Possesso, anoressia e abuso: tre recenti narrazioni su corpi di donne in cerca di riscatto

Author di Maria Panetta

Il percorso che si propone[1] prende avvio dal documentario (2009) e dal successivo volume di Lorella Zanardo – attivista per i diritti delle donne e scrittrice – dal titolo Il corpo delle donne (2010) per sondare tre casi di narrazioni italiane dell’ultimo biennio. In ordine cronologico:

  1. il racconto lungo La gabbia di Anna di Maria Lovito (Edigrafema 2019), che narra realisticamente la vicenda di una ragazza che, sognando un amore romantico, s’imbatte in Lorenzo, uomo possessivo che le avvelena la vita. Rimanendo a lungo inascoltata anche dai propri famigliari, Anna trova finalmente la forza per evadere da quella gabbia grazie alla sua intraprendente avvocata, che riuscirà a dimostrare che la violenza contro le donne purtroppo non è solamente di carattere fisico, ma può essere in primo luogo psicologica;
  2. Redenzione. La prima indagine di Maurizio Nardi di Chiara Marchelli (NN Editore 2020), un giallo che vede protagoniste tre donne (Giorgia, milanese in vacanza; Malina, la vicina di casa, e la mamma di lei) che nascondono, ognuna, un segreto: una vicenda dolorosa di malattia, disagio e violenza. Fa da tramite fra loro Maurizio Nardi, comandante dei carabinieri alle prese con un caso di femminicidio, in una Volterra in cui ancora campeggia un vecchio manicomio nel quale rivivono i sofferti ricordi della madre di Malina, un tempo anoressica e ivi internata. Anche Giorgia ha patito l’anoressia e s’illude di esserne guarita: disagio mentale, sociale e fisico s’intrecciano, dunque, in questa triplice narrazione di donne in cerca di riscatto;
  3. La tatuatrice gentile di Lucilla Ninivaggi (Mondadori 2021), la cui protagonista, Lara, è una giovane tatuatrice dal passato traumatico, che trova nel proprio lavoro creativo la via d’uscita per liberarsi dell’opprimente ricordo degli abusi subiti da piccola. Nel suo laboratorio Lara trasforma gli incubi delle clienti in variopinti tatuaggi, sublimando anche il proprio dolore in bellezza. Il corpo, dunque, come “possibilità”: non solo prigione, ma anche “vettore di liberazione”, perché l’atto di riappropriarsi del proprio corpo permette alla donna di riaffermarsi come soggetto, evitando di subire passivamente il controllo possessivo tipico della società patriarcale (sul tema molto utile il recente Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022).

Uso e abuso del corpo delle donne

Com’è noto, Il corpo delle donne è il titolo di un deprimente, scioccante ma illuminante documentario della durata di circa ventitré minuti prodotto da Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi e Cesare Cantù. Nel 2009 esso ha messo in evidenza come la donna sia stata, man mano, sostituita, nei programmi televisivi della televisione sia pubblica sia privata, con una sua rappresentazione umiliante, senza peraltro suscitare reazioni di sana indignazione neanche da parte del pubblico femminile. “Chi siamo? Cosa vogliamo? Come mai tutte le donne d’Italia non scendono in piazza protestando per come veniamo rappresentate?”, vi si chiede Lorella Zanardo, mentre vengono proiettate immagini di corpi generosi, labbra carnose e riprese televisive da angolazioni quantomeno imbarazzanti.

Evidentemente – riflette Zanardo –, il pubblico è abituato a guardare la tv senza filtrare razionalmente e senza applicare alla visione nessun senso critico: evidentemente, “guarda” ma non “vede”. Per questo motivo il documentario si configura come una feroce carrellata di immagini accomunate da un uso manipolatorio del corpo delle donne: esso mette in rilievo, in primo luogo, l’invasivo ricorso alla chirurgia estetica applicata ai tratti del viso femminile, al fine di cancellarne i segni del tempo[2], perché pare che oggi la vulnerabilità degli esseri umani debba essere negata. Il documentario, infatti, gioca molto sulla contrapposizione fra vulnerabilità e invulnerabilità, e sulla dialettica fallimento versus successo.

In seguito alla realizzazione del video, Lorella Zanardo è stata anche intervistata dalla psicologa Francesca Penno[3], che le ha chiesto a quale tipo di donna fosse rivolto. L’autrice ha spiegato che il suo target di riferimento era, in realtà, quello dei giovani, che troppo spesso assumono come modelli gli stereotipi che vengono proposti attraverso i media: il suo obiettivo, quindi, era quello di far sì che i ragazzi guardassero la televisione con occhi nuovi, fornendo loro degli strumenti e degli spunti per una migliore comprensione del reale.

In quell’occasione alla domanda – forse un po’ scontata anche se provocatoria – se sia più importante la bellezza di un corpo o quella di un cervello brillante, Zanardo ha ammesso che sarebbe disonesto affermare che la bellezza non conta, perché indubbiamente essa produce una forte fascinazione. Ha aggiunto, però, che bisogna decidere a quale idea di bellezza si desidera far riferimento e ha citato il caso di Pasolini, che sottolineava quanto fosse importante il punto di vista dell’occhio che guarda, che è l’unico che può accorgersi della bellezza: essa, infatti, potrebbe essere presente anche in modi e forme non codificate dal senso comune. L’ostacolo più insormontabile, quindi, resta sempre quello di non saper “vedere”, sebbene si abbiano occhi per “guardare”.

Il noto video della Zanardo, mosaico di spezzoni tratti da trasmissioni della Mediaset e della RAI, è, dunque, una triste galleria di vallette, veline, ballerine e attrici dai volti rifatti. L’autrice all’inizio compare, sebbene la sua presenza sia defilata, ma in seguito diviene voce fuori-campo, che commenta e fa appello al risveglio delle donne e all’azione politica che un tale increscioso spettacolo dovrebbe suscitare.

Il video-evento accadeva nel maggio del 2009: allora Il corpo delle donne veniva diffuso online per denunciare l’imbarazzante silenzio sul trattamento del corpo femminile in televisione. Il documentario, infatti, è un vero e proprio pamphlet militante, che si rivolge direttamente e provocatoriamente alle telespettatrici, adoperando il “noi”. In meno di 25 minuti Il corpo delle donne ripropone per accumulazione un rimosso di corpi di cui allora tutti gli intellettuali (anche progressisti) si erano completamente disinteressati: una situazione che richiedeva una condanna ufficiale e urgenti misure di contenimento e che, invece, era stata tollerata per molto tempo dalle donne stesse. Zanardo nel documentario si domanda il perché di tale adeguamento a modelli imposti dal mercato: sia nella già ricordata rimozione delle rughe, segni del tempo che passa; sia nella continua riproposizione allo spettatore di corpi tonici, scattanti, in perfetta forma e sempre ammiccanti, in pose sessualmente intriganti. La dialettica su cui s’insiste, come si diceva, è quella fra vulnerabilità e invulnerabilità: un corpo apparentemente giovane illude, infatti, una donna di essere invulnerabile, in un contesto che tende a schiacciare il più debole.

Il video è un lavoro d’archivio che si situa al confine tra documentario, docu-fiction e documento: con un valore, dunque, di testimonianza, di ricostruzione di un’epoca storica, ma anche di denuncia. Assieme a Cesare Cantù e Marco Malfi Chindemi, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, Zanardo ha rimontato immagini di donne umiliate in tv, dichiarando di poter sentire, nel farlo, l’umiliazione nella sua stessa carne. Davanti agli occhi degli spettatori – come si diceva – vi sfilano veline, stelline, meteorine, ballerine, vallette e attrici mature in quiz e salotti televisivi, maltrattate da presentatori e presentatrici (ad esempio, l’odioso Mammuccari in spezzoni di quella discussa trasmissione che vedeva una giovane Flavia Vento relegata come un animale in gabbia dentro una sorta di teca trasparente, ai piedi del presentatore, che non si esimeva dal fare continuamente ironia pesante sulla presunta mancanza di cervello anche di altre donne che si alternavano sul palcoscenico). Le ospiti restavano quasi inebetite al cospetto di tale assurda violenza verbale: arrendevoli, con un timido sorriso inespressivo o malinconico, fornivano risposte improvvisate a domande insulse; e i presenti in studio, consenzienti o lievemente imbarazzati, non battevano ciglio.

La voce fuori campo nel video interroga e provoca: l’autrice si domanda le ragioni della mancata opposizione delle donne, dichiara l’urgenza di una presa di coscienza, insiste sul “disastro” simbolico. Chiede: “Cosa nascondono questi volti rifatti? Perché non si può fissare in faccia la vulnerabilità umana?”. E inserisce per contrasto, fra le immagini, Anna Magnani in Mamma Roma e Maria Callas in Medea. Cita Pasolini, James Hillman ed Emmanuel Levinas in relazione al volto umano; si chiede: “Perché non reagiamo? Di che cosa abbiamo paura?”.

Il video mette pure in luce, impietosamente, che al gioco si prestano non solo ragazze giovani in cerca di notorietà, ma anche signore non più giovanissime che cedono alla tentazione del ritocco estetico, in una battaglia contro l’inesorabile passare del tempo che oggi accomuna molte donne. Vi si dimostra chiaramente che anche alcune signore mature, anziché assumere un atteggiamento da modello o da guida nei riguardi delle giovanissime, si pongono in concorrenza con le ragazze, risultando spesso patetiche in tale “gara” destinata a penalizzarle: viene in mente Pirandello col suo Umorismo e col sentimento del contrario.

C’è da dire, però, che le radici di questa rappresentazione delle donne affondano in anni più lontani del periodo “berlusconiano” preso di mira dal documentario, e che anche certo grande cinema italiano anticipa queste forme di “pornocrazia”: se, infatti, le caricature di Fellini forse potevano essere declinazioni del bello in una società patriarcale, la cosiddetta “commedia all’italiana”, ad esempio, sdoganava, di certo, toni qualunquisti.

Tre romanzi contemporanei

Il documentario di Zanardo, comunque, introduce bene ai temi dei tre romanzi cui si accennerà, a causa della sua carica di “violenza”. Le donne vi vengono, senza dubbio, umiliate: non solo rese oggetti, ma penalizzate anche nella loro intelligenza, specie quando ossessivamente vengono riproposte le immagini di signore indubbiamente competenti, di cultura, di raffinata preparazione e indubbia sensibilità, che si sono adeguate alla moda imperante, sfoggiando labbra artificiosamente carnose, decolleté perfetti, zigomi dalla pelle tesa che le rendono delle tristi maschere senza espressione. In questo adeguarsi ai dettami della civiltà del consumo – che evidentemente anche loro hanno introiettato e fatto propri al punto da non ribellarsi affatto – purtroppo vengono tristemente a sminuire tutte le altre carte che avrebbero a disposizione, facendo trapelare il messaggio che anche loro sono convinte che a una donna non basti essere preparata, brillante, colta, sensibile, intelligente per emergere.

Del resto – se vogliamo essere polemici –, persino nel mondo della carta stampata oggi assistiamo al proliferare di scrittrici, critiche letterarie, autrici varie che, per promuovere i parti del loro ingegno e i prodotti della loro penna – ovvero prodotti di ambito culturale – non rifuggono dall’affidare alla propria immagine (e non ai contenuti dei propri libri) l’invito al lettore a essere lette e prese in considerazione. Ed è tutto un fiorire di locandine con primi piani di donne con labbra rifatte o truccate al limite della volgarità; di immagini di copertine di libri tenuti in mano da dita dalle unghie rigorosamente laccate, lunghissime e seducenti; di cartelloni pubblicitari di conferenze e presentazioni che pongono l’accento sui profili ammiccanti delle autrici più che sul messaggio che i loro libri trasmettono. Il che ci dovrebbe far riflettere, perché una minima dose di narcisismo ci accomuna tutte (e penso sia comprensibile), ma gli eccessi denunciano il fatto che ancora oggi molte intellettuali si auto-percepiscono come fossero mercanzie in vendita.

Venendo brevemente ai tre romanzi di scrittrici contemporanee (viventi) proposti come testi di riferimento per l’analisi, confesso di averli scelti (tranne in un caso) soprattutto mossa da curiosità, che – in tutti e tre i casi, con le debite differenze – dal punto di vista letterario è stata perlopiù delusa, perché questi testi hanno un grande valore di testimonianza, senza dubbio, ma non uno spiccato pregio estetico. Potrebbero senza troppa difficoltà essere inseriti nel novero della maggior parte di quella che Gianluigi Simonetti, in un libro che ho apprezzato al punto da adottarlo per vari miei corsi alla Sapienza, ha definito felicemente La letteratura circostante[4]. In un’occasione come quella del Convegno AIPI 2022 di Palermo, incentrato sul racconto della realtà, si sono rivelati, però, anche utili per offrire uno spaccato del contemporaneo nella sua cruda nudità, senza troppi “fronzoli retorici”.

Una gabbia dorata

Il primo, La gabbia di Anna (2009) di Maria Lovito (Matera 1969), avvocata civilista del Foro di Matera, mette in scena una tipica “gabbia dorata”: la casa della protagonista, Anna, uno spazio soffocante soprattutto per il rapporto che la donna intrattiene col marito manipolatore e ossessivo, ma anche a causa delle sue relazioni affettive in famiglia. Il romanzo racconta una quotidianità di sottili prevaricazioni che non lasciano segni, quelle più difficili da gestire e da denunciare: vere e proprie violenze che arrivano a pregiudicare l’autostima di chi le subisce.

Anna un giorno si fa coraggio e decide di chiedere aiuto a un’avvocata. In un’intervista[5], Lovito ha dichiarato che Anna era un nome di fantasia, ma corrispondeva a una persona realmente esistita, che era stata vittima non di violenze fisiche, ma psicologiche. Nel romanzo l’autrice ha, invece, inserito un episodio di percosse per non rendere riconoscibile la vittima, ma ha al contempo ribadito che la violenza sulla psiche è, di solito, l’anticamera di quella sul corpo, ma è ancora più subdola della seconda perché non sempre viene creduta dall’esterno e spesso viene sminuita. E, prima di tutto, viene negata a sé stessa pure dalla vittima, perché non è semplice ammettere di essere o essere state oggetto di un qualsivoglia tipo di violenza.

Il messaggio veicolato dal romanzo è utile e propositivo: le vittime devono compiere un percorso molto personale di introspezione, comprendere che stanno portando avanti un legame “malato” e che tutto ciò che viene vissuto con sofferenza, come imposizione, e non è frutto di scelte condivise dai due coniugi è indice di una relazione non sana, il risultato di un rapporto di dipendenza e sottomissione. È necessario, in questi casi, avere il coraggio di uscire da sé stesse e di rivolgersi a una persona competente che possa aiutare la vittima a comprendere come sottrarsi alla situazione opprimente che l’angoscia. Non sempre risulta facile compiere questo passo, perché spesso gli altri, invece di sostenere le donne in questo delicato passaggio, le colpevolizzano, accusandole di avere sbagliato qualcosa nella gestione del rapporto insano. Spesso le donne si vergognano di ammettere la violenza subita anche perché – come si diceva in precedenza – essa testimonia della vulnerabilità di chi è stata costretta a esserne oggetto; e, soprattutto se la donna non è indipendente economicamente o è madre, spesso decide di non abbandonare l’uomo violento.

Nella suddetta intervista prima menzionata, l’autrice ha dichiarato anche di aver deciso di raccontare la storia di Anna perché, dopo le prime due udienze in tribunale, aveva la sensazione che entrambe fossero rimaste invisibili: sia la vittima sia il suo legale donna. Maria Lovito, dunque, ha scritto anche per rilanciare la funzione sociale della figura dell’avvocato e per trasmettere ai colleghi il messaggio che un buon legale deve anche saper ascoltare storie.

I reietti del ghetto: il confinamento dei corpi

Redenzione, romanzo scritto da Chiara Marchelli (traduttrice nata ad Aosta nel 1952), si configura, invece, come una sorta di noir. Il libro indaga sull’anoressia, intesa soprattutto come mancanza di desiderio; sul disagio mentale curato tramite ansiolitici ed elettroshock; sulle violenze che può subire a volte un degente, fra le quali si possono annoverare anche le lettere scritte con emozione ai propri cari, che non vengono mai spedite.

La vicenda è ambientata in una Volterra che appare quasi tagliata fuori dal mondo, con il suo Ospedale Psichiatrico Giudiziario, oggi abbandonato, che non cessa di nascondere misteri. L’OPG, di fatto, è come una città nella città, dove si finisce perché si è malati, perché si è “strani” o anche perché non si ha nessuno che possa prendersi cura del paziente: la protagonista del noir vi fa il proprio ingresso all’età di 19 anni e ne esce a 40. Personaggio centrale è Maurizio Nardi, un comandante dei carabinieri alla sua prima indagine, che investiga osservando con meticoloso scrupolo l’ambiente circostante, descrivendolo nei minimi dettagli; e non manca di ricostruire diligentemente a ritroso la vita della donna uccisa.

Si tratta di un libro dal ritmo frenetico e angosciante: un libro che, dunque, rispetta in pieno i dettami del genere che lo definisce. Forse, come accennato, oltre al fatto che mette l’accento su tre vite femminili caratterizzate tutte da forme di disagio e di violenza, il suo valore “civile” risiede soprattutto nella denuncia delle condizioni dei pazienti dell’ospedale psichiatrico e della loro situazione di “confinati”, reietti, corpo nel corpo della città: la struttura ospedaliera è un ghetto di fatto, in cui vengono rinchiusi tutti coloro che la società “civile” rifiuta, al punto da non volere che i loro corpi fisici circolino per le strade assieme agli altri, che si confondano con loro. Il noir diviene, dunque, allegoria del ridicolo tentativo di isolare e contenere la “follia”, la marginalità, la differenza, nella nostra società standardizzata e incapace di confrontarsi veramente col diverso e con l’Altro da sé senza averne timore.

La catarsi della scrittura e del segno

Il terzo caso preso in esame è quello di un fresco esordio letterario con Mondadori. Lucille Ninivaggi è una tatuatrice milanese, classe 1981: anche in questo caso, come nel primo, realtà e finzione s’intrecciano pure al livello della biografia dell’autrice.

Lara, la protagonista del “romanzo” (più che di romanzo, si potrebbe parlare di una specie di galleria di personaggi e storie tenute insieme da una cornice comune: una sorta di raccolta di racconti a tema), ha sempre amato disegnare, inventare nuovi mondi dove rifugiarsi nei momenti difficili e cupi. Per lei, la fantasia è stata l’antidoto ai tanti dolori che hanno segnato la sua vita fin dall’infanzia infelice. Cresciuta, ha trovato il coraggio di lasciare un lavoro che non desiderava e per il quale non si sentiva vocata, trasformando la propria passione in un mestiere che finalmente le dà gioia: quello della tatuatrice. Lara, però, non si limita a tatuare: quando qualcuno – soprattutto donne – la contatta per farsi realizzare un tatuaggio, prima di tutto chiede che le racconti la sua storia. Lara la ascolta con attenzione e se ne prende cura, con la stessa gentilezza e il medesimo rispetto che l’adorata nonna Ada riservava alle sue amatissime piante (la nonna è un punto di riferimento fondamentale nella storia: una figura antica e antitetica rispetto a quelle di donne mature rappresentate nel documentario prima ricordato).

Lara, quindi, traduce quei racconti di vite spesso offese in caleidoscopici tatuaggi, trasformando così il dolore in bellezza, e quindi in forza: è come se, attraverso quei tatuaggi, l’artista aiutasse le donne che si rivolgono a lei a tirare una riga su ciò che sono state e a segnare il punto della rinascita. Ogni volta che accade questo miracolo di empatia, si realizza quello che nonna Ada le amava ripetere: «ci sono volte in cui fare qualcosa per gli altri equivale a farlo per se stessi». Perché le storie di cui si fa custode e interprete Lara, storie di donne coraggiose che non vogliono permettere al male che le ha investite di ostacolarle, aiutano anche lei a guarire progressivamente, e a sentirsi sempre meno sola.

Lara non si limita a disegnare sulla pelle dei clienti: ascolta, comprende ed elabora per loro bellissimi disegni che rappresentino una rinascita. Anche da piccola, si rifugiava nel giardino di nonna Ada e la osservava curare i suoi fiori: solamente con un foglio e una matita riusciva a evadere da un mondo che non le piaceva e che la opprimeva.

Il romanzo – come recita la prima dedica – è stato scritto per «tutte le persone che si sono sentite troppe volte “non abbastanza”» (p. 5), inadeguate: torna, dunque, anche in questo caso, la centralità del tema dell’autostima, che in effetti fa da trait d’union di tutto il percorso che si è tentato di delineare.

La seconda dedica del libro contiene un’indicazione chiara del modello di donna cui l’autrice si ispira: quello di una «guerriera gentile» (ibidem), il che mi pare coniugare con una certa apprezzabile saggezza l’immagine di forza e indipendenza che alla donna oggi è richiesto di dare di sé (con caratteristiche che storicamente appartengono, in realtà, a un modello soprattutto maschile) con l’attributo della gentilezza, che fa da utile contraltare alla violenza, all’aggressività verbale e fisica, all’indifferenza, all’arroganza, al tentativo continuo di sopraffazione, all’invadenza, alla mancanza di tatto e di delicatezza, ai modi bruschi che si sono, purtroppo, imposti perlopiù nel mondo attuale. Si tratta, dunque, del recupero di un valore che la tradizione attribuisce soprattutto alle donne, ma che oggi appartiene trasversalmente a tutte le persone che fanno della cortesia, dell’educazione, del rispetto per gli altri, della pacatezza anche uno stile di condotta e di vita.

La terza dedica del libro, quella alla nonna Adelina, denuncia la matrice autobiografica dello scritto e fa appello alla «fantasia» (ibidem), forza motrice sia dei tatuaggi realizzati dalla scrittrice e dalla sua protagonista sia della creazione letteraria stessa: una concezione, se vogliamo, antica della pratica della scrittura, che fa riferimento alla capacità creativa del singolo.

Il volumetto è diviso in agili capitoletti che raccontano ognuno la storia di una delle clienti della tatuatrice e ne assumono il nome come titolo. Trattandosi di una scrittrice abile anche nel disegno, ogni storia è corredata di una pagina che riporta, stilizzato, il tatuaggio colorato che la sintetizza e la simboleggia, e che dà il via al riscatto della donna tatuata. La violenza viene, dunque, sublimata, oltrepassata attraverso il suo “confinamento” in tratti indelebili impressi sulla carne delle vittime. È come se da quella pelle, da quel corpo vivo, non potesse più uscire o propagarsi. È imprigionata, a futura memoria, ma anche come traccia di una storia di progressiva acquisizione di consapevolezza, di un percorso di conoscenza intimo e doloroso che passa, simbolicamente, per la carne, per il sangue, ma che poi se ne allontana, rarefacendosi.

Nel progettare il tatuaggio e nel realizzarlo, ogni volta anche la protagonista si libera progressivamente dei propri fantasmi in un processo di doppia catarsi: Lara, la tatuatrice, si purifica del proprio vissuto di abusi nell’infanzia disegnando e decorando corpi di altre donne, e la sua autrice lo fa scrivendo. La scrittura narrativa, dunque, ancora una volta come catarsi: come processo di presa di coscienza, autoconsapevolezza, purificazione, ri-motivazione, arricchimento spirituale profondo.

Il messaggio molto positivo che questo romanzo – seppur in uno stile assai semplice e in un lessico piuttosto piatto e piano – veicola è che la complicità femminile aiuta a fare argine alla violenza che spesso investe le donne, ancora oggi; e che l’empatia nei confronti del dolore altrui può essere anche amore verso sé stessi, perdono delle proprie debolezze e imperfezioni.

  1. Questo articolo sintetizza la relazione, dal medesimo titolo, presentata da chi scrive al Congresso AIPI (Associazione Internazionale Professori di Italiano) di Palermo dei giorni 27-29 ottobre 2022: si coglie l’occasione per ringraziare per il cortese invito le professoresse Mimì Perrone Borgese e Claudia Carmina.
  2. Questa cancellazione di rughe e volti riguarda la rappresentazione della donna e soprattutto la stessa identità femminile: per questo motivo il Coordinamento del Gruppo donne ha invitato non solo le donne a vedere il documentario, visionabile anche in inglese, portoghese e spagnolo all’URL: http://www.ilcorpodelledonne.net/.
  3. L’intervista si legge all’URL: http://www.uildm.it/docs/gdu/Zanardo.pdf. (ultimo aggiornamento: 14/09/2009).
  4. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2018.
  5. E. Chiorazzo, La gabbia di Anna, quando l’amore diventa prigione, in Storieoggi.it, 23 novembre 2019: https://www.storieoggi.it/2019/11/23/la-gabbia-di-anna-quando-lamore-diventa-prigione/.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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