«Uccidere l’Angelo del focolare»: un riscatto per “donne zanzare” nella “Stanza” di Virginia Woolf

Author di Maria Panetta

Virginia Woolf è l’autrice del celebre saggio uscito nel 1929 e intitolato Una stanza tutta per sé (A room of one’s own), divenuto, negli anni, un testo-chiave della letteratura femminista.

Lo scopo dello scritto è quello di rivendicare la possibilità, per una donna, di essere ammessa a far parte di ambienti culturali fino a quel momento riservati soltanto all’universo maschile: l’opera, infatti, è ambientata in un’università, lo sconosciuto ateneo di Oxbridge (il cui nome, in tutta evidenza, richiama e coniuga quelli assai prestigiosi di Oxford e Cambridge).

Emblematica è, di certo, la scelta del luogo, allora ambiente simbolo dell’esclusione femminile. La narrazione è condotta da una protagonista anonima, che non è Virginia Woolf, ma una donna con la “D” maiuscola, che ha vissuto nel silenzio per secoli. Come ben sappiamo, le donne sono state, infatti, escluse a lungo dalla cultura e dalla vita sociale: nell’analisi della scrittrice, in parte la colpa di questa situazione è, però, da ascrivere anche alle donne stesse, troppo occupate a svolgere al meglio il loro ruolo di madri e a dedicarsi alle attività domestiche. Virginia Woolf ritiene, invece, che non sia giusto per una donna “limitarsi” alla maternità e che sia, anzi, opportuno che possa gestire autonomamente del denaro e abbia “una stanza tutta per sé”, se desidera intraprendere la carriera di scrittrice[1]. In un successivo saggio del 1931 intitolato Professioni per le donne, infatti, la scrittrice racconta di essersi accorta, al proprio esordio letterario, che «se voleva recensire dei libri, doveva combattere contro un certo fantasma»[2]:

E il fantasma era una donna, e […] la chiamai l’Angelo del focolare. […] Era infinitamente comprensiva. Era estremamente accattivante. Era assolutamente altruista. Eccelleva nelle difficili arti del vivere familiare. Si sacrificava quotidianamente. […] Non l’avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dai miei scritti. […] Uccidere l’Angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice[3].

Il tema della differenza tra l’universo femminile e quello maschile in relazione alla pratica della scrittura, in Una stanza tutta per sé, viene approfondito tramite l’invenzione di un personaggio fittizio, Judith, presunta sorella di Shakespeare, la quale auspica di poter diventare un’autrice e viene a trovarsi davanti a un bivio: assecondare le proprie aspirazioni artistiche per poi essere etichettata come folle oppure arrendersi al volere del padre e cedere a un matrimonio? Alla fine, Judith avrà una gravidanza indesiderata e si toglierà la vita; e l’autrice, a tal riguardo, sottolinea quanto sia difficile per una donna allontanarsi dal modello patriarcale predominante. Se leggiamo l’incipit di un testo coevo, Le donne e il romanzo, apparso su «The Forum» nel marzo 1929 e poi ristampato in Granite and Rainbow, ritroviamo lo stesso tema: «è necessario riservarsi lo spazio per trattare di altri problemi oltre che delle loro opere [delle donne], a tal punto le loro opere hanno da sempre subìto l’influenza di condizioni che nulla hanno a che fare con l’arte»[4].

Capitolo primo

Il libriccino del 1929 è suddiviso in sette capitoletti e, come precisa la stessa autrice in nota, riproduce con qualche modifica, ampliandole, due conferenze tenute da Woolf all’Arts Society di Newnham e all’ODTAA di Girton nell’ottobre del 1928.

Anche se dichiara che, alla fine, per lei «le donne e il romanzo restano […] problemi insoluti»[5], in relazione alla questione della loro “vera natura”, Woolf si ripromette col saggio di riprodurre, «davanti a voi, nel modo più completo e più libero possibile, il processo mentale» che l’ha condotta ad affermare programmaticamente, all’inizio del Capitolo primo, che «una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere romanzi». Questo, forse, si rivela l’aspetto più interessante di tutto lo scritto, oltre a quelli contenutistici, perché ne fa una sorta di esperimento preparatorio al tipo di romanzo che si sta, pian piano, iniziando a delineare nella sua mente: una scrittura che, in qualche modo, riproduca il flusso di coscienza e che trasformi il processo mentale di formazione delle idee, e il loro concatenarsi, in oggetto di racconto e in vera e propria narrazione. Direi, quindi, che Woolf si premura di far subito emergere la natura del tutto sperimentale della tipologia di scrittura nella quale si sta per cimentare.

Tra le righe, comunque, la prima cosa che suggerisce è che l’affermazione che ha appena fatto è, allo stesso tempo, un’idea e un “pregiudizio”. Ribadisce, in ogni caso, che, «quando un argomento è molto controverso – e qualunque problema che riguardi il sesso lo è – non si può sperare di dire la verità». Deduzione seguente, quella che «è probabile che il romanzo contenga più verità del reale». Dalla bocca di un romanziere escono menzogne, ribadisce Woolf, ma «mescolata a loro ci sarà forse qualche verità nascosta»[6] che spetta al lettore individuare per poi decidere se merita di essere ricordata.

Woolf inizia a descrivere, in maniera assai suggestiva, il lento processo di affioramento delle idee alla coscienza, ambientando il proprio iter meditativo di protagonista della narrazione sulle rive di un fiume e, quindi, utilizzando la metafora della lenza per alludere alla “conglomerazione” e all’“estrazione” delle suddette idee dalla mente (la stessa immagine tornerà nel già citato Professioni per le donne del 1931)[7]; e quella del pesce piccolo ributtato a mare per indicare i pensieri più insignificanti e da scartare.

La narrazione procede e inizia a situarsi in un ambiente man mano più definito: il prato di un college che la protagonista percorre riflettendo, poi distratta dal gesticolare di un bidello in lontananza; un sentiero, la ghiaia, l’Università. E arriva anche una determinazione temporale: siamo in ottobre. Seguita dal riferimento all’«asperità del presente»[8] che sembra smussarsi man mano che la protagonista percorre le «antiche aule» di quello sconosciuto ateneo, nelle quali evidentemente riecheggiano in qualche modo i trecento anni di storia dell’istituzione.

L’Università viene descritta come un luogo che permette alla mente di liberarsi «da ogni contatto con la realtà concreta» (il che appare indicativo e assai interessante, nelle implicazioni anche negative che questo concetto comporta, come, ad esempio, l’essere l’ambiente universitario – ancora oggi – spesso del tutto lontano dalla vita reale e talora assai autoreferenziale). La protagonista scrive esplicitamente che sta “comunicando” al lettore «i miei pensieri così come mi venivano».

Fra questi citati pensieri affiorano anche delle considerazioni sul tipo di scrittura saggistica che, a suo modo di vedere, rasenta la perfezione, su quei saggi che hanno «quel lampo indomito di immaginazione, quel fiammante scoppio di genio al loro centro, il che li fa restare spaccati e imperfetti, ma costellati di poesia». Dato che la scrittura riproduce il pensiero, Woolf può anche permettersi di ammettere che le sfugge il titolo di un saggio di Charles Lamb sul manoscritto di una poesia di Milton, Licida, che peraltro è custodito nella biblioteca dell’ateneo: tale pretesto le dà brillantemente agio d’introdurre la rilevante questione dell’impossibilità per le studentesse di essere ammesse in biblioteca senza essere accompagnate da un professore del college o da una lettera di presentazione. Molto interessante anche il passaggio precedente, nel quale si enuncia il principio secondo il quale, per poter fare una valutazione filologica rigorosa di un testo, è necessario avere prima un’idea di cosa sia lo stile e cosa il senso («un fatto che avrei potuto verificare guardando il manoscritto e accertando se le alterazioni andavano a vantaggio dello stile o del senso. Ma allora avrei dovuto decidere che cos’è lo stile, che cos’è il senso»), che sottolinea l’imprescindibile legame tra filologia, estetica e critica letteraria che attualmente mi pare essere colpevolmente trascurato nei metodi della critica che si stanno imponendo (per non parlare della prassi recensoria, che oggi rifugge troppo spesso dalla valutazione oggettiva e argomentata, in ossequio a diverse strategie imposte dalla dittatura dei mercati).

Per orgoglio, la protagonista di Woolf decide di rinunciare alla consultazione anche di un altro manoscritto che le era venuto in mente e prosegue il proprio giro, arrivando alla porta della cappella, dalla quale si limita a osservare coloro che ci si affaccendano dentro: «Dal muro a cui mi appoggiavo, l’Università mi sembrava infatti una riserva dove si conservano le specie rare, quelle che ben presto si sarebbero estinte, se lasciate a lottare per la vita sui marciapiedi dello Strand»[9] (altra frecciatina velenosa alle criticità dell’ambiente accademico).

In una rievocazione molto suggestiva (Woolf non dimentica di sottolineare, ogni tanto, che si tratta di riflessioni della protagonista tramite un parentetico «pensavo»), la scrittrice riassume brevemente il passaggio dai generosi finanziamenti di opere pubbliche come edifici e cappelle per conto di re, regine e grandi nobili a quelli dei mercanti riconoscenti perché nelle università «avevano imparato il mestiere»[10] e si erano arricchiti «con l’industriosità»[11]: lo definisce il passaggio dall’età della fede all’età della ragione.

Assai interessante pure una notazione che sembra collegare attività meditativa e musica: «Dalle stanze interne arrivava a tutto volume il suono del grammofono. Era impossibile non riflettere; ma la mia riflessione, qualunque fosse, venne troncata. L’orologio batté le ore. Era tempo di avviarsi a colazione»[12]. C’è, dunque, un tempo dilatato della riflessione, che si alimenta della vista del verde dell’erba del parco e delle costruzioni che vi sorgono o delle note musicali che si possono percepire camminando per il college; e un tempo scandito dai battiti dell’orologio. Quel suono netto, quel tempo definito e rigido sembrano essere un ostacolo al libero dispiegarsi del pensiero.

Riguardo alla «colazione», sempre controcorrente, Woolf dichiara provocatoriamente di prendersi la «libertà di sfidare quella convenzione» dei romanzieri di evitare di parlare di cibo quando si narra di pranzi, e sciorina tutta una serie di piatti descritti con abbondanza di aggettivazione e immagini dalle risonanze poetiche come quella del «dolce che si innalzava tutto zucchero dalle onde»:

E così a poco a poco si accendeva, a metà strada lungo la spina dorsale, che è la sede dell’anima, non quella dura piccola luce elettrica che chiamiamo conversazione brillante, quando ci esplode e ci scompare sulle labbra, bensì quel bagliore più profondo, sottile e sotterraneo che è la ricca fiamma gialla della comunicazione razionale. Nessuna fretta, né bisogno di scintillare. Nessun bisogno di essere altro che se stessi[13].

La vista di un gatto senza coda nel cortile «cambiò in me, con un soprassalto dell’intelligenza inconscia, la luce dell’emozione»[14] e la protagonista registra in sé stessa una sensazione di mancanza di qualcosa d’indefinito, per mettere a fuoco la quale ripensa al tono delle conversazioni che precedevano la guerra, nella sua ricostruzione accompagnate da un «ronzio inarticolato eppure musicale, eccitante, che mutava il valore delle parole stesse»[15]. Secondo Woolf, quel non ben definibile ronzìo si poteva, forse, ridurre a parole con l’aiuto dei poeti, fra i quali cita Tennyson e Christina Rossetti. Ciò le dà agio di inserire anche un’altra provocazione sul fatto che, nonostante la ribadita assurdità dei paragoni fra epoche in tema di poesia, non sia sicura che esistano poeti a lei contemporanei che possano essere confrontati con i due citati. In ogni caso, l’accento, anche discorrendo di poesia, è di nuovo posto – a mio avviso assai opportunamente – sull’aspetto ritmico e musicale dei versi: «è strano come un frammento di poesia lavori nella mente e per strada faccia muovere le gambe al suo ritmo».

La spiegazione che la protagonista del testo fornisce della maggiore «difficoltà della poesia moderna»[16] rispetto a quella precedente risiede nel fatto che quest’ultima, a suo dire, «salta qualche sentimento già provato (forse a pranzo, prima della guerra) cosicché vi rispondiamo facilmente, familiarmente, senza curarci di verificare il sentimento, né di paragonarlo a quelli che abbiamo adesso».

L’agosto del 1914 per la narratrice ha segnato un punto di non ritorno, un «trauma (in particolare per le donne, con le loro illusioni sull’educazione, eccetera)»: quella «catastrofe» ha distrutto l’illusione e l’ha sostituita con la verità, ammesso che si possa davvero determinare qual era la verità e quale l’illusione.

«Il romanzo deve attenersi ai fatti», secondo il pensiero allora in voga, e Woolf ribadisce ironicamente di non voler tradire la precedente dichiarazione che la narrazione avvenga in autunno iniziando a descrivere piante e fiori che sbocciano, ad esempio, in primavera, ma – forse sull’onda dei versi della Rossetti – riempie una mezza pagina con una piacevole digressione che definisce «solo una fantasia»[17], dedicata proprio alla descrizione di un paesaggio primaverile.

Il testo procede, dunque, fra racconto, metanarrazione e notazioni teoriche di teoria estetica abilmente intrecciati fra loro e brillantemente tenuti assieme dall’escamotage della trascrizione di un flusso di coscienza, sebbene numerosi passaggi rappresentino anche una testimonianza storica di notevole interesse e utilità per aggiungere un tassello alla ricostruzione della condizione femminile dell’epoca.

È di nuovo il cibo – una minestra – a riportare bruscamente alla realtà la protagonista, che si era persa nella rievocazione di colori e profumi della primavera ed è costretta, per «non nuocere alla buona reputazione»[18] del testo che ella definisce un «romanzo»[19], a tornare all’ambientazione di una sera d’ottobre e alla cena che non la soddisfa.

La conversazione fra donne a un tratto giunge ad alludere alla decadenza dei tempi a loro contemporanei, se paragonata ai fasti del passato, e perviene alla questione della «riprovevole povertà del nostro sesso»[20], dovuta anche al fatto che, se le loro antenate avessero potuto dedicarsi agli affari invece di essere solo delle “figure casalinghe”, se

avessero lasciato il loro denaro, come i loro padri e i loro nonni, per creare fondazioni e istituti universitari, premi e borse di studio adatte al loro sesso, questa sera avremmo potuto cenare molto sopportabilmente, qui sopra, con un volatile e una bottiglia di vino; avremmo potuto riprometterci senza indebita confidenza una vita piacevole e onorevole, trascorsa sotto la protezione di qualche professione liberalmente sovvenzionata. Avremmo potuto esplorare o scrivere; girovagare per i luoghi venerabili della terra; sedere in contemplazione sui gradini del Partenone, oppure andare in ufficio alle dieci e tornare a casa comodamente alle quattro e mezzo, per scrivere qualche riga di poesia. Solo che, se la signora Seton e le sue simili si fossero dedicate agli affari a partire dai quindici anni, Mary – era quello il nocciolo della nostra argomentazione – non ci sarebbe stata. Cosa ne pensava Mary, chiesi?[21]

Woolf aggiunge amaramente che è assolutamente inutile porsi tale domanda, dato che alle donne in primo luogo era impossibile «guadagnare del denaro, e in secondo luogo, se fosse stato possibile, la legge negava loro il diritto di possedere il denaro che avessero guadagnato»[22], che sarebbe stato gestito dai loro mariti.

Di sapore metaletterario anche la chiusa del primo capitolo, che temporalmente coincide con la fine del primo giorno, non a caso paragonato a una pergamena che viene arrotolata:

pensando alla sicurezza e alla prosperità di uno dei due sessi, e alla povertà e all’insicurezza dell’altro, e all’effetto della tradizione e della mancanza di tradizione sulla mente dello scrittore, decisi infine che era il momento di arrotolare la pergamena gualcita del giorno, con le sue discussioni, le sue impressioni, la sua rabbia e la sua gioia, e di gettarla in una siepe[23].

E a tale proposito si può ricordare come, già in una recensione del libro di Léonie Villard La Femme Anglaise au XIXème Siècle et son Evolution d’après le Roman Anglais Contemporain, uscita sul «Times Literary Supplement» del 18 marzo 1920[24], Woolf si era detta convinta che le donne non avrebbero trovato un proprio equilibrio né dato una chiara espressione ai loro talenti né nella generazione a lei contemporanea né nella successiva, rievocando e citando come esempio chiarificatore il seguente passo letterario: «“Ho le emozioni di una donna”, dice Bathsheba in Lontano dalla pazza folla, “ma solo le parole degli uomini”»[25]. Si tratta, dunque, anche di una questione di “espressione”: della scelta delle parole adatte, del linguaggio tramite il quale una donna può esprimersi senza scimmiottare un uomo e senza snaturarsi.

Capitolo secondo

L’esordio del Capitolo secondo apostrofa direttamente i lettori, invitati a seguire la voce narrante in prima persona in una scena diversa, ambientata a Londra in un interno nel quale, su un tavolo, è poggiato un foglio bianco con un’unica scritta: «LE DONNE E IL ROMANZO»[26], titolo di un altro importante scritto coevo sull’argomento già ricordato in precedenza. Woolf, dunque, qui si autocita, facendo riferimento a un intervento reale e introducendolo in un’opera di finzione.

Le riflessioni della sera prima continuano ad aleggiare nella mente della protagonista, in particolare i quesiti su quali siano «le consizioni necessarie alla creazione di un’opera d’arte» e su quale effetto abbia la povertà (delle donne, in genere meno ricche rispetto al sesso «prospero» degli uomini) sul romanzo.

In cerca della verità, la protagonista si reca nella biblioteca del British Museum e nota con stupore che i libri scritti da uomini sulle donne sono incomparabilmente più numerosi rispetto a quelli scritti dalle donne sul cosiddetto sesso forte. Nonostante una mattinata trascorsa a prendere appunti confusi, non perviene a soluzione e prende a disegnare: «Eppure è quando oziamo, quando sogniamo, che la verità sommersa a volte viene a galla»[27], notazione che fa inevitabilmente venire alla memoria che Woolf e Freud s’incontrarono il 28 gennaio 1939[28] (ne resta traccia nel Diario della scrittrice, compilato dal 1915 al 1941) e che, sebbene Virginia avesse manifestato anche in precedenza non poche riserve sulle influenze che le idee psicoanalitiche esercitavano su tanta narrativa del tempo[29], suo marito Leonard Woolf aveva fondato la Hogarth Press nel 1917 soprattutto per aiutare la moglie a superare i momenti di prostrazione depressiva, e fu proprio quella Casa il primo editore inglese a pubblicare Freud.

L’“eroina” di Woolf osserva che in tutti quegli scritti di uomini sulle donne custoditi nel Museo è presente una componente di collera, di «rabbia travestita e complessa, non rabbia semplice e aperta»[30], che li rende libri «privi di valore in senso scientifico» perché scritti «alla luce rossa dell’emozione, e non alla luce bianca della verità». Il filo del racconto si dipana seguendo le riflessioni della protagonista che cerca di individuare la radice della rabbia che le pare di cogliere spesso nei testi degli uomini sulle donne: la risposta cui perviene è che la vita è una «continua lotta»[31] che necessita di «coraggio e forza giganteschi» e soprattutto fiducia in sé stessi, che facilmente si conquista pensando che «gli altri sono inferiori a noi»[32]. Per spiegare ancora meglio il concetto, Woolf si serve dell’immagine dello specchio (immagine anche freudiana, si ricordi): «Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo. Senza questo potere, probabilmente la terra sarebbe ancora palude e giungla».

Comunque, la protagonista è, di fatto, una privilegiata perché può aggirarsi per Londra e pagare il conto di una consumazione grazie all’eredità di cinquecento sterline l’anno, per sempre, ricevuta inaspettatamente dalla zia Mary Beton, caduta da cavallo a Bombay[33]. La donna racconta dei lavoretti che era costretta a fare in precedenza e della spiacevole sensazione che la precarietà di quei lavori lasciava in lei: con un’osservazione attualissima, Woolf rileva che

è notevole, ricordando l’amarezza di quei giorni, come una rendita fissa possa cambiare il carattere. Nessuna forza al mondo può togliermi le mie cinquecento sterline. Cibo, alloggio e vestiti sono miei per sempre. Pertanto non solo cessano lo sforzo e la fatica, ma anche l’odio e l’amarezza. Non ho bisogno di odiare nessun uomo; non può ferirmi. Non ho bisogno di lusingare nessun uomo: non ha nulla da darmi. Così, impercettibilmente, mi son trovata ad adottare un nuovo atteggiamento verso l’altra metà della razza umana. È assurdo biasimare una classe o un sesso nell’insieme. Un corpo sociale non è mai responsabile di quello che fa. È guidato da istinti che non controlla. Anche loro, i patriarchi, i professori, dovevano lottare con infinite difficoltà, con terribili remore[34].

La narratrice conclude che l’eredità della zia «mi svelava veramente il paradiso, e sostituiva alla grande e imponente figura di gentiluomo che Milton aveva raccomandato alla mia perpetua adorazione, l’immagine del cielo aperto». Quel denaro inatteso le aveva, dunque, aperto squarci di libertà prima inimmaginabili, che le consentivano anche di provare addirittura «compassione e tolleranza» per quel sesso forte sempre e continuamente sotto pressione per dimostrare a sé stesso e agli altri di essere superiore in tutto.

Assodata, inoltre, la relatività del valore anche dei mestieri e delle professioni, che muta col mutare dei tempi, la protagonista perviene alla visione di un futuro in cui le donne cesseranno di essere «il sesso protetto»[35] e «logicamente condivideranno tutte le attività e tutti gli sforzi che una volta erano stati loro negati», senza nessun apparente privilegio, senza nessuno “sconto”: di certo, Virginia Woolf non avrebbe mai immaginato che ancora nel XXI secolo sarebbero state tristemente necessarie le famigerate “quote rosa”.

Capitolo terzo

Sempre alla ricerca della verità, la protagonista pensa di trovare risposte nella cronaca oggettiva e supportata da dati e fatti degli storici, che non registrano opinioni (così scrive Woolf). In un libro di storia da lei consultato si giunge alla conclusione che, nonostante le condizioni di oggettiva inferiorità e soggezione, non si può dire che all’epoca di Shakespeare le donne mancassero di personalità e di carattere. E Woolf chiosa:

Dato che non siamo storici, possiamo andare oltre e dire che le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi: Clitennestra, Antigone, Cleopatra, Lady Macbeth, Fedra, Cressida, Rosalind, Desdemona, la Duchessa di Amalfi, fra i drammaturghi; e poi fra i romanzieri: Millamant, Clarissa, Becky Sharp, Anna Karenina, Emma Bovary, Madame de Guermantes… I nomi si affollano alla mente, e non richiamano l’idea di donne mancanti “di personalità e di carattere”. Infatti, se la donna non avesse altra esistenza che nella letteratura maschile, la si immaginerebbe una persona di estrema importanza, molto varia; eroica e meschina, splendida e sordida; infinitamente bella ed estremamente odiosa, grande come l’uomo, e, pensano alcuni, anche più grande. Ma questa è la donna nella letteratura. Nella realtà, come osserva il professor Trevelyan, veniva rinchiusa, picchiata e malmenata[36].

Il percorso di Woolf approda, dunque, anche a un esame della produzione storiografica, riguardo alla quale la voce narrante afferma di trovare «deplorevole, continuai dando un’altra occhiata agli scaffali, […] il fatto che sulle donne non si sappia nulla prima del Settecento»[37], osservazione di notevole acume. La sua finisce per essere un’indagine che coinvolge a tutto campo l’ambito intellettuale, alla ricerca di varie responsabilità da mettere in luce per spiegare la condizione d’inferiorità della donna nei secoli.

Ecco che viene introdotto uno scaltro artificio letterario, che addirittura coinvolge uno degli indiscussi geni poetici di tutti i tempi: come accennato, pensando alle condizioni femminili all’epoca di Shakespeare, infatti, la protagonista immagina che il grande drammaturgo avesse una sorella «meravigliosamente dotata»[38], che battezza arbitrariamente Judith. Ne racconta la vita assai diversa da quella del fratello e tutte le opportunità che – in quanto donna – non avrebbe potuto avere, a partire dalla possibilità di studiare e conoscere il mondo. Nonostante ciò, immagina che a sedici anni Judith fugga da casa e prenda la strada di Londra per lavorare come attrice, non ottenendo altro che protezione da parte di un attore-capocomico: incinta, deciderà di uccidersi in una notte d’inverno, perché «chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando si trova prigioniero e intrappolato in un corpo di donna?»[39]. Il corpo femminile come gabbia, dunque, per l’estro poetico[40], per lunghi secoli impossibilitato ad esprimersi liberamente a causa delle restrizioni imposte dalle società patriarcali.

Le donne, è stato assodato, non avevano la strada spianata per poter diventare artiste come certi uomini; eppure – suggerisce Woolf – «sarei capace di scommettere che Anonimo, il quale scrisse tante poesie senza firmarle, spesso era una donna. È stata una donna, suggerì Edward Fitzgerald, credo, a comporre le ballate e i canti popolari, accordandoli al ritmo della culla, oppure per ingannare il tempo mentre filava, durante le lunghe sere d’inverno»[41].

Poche sono, in effetti, le eccezioni alla regola enunciata da Woolf, le donne che riuscirono in qualche modo a partecipare alla vita letteraria del loro tempo senza adoperare psudonimi e talvolta addirittura dando alle stampe le proprie opere: basterebbe pensare, ad esempio, ad alcune petrarchiste italiane, fra le quali si potrebbe ricordare la poetessa lucana Isabella Morra (1520-1545 o 1546), nota per i suoi versi struggenti e per la sua corrispondenza letteraria col poeta Diego Sandoval De Castro, che le costò la vita (com’è noto, venne uccisa dai fratelli filofrancesi per vendicare l’onta del disonore di una sua presunta relazione con un uomo sposato e perdipiù spagnolo)[42]. Nelle proprie Rime Isabella affronta anche il tema della disparità di “fortuna” tra uomini e donne, il che le ha fruttato l’appellativo ricorrente di “femminista ante litteram”:

Fortuna che sollevi in alto stato
ogni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che ’l mio in lagrime e ’n dolore
viva più che altro afflitto e sconsolato.

Veggio il mio Re da te vinto e prostrato
sotto la rota tua, pieno d’orrore,
lo qual, fra gli altri eroi, era il maggiore
che da Cesare in qua fusse mai stato.

Son donna, e contra de le donne dico
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,
ogni ben nato cor hai per nemico.

E spesso grido col mio rozo inchiostro
che chi vuole esser tuo più caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro[43].

Comunque, la condizione delle donne inglesi nel Cinquecento non doveva essere sostanzialmente tanto diversa da quella delle italiane dell’arretrato Sud patriarcale se, con una modernissima tirata contro la castità intesa come «feticcio inventato da certe società», in Una stanza tutta per sé Woolf arriva a concludere:

Vivere una vita libera nella Londra del Cinquecento avrebbe significato per una donna, che fosse poetessa e drammaturga, una tensione nervosa e un dilemma tali da ucciderla. E se pure fosse sopravvissuta, i suoi scritti sarebbero stati comunque contorti e deformi, appunto per il fatto di essere il prodotto di un’immaginazione forzata e morbosa. E senza dubbio, pensavo riguardando lo scaffale in cui non ci sono commedie scritte da donne, le sue opere non avrebbero circolato con la sua firma.

Una notazione psicologica di grande profondità segue il ragionamento: «la pubblicità nelle donne è detestabile. L’anonimità scorre loro nel sangue. Il desiderio di velarsi le possiede ancora»[44]. Il che corrisponde (non lo si dimentichi) a quanto sostenuto anche da John Stuart Mill nella Servitù delle donne (1869), che attribuiva la causa della loro subalternità all’educazione ricevuta, che le abituava a ritenere normale e doverosa la sottomissione al sesso maschile.

Woolf sottolinea l’infelicità delle donne nel Cinquecento, la tormentata lotta con sé stesse che impediva loro di esprimersi liberamente. Del resto, come accennato, anche nel panorama italiano fra il XV e il XVII secolo pullulano opere che contengono recriminazioni relative alle condizioni di vita della donna: fra le altre, si possono brevemente ricordare come esempi le commedie umanistiche in latino del Quattrocento Cauteriaria di Antonio Barsizza[45] o Philogenia di Ugolino Pisani[46], commedia buffa; alcune commedie in volgare composte a imitazione del modello plautino-terenziano nei primi anni del Cinquecento (come il Formicone di Publio Filippo Mantovano)[47]; vari scritti della poetessa e comica gelosa Isabella Andreini (1562-1604), fra i quali meritano particolare attenzione le Lettere (1607)[48], uno zibaldone di 150 epistole fittizie nelle quali Isabella controbatte secoli di letteratura misogina etc. E, nell’ambito della famosa Querelle des femmes esplosa in tutta Europa in quel periodo, non sono da dimenticare neanche scritti che diffondono punti di vista e propugnano argomentazioni del tutto filogine come il dialogo in cinque libri La nobiltà delle donne (Venezia, Giolito, 1549) del piacentino Lodovico Domenichi (1515-1564), opera compilatoria sul tema della superiorità femminile; il dialogo Della dignità et nobiltà delle donne dell’anconitano Cristoforo Bronzini (1580), che nel 1622 attirò l’attenzione persino della Sacra Congregazione dell’Indice a causa di varie affermazioni relative alla superiorità delle donne sugli uomini; o, infine, il trattato Esempi della virtù delle donne, raccolti dal signor cavalier Cornelio Lanci, ne’ quali si vede la bellezza, prudenza, castità, e fortezza delle vergini, maritate, e vedove (Firenze, Francesco Tosi, 1590) dell’urbinate Cornelio Lanci.

La storia europea, infatti, è costellata di testimonianze di quanto diversamente siano stati recepiti e interpretati i due sessi nel corso dei secoli: nella Querelle des sexes si discusse in forma di lamento e di accusa sulle differenze fra i sessi e sul loro rapporto. Le prese di posizione su questo argomento si moltiplicarono nel primo Rinascimento, soprattutto in Italia, Francia, Spagna e ben presto anche negli altri paesi europei, e alla loro circolazione contribuirono anche la crescente importanza acquisita dalla parola scritta e la diffusione della stampa. Alla querelle, come si è visto, parteciparono sia scrittori che scrittrici: gli autori scrissero sia opere ostili alle donne (invettive dettate spesso da misoginia) sia a favore del cosiddetto sesso debole (difese delle donne, lodi, testi intrisi di filoginia); i testi conservati scritti da donne, invece, sono perlopiù a loro favore, anche se sono una minoranza per varie e intuibili ragioni. La disputa, com’è noto, ebbe origine nel Medioevo, si sviluppò nel Rinascimento, sotto l’influsso dell’Umanesimo e della Riforma religiosa, e proseguì fino all’Illuminismo.

Nonostante questo, ignorando evidentemente l’esistenza di interventi di denuncia, editi anche da donne in precedenza, in difesa del genere femminile, in Una stanza tutta per sé Virginia Woolf aggiunge che bisognerà attendere l’Ottocento per avere una «letteratura di confessione e di autoanalisi»[49] che permetta di comprendere che «scrivere un’opera di genio è quasi sempre un’impresa di prodigiosa difficoltà». Ed estende questa considerazione anche al genere maschile:

Tutto si oppone alla possibilità che l’opera esca dalla mente dello scrittore completa e integra com’era stata concepita. Di solito le si oppongono le circostanze materiali. I cani abbaiano; la gente interrompe; bisogna far soldi; la salute non regge. Inoltre, ad inasprire e ad accrescere tutte queste difficoltà, c’è la notoria indifferenza del mondo. Esso non chiede alla gente di scrivere poesie, romanzi e libri di storia; non ne ha bisogno. Non gli interessa se Flaubert trova la parola giusta, o se Carlyle verifica scrupolosamente questo o quel fatto. Naturalmente, non vuol pagare per quel che non desidera. E così lo scrittore, Keats, Flaubert, Carlyle, deve sopportare, specialmente durante gli anni creativi della giovinezza, ogni forma di distrazione e di scoraggiamento.

La creazione letteraria è sempre stata, dunque, un vero e proprio «miracolo», anche per gli uomini scrittori, sebbene le opere non venissero mai pubblicate nella forma in cui erano state concepite inizialmente. Per le donne, poi, le difficoltà erano ancora maggiori: in primo luogo perché non era neanche scontato che avessero «una stanza tutta per sé», oltre che a causa di altri impedimenti materiali. Ma i peggiori, secondo Woolf, erano gli ostacoli «immateriali»[50], perché l’indifferenza del mondo, nel caso di una donna, diveniva – e ancora oggi troppo spesso diventa, oserei dire – «ostilità». «Ora, con quale alimento nutriamo le donne artiste?», si chiede Woolf. I pregiudizi sulle donne ne fiaccano la vitalità e influiscono negativamente sul loro lavoro. Infatti, «la storia dell’opposizione degli uomini all’emancipazione delle donne è forse più interessante della storia stessa di quella emancipazione»[51], osserva. Come accennato, Virginia Woolf è convinta, infatti, del fatto che la mente dell’artista, per poter produrre, «per poter compiere lo sforzo prodigioso di liberare nella sua totalità l’opera che è in lui, deve essere incandescente», libera da qualsiasi ostacolo come la mente di Shakespeare.

Capitolo quarto

Riguardo a Lady Winchilsea, nata nel 1661, Woolf commenta: «È un vero peccato che una donna che sapeva scrivere così, la cui mente era così in accordo con la natura e la meditazione, sia stata costretta alla rabbia e all’amarezza»[52]. Dopo aver accennato a una serie di «nobildonne solitarie, che scrivevano senza pubblico né critica, solo per il proprio diletto»[53], Woolf approda ad alcuni esempi di donne della classe media e, in particolare, al caso di Aphra Behn, che dimostrò che si poteva guadagnare del denaro scrivendo. Si arriva, dunque, al cambiamento della fine del Settecento, in cui

Centinaia di donne, a misura che il Settecento avanzava, cominciarono a pagarsi le piccole spese e a contribuire alle spese di casa traducendo, oppure scrivendo gli innumerevoli cattivi romanzi di cui non si fa più menzione neanche nei testi scolastici, ma che si possono trovare sulle bancarelle di Charing Cross Road. Quella notevole attività mentale, di cui verso la fine del Settecento le donne dettero prova – conversando, riunendosi, scrivendo saggi su Shakespeare – si basava sul fatto concreto che le donne potevano guadagnar soldi scrivendo. Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo se non è pagato[54].

Le donne del Settecento sono, dunque, le «precorritrici» di Jane Austen e delle sorelle Brontë e di tante altre e altri, perché «i capolavori non nascono solitari e isolati».

Comunque, bisogna attendere il primo Ottocento per veder fiorire una cospicua messe di pubblicazioni femminili, ma si tratta soprattutto di romanzi, forse perché – azzarda Woolf – la poesia necessita di concentrazione e le donne della classe media spesso potevano scrivere solo in un «soggiorno comune»[55] («I romanzi erano, e rimangono, la cosa più facile da scrivere per una donna»[56], perché il romanzo «è la forma d’arte meno concentrata. Lo si può interrompere e riprnedere più facilmente di un’opera di teatro o di poesia», ribadisce anche nel citato Le donne e il romanzo). Di una donna non serena annota: «Scriverà con rabbia, quando dovrebbe scrivere con calma. Scriverà scioccamente, quando dovrebbe scrivere saggiamente. Scriverà di se stessa, quando dovrebbe scrivere dei suoi personaggi. È in guerra con il suo destino. Come avrebbe potuto non morire giovane, contratta e frustrata?»[57].

Il romanzo è una «creazione che in un certo senso rispecchia la vita»[58]: pertanto, di certo le donne erano svantaggiate rispetto agli uomini anche nella scrittura, non potendo muoversi liberamente e avere una piena conoscenza del mondo. I romanzi che resistono alla prova del tempo per Woolf sono, infatti, caratterizzati da «integrità»[59], ovvero dalla convinzione che ci comunicano di «dire la verità»[60]: un esempio citato dall’autrice è Guerra e pace.

Parlando di Charlotte Brontë, Woolf nota acutamente che a tratti

L’indignazione ha fatto barcollare la sua immaginazione; e noi la sentiamo barcollare. Ma c’erano molte altre influenze, oltre alla rabbia, a premere sulla sua immaginazione e a sviarla. L’ignoranza, ad esempio. Il ritratto di Rochester è fatto al buio. Vi sentiamo l’influenza della paura; così come sentiamo costantemente un’acredine prodotta dall’oppressione, una sofferenza sotterranea che cova sotto la passione; un rancore che contrae questi romanzi, per quanto splendidi, in uno spasimo di dolore[61].

Nell’Ottocento, comunque, finalmente la scrittrice donna, come nota Woolf, fronteggia la critica:

Riconosce di essere “solo una donna”; oppure protesta di valere “quanto un uomo”. La scrittrice si confronta con la critica, a seconda del suo temperamento, con docilità e timidezza, oppure con rabbia ed enfasi. Non importa cosa fosse; lei stava pensando a qualcosa di diverso dalla sua materia. Il libro ci crolla in testa; c’era una crepa nel mezzo. E pensai a tutti i romanzi scritti da donne che si trovano sparsi, come melucce guaste in un orto, su tutte le bancarelle di libri usati di Londra. Era quella crepa nel mezzo che li aveva fatti marcire. L’autrice aveva alterato i suoi valori in ossequio all’opinione altrui. Ma come dev’essere stato loro impossibile mantenersi nel giusto mezzo! Che genio, che integrità dev’esserci voluta, davanti a tutta quella critica, in mezzo a quella società puramente patriarcale, per tenersi saldamente alla realtà, così come la vedevano, senza deflettere! Solo Jane Austen ed Emily Brontë l’hanno fatto. Questa è un’altra piuma, la più bella forse, sui loro cappelli. Scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini. Fra le mille donne che allora scrivevano romanzi, solo loro ignorarono del tutto i perpetui ammonimenti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello.

E a questo punto della narrazione arriva la celebre affermazione che

Nel 1828 ci sarebbe voluta una giovane molto ardita per ignorare tutte queste rampogne, ammonimenti e promesse di premi. Avrebbe dovuto essere una specie di agitatrice per dire a se stessa: «Oh, non potete comprare anche la letteratura. La letteratura è aperta a tutti. Non ti permetto, per quanto Bidello tu sia, di scacciarmi dal prato. Sprangate le vostre biblioteche, se volete; ma non potete mettere alcun cancello, alcuna catena, alcun lucchetto alla mia libertà mentale»[62].

Woolf rileva che, dato che «la libertà e la pienezza espressiva appartengono all’essenza dell’arte, una simile mancanza di tradizione, una simile scarsità e inadeguatezza di strumenti deve aver avuto enorme significato sulla scrittura femminile»[63]. «Solo il romanzo era abbastanza giovane da essere duttile in mano sua»[64]: un’altra ragione, forse, per la quale la donna tendeva allora a privilegiare, nella prassi scrittòria, i romanzi rispetto ad altri generi letterari. La narratrice, comunque, rifiuta di trattare il «malinconico argomento dell’avvenire del romanzo».

Capitolo quinto

Nel quinto capitolo della sua narrazione Woolf arriva all’età a lei contemporanea, nella quale le donne forse hanno finalmente iniziato a «usare la letteratura come arte e non come metodo di autoespressione»[65]. Registra, infatti, un cambiamento di prospettiva in alcune scritture di donne[66]: le donne si ritraggono a vicenda, provano simpatia le une per le altre (lo stesso non si può sempre dire, però, proprio della Woolf, che ha dedicato talora pagine velenose a scrittrici come Margaret Cavendish[67], Eliza Haywood[68], e fatto qualche appunto tagliente a Charlotte Brontë[69] e persino a Jane Austen, sebbene la giudicasse «la più perfetta artista fra le donne, la scrittrice, i cui libri sono tutti immortali»[70]).

Woolf sottolinea la «forza creativa»[71] delle scrittrici a lei contemporanee, che emana anche dai muri delle stanze che per secoli sono state abitate prevalentemente da loro. Con una notazione molto interessante sottolinea:

Sarebbe un gran peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come loro, o assumessero il loro aspetto; perché se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo? L’educazione non dovrebbe forse sottolineare e accentuare le differenze, invece delle somiglianze? Perché di somiglianze ce ne sono anche troppe[72].

In particolare, si sofferma sul caso di Mary Carmichael, che non aveva più necessità di difendersi dagli attacchi degli uomini: «scriveva da donna, ma da donna che ha dimenticato di essere donna»[73], gettando luce su piccole cose e riportandone a galla altre sepolte da tempo. E già nella recensione Donne scrittrici di romanzi, uscita nell’ottobre del 1918 sul «Times Literary Supplement», Woolf aveva lodato quelle «donne eccezionali che non imitarono né un sesso né alcun individuo dell’uno o dell’altro sesso»[74].

Non si dimentichi neppure che nello scritto dal titolo Le donne e il romanzo (1929), coevo a Una stanza tutta per sé, Woolf ipotizza: «Ci si può attendere che la funzione di zanzara che punzecchia lo Stato, fino a oggi prerogativa maschile, verrà svolta anche dalle donne. I loro romanzi tratteranno dei mali della società, e dei loro rimedi»[75]. La prefigurazione, dunque, di un tempo futuro in cui voci maschili e voci femminili saranno praticamente indistinguibili quanto a toni e a contenuti.

Capitolo sesto

Il Capitolo sesto inaugura un nuovo giorno, esattamente il 26 ottobre 1928, a Londra. La riflessione si concentra sulla mente e sulla sua capacità di cambiare continuamente la propria messa a fuoco, per poi approdare a un felice abbozzo di schema dell’anima, secondo il quale in ognuno di noi sono compresenti una forza maschile e una femminile che producono appagamento quando riescono a cooperare spiritualmente in armonia: «Forse Coleridge voleva dire questo, quando affermò che una grande mente è androgina»[76], il commento di Woolf. Si ricordi che solo l’anno prima, nel 1928, era uscito Orlando, imperniato sul personaggio emblema della «fusione» nella quale la mente «diventa pienamente fertile e usa tutte le sue facoltà».

La narratrice confessa, in seguito, di provare noia leggendo il romanzo di un giovane scrittore a lei contemporaneo apprezzatissimo dalla critica; e che le pagine di un noto critico dell’epoca fanno emergere la divisione della sua mente in compartimenti stagni, mentre la scrittura che «possiede il segreto della vita eterna»[77], come quella di Coleridge, a suo parere fa esplodere ogni frase e «origina ogni sorta di altre idee». Persino di Galsworthy e di Kipling Woolf afferma che «Non hanno potere di suggestione» e che i loro libri risultano animati da emozioni “incomprensibili” per una donna.

Facendo esplicito riferimento al regime mussoliniano, inoltre, Woolf immagina con preoccupazione «un’epoca futura di pura virilità, autoaffermativa». Recisamente afferma che «Tutti quelli che hanno contribuito a stabilire l’autocoscienza sessuale sono colpevoli», precisando:

Dobbiamo ritornare a Shakespeare, perché Shakespeare era androgino; così come lo erano Keats, Sterne, Cowper, Lamb e Coleridge. Shelley forse era asessuato. Milton e Ben Jonson avevano un pizzico di troppo di mascolinità. E anche Wordsworth e Tolstoj. Al tempo nostro, Proust era totalmente androgino, fors’anche un po’ troppo donna. Ma questo difetto è troppo raro perché si possa lamentarsene, dato che, dove manca una mescolanza di questo genere, l’intelletto sembra predominare e le altre facoltà mentali indurirsi e isterilirsi.

Sulla necessità che la mente possa coniugare armonicamente aspetti femminili e maschili della personalità s’interrompe il racconto di Mary Beton con la conclusione che «se dovete scrivere romanzi o poesia vi servono cinquecento sterline l’anno e una stanza con la serratura alla porta»[78].

A questo punto pare rientrare in gioco l’autrice, che espone chiaramente il proprio punto di vista. Molto attuale (tristemente attuale) l’osservazione che «per quanto sia delizioso il passatempo di misurare, è la più futile di tutte le occupazioni, e sottomettersi ai decreti dei misuratori è il più servile degli atteggiamenti. Finché scrivete quel che volete scrivere, questo è ciò che conta; e se conti per secoli o per ore, nessuno può dirlo»[79]. E cruda ma tristemente vera è la conclusione che

La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono sempre state povere, non solo in questi ultimi duecento anni, ma dall’inizio dei tempi. Le donne hanno avuto meno libertà intellettuale dei figli degli schiavi ateniesi. Perciò le donne non hanno avuto uno straccio di opportunità di scrivere poesia.

Alla fine, rivolgendosi alle proprie ascoltatrici, Woolf le invita a scrivere non solo romanzi, perché «Il romanzo sarà molto migliorato dallo stare gomito a gomito con la poesia e la filosofia»[80], un suggerimento che suona quasi come una profezia, anticipando la direzione che da alcuni decenni ha preso la scrittura romanzesca e l’evoluzione del genere. Compito dello scrittore, secondo Woolf, è quello di comunicare agli altri la “realtà”, come sono riusciti a fare gli autori di «Lear, di Emma o di Alla ricerca del tempo perduto», la cui lettura permette, dopo, di vedere «più intensamente»: Shakespeare, Flaubert e Proust nel pàntheon di Virginia Woolf.

La perorazione finale diretta alle donne le invita a essere sempre sé stesse, non dimenticando alcuni dati di fondamentale importanza: che

fin dal 1866 esistevano in Inghilterra almeno due colleges femminili; che, a partire dal 1880, una donna sposata poteva, per legge, possedere i propri beni; e che nel 1919 – cioè più di nove anni fa – le è stato concesso il voto? Devo anche ricordarvi che da ben dieci anni vi è stato aperto l’accesso a quasi tutte le professioni?[81].

L’invito alle ascoltatrici è quello a sfruttare tali “privilegi” anche per riscattare i sacrifici di quelle donne, come la fantomatica sorella di Shakespeare, che in passato non hanno potuto beneficiarne.

  1. Cfr. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, introduzione di Amanda Guiducci, trad. e pref. di Maura Del Serra, ed. integrale, Roma, Newton Compton, IV ed. e-book, 2012, p. 19.
  2. V. Woolf, Professioni per le donne [1931], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, Milano, La Tartaruga edizioni, 1995, pp. 53-59: 54.
  3. Ivi, pp. 54-56.
  4. V. Woolf, Le donne e il romanzo [1929], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], op. cit., pp. 37-47: 37.
  5. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 19, come le citazioni che seguono.
  6. Ibidem.
  7. V. Woolf, Professioni per le donne [1931], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], op. cit., pp. 53-59: 57.
  8. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 21 (come le citazioni che seguono).
  9. Ivi, p. 22 (come le citazioni che seguono).
  10. Ivi, p. 23.
  11. Ivi, p. 22.
  12. Ivi, p. 23 (come le citazioni che seguono).
  13. Ibidem.
  14. Ibidem.
  15. Ivi, p. 24 (come le citazioni che seguono).
  16. Ivi, p. 25 (come le citazioni che seguono).
  17. Ivi, p. 26.
  18. Ivi, p. 25.
  19. Ibidem.
  20. Ivi, p. 28.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Ivi, p. 29.
  24. Ora si legge col titolo L’uomo e la donna [1920], in V. Woolf, Le donne e la scrittura [1979], op. cit., pp. 61-64.
  25. Ivi, p. 64.
  26. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 31 (come le citazioni che seguono). Da non dimenticare che, nel coevo e già citato scritto dal titolo Le donne e il romanzo [1929], Woolf osserva acutamente che «La donna fuori del comune dipende dalla donna comune. Solo quando conosciamo le condizioni di vita della donna media (il numero dei figli, se disponeva di denaro suo, se aveva una stanza per sé, se usufruiva di un aiuto per allevare i figli, se aveva della servitù, se doveva sbrigare parte delle faccende domestiche), solo quando possiamo misurare il modo di vivere e l’esperienza di vita accessibili alla donna normale possiamo spiegarci il successo o il fallimento come scrittrice della donna eccezionale» (in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 37-47: 38), laddove da sottolineare è anche la contrapposizione fra “donna normale” e “donna eccezionale”, il che potrebbe non necessariamente corrispondere alla convinzione nella superiorità della donna scrittrice sulle altre, ma semplicemente potrebbe voler evidenziare il numero esiguo di donne che allora potevano permettersi di dedicare la propria vita alla creatività autoriale, e non solo alla procreazione o alla cura altrui.
  27. Ivi, p. 34.
  28. Si veda la bella biografia firmata da N. Fusini, Possiedo la mia anima, Milano, Mondadori, 2006.
  29. Si veda, ad esempio, la sua review intitolata Freudian Fiction. Review of An Imperfect Mother by J.D. Beresford (25 march 1920), in Contemporary Writers. Essays on Twentieth Century Books and Authors, New York and London, Harcourt Brace and Jovanovich, 1965. Cfr. anche E. Abel, Virginia Woolf and the fiction of psychoanalysis, Chicago, The University of Chicago Press, 1989.
  30. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 34 (come le citazioni che seguono).
  31. Ivi, p. 35 (come le citazioni che seguono).
  32. Sulla questione dell’inferiorità delle donne quanto a capacità intellettuali, asserita da Arnold Bennett, si veda V. Woolf, L’intelletto della donna, in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 51-52.
  33. «Non si possono coltivare fiori preziosi in un terreno povero», scriveva il 16 novembre 1929 nella replica alla recensione di Lyn Ll. Irvine di Una stanza tutta per sé, uscita su «Nation and Athenaeum» il 9 novembre dello stesso anno. Cfr. V. Woolf, Le donne e il tempo per sé, in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 49-50: 50.
  34. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 37 (come le citazioni che seguono).
  35. Ivi, p. 38 (come la citazione che segue).
  36. Ivi, pp. 39-40.
  37. Ivi, pp. 40-41.
  38. Ivi, p. 41.
  39. Ivi, p. 42.
  40. Non ho potuto fare a meno di ricordare ciò che scriveva Vittoria Colonna nel primo sonetto delle Rime spirituali: «[…] I santi chiodi omai sieno mie penne; / E puro inchiostro il prezioso sangue; / Vergata carta il sacro corpo esangue, / Sicch’io scriva per me quel, ch’ei sostenne» (vv. 5-8). Si legge in Rime di Vittoria Colonna, marchesana di Pescara; colla vita della medesima scritta da Giambattista Rota, accademico eccitato, Bergamo, Pietro Lancellotti, 1760. In questo caso è il corpo di Cristo ad alimentare la vocazione poetica della petrarchista.
  41. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 42 (come le citazioni che seguono).
  42. Cfr. B. Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval De Castro, Palermo, Sellerio, 1983.
  43. I. Morra, Rime, Pisa, Giardini, 1983; si legge anche all’URL: https://it.m.wikisource.org/wiki/Rime_(Morra)/Fortuna_che_sollevi_in_alto_stato.
  44. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 43.
  45. Sulla quale si veda almeno P. Rosso, Tradizione testuale e aree di diffusione della “Cauteriaria” di Antonio Barzizza, in «Humanistica Lovaniensia», vol. 53, 2004, pp. 1-92. Sull’autore si legga P. Rosso, La commedia umanistica in ambito universitario: notizie sul soggiorno pavese di Antonio Barsizza, disponibile all’URL: https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/93774/665881/Antonio%20Barzizza.pdf.
  46. Si veda l’edizione uscita per la Casa romana Torre d’Orfeo nel 1997.
  47. Ne è appena uscita (2022) un’edizione per Aragno curata da Stefania Giovanna Mallamaci, con premessa di Piermario Vescovo.
  48. Lettere d’Isabella Andreini Padovana, Comica Gelosa et Academica Intenta, nominata l’Accesa, dedicate al Serenissimo Don Carlo Emanuel, Duca di Savoia, in Venetia, presso Marc’Antonio Zaltieri, 1607.
  49. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 43 (come le citazioni che seguono).
  50. Ivi, p. 44 (come le citazioni che seguono).
  51. Ivi, p. 45 (come la citazione che segue).
  52. Ivi, p. 48. Questo stesso tema della «rabbia» si ritrova nella già citate secentesche Lettere d’Isabella Andreini Padovana, Comica Gelosa et Academica Intenta, nominata l’Accesa, dedicate al Serenissimo Don Carlo Emanuel, Duca di Savoia, che si soffermano sulla frustrazione, l’indignazione e la stanchezza di cui sono preda tante donne costrette a rinunciare ogni giorno a ogni tipo di libertà.
  53. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 49.
  54. Ivi, p. 50 (come le citazioni che seguono).
  55. Ivi, p. 51.
  56. V. Woolf, Le donne e il romanzo [1929], art. cit., p. 40, come la citazione che segue.
  57. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 52.
  58. Ivi, p. 53.
  59. Ibidem.
  60. Ibidem.
  61. Ivi, p. 54 (come la citazione che segue). Si veda anche V. Woolf, Le donne e il romanzo [1929], art. cit., p. 41: «Il desiderio di difendere una causa personale o di fare di un personaggio il portavoce di qualche insoddisfazione o rancore privati ha sempre un effetto opprimente, come se il punto su cui è diretta l’attenzione del lettore fosse improvvisamente duplice, sfuocato, anziché unico».
  62. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 55.
  63. Ibidem.
  64. Ivi, p. 56 (come la citazione che segue).
  65. Ivi, p. 57.
  66. Al riguardo si veda anche V. Woolf, Le donne e il romanzo [1929], art. cit., pp. 42 e sgg.
  67. Cfr. V. Woolf, La duchessa di Newcastle [1911], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 77-86. A p. 81 scrive di lei: «Ordine, continuità, sviluppo logico delle argomentazioni sono tutte cose sconosciute per lei. Non ci sono paure a trattenerla. Aveva l’irresponsabilità di una bambina e l’arroganza di una duchessa».
  68. V. Woolf, Una dama scribacchina, in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 91-95. A p. 94 scrive di lei: «E in quel lungo e intricatissimo processo di vivere e leggere e scrivere che in modo tanto misterioso modifica la forma della letteratura, […] la signora Haywood non svolge alcuna parte visibile, se non quella di andare a ingrossare il coro delle voci».
  69. V. Woolf, Jane Eyre e Cime Tempestose [1916], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 131-38. A p. 135 scrive: «[…] leggiamo Charlotte Brontë non per la raffinata osservazione dei caratteri (i suoi personaggi sono vigorosi e elementari); non per il gusto del comico (il suo è tetro e crudo); non per una visione filosofica della vita (la sua visione è quella della figlia di un parroco di campagna); ma per la sua poesia».
  70. V. Woolf, Jane Austen [1923], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 111-24: 124.
  71. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 60.
  72. Ivi, p. 61.
  73. Ivi, p. 63.
  74. V. Woolf, Donne scrittrici di romanzi [1918], in Ead., Le donne e la scrittura [1979], a cura di M. Barrett, op. cit., pp. 65-69: 67.
  75. V. Woolf, Le donne e il romanzo [1929], art. cit., p. 45.
  76. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., p. 66 (come le citazioni che seguono).
  77. Ivi, p. 68 (come le citazioni che seguono).
  78. Ivi, p. 69.
  79. Ivi, p. 70 (come la citazione che segue).
  80. Ivi, p. 71 (come la citazione che segue).
  81. Ivi, p. 72.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. II)