L’ultimo nato tra i lavori lirici di Guglielmo Aprile, Appunti eoliani (Fara Editore, 2024, silloge premiata all’ultima edizione del prestigioso concorso “Faraexcelsior”), è opera che esibisce un indubbio coraggio nel prendere le distanze dalle tendenze più battute della poesia che si va facendo oggi in Italia, tanto per le modalità espressive adottate quanto per le scelte tematiche.
L’incontro con un luogo carico di suggestioni naturali, l’arcipelago delle Eolie, si fa spunto per un’esperienza estetica intensissima, che eleva il dato biografico del viaggio a occasione di stupefatte accensioni visionarie. Contemplando quei paesaggi marini di aspra e selvaggia bellezza, non contaminati dall’intrusione dell’uomo, e in cui anzi l’elemento antropico tende alla sparizione, l’autore percepisce la vitalità intatta delle forze originarie, demiurgiche e primordiali, che nel corso delle ere hanno modellato i profili di isole, golfi e promontori, spianando le valli e innalzando le alture, in un’area geografica, quella che comprende il Tirreno e le numerose formazioni geologiche generate dalle sue profondità, segnata da un’attività vulcanica ancora feconda, che fa pensare a scenari caratteristici della turbolenta giovinezza del mondo.
La pagina ritaglia uno squarcio attraverso il quale guardare indietro di secoli, quando i primi naviganti giunti dalla Jonia ormeggiavano le loro imbarcazioni nelle insenature da colonizzare, fino a un’epoca remotissima, anteriore alla civiltà e alla comparsa della nostra specie e delle sue istituzioni: un tempo oscuro e sepolto dal divenire della storia umana e di quella della Terra, nel quale gigantesche energie in lotta scatenate esplodevano in tutta la loro fragorosa potenza, per plasmare il volto perpetuamente mobile e in trasformazione del pianeta, suscitando dal caos anteriore alla genesi «la rosa di tutte le albe» e innescando «nel sangue di uomini e Dei» l’impulso di scorrere (Pietre viventi, p. 11).
Le falesie di Lipari o di Vulcano, con le loro fisionomie tormentate, martoriate dal prolungato accanimento dei flutti, trasmettono una testimonianza dell’antichità degli elementi e del loro processo distruttivo e insieme creativo, e con la maestosità del loro aspetto rivelano a chi le scruti un’impronta del divino, tanto che a esse ci si accosta con la deferenza e il senso di soggezione che istintivamente il divino impone; e perfino la realtà minerale si scopre viva, in quanto nel proprio atavico sonno conserva «la memoria / delle comete, di vulcani e fulmini» (Museo del mare, p. 47).
È in luoghi come quelli evocati dalla raccolta che lo sguardo ha l’illusione di rivivere la genesi, di assistere alla nascita del mondo una seconda volta, all’emersione dei continenti dal mare, allo spuntare della prima ginestra su un picco calcareo; e il poeta accoglie l’investitura di farsi aedo di questa vicenda dimenticata, di raccontare l’epopea violenta e splendida della creazione, celebrandone la magnificenza, riproducendone la drammaticità, con una tensione verbale che ricorda Lucrezio, sulla base di una poetica che attinge dall’orrido per edificare il canone di un moderno sublime, e che legge in ogni manifestazione dell’universo sensibile il riflesso di un ordine sovrannaturale. L’immaginazione è sovrana: le concrezioni rocciose che campeggiano lungo la riva, forgiate dall’inesausta opera di venti e schiume, si trasfigurano ora in scheletri vegetali di una selva pietrificata da una maledizione (Foresta di pietra, p. 57) ora nei resti ossei di una specie ciclopica fulminata (L’età del ferro, p. 55), o ancora nelle rovine di una città sommersa da un maremoto (Monumenti marini, p. 49); ma ogni dettaglio naturale si carica di risonanze debitrici a volte di escursioni nel mito, altre volte nella geologia, nell’oceanografia o nell’astronomia.
Non è semplice inquadrare nel panorama delle attuali scritture in versi un’opera che si nutre di tali ambizioni, innanzitutto per la specificità della materia trattata, che si ripete quasi ossessivamente in tutti i componimenti: il tentativo di estrapolare un sentire affine a quello umano dalla sostanza inerte della pietra e delle onde, degli arbusti e delle nuvole, in una rievocazione delle credenze animistiche dei primi popoli che identificavano il sacro con il vivente; accade così che l’onda si mostri «pietosa» nell’ascoltare il pianto muto degli scogli, «insinuandosi tra le crepe e gli anfratti della riva» (Archeologo dell’acqua e della pietra, p. 41). Ma la stessa tessitura linguistica della raccolta rimanda a scelte desuete, a un’implicita intenzione di non allineamento al presente della poesia e alle sue più scontate e abusate direttrici stilistiche, per via dell’aristocratica ricercatezza lessicale, e per il rigore sempre controllato dell’impianto endecasillabico, in cui l’impeto torrenziale e magmatico dei contenuti, riversandosi, sembra placarsi in un dettato di scultorea limpidezza.
La poesia di Aprile, già da alcune delle sue precedenti raccolte come Sinfonia del mare (Il Convivio, 2021) fino al più recente Tutto l’oro del mondo (Carabba Editore, 2024), mostra con questi Appunti eoliani una chiara evoluzione nel solco di una parola che interroga la natura, che aspira a farsi partecipe dei suoi rivolgimenti grandiosi, e che nel mistero che la pervade riconosce l’origine, il fine e il fondamento di tutto l’essere; al punto che l’autore, in una sorta di dichiarazione della poetica da lui tenacemente perseguita, professa di non trovare altro fine tanto allo “scrivere” quanto al “vivere” al di fuori di «imparare a guardare, a riconoscere / terribile o magnifico il prodigio / in ogni cosa» (Fine ultimo, p. 94), e di vedere «in ogni apparenza un mistero / da venerare come cosa sacra» (Come cosa sacra, p. 100).
(fasc. 53, 31 agosto 2024, vol. II)