. cit., pp. 839 e sgg. ↑
- Ivi, p. 840. ↑
- G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., p. 520. ↑
- Così del Governatore, nel romanzo del 1988: «“Dio che male”, pensa. “Ho un topo nel cacio dell’ossa… Non durerò”. […] Il dente del dolore non smette di rosicarlo. No, non può essere casuale disordine di fibre disobbedienti, è piuttosto il frutto di un’intenzione perversa. […] Sì, qualcuno, un topo o Dio, ha un progetto contro di lui e alterna a bella posta spasimi e tregue. Buona guerra sarà secondarlo, abituarsi a vivere il dolore assumendone l’abitudine nella rubrica delle sue giornate» (G. Bufalino, Le menzogne della notte, ora in Id., Opere. 1981-1988, op. cit., pp. 573-74). ↑
- G. Bufalino, Allegrezze di morte, op. cit., p. 1017. Sulla rivisitazione del mito di Antigone nella contemporaneità, cfr. E. Porciani, Nostra sorella Antigone, Catania, Villaggio Maori, 2016. ↑
- G. Bufalino, Da stigma a stemma. Il malato come eroe letterario, ora in Id., Opere/2. 1989-1996, a cura di F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, pp. 1215 e sgg. Sulla presenza dell’ombra di Edipo nella narrativa bufaliniana, cfr. A. Cinquegrani, Un personaggio chiamato Orfeo, Narciso, Edipo, in Il miglior fabbro. Bufalino fra tradizione e sperimentazione, a cura di N. Zago e G. Traina, Leonforte (EN), Euno, 2014, pp. 45 e sgg. ↑
- G. Bufalino, La panchina, ora in Appendice a Id., Opere. 1981-1988, op. cit., p. 1319. ↑
- Ivi, p. 1317. ↑
- Ivi, p. 1313. ↑
- Nel racconto si legge: «“Il caso è raro”, disse il vecchio. “Ma non più empio di tanti che si leggono sui giornali”» (G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., p. 520). ↑
- L. Pirandello, La tragedia d’un personaggio, ora in Id., Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1985, vol. I, tomo I, pp. 818-19. ↑
- G. Bufalino, La panchina, ora in Appendice a Id., Opere. 1981-1988, op. cit., p. 1314. ↑
- Ivi, p. 1317. ↑
- G. Bufalino, La panchina, in Id., L’uomo invaso ed altre invenzioni, op. cit., p. 516. ↑
- G. Bufalino, La panchina, ora in Appendice a Id., Opere. 1981-1988, op. cit., p. 1311. ↑
- Ivi, p. 1308. ↑
- Ivi, p. 1312. ↑
- Ivi, p. 1313. ↑
- G. Bufalino, Tommaso e il fotografo cieco, ora in Id., Opere/2. 1989-1996, op. cit., p. 438. ↑
- Ivi, pp. 559-60. ↑
- Ivi, p. 526. ↑
- Metodologicamente esemplari gli studi di Giulia Cacciatore sul riuso del già scritto, condotti sulle carte bufaliniane; per un primo riscontro cfr. G. Cacciatore, L’Opus perpetuum di Gesualdo Bufalino, in Il miglior fabbro, op. cit., pp. 173 e sgg. ↑
(fasc. 40, 5 ottobre 2021)