Dalle tenebre alla luce. Memoria e autobiografia nel “Contributo alla critica di me stesso” di Benedetto Croce

Author di Carmelo Tramontana

Alle origini dell’autobiografia c’è un bivio: si può scegliere tra Agostino e Rousseau come modello di riferimento e in questo modo si imprimerà alla storia del genere letterario una parabola nettamente diversa. Il progetto confessionale di Agostino prevede un movimento dall’esterno verso l’interno: dalla cronologia dell’esistenza quotidiana a quella dell’esistenza spirituale, in cui il tempo è scandito in maniera diversa dal semplice susseguirsi degli istanti. Dal mondo esteriore all’anima, dall’egocentrismo alla lode di Dio, che si scopre essere insediato in interiore homine, l’autobiografia agostiniana segue la via dello sprofondamento dentro sé stessi. Il culmine di questo progetto immersivo è la scomparsa dell’individualismo esasperato, gemello neppure troppo segreto di ogni impresa autobiografica, a mano a mano che, immergendosi dentro sé stesso, l’io scoprirà Dio. Il punto più profondo dell’individualità è per l’Ipponate il luogo dove si neutralizza la tentazione solipsistica. Rousseau, che intitola allo stesso modo il suo progetto autobiografico, procede invece in direzione opposta: dall’interiorità al mondo esterno, dalla vita spirituale all’anatomia e alla cronografia dell’esistenza quotidiana. L’io russoviano si estroflette sino a coincidere con l’orizzonte della realtà esistente o escludendo dalla realtà ciò che non coincide con sé stesso: «M’impegno in un’impresa senza precedenti, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io»[1].

Dove si pone tra queste due storie, e due possibili modelli[2], il Contributo alla critica di me stesso[3]?

Croce sceglie una via singolare e tutta propria, a partire dai titoli che esclude per il libriccino: «io non traccerò né confessioni, né ricordi, né memorie della mia vita». All’autobiografia che si appresta a scrivere, quasi di getto[4], assegna infine un titolo che suona sommario e provvisorio (Contributo) e che con umiltà promette di fornire elementi utili a chi si impegnerà nella critica di Croce uomo e pensatore. Si tratta di un gioco d’astuzia condotto sulle regole del genere autobiografico, di cui l’autore cerca di limitare sin dalle soglie del testo il tono inevitabilmente egocentrico. L’autobiografia consegnata al Contributo si attesta come un caso unico nella storia della letteratura italiana. È l’autobiografia di uno storico che non amava l’approccio biografico nello studio delle opere dello spirito, altrui e proprie. Non rappresenta però un’eccezione nel progetto né una deviazione dal metodo crociani: al contrario, è parte di una strategia promossa consapevolmente dallo stesso filosofo, il cui fine è costruire una precisa immagine di sé stesso.

La singolarità del Contributo come testo autobiografico consiste nel collegare lo sguardo retrospettivo, il tempo del bilancio, allo sguardo anticipatore, il tempo dell’attesa. Se il primo è quello dello storico di sé stesso, il secondo è quello dell’uomo vivo che ha intenzione di ricavare dal primo insegnamenti e indicazioni che valgano non solo per gli altri ma anche per sé stesso. Ed è così con sorpresa che il lettore si imbatte già nell’incipit in una tensione sentimentale, secondo il significato dato al sentimento nella Filosofia della pratica[5], di solito assente nella lettera degli scritti crociani: «mi giova […] guardare indietro al cammino percorso e cercare di spingere lo sguardo su quello che conviene percorrere negli anni di operosità che ancora mi resteranno»[6].

La prima notazione di rilievo è che la scrittura del Contributo si colloca in un tempo presente in cui convivono bilancio e angoscia, pazienza ricostruttiva e ansia dell’ignoto, e che sul versante inquieto del futuro Croce pone non i generici anni a venire, ma gli «anni di operosità che ancora mi resteranno». Si tratta degli anni di effettiva attività intellettuale; gli altri anni, o ciò che nei medesimi non sarà contrassegnato dall’«operosità» intellettuale, sono esclusi programmaticamente dall’operazione autobiografica. Lo sguardo dello storico di sé stesso è quindi privo di quella complicazione sentimentale che invece segna lo sguardo rivolto al tempo a venire, una prospettiva quest’ultima venata da un groviglio passionale che ha a che fare con quell’angoscia[7] cronica con cui Croce più volte afferma di aver fatto i conti. La malinconia non tinge le parole dell’autobiografo, come sarebbe lecito attendersi, ma è confinata, nella forma dell’angoscia, al pensiero del futuro. Croce puntualizza che «certamente il passato mi fa sovente sognare; ma di brevi e rapidi sogni, presto ricacciati indietro dalle necessità del mio lavoro, che non è di poeta». Al contrario del poeta, che trasforma quel colore sentimentale nel nucleo di un’intuizione fantastica e quindi in opera d’arte, questo è lavoro intellettuale di storico[8] e la scrittura autobiografica che lo testimonia è il risultato di un’azione preliminare di asciugatura svolta dal pensiero sul sentimento.

La biografia come forma d’arte storico-letteraria è l’intuizione dell’individuale, irripetibile vita dell’uomo Benedetto Croce. E, come forma d’arte, essa riscatta quel groviglio di passioni, affetti, azioni che contraddistinguono ogni esistenza umana, e rientrano nella sfera della praxis[9], in una forma compiuta. Nel caso di Croce, il colore sentimentale di quella vita è rappresentato lungo tutto il Contributo attraverso una doppia sfumatura, che delinea due modi di autocomprensione del soggetto: pura intelligenza ed etica del lavoro. La prima è il presupposto della seconda, e questa è il dovere morale imposto dalla prima.

Chiarita la poetica da cui è generata la scrittura autobiografica del Contributo, apparirà meno bizzarra una delle affermazioni più sorprendenti del libriccino: «Ma la cronaca della mia vita, in ciò che può presentare di ricordevole, è tutta nella cronologia e nella bibliografia dei miei lavori letterari»[10]. La conclusione non può che essere l’eclissi del privato dietro il pubblico, dell’individuale dietro l’universale, del merito personale dietro la «missione»: «Mi proverò semplicemente ad abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso, ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho contribuito al lavoro comune: la storia della mia “vocazione” o “missione”»[11]. Il più antico ricordo è sempre un ricordo di vita intellettuale, con la sola addizione di una nota affettuosa concessa all’immagine di sé stesso fanciullo: «l’avidità con la quale chiedevo ed ascoltavo ogni sorta di racconti, la gioia dei primi libri di romanzi e storie che mi furono messi o mi capitarono tra le mani, l’affetto pel libro stesso nella sua materialità […]». La storia passata non viene raccontata all’insegna della scoperta o riscoperta di ciò che con fatica è sottratto all’oblio; essa è ricostruita prima come una catena di deboli tracce, poi di segni e infine di palesi conferme di ciò che da sempre era destinato a essere. Il tratto caratteristico della scrittura autobiografica del Contributo è dunque il riconoscimento, che, oltre a essere categoria gnoseologica, è innanzi tutto scelta programmatica («Quando torno alla mia più lontana fanciullezza per ricercarvi i primi segni di quel che poi son diventato, ritrovo nella memoria […]»)[12]. L’immagine del sé stesso più lontano nel tempo racchiude al suo interno l’immagine del Croce maturo che tiene in mano la penna nel presente scrivendo il Contributo. La storia narrata non è, allora, quella di come il protagonista è diventato il cinquantenne che redige l’autobiografia, ma la storia di come l’autore ha rivelato sé a sé stesso risalendo ai più lontani ricordi.

A questa ricercata coincidenza di essere e dover essere si deve il tono piano e costante della narrazione, che esclude, se non dalla verità biografica certamente dalla scrittura autobiografica, ogni senso di sorpresa e di meraviglia. La vita narrata (che procede dal passato al presente) e la vita attiva (che scrive dal qui e ora del cinquantesimo anno d’età) si saldano in una profonda unità. Questa saldatura, che è autocoscienza compiuta o perfetta comprensione della propria vita, è un altro dei tratti caratteristici del Contributo e traspare nel ricordo di ogni stagione della vita passata, compresa quella più lontana: «In tutta la mia fanciullezza ebbi sempre come un cuore nel cuore; e quel cuore, quella mia intima e accarezzata tendenza, era la letteratura o piuttosto la storia»[13].

Gli effetti di questa peculiare poetica autobiografica si registrano a più livelli: montaggio narrativo, registro stilistico, argomentazione. Lungo il Contributo, ad esempio, l’autore registra diversi fatti che si sarebbero prestati a un ampio o perlomeno significativo sviluppo nell’intreccio autobiografico, ma egli ne lambisce appena il potenziale narrativo per subito derubricarli a fatti individuali, reliquie di vita privata che, invece di installarsi al centro della macchina memoriale, appaiono e subito si inabissano nel corso dell’argomentazione. Quando era in procinto di seguire le lezioni universitarie a Napoli, ad esempio, la madre lo ammonisce di non seguire quelle di Bertrando Spaventa, cugino del padre di Croce, per non correre il rischio di mettere in pericolo la sua personale fede; Croce commenta: «Ed io mancai all’obbedienza, ed ascoltai l’innocua lezione di logica formale dello Spaventa, ma senza osare darmi a conoscere; ed egli morì proprio in quei giorni, e non seppe mai che tra la folla degli uditori era confuso un suo nipote»[14]. Un simile aneddoto, dal potenziale quasi romanzesco, rappresenta da un punto di vista narrativo un atto mancato. La trattazione dell’episodio è narrativamente insipida non perché riguardi un fatto ipotetico (l’incontro tra zio e nipote infatti non vi fu), ma perché esso è ricordato solo per il suo valore di testimonianza intellettuale: infatti, a differenza di quello che alcuni critici già allora sostenevano, tra la filosofia di Bertrando Spaventa e quella del nipote Benedetto Croce non vi è nessun legame. La probabile familiarità, di costumi e di pensiero, che la parentela lasciava sospettare, non vi fu e l’aneddoto è citato come prova a discarico dell’imputato.

Il meccanismo di purificazione dalle passioni che presiede alla redazione del libretto si rivela con la massima chiarezza in occasione dell’episodio biografico che più di ogni altro correva il rischio di travolgere l’equilibrio così tenacemente difeso dello stile e dell’autocomprensione. Il racconto del terremoto di Casamicciola è infatti messo al riparo dall’espressione tumultuosa del sentimento e l’angoscia è tenuta a bada, ma mai del tutto cancellata, grazie a una scrittura concisa, rapida, impersonale proprio in uno dei luoghi che avrebbe previsto il massimo coinvolgimento emotivo:

Una brusca interruzione e un profondo sconvolgimento sofferse la mia vita familiare per il terremoto di Casamicciola del 1883, nel quale io perdetti i miei genitori e la mia unica sorella, e rimasi io stesso sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Guarito alla meglio, mi recai insieme a mio fratello a Roma, in casa di Silvio Spaventa […][15].

Il tragico avvenimento occupa nella prima edizione del Contributo meno di sette righe a stampa. Anche questa trattazione è narrativamente deludente: poteva essere l’occasione ideale per raccontare degli affetti familiari, scomparsi nel tragico avvenimento, e invece si rivela la porta d’uscita dei genitori dall’autobiografia: «Guarito alla meglio, mi recai […] a Roma». Di questi e altri episodi simili rimane soltanto la traccia[16] impressa nella vita intellettuale del protagonista. Gli effetti prodotti nella sfera privata, intima e affettiva, sono invece assenti nella scrittura autobiografica; o meglio, se ne avverte l’eco, ma svanisce presto, accuratamente spenta dall’autore.

Lo stesso accade con le persone. Silvio Spaventa, che lo accoglie in casa a Roma orfano dei genitori, e Antonio Labriola, il primo a esercitare su di lui un forte ascendente intellettuale, spariscono rapidamente di fronte al primo vero incontro significativo, che è quello con un autore e un libro: Giambattista Vico e la sua Scienza nuova. Da qui ha inizio la vita nuova, la vera vita, che è quella del filosofo Croce. Alla scoperta di Vico e del suo capolavoro, l’autobiografo fa risalire l’ispirazione e la stesura della Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), la memoria che segna l’inizio della storia maggiore crociana. È una conferma dell’assunto precedentemente fissato secondo cui l’autobiografia corrisponderebbe alla bibliografia, principio che qualche pagina dopo è ribadito in occasione della fondazione della «Critica» (il cui primo numero esce il 20 gennaio del 1903):

La fondazione della Critica […] segna il cominciamento di un’epoca della mia vita, quella della maturità, ossia dell’accordo con me medesimo e con la realtà[17].

La maturità, che coincide con il primo numero della rivista, è una tappa bibliografica. Poco dopo Croce aggiunge che «La Critica» rappresentò nella sua vita una svolta fondamentale, la chiusura della scissione tra «uomo pratico» e «teoretico»: «Per lunghi anni avevo quasi sempre sofferto di disarmonia» tra il pensiero e l’azione, tra l’essere e il dover essere. Il lavoro intellettuale e redazionale per la rivista è occasione di una ritrovata armonia tra sé e il mondo, tra vocazione intellettuale e azione intellettuale.

Con espressioni simili, parlando di una disarmonia angosciosa a lungo avvertita tra sé e la vita, qualche pagina prima l’autobiografo ha introdotto il concetto di «compassione»[18]: «la vera e alta compassione e benevolenza è quella che si pratica col mettere in armonia tutto sé stesso coi fini della realtà». L’armonia di sé con il mondo, e dell’«intelligenza delle cose»[19] con la virtù, è il fine del progetto intellettuale crociano e, registrato il felice approdo, l’autobiografo non può che constatare che a tale feconda operosità mentale corrisponde «il raggiungimento di una calma che, in quanto tale, offre scarsa materia di racconto»[20]. L’ideale della «calma», parola chiave sotto il cui segno si svolge l’intero progetto filosofico del sistema crociano, getta un’ombra sul suo doppio, l’angoscia che è nascosta al lettore superficiale di cose crociane, ma non sfugge all’autobiografo che anzi la dichiara a viva voce nel capitolo finale del Contribuito. La «calma», l’«armonia», la «compassione» sono l’esito coerente di uno svolgimento intellettuale il cui fine dichiarato è stato procedere «dalle tenebre alla luce»[21]. Una conquista mai davvero definitiva, ma almeno sempre più robusta e consapevole, in grado com’è di trasformare «l’angoscia cronica» in «domestica e mite». Lungi dal ridimensionare la conquistata armonia tra pensiero e azione, la civile convivenza con l’angoscia è il segno di una ancora più matura “compassione” tra intelletto e vita[22].

Per molti versi il Contributo si pone idealmente a metà strada tra due antiche metafore della memoria, entrambe platoniche: la memoria come traccia scritta del Fedro o come orma impressa sul blocco di cera del Sofista. Come nota Ricoeur[23], la memoria-traccia allude al documento scritto e archiviato, e rientra in una dimensione pubblica, condivisa del sapere; al contrario, l’esempio del blocco di cera allude a un modello intimo e personale. Il Contributo appartiene a un progetto mediano: tradurre la memoria individuale in memoria pubblica, l’orma sull’anima in traccia scritta e, in questo modo, depurare dalle passioni e dalle ombre dell’io empirico ciò che può essere storia oggettivabile, comunicabile, storia pubblica[24] dello spirito nel suo farsi. Il Contributo nasce da un processo di catarsi affettiva e di emendazione laica. È una confessione filosofica poiché la sua struttura rende esplicito il modello etico e il metodo intellettuale dello scrittore Croce.

La pagina finale dell’autobiografia cade a questo punto come una sorpresa. Tutto lo sviluppo narrativo del Contributo si è svolto sotto la luce rischiaratrice dell’intelligenza profonda di sé e del mondo, e si è snodato di fronte al lettore come la storia del progressivo svilupparsi della vocazione intellettuale in operosa missione di uomo di pensiero, una sorta di auto-riconoscimento e autocomprensione[25] del sé stesso presente come frutto di una sempre maggiore convergenza tra essere e dover essere. Giunto a ridosso di quello sfuggente margine del tempo che è il presente, stretto fra un passato pluridecennale e un futuro imperscrutabile, margine risicato che coincide con il tempo della scrittura autobiografica, Croce alza la penna e il meccanismo dell’auto-riconoscimento si inceppa, la disarmonia si ripresenta, la compassione, che è la comprensione del proprio posto nel mondo in armonia con i fini propri e generali, sparisce. L’autobiografo tentenna: non riconosce più sé stesso e il senso del tempo e, proprio come accade ai Farinata e Cavalcante danteschi, la cognizione delle cose presenti stinge in una tenebra fittissima. Dove l’angoscia ricompare e sembra trionfare, lì si interrompe la scrittura e riconoscere sé stessi diviene impossibile. La Grande Guerra, alla quale Croce fa esplicito riferimento, è l’avvenimento storico puntuale in cui si incarna l’angoscia mai sopita, che è angoscia della morte, fisica e intellettuale:

e questa guerra grandiosa, e ancora oscura nei suoi andamenti e nelle sue riposte tendenze, questa guerra che potrà essere seguita da generale irrequietezza o da duro torpore, non si può prevedere quali travagli sarà per darci nel prossimo avvenire e quali doveri ci assegnerà. L’animo rimane sospeso; e l’immagine di sé medesimo, proiettata nel futuro, balena sconvolta come quella riflessa nello specchio d’un’acqua in tempesta[26].

Lo scritto si chiude su questa immagine inintelligibile di sé. La guerra, che scatena il fondo passionale e irrazionale degli animi umani, è l’agente dell’oblio che incombe sul lavoro ventennale di Croce e agisce come un pericolo sia per la memoria individuale che per quella pubblica. Nel primo caso la scrittura del Contributo rientra in una personale strategia di contenimento del fondo passionale e oscuro che si agita nell’animo dell’autore, nel secondo in una strategia pubblica di contenimento delle forze più irrazionali scatenate dalla guerra attraverso un’opera di testimonianza. Le due strategie tendono a convergere e la prima a prendere le forme della seconda, confondendosi con essa. Il Contributo è il farmaco che Croce utilizza per depurare la vita dall’angoscia del tempo e dell’esistere: la guerra, la vecchiaia, il semplice scorrere del tempo, che per l’uomo, appena ne ha consapevolezza, è sempre un correre verso la morte e l’annientamento[27]. Il risultato è, o vorrebbe essere, la salute riconquistata, o preservata, attraverso la condanna all’oblio di quegli aspetti dell’esistenza individuale che, pur presenti e influenti, non possono essere riscattati alla luce della filosofia dello spirito.

Ciò che è casuale, empirico, legato al terreno delle emozioni o in generale delle pulsioni, della psiche e del corpo, ciò che discende dalle necessità materiali dell’esistenza, dalle intermittenze della psiche intesa come organo e non come intelligenza, dunque tutto ciò che secondo la logica dell’idealismo crociano non potrebbe essere oggetto della più compiuta autocoscienza filosofica, era stato già ricondotto in un recinto chiuso e indagabile, circoscritto in quella categoria così problematica della filosofia crociana che è quella di praxis e così era stato adeguatamente affrontato nella Filosofia della pratica (1909). Il Contributo ne è la controparte personale e narrativa.

L’accidentale tuttavia, nella filosofia crociana, è per l’esistenza ciò che l’individuale è per la storia: sono i fatti empirici, la lunga schiera delle vicende vissute e che per definizione si sommano al voluminoso giacimento del passato, lottando per non essere dimenticate. Da quell’enorme serbatoio Croce ricava i materiali di costruzione del Contributo. Il progetto autobiografico del Contributo, guidato da questa idea di narrazione come farmaco che cura dall’angoscia dell’esistenza, è animato da un’intenzione scoperta, intellettuale, e da una meno evidente, emotiva. Le due motivazioni sono entrambe soddisfatte dal risultato finale: un’autobiografia in pubblico (dimensione nient’affatto smentita dalla circolazione iniziale riservata agli amici), che mette in ordine una serie di eventi sopravvissuti al setaccio che separa, all’interno della legione di fatti empirici individuali, ciò che può essere riscattato alla luce dell’autocoscienza dell’intellettuale da ciò che, invece, non riesce a emergere dalla marea indistinta della vita empirica.

La forma che prende l’angoscia crociana in questo preciso momento storico è quella dell’incertezza individuale e collettiva procurata dalla guerra, che stende un’ombra inquietante sul futuro e addirittura sulla stessa possibilità di concepire il tempo a venire secondo la misura umana del progetto (una categoria centrale nella vita intellettuale di Croce). Il finale del Contributo rappresenta lo sguardo gettato da Croce nell’abisso, quanto più a fondo gli era concesso dalla sua capacità di introspezione o, per dirla in termini di filosofia dello spirito, dalla sua capacità di teorizzazione di ciò che in quel sistema appartiene al mondo dell’empiria. Guardare nell’orrore del conflitto bellico è infatti scrutare, come per iperbole rivelatrice, nel fondo oscuro che si trova nell’esistenza umana. Un nodo vivo di passioni, affetti, emozioni irriducibili a un ordine prestabilito e fisso. Tutta la filosofia dello spirito era stata costruita come una sistematica traduzione del disordine in sistema, dell’esuberanza fantastica in forma artistica, della passione vitale in etica del dovere e del lavoro, del confuso e agitato groviglio dei pensieri in logica dei distinti, del fiume incessante degli avvenimenti in chiara comprensione storica. Tutte le parole-chiave della filosofia crociana sono accomunate dalla logica della separazione ordinata di elementi che non possono esistere separati ma vanno compresi come distinti l’uno dall’altro. Ordine, chiarezza, distinzione.

Più volte Croce nel Contributo confessa di preparare i suoi progetti intellettuali con quattro o cinque anni di anticipo: così è per le edizioni di testi, per le annate della «Critica», per i volumi principali del sistema filosofico vero e proprio. La proiezione in avanti dell’intelligenza del critico letterario, dell’editore, del filosofo indica una straordinaria capacità di mobilitazione delle proprie energie intellettuali, virtù che spiega in abbondanza il dominio svolto dall’intellettuale Croce sulla vita italiana della prima metà del ventesimo secolo. Per altro verso, progettare è il modo in cui Croce elabora la propria inquietudine angosciosa: proiettare il controllo del pensiero in avanti, su ciò che ancora non esiste e che, se lasciato a sé stesso, potrebbe annichilire il soggetto con la sua oscura incertezza. La prodigiosa capacità progettuale di Croce è tutt’uno con la sua strategia di aggressione e controllo della propria angoscia.

Il Contributo tuttavia, uno sguardo autobiografico che fa ordine nel passato, nasce da una momentanea vittoria dell’angoscia o, perlomeno, dal momentaneo incepparsi del meccanismo abituale attraverso il quale Croce aveva imparato ad addomesticare l’angoscia. Lo si comprende dalla travagliata vicenda del finale, riscritto in bozza e modificato rispetto al manoscritto autografo[28]. Incalzata dal pericolo, la memoria si cimenta in una volontaria e attiva ricostruzione del passato. La virtù etica in questo caso consiste nel salvare il senso della vita trascorsa prima che, nell’incertezza tragica e funebre aperta dall’età del conflitto, tutto possa essere rimesso in discussione[29]: l’accaduto con il dubbio, la conquista con l’incertezza, l’ordine con il caos, la vita con la morte. Impossibilitato a lanciare lo sguardo previdente della sua intelligenza progettuale oltre la «tempesta» della guerra, per usare l’immagine crociana stessa, Croce si trasforma in autobiografo. E almeno così spera di salvare la vita dalla morte, non solo la sua singola esistenza individuale, ma soprattutto il significato collettivo e pubblico che, attraverso quella, egli era stato in grado di sviluppare nella storia.

  1. J. J. Rousseau, Le confessioni, note a cura di L. Sozzi, traduzione di M. Rago, Milano, Mondadori, 2008, p. 4.

  2. Un primo bilancio orientativo sull’alternativa Agostino/Rousseau è in I. Tassi, Storie dell’io. Aspetti e teorie dell’autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 3-40.

  3. Si cita da B. Croce, Contributo alla critica di me stesso. Ristampa anastatica dell’edizione del 1918, a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2006, che riproduce la prima edizione a stampa fornita da Ricciardi, in 100 esemplari numerati destinati a una ristretta circolazione privata, uscita il 15 giugno 1918; la pagina finale del Contributo reca la data di chiusura della stesura del manoscritto, testimoniata anche dai Taccuini di lavoro: «8 aprile 1915».

  4. La brevità riguarda la stesura materiale del Contributo, che però germoglia su altre scritture autobiografiche abbozzate negli anni precedenti, come le Memorie della mia vita (1902-1912).

  5. È lo stesso Croce nel Contributo a rivelare la natura copertamente autobiografica della Filosofia della pratica; recentemente Emanuele Cutinelli-Rendina ha indicato nella Filosofia della pratica, a partire da questo registro velatamente autobiografico, il sostrato filosofico del Contributo (Benedetto Croce. Una vita per la nuova Italia. Genesi di una vocazione civile (1866-1918), Torino, Aragno, 2022, vol. I, pp. 597-98).

  6. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 1.

  7. Cfr. P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia I. 1866-1918, Bologna, Il Mulino, 2023, p. 25.

  8. È Croce stesso a definire il Contributo, nei Taccuini di lavoro, «una specie di autobiografia intellettuale»; dunque, la redazione rapida (5-8 aprile 1915) segue comunque una lunga e meditata riflessione sui temi trattati nello scritto (sulla ricostruzione puntuale dello sfondo biografico in cui sorge il testo rinvio a E. Cutinelli-Rendina, Benedetto Croce. Una vita per la nuova Italia. Genesi di una vocazione civile (1866-1918), op. cit., pp. 591-602, in part. qui alle pp. 599-600, e a F. Audisio, Nota al testo, in B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 110).

  9. Così, fra le tante definizioni che si potrebbero scegliere, è sciolto altrove il concetto della praxis come vita attiva: «la Vita è composta di azioni piccine e di azioni grandi, di minimi e di massimi, o, meglio, di un fittissimo tessuto di azioni diversissime» (B. Croce, Filosofia della pratica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 326).

  10. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 4.

  11. Ibidem: corsivi miei.

  12. Ivi, p. 7.

  13. Ivi, p. 8.

  14. Ivi, p. 10.

  15. Ivi, p. 18; sulla lunga e travagliata elaborazione dell’evento tragico rinvio a M. Panetta, Croce e la catastrofe. Gli scenari apocalittici dei terremoti di Casamicciola e Reggio, in «Studi (e testi) italiani», 15, 2005, pp. 155-71.

  16. È quanto Gardini definisce «lacunosità oggettiva»: «è l’omettere in vista dell’essenziale, è il costruire il testo senza eccessi o devianze, con la coscienza di inseguire una forma ideale e con il fine di dare alla storia lo svolgimento più giusto e all’insieme delle parti un’organizzazione perfetta» (N. Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto, Torino, Einaudi, 2014, p. 66).

  17. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 46.

  18. Il concetto, significativamente, tornerà proprio in un articolo dedicato al genere autobiografico: «meritano il nome di autobiografia, cioè di determinazione e qualificazione e racconto della propria vita passata, la quale non è poi altro che l’azione che s’è compiuta, l’opera che si è lavorata, azione e opera personale solo in quanto di necessità è tutt’insieme individuale e universale, e nasce da una collaborazione col tutto nel tutto» (B. Croce, L’autobiografia come storia e la storia come autobiografia, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 38, 1940, p. 80).

  19. Ivi, p. 23.

  20. Ivi, p. 51.

  21. Ivi, p. 87.

  22. Ibidem.

  23. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Cortina, 2003, pp. 26-27.

  24. Che questa fosse l’intenzione dell’autore è confermato anche dal metodo di lavoro autobiografico che Croce elabora negli scritti precedenti il Contributo (si veda F. Audisio, Nota al testo, in B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 104).

  25. Numerose sono le espressioni che confermano questo giudizio; tra le tante: «la mia vera natura era quella dell’uomo di studio e di pensiero» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 37).

  26. Ivi, p. 89. Gli antecedenti filosofici e culturali dell’angoscia crociana sono indagati anche in A. Musci, La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce, Macerata, Quodlibet, 2019, in part. alle pp. 9-34 e 79-89.

  27. È notevole che, in uno scambio epistolare con Gentile (cit. in M. Ciliberto, Filosofia e autobiografia in Croce, in «Studi Storici», 1992, 33, n. 4, pp. 693-712), Croce affermi di aver scritto il Contributo «tamquam moriturus»; l’espressione allude chiaramente al cupo groviglio passionale di quei mesi, della cui angoscia il Contributo vorrebbe essere farmaco: l’essere in punto di morte indica proprio l’esistenza liminale di chi si scopre sul margine di un abisso.

  28. L’autografo si chiudeva così: «Come posso, in questo momento, disegnare al mio solito il mio programma, e vedermi in atto di calmo investigatore e di paziente erudito e letterato? In questa figura gli altri forse mi tollereranno; ma quel ch’è di più, io medesimo, in questo momento, non riesco a tollerarmi»; nessuna edizione a stampa del Contributo, a partire dalla prima, ha ripristinato questo congedo (sulla vicenda si veda il commento di E. Cutinelli-Rendina, Benedetto Croce. Una vita per la nuova Italia. Genesi di una vocazione civile (1866-1918), op. cit., pp. 601-602 e la puntuale ricostruzione filologica fornita da F. Audisio, Nota al testo, in B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., pp. 115-16).

  29. Della medesima strategia di resistenza all’angoscia personale e collettiva del momento storico fanno parte anche le Storie e leggende napoletane, rielaborate e riscritte nel giugno del 1915 ed edite poi in volume solo nel 1919; l’intera vicenda editoriale, condotta alla medesima temperatura emotiva e intellettuale del Contributo, e il significato dell’impresa con sullo sfondo la tempesta della guerra sono ricostruiti con cura da A. Manganaro in B. Croce, Storie e leggende napoletane, a cura di A. Manganaro, Napoli, Bibliopolis, 2019, vol. 2, pp. 333-36.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)