Com’è noto, quest’anno cadono i centocinquant’anni dalla nascita di Benedetto Croce, un indiscusso protagonista del ’900 italiano ed europeo. «Diacritica» si è interrogata sulla sua eredità nel numero precedente: sulla stessa scorta, l’intervista che segue a Salvatore Cingari, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università per Stranieri di Perugia, nonché importante studioso di Croce.
Dopo le tre monografie uscite all’inizio del millennio (Il giovane Croce. Una biografia etico-politica; Alle origini del pensiero “civile” di Benedetto Croce. Modernismo e conservazione alle origini dell’opera. 1882-1902; Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea), attualmente Cingari sta raccogliendo i suoi saggi sul filosofo maturati negli ultimi tredici anni, in una silloge che uscirà a fine 2016 per la Perugia Stranieri University press.
A centocinquant’anni dalla nascita di Croce, cosa ritieni sia «vivo» nel suo pensiero?
Quello che secondo me è ancora «vivo» di Croce è la critica ante litteram di taluni aspetti regressivi della post-modernità. La sua lettura del D’Annunzio «dilettante di sensazioni», vicina al Simmel critico degli effetti anestetizzanti della metropoli moderna, quasi anticipa con le stesse parole il soggetto superficiale e flessibile dell’epoca della globalizzazione, descritto da Baumann. C’è persino, in Croce, un precorrimento della critica di Debord alla spettacolarizzazione della vita pubblica. Tuttavia, mentre Debord parte da una solida analisi marxiana degli effetti mercificanti del capitalismo, nel filosofo italiano, già dal primo Novecento, il sistema produttivo non viene mai messo in discussione e la critica rimane culturalistica, al modo di quella di Ortega Y Gasset, Benda, Huizinga.
Affermi che Croce e il marxista Lukács esprimono giudizi simili nei confronti dell’irrazionalismo. Puoi chiarire in che senso?
Croce, come Lukács, scrive una vera e propria «distruzione della ragione» per ampi frammenti storico-filosofici, in saggi, note, articoli, in cui, a partire dalla stagione della Grande Guerra, segnala un cedimento della cultura a miti irrazionalisti. In questo c’è anche una forte affinità con le analisi di Ernst Cassirer. Solo che, mentre Croce tende ad attribuire tale fenomeno a una perdita di qualità determinatasi con i processi di massificazione, Lukács identifica il problema nell’incoerenza con cui la ragione borghese dispiega processi di emancipazione, senza poi voler accettare la logica conseguenza dell’uguaglianza delle condizioni sociali. In questo senso, Croce stesso e il neoidealismo vengono inclusi dal filosofo ungherese nei processi dissolutivi del pensiero: nell’autonoma irrequietezza dell’estetica, e nel pratico-vitale, è contenuta l’esigenza di liberare lo strebencapitalistico-imperialistico.
Sostieni, infatti, che Croce intende arginare la crisi del soggetto moderno attraverso la riproposizione di schemi ottocenteschi e “borghesi”. La sua sarebbe, dunque, un’impostazione conservatrice?
Croce è un fermo critico della cultura imperialistica e nazionalistica, per non parlare delle derive razziste, sottovalutate fino agli anni Trenta. Tuttavia, in lui vi è un’esaltazione della vita come “libera gara” e lotta che deve pensarsi come conflitto fra soggetti e, al limite, tra stati-nazione, ma non certo fra classi. Così, espunge il conflitto sociale e giustifica le guerre “borghesi” esattamente come la competizione capitalistica.
Croce, però, nella celebre disputa con Luigi Einaudi, premia il liberalismo «metapolitico» a discapito del liberismo economico.
A questo proposito mi preme sottolineare come sia diffuso anche fra gli studiosi l’equivoco di un «Croce anti-liberista». Egli, in verità, intende opporre alla disgregazione sociale determinata dal positivismo darwinistico una visione inclusiva di humanitas, sottraendo quindi l’idea di libertà a uno schiacciamento sul calcolo e il profitto economico (e questa è senz’altro una lezione attuale). Ma, dal punto di vista politico, la posizione di Croce è stata sempre a favore delle ricette liberistiche, come egli stesso scrive a Von Hayek, in una lettera pubblicata qualche anno fa. Anche a questo si deve la sua perplessità sulla Costituzione repubblicana del ’48. Notava già Gramsci che Croce pone in anticipo il contenuto che deve essere conservato nella sintesi dialettica: un contenuto che guarda sempre all’aurea età del «mondo di ieri». Ciò vale per la politica, per i giudizi estetici e per l’etica: il soggetto moderno viene ricondotto al pratico vitale e, pertanto, de-essenzializzato (Croce conosce Freud); ma, alla fine, esso viene di nuovo irregimentato nei valori del savio borghese ottocentesco. Come direbbe sempre Gramsci, il pensatore finisce per elevare l’ideologia a filosofia.
È per questo che Croce entra in rotta di collisione con la cultura azionista?
Certo. Croce, sebbene lo ritenga pensabile e in certi momenti necessario, all’atto pratico finisce per essere contrario agli interventi dello Stato o della collettività nell’economia e nei rapporti sociali. Nondimeno, a cavallo fra Otto e Novecento si avvicina al socialismo, attestandosi su posizioni di liberalismo progressista e democratico. Di recente è stata pubblicata una sua lettera a Vittorio Cian, del 1900, in cui denuncia l’operato di Bava Beccaris e non si stupisce per l’uccisione di Umberto I.
Nel corso dell’età giolittiana, tuttavia, tenderà sempre più a fiancheggiare l’edificazione del nuovo Stato, criticando, semmai, nella classe dirigente, un deficit di eticità. La Grande guerra stimola in Croce la paura del dissolvimento dell’Italia e lo spinge a destra, fino a farlo avvicinare, per un brevissimo interludio, nel secondo dopoguerra, ai nazionalisti e a sperare, fin dopo l’omicidio Matteotti, nella proficuità della soluzione fascista per rinsaldare il liberalismo italiano rispetto alla disgregazione corporativa e al conflitto di classe.
E il suo antifascismo?
L’antifascismo di Croce non rinnega, all’inizio, questa presa di posizione e si manifesta più come rivendicazione dell’autonomia della cultura rispetto alla politica: il passaggio, fra gli anni Venti e Trenta, alla liberal-democrazia appare anche come una grande riproposizione, in una veste rinnovata, delle esigenze di conservazione sociale rispetto alle ricette totalitarie. In ogni modo, andrebbe ricordato che Croce − a differenza di Schmitt, Heidegger e Gentile − si schiera dalla parte dei repubblicani spagnoli e, in seguito, a fianco di tutta la Resistenza europea.
(fasc. 8, 25 aprile 2016)