I tre racconti di Matteo Meschiari raccolti sotto il titolo Tre montagne (seconda uscita della collana «Bassa stagione» curata da Marino Magliani per Fusta) esprimono tre visioni della montagna diverse ma compatibili, tutte improntate a un senso dell’epos molto antico e molto moderno. Proveremo a parlarne, anche se la postfazione illuminante di Gian Luca Picconi (Un deserto di segni: proustfazione geoanarchica) già delinea con precisione tutta una serie di cose, al punto quasi di togliere voglia di aggiungere altro.
Nel primo racconto, Svernamento, un vecchio alpinista ed esploratore torna a scalare, forse per l’ultima volta, una montagna che sembra prima aprirsi, poi negarsi, poi, chissà, lasciargli la possibilità di tornare a valle. Qui la montagna è raccontata, oltre che con invidiabile competenza (Meschiari insegna Antropologia e Geografia all’Università di Palermo ed è autore di diversi saggi sul paesaggio), con senso vivo della poesia: e spesso la montagna è descritta come un oceano in tempesta, una tempesta immobile in cui le onde sono di pietra e ghiaccio. È montagna vissuta, vera, ma al tempo stesso intrisa di riferimenti colti.
In Primo Appennino – Canovaccio di piazza, il secondo racconto, un canovaccio di oratorio o di sacra (in questo caso, laica) rappresentazione, l’epica è quella, colta e maccheronica insieme, misurata e rodomontesca, di Guglielmo e Enrico, due Gilgamesh ed Enkidu dei tempi della guerra partigiana sull’Appennino emiliano, tra montagne basse e boschi, agguati e fughe. Anche il dialetto emiliano, invece di toglierla, dona magniloquenza epica ai dialoghi.
Le montagne si fanno depositarie della memoria dell’uomo ancor più che di quella geologica, come si legge nell’ultimo racconto, Pace nella valle, dove un figlio e un padre partono per una spedizione alpina, e per un incidente il padre, immobilizzato e morente, è assistito dal figlio fino alla morte. È il più diretto e puro dei tre, quello in cui l’autore sembra meno preoccupato della necessità di inframmezzare la narrazione con intrusione di elementi esterni, citazioni, postille, frammenti, digressioni, rimandi, anche se anche qui la montagna rimanda ad altro, ad altre montagne, ad altre avventure, all’Africa.
Tre racconti compongono anche il succinto libro di Nader Ghazvinizadeh, I cosmonauti, pubblicato da Pendragon nella collana «I chiodi», diretta da Matteo Marchesini. E, anche qui, personaggi avvolti in ambienti che è come se esplorassimo per la prima volta, quelli di una provincia italiana dimenticata o ignorata, intasata da cantieri che la stravolgono, da alberghi di passaggio, da abitazioni che misurano il proprio tempo attraverso le alluvioni che le isolano dal resto del mondo. A osservare questi luoghi, nel tentativo di abitarli, troviamo personaggi capitati lì da luoghi altrettanto anonimi: e noi li osserviamo, questi luoghi, attraverso il loro sguardo indagatore e sperduto, e condividiamo il loro desiderio di esserci e di capire, di entrarci sia pure per un istante, di cogliere un legame.
In Un prete a Ripoli, ad esempio, l’io narrante, il prete del titolo, trasferito sull’Appennino bolognese dalla Liguria, vaga da un paese all’altro, da un bar all’altro, da una chiesa all’altra, tra viadotti e cantieri, colto nello sforzo di cogliere un legame tra le persone e i luoghi, e parla di quei luoghi che gli sono estranei come se parlasse dell’entroterra ligure, altrettanto devastato da colossali trasformazioni stradali e immobiliari.
Nell’ultimo racconto, Medicamenti antichi, tre personaggi, al ristorante di un albergo affacciato su una statale del basso Lazio al di là della quale si intravede il mare, si osservano e si immaginano pensare, ricostruendosi a frammenti, e allo stesso tempo studiano il posto, ne assaporano per così dire l’estraneità non accogliente né invitante ma, in qualche modo, ispirante. Nel primo racconto, il più ampio, il più temporalmente esteso, non a caso quello che presta il titolo alla raccolta, l’io narrante ripercorre infanzia e giovinezza vissuta tra le golene dell’Alto Monferrato, in case e incroci di strade che sembrano aspettare le alluvioni come «feste comandate» o «processioni», in stagioni che passano inerti. Tornare a quei luoghi, rinominarli, e rinominare le persone che a quei luoghi sono legate nel ricordo, sentirsi diverso, di quella diversità che si assume stando a vivere altrove, significa ricalcolare spazi e ripensare dimensioni e distanze: «questi luoghi… senza le automobili per le strade si risolvono in una alternanza di vuoti e aggetti».
Precisa quand’è il caso, vaga e allusiva quando lo richiede l’appannamento della distanza o la distrazione della stanchezza, la scrittura in prosa di Ghazvinizadeh è memore dell’esperienza poetica dell’autore, in questo procedere per immagini che si fanno strofe, nell’essenzialità circospetta.
(fasc. 8, 25 aprile 2016)