Recensione di Alessandro Piperno, “Proust senza tempo” (2022)

Author di Fabio Libasci

Un immane esercizio di seduzione. Sul Proust senza tempo di Alessandro Piperno

L’anniversario proustiano, a cent’anni dalla morte, ha portato una vera e propria messe di libri e saggi dedicati all’autore di Alla ricerca del tempo perduto; in Francia come in Italia, per restare ai due paesi la cui produzione critica più ci interessa, quasi tutti i proustiani, di fama e no, sollecitati dalla visibilità dell’evento, hanno prodotto e pubblicato un libro o più di uno. È il caso di Antoine Compagnon, autore all’inizio del 2022 di Proust du côté juif (Gallimard 2022) e poi del catalogo della mostra ancora in corso alla BNF, Marcel Proust. La fabrique de l’œuvre (Gallimard 2022), ed è il caso del proustiano par excellence, Jean-Yves Tadié, la cui biografia, divenuta nel frattempo un classico e un riferimento imprescindibile, viene ora ripubblicata in un’edizione riveduta nella collezione «Folio» e in Italia nella collana «Oscar Saggi Baobab» presso Mondadori, a riprova di un interesse che non conosce flessioni. Penso anche alla tempestiva uscita dei 75 fogli tradotti da Anna Isabella Squarzina per La Nave di Teseo e alla riedizione quanto mai meritevole e preziosa dei Piaceri e giorni, introdotta da Mariolina Bertini e curata dalla stessa e da Giuseppe Girimonti Greco, e che per la prima volta ripropone le preziose illustrazioni di Madeleine Lemaire e gli spartiti di Reynaldo Hahn; in appendice raccoglie, poi, alcuni testi mai pubblicati ripresi in volume dallo stesso autore. Bisogna ammettere che l’editoria nostrana non vuole accumulare più ritardo alcuno, dopo averci messo un trentennio prima di tradurre la Recherche.

Queste che ho elencato sono solo alcune, una porzione davvero minima, delle tante pubblicazioni che stanno ritmando quasi ossessivamente proustiani e proustolatri italiani e francesi. Tra i tanti saggi che si affastellano sugli scaffali fisici e digitali, merita attenzione e più di una lettura il Proust senza tempo di Alessandro Piperno.

Professore di letteratura francese all’Università di Roma Tor Vergata, ha già dedicato a Proust alcuni titoli: il controverso Proust antiebreo (FrancoAngeli 2000), Contro la memoria (Fandango 2012) e diverse pagine di Pubblici infortuni (Mondadori 2013) e del Manifesto del libero lettore (Mondadori 2017); a leggerla bene, una spessa traccia proustiana si ritrova anche in tutta la sua produzione romanzesca, da Con le peggiori intenzioni (Mondadori 2005) a Di chi è la colpa (Mondadori 2021). Ma seguirla chiederebbe ben altro spazio e analisi.

Proust senza tempo si divide in due parti di lunghezza quasi uguale: una prima, inedita, dove è soprattutto chi scrive a rendere conto della propria passione per l’autore e una seconda parte, largamente edita sulle pagine del «Corriere della Sera», in cui è in gioco il rapporto tra Proust e gli altri, da Dante a Woolf, da Balzac a Roth.

La prima parte, «Breve storia di una lunga fedeltà», è appunto la storia di un’iniziazione, di una chiamata, di un rapporto con la Recherche cominciato all’uscita dell’adolescenza e che ancora non finisce. Il narratore Piperno gioca e si mantiene in equilibrio con lo studioso, l’accademico; le riflessioni critiche stanno sullo stesso piano dei ricordi in una struttura generale che tanto somiglia, in miniatura, alla stessa opera che si vuole rileggere. La bizzarra identificazione[1], poi «la necessità di identificarsi nel Narratore, e la conseguente tentazione di sovrapporre il suo fausto destino a quello di Proust»[2], non possono non farci ricordare la conferenza barthesiana, Longtemps je me suis couché de bonne heure[3], conosciuta anche con il titolo Proust et moi e che apre di fatto una nuova stagione critica di Barthes. Penso poi alle pagine vibranti che Giacomo Debenedetti dedica a sé stesso lettore all’interno di Rileggere Proust[4] e a quella lettera commovente fino alla sconvenienza al Caro, dolcissimo Proust con cui Giovanni Macchia chiude il suo L’angelo della notte[5] e che Piperno cita cauzionalmente. Da questo punto di vista, Piperno sarebbe solo l’ultimo tra i critici-narratori a svelare il proprio personale rapporto con l’opera criticata.

L’autore di Proust senza tempo tratteggia dunque la sua storia di lettore della Recherche, storia nella quale ogni lettore può però identificarsi e che va dallo stupore alla consuetudine, una storia «esposta alle intermittenze del cuore e minata dal cinismo e dal disincanto, ma anche dall’inesauribile tenerezza che si prova per una mamma invecchiata» (p. 62).

Dietro la rapsodia di temi e motivi che lo scrittore intreccia, una trama si costruisce, un’identificazione più forte si rivela. L’amico Roberto che gli regala il primo volume dei «Meridiani» tradotto da Raboni è un nobile completamente diverso da chi in queste pagine scrive «Io», e non può non far pensare a Robert de Saint-Loup; e del resto Piperno stesso lo conferma, quasi a voler moltiplicare gli indizi che dalla vita portano all’opera e viceversa. C’è poi la madre che fa una fugace apparizione a metà di questa prima parte per chiedergli se «c’è un argomento su cui Proust non abbia detto la sua» (p. 44), interrogativo che a ben vedere potrebbe aver dato origine alla scrittura, a un interesse di tipo accademico e non più esclusivamente personale. C’è infine Elia Vogelman, antiquario veneziano perfettamente a suo agio nei panni di un eroe della Recherche. Sì, ma quale? Grande conoscitore d’arte, lettore compulsivo dell’opera, più interessato «alle superfici sfavillanti della prosa proustiana che alle verità che essa era in grado di rivelare a lettori ingenui e suggestionabili come me» (p. 49) è colui che nella realtà ha incarnato Swann. Elia e Swann nella mente del narratore Piperno e sulla pagina si sovrappongono quasi perfettamente: come Swann, che in procinto di morire si riavvicina alla sua patria perduta, Elia lascia tutto allo Stato d’Israele. Roberto, la madre, Elia hanno guidato il narratore in un percorso di conoscenza della Recherche, questo suggerisce Piperno; se anche fosse falso, essi ci hanno aiutato meglio a comprendere fino a che punto la vita e la pagina, la verità e la finzione sfumano nell’ordito creativo. In fondo, chi chiede più a Proust chi mai fosse davvero Robert de Saint-Loup o Charles Swann o se l’amata nonna fosse in realtà la madre o la madre e la nonna fuse insieme in un ritratto della bontà? Perché dovremmo chiedere a Piperno se quel che scrive è fattuale o meno? Quel che conta è quel che scrive. È anche così che il mito Proust prende vita: non si capirebbe altrimenti l’interesse che cinquant’anni dopo proviamo ancora nel leggere commuovendoci Monsieur Proust (Laffont 1973) di Céleste Albaret, la fedele governante degli anni creativi, senza chiederci mai se sta mentendo.

Nel Proust senza tempo, nella personale galleria di momenti e personaggi del narratore Piperno, non c’è spazio solo per gli eroi esemplari e perdenti, i Saint-Loup, gli Swann; c’è pure Mme Verdurin, a suo modo anch’ella esemplare «nel suo guscio di egoismo e retorica» (p. 53). Basterebbe la sola Mme Verdurin per convincerci dell’approccio scientifico di Proust, del suo procedere come un geometra che non vede che il substrato lineare di tutte le cose. È tutto lì Proust, e poi ovviamente nell’idea del tempo e della morte, in quelle pagine la cui rilettura smentisce in parte la consuetudine acquisita, l’addomesticamento. C’è un momento, presto o tardi, in cui tutto intorno ci parla della morte: Piperno lo afferma, ognuno di noi lo può confermare; allora quelle pagine struggenti che verso la fine del Tempo ritrovato il narratore dedica alla caducità e alla fine diventano semplicemente vere, strazianti e contagiose.

La seconda parte, dicevo, riprende alcuni ritratti a due, molti già editi sul «Corriere della Sera». I migliori sono quelli dedicati a Montaigne e Proust, sulla scia degli studi e delle intuizioni che Debenedetti dedicò all’autore degli Essais. Piperno rileva i tratti in comune: quella salute fragile che è la loro forza, l’identificazione con un’unica opera maestosa e stratificata, la severità che non diventa moralismo; non in ultimo li accomuna l’accusa a loro rivolta di egotismo. Segue poi una lettura incrociata di Proust e Céline, scrittori al centro di una vasta operazione editoriale nell’ultimo biennio, tra riscoperte di inediti e studi critici: polemiche per quel che riguarda Céline.

Perché Céline odiava così tanto Proust? È alla stessa domanda che Valerio Magrelli nel suo Proust e Céline, la mente e l’odio (Einaudi 2022) prova a rispondere. Piperno ricorda che «Proust è il prototipo umano e sociale di tutto ciò che Céline detesta. Per questo lo attacca su tutto ciò che ha di più caro uno scrittore: la lingua. Il francese di Proust gli da il voltastomaco» (p. 84). E poi c’è Balzac, che Proust amò e rilesse per tutta la vita, ispirandosi per molti aspetti all’autore della Comédie humaine come Mariolina Bertini ha messo bene in luce in L’ombra di Vautrin (Carocci 2019). Proust apprezza l’ambiguità morale dei personaggi balzachiani, ammira la trovata del loro “ritorno”, che sfrutterà fino all’apoteosi nel Bal des têtes. Proust ha creato poi il personaggio più balzachiano, Charlus, grande lettore della Comédie humaine, e non è difficile capire perché: Charlus lettore si identifica in Vautrin, entrambi consumatisi per giovani uomini avvenenti come Rastignac o Lucien e Morel. Nel ritratto di Charlus, Proust come Balzac è andato al cuore delle cose: «nell’anima delle persone, quel nucleo vitale e rovente che i narratori troppo raffinati fanno finta di non vedere» (p. 113).

Anche il doppio ritratto dedicato a Proust e a Dante merita una sosta: che cos’è la matinée Guermantes se non la bolgia nella quale espiano i suoi amici-nemici di un tempo? Certo, per Proust non esiste nulla oltre l’inferno, nessuna salvezza che non sia l’opera; non in ultimo l’itinerario sembra muoversi, come giustamente Piperno nota, al contrario: «dal Paradiso dell’Infanzia, per giungere sfiancato, attraverso il Purgatorio della frivolezza, all’Inferno della vecchiaia e della morte» (p. 129). L’ultimo ritratto è dedicato a Proust e Roth, il più scopertamente proustiano fra gli autori americani. Tanti i punti di contatto: l’accusa che pende contro di loro anzitutto, quell’odio di sé ebraico che Roth si porta dietro dalla prima raccolta di novelle, Goodbye Columbus (Einaudi 2012), l’impietoso ritratto che Roth fa di amici e nemici e poi quel doppio, Nathan Zuckerman, più volte protagonista dei suoi libri, e del quale si potrebbe dire quel che Marcel Proust disse del suo: « “je” qui n’est pas toujours moi». Piperno rilegge qui Pastorale americana (Einaudi 1998), in cui Roth sfrutta il suo talento parodistico per fare il verso alla scena della madeleine. A ben vedere, non è solo questo l’omaggio che l’autore americano rende al noto collega della vecchia Europa: tutto quel che si racconta in Pastorale americana potrebbe non essere mai avvenuto. La cronaca realistica il narratore Nathan potrebbe solo averla sognata, «un tuffo nel Tempo Perduto» (p. 153).

Nella prima come nella seconda parte, Alessandro Piperno si rivela abile narratore, rabdomante alla ricerca di echi e vibrazioni nell’opera e tra le opere, tra Proust e chi lo ha preceduto, tra la Recherche e i libri che sono nati anche grazie a lei. Se mai ve ne fosse bisogno, conferma quel che in fondo sappiamo, e cioè che «in un certo senso l’intera Recherche può essere considerata un immane esercizio di seduzione» (p. 42), che non è ancora finito.

  1. Cfr. A. Piperno, Proust senza tempo, Milano, Mondadori, 2022, p. 16.
  2. Ivi, p. 31.
  3. Cfr. R. Barthes, Longtemps je me suis couché de bonne heure, in Id., Marcel Proust. Mélanges, Paris, Seuil, 2020, pp. 121-34.
  4. Cfr. G. Debenedetti, Rileggere Proust, in Id., Proust, a cura di M. Lavagetto e V. Pietrantonio, Torino, Boringhieri, 2005, pp. 137-39.
  5. Cfr. G. Macchia, L’angelo della notte, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 243-45.

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)

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