Calvino lettore di Nievo. Avventura e comica leggerezza

Author di Roberta Colombi

Una lunga fedeltà. Tra ammirazione ed emulazione

Nel ricostruire la relazione di Calvino con Nievo attraverso le tracce lasciate nelle lettere, nelle interviste e in poche altre pagine di carattere pubblico, risulta evidente come l’ammirazione di Calvino per lo scrittore delle Confessioni sia qualcosa che risale indietro nel tempo. La loro relazione non nasce in seguito alla riscoperta letteraria di Nievo avvenuta negli anni ’50 e che coinvolge proprio Einaudi, l’editore con cui il giovane Calvino collabora dal 1947[1]: nasce prima ed è destinata a durare a lungo.

Le prime attestazioni di ammirazione da parte di Calvino risalgono già alla fine degli anni Quaranta. Nel 1947, in contatto con Alfonso Gatto per la collaborazione alla rivista «Pattuglia», alla richiesta di alcuni racconti Calvino risponde: «Farò il possibile per aiutarti nel nuovo giornale. […Manderò] un racconto, un profilo di Conrad e d’altri autori ancora: Hemingway, Nievo e altri miei pallini»[2]. Dunque, Nievo rientra tra i “pallini” di Calvino, e le ragioni di questa predilezione si trovano esplicitate nella risposta a un’inchiesta radiofonica della RAI del ’53 sulla Mancata fortuna del romanzo in Italia, in cui, dopo aver riconosciuto come Manzoni, sebbene fosse uno «speciale romanziere», fosse «privo del gusto dell’avventura» e mostrasse un «temperamento poco romanzesco», afferma di Nievo: «conosceva cos’era avventura, e storia familiare, e grandezza e decadenza sociale, e vita umana e presenza della donna nella vita dell’uomo, e paesaggio natale, e trasfigurazione della memoria in continua presenza reale: il generoso, il giovane, il fluviale Nievo»[3].

L’anno dopo, in un articolo su «l’Unità» del ’54, ricompare il nome di Nievo quando parla del suo “scaffale ideale”. Accanto ai grandi nomi della letteratura europea che hanno formato lo scrittore ligure, seppure tanto diversi da lui, accanto a Conrad compaiono Stevenson, Stendhal e Nievo: «Su questo mio scaffale ideale, Conrad ha il suo posto accanto all’aereo Stevenson, che è pure quasi il suo opposto, come vita e come stile. […] Invece l’ho tenuto sempre là, a portata di mano, con Stendhal che gli assomiglia così poco, con Nievo che non ci ha niente a che vedere»[4].

Qualche anno dopo, in una lettera a Sciascia del 1957, in cui si congratula per il racconto Il quarantotto, nell’apprezzare l’omaggio che lo scrittore fa a Nievo, presente nel testo come personaggio che dialoga con Garibaldi, si dichiara suo “fedele”: «Caro Sciascia, ho letto Il quarantotto. Come fedele del Nievo non posso che rallegrarmi di quest’omaggio siciliano al romanziere friulano, in uno scorcio così abile e nitido»[5].

L’amore di Calvino per Nievo emerge chiaramente nel 1968, quando l’autore partecipa alla realizzazione di un manuale per la scuola media dal titolo La lettura, ideato assieme a Giambattista Salinari (1969-1971): un’antologia che vuole essere «divertente» e che vuole trasmettere «il piacere di leggere»[6]. Nella parte conclusiva di ogni volume, Calvino decide di proporre la riduzione di tre grandi romanzi europei: I viaggi di Gulliver nel primo, il Don Quijote nel secondo e Le Confessioni d’un italiano nel terzo[7].

Con gli anni ’80, all’apice della sua carriera saggistica e della grande acclamazione presso il pubblico, nonostante la riscoperta di Nievo abbia dato vita anche a nuove edizioni, Calvino insiste sempre più esplicitamente sul suo nome, sentendo il rischio che resti uno scrittore amato da pochi, come si legge in una lettera a Milanini del 1981: «Mi faccia mandare pure il suo Nievo: un autore che siamo rimasti in pochi ad amare, mi sembra»[8].

Se il legame con Nievo è una costante della vita di Calvino, solo pochi mesi prima della sua morte l’autore sembra avere il coraggio di confessare, in un’intervista rilasciata a Maria Corti[9], il grande amore per il romanziere ottocentesco, fornendo perfino una chiave di lettura per leggere alcuni dei propri testi, di cui dichiara, senza imbarazzo alcuno, la fonte ispiratrice essere proprio tra quelle pagine. Quest’intervista, quasi punto di arrivo di un percorso (segnato dai due estremi 1947, 1985), sembra offrire l’occasione a Calvino di fare i conti con il passato e, non dimenticando i libri che lo hanno formato, di confessarsi senza più reticenze:

Quali autori ebbero maggior peso nella tua formazione di scrittore? E c’è un elemento comune, qualcosa che unifichi quelle che furono le tue più autentiche letture?

Dovrei indicare qualche libro letto nell’adolescenza e che in seguito abbia fatto sentire il suo influsso sulle cose che ho scritto. Dirò subito: Le confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo, l’unico romanzo italiano dell’Ottocento dotato d’un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con tanta abbondanza nelle letterature straniere. Un episodio del mio primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno s’ispira all’incontro di Carlino e di Spaccafumo. Una vaga atmosfera da Castello di Fratta è evocata nel Visconte dimezzato. E Il Barone rampante ricalca il romanzo di Nievo nell’arco di una vita che copre lo stesso periodo storico tra Sette e Ottocento e gli stessi ambienti sociali; per di più, il personaggio femminile ha per modello la Pisana. Quando ho cominciato a scrivere ero un giovane di poche letture; tentare la ricostruzione d’una biblioteca “genetica” vuol dire risalire rapidamente ai libri d’infanzia[10].

Le confessioni dunque sono un libro letto nell’adolescenza, che fa parte di quelle «poche letture» che hanno svolto una funzione “genetica” nei confronti dell’opera dello scrittore. Non sarà un caso che, tra gli episodi scelti per il terzo volume dell’antologia scolastica del 1968, ci siano proprio quelli che qui indica come fonte di suggestione per alcuni suoi ambienti e personaggi. Probabilmente il proporre Nievo in un’antologia destinata all’educazione letteraria delle nuove generazioni e in particolare l’inserimento di quei brani rimandano proprio alla sua esperienza di lettura giovanile ancora vivida nel ricordo e riconosciuta così importante nello sviluppo della sua fantasia.

L’avventura e l’ottica straniante dei giovani narratori

Ancor prima di essere uno scrittore, Italo Calvino è un lettore accanito di grandi romanzi, grazie ai quali svilupperà fin dalla gioventù un amore incondizionato per gli scrittori avventurosi, primo fra tutti Conrad, al quale dedica la tesi di laurea in Lettere nel 1947, ma anche Stevenson e Stendhal, come si è visto. Il giovane Calvino dunque legge il romanzo di Nievo e, per prima cosa, trova in questo scrittore un amante dell’avventura ed estimatore dell’Ariosto.

L’Orlando Furioso, presente più o meno esplicitamente, si sa, all’interno della produzione calviniana, dal ciclo dei Nostri Antenati fino al romanzo Il castello dei destini incrociati, è ineludibile modello narrativo anche per Nievo, che arriva a far giocare con le fantasie cavalleresche i suoi giovani protagonisti[11]. A leggere le avventure di Carlino, Pisana e gli altri ragazzini di Fratta, sembra, infatti, di perdersi in uno scenario ariostesco, dove i protagonisti intrecciano i loro destini su una scacchiera di luoghi diversissimi, spostandosi dall’Italia all’intera Europa.

A dedurre la stima che Italo Calvino provava per Nievo e a metterla in relazione con Ariosto è stato Cesare Pavese che, dopo la lettura del Sentiero dei nidi di ragno, nella recensione del 1947 scrisse: «C’è qui dentro un sapore ariostesco. Ma l’Ariosto dei nostri tempi si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo, e si traveste volentieri da ragazzo»[12]. Da subito Pavese nota la spensieratezza con cui il protagonista Pin vive la Resistenza, come fosse una grande avventura fanciullesca simile a un gioco magico. Analogamente si muove il Carlino nieviano nel castello di Fratta, intento alle sue scorribande sullo sfondo di eventi storici importanti che di lì a poco cambieranno definitivamente l’Italia. Nell’introduzione al romanzo del 1964 Calvino, infatti, dichiara: «Chi lo capì subito fu Cesare Pavese, che indovinò dal Sentiero tutte le mie predilezioni letterarie. Nominò anche Nievo, a cui avevo voluto dedicare un segreto omaggio ricalcando l’incontro di Pin con Cugino sull’incontro di Carlino con lo Spaccafumo nelle Confessioni d’un italiano»[13].

Inoltre, come lo Stevenson dell’Isola del tesoro, anche Nievo presenta come narratore, assieme al vecchio Carlo, la voce di Carlino, il ragazzo che fu: una scelta che Calvino farà propria, attribuendo a giovani personaggi la responsabilità della voce narrante e del punto di vista da cui condurre la narrazione. Un’opzione, questa, carica di significati se, come si può cogliere nel Sentiero e nel Barone rampante, scegliere un giovane come narratore e protagonista vuol dire offrire una visione straniata dei fatti raccontati. Nel caso del primo romanzo, lo sguardo di Pin offre attraverso la visione ingenua del ragazzo una visione della lotta partigiana “dal basso”; nel caso del Barone, anche se il narratore è il fratello di Cosimo, è la scelta di Cosimo di stare sugli alberi a offrire una visione “dall’alto”. In entrambi i testi evidente è un’inedita forza scaturita, appunto, dalla scelta di un punto di vista “altro”.

Il Sentiero dei nidi di ragno

Nel Sentiero, attraverso l’adozione della prospettiva infantile Calvino non dismette il proprio impegno politico e civile, nato sulla spinta della lotta partigiana. Anzi, probabilmente è questa sua attenzione all’attualità, alle problematiche sociali in corso, che lo induce a valorizzare del romanzo nieviano anche il carattere politico, oltre a quello avventuroso: in particolare, la capacità di registrare poeticamente «lo slancio»[14] di quegli anni di lotte. Ecco cosa si legge in Natura e storia nel romanzo (testo di una conferenza del ’58): «Non dimentichiamoci che lo slancio del Risorgimento italiano ha avuto in letteratura una sola eco veramente poetica: e sono le giornate avventurose del Carlino di Nievo tra gli spalti e i fossi attorno al decrepito Castello di Fratta»[15].

Le Confessioni affascinano, dunque, Calvino, oltre che per il gusto ariostesco dell’avventura e per la presenza di un giovane personaggio che si alterna con la propria voce narrante al vecchio Carlo, anche per quell’intreccio tra avventura, storia e politica nel quale probabilmente l’autore del Sentiero ritrova l’eco di una comunanza ideale. Le vite dei due autori si assomigliano, infatti, nell’intreccio di scrittura e impegno politico che li ha spinti a continuare a esprimere in varie forme la giovanile vocazione militante.

La storia del secolo raccontato da Nievo, la confusione e il disorientamento accanto alla fede politica dei suoi protagonisti, le azioni eroiche e il cinismo, l’umanità, i valori patriottici, e soprattutto la vitalità giovanile di Carlino e di molti altri personaggi impegnati nel processo risorgimentale agiscono sicuramente nella memoria di Calvino quando, all’indomani dell’esperienza partigiana, si cimenta col suo primo romanzo. Il suo esordio come romanziere, pur risentendo del clima del tempo, si allontana subito dalla prospettiva ideologica e dai caratteri del Neorealismo. L’esperienza personale della guerra partigiana è, infatti, consapevolmente ricollegata all’esperienza letteraria, in particolare ottocentesca, che ha registrato, assieme alle assurde atrocità, la sconfitta della storia: «La sconfitta, la vanità della storia, l’impossibilità di comprendere la vita in uno schema razionale, saranno il motivo di fondo che serpeggia nella grande narrativa dalla metà dell’Ottocento in poi, fino alla nostra epoca nella quale l’assurda atrocità del mondo diventerà un dato di partenza comune a quasi tutta la letteratura»[16].

Pur riconoscendo, però, che il romanzo storico è un «ottimo sistema per parlare dei propri tempi e di sé»[17], la tensione di Calvino è rivolta, anche in questo caso, alla volontà di volerlo fare con leggerezza, che, com’è noto, non vuol dire superficialità, ma è piuttosto una forma diversa di resistenza.

Con la consapevolezza del dopo, si può leggere in filigrana (in una conferenza del ’58 dedicata a Natura e storia del romanzo) quasi una spiegazione delle sue prime scelte narrative che hanno visto dei ragazzi come protagonisti:

Per trovare scampo alla visione pessimistica incombente nella coscienza della società (s’avvicina l’epoca delle grandi guerre mondiali), la narrativa comincia a presentarci sempre più spesso dei protagonisti ragazzi. Questa narrativa sull’infanzia è continuata largamente fino ai nostri giorni ed è considerata da taluni come un morbido decadentismo, un rifiuto a considerare le responsabilità dell’uomo adulto, specie di quando – grazie alla nuova psicologia – il raccontare di bambini e ragazzi ha significato la possibilità di ripiegarsi sulla parte più aurorale e fragile del mondo interiore dell’uomo contemporaneo. Ma il personaggio del ragazzo era entrato nella letteratura dell’Ottocento per il bisogno di continuare a proporre all’uomo un atteggiamento di scoperta e di prova, una possibilità di trasformare ogni esperienza in vittoria, come è possibile solo al fanciullo[18].

Affidare il racconto a giovani personaggi sarà la scelta praticata da Calvino al fine di salvaguardare lo sguardo della scoperta, l’unico capace di far vedere altro nell’esperienza vissuta e con ciò di incoraggiare a trasformarla: di certo, non si tratta di un espediente volto a esprimere il ripiegamento su di sé dell’uomo contemporaneo. La scelta di un narratore bambino, come indica Calvino nel saggio, risiede nella volontà di proporre al lettore un atteggiamento di continua prova nella vita quotidiana, che impedirebbe all’uomo la rassegnazione e lo sconforto, favorendo lo sviluppo di un pensiero critico spesso non uniformato al resto della società.

Oltre ad avere un potenziale eversivo, lo sguardo del ragazzo diventa il modo per il narratore di filtrare la cruda realtà, per raccontare con leggerezza storie di guerra e di morte. Ne deriva una visione straniante del reale, descritto con lo sguardo ingenuo di un ragazzo che fa quasi dimenticare al lettore il drammatico scenario storico. Esattamente come avviene in Nievo quando a narrare nelle Confessioni non è l’ottuagenario ma il giovane Carlino, o come avviene in Stendhal che, come scrive Calvino, fa «vivere la battaglia di Waterloo al suo Fabrizio del Dongo diciassettenne», evitando «l’insidia della retorica» che avrebbe un adulto grazie appunto agli occhi di un giovane che scopre «il mondo per la prima volta»[19].

Le confessioni, insomma, uno dei suoi tanti «libri-occhi»[20], hanno potuto soccorrere Calvino nella ricerca di quel «carattere primario» della Resistenza, di quel «quid elementare» conosciuto nei più semplici compagni partigiani[21] e che, al di là di ogni retorica mitizzante, come ha dichiarato egli stesso, era l’urgenza da cui nasceva il suo primo romanzo, e che ne costituisce il valore: «l’immagine d’una forza vitale […] in cui si saldano l’indigenza del ‘troppo giovane’ e l’indigenza degli esclusi e dei reietti»[22]. Un “racconto picaresco” sempre accompagnato da una «vena di felicità avventurosa e di fiducia nell’uomo»[23] grazie a quel “tono fiabesco” che per primo Pavese ha notato e accostato a Nievo[24].

Il Barone Rampante

Se a proposito del castello del Visconte dimezzato, uscito nel ’52, primo romanzo della trilogia degli Antenati, Calvino riconosce aver agito il ricordo di quello di Fratta[25], a chi ha intuito, all’indomani della pubblicazione del Barone rampante, la somiglianza tra il personaggio di Pisana e Viola, Calvino risponde così: «Le confessioni sono uno dei miei libri preferiti e scopro sempre che fruttificano nelle mie pagine senza che me ne accorga»[26]. Le tracce delle Confessioni nel Barone rampante, infatti, sono tali da indurre lo stesso Calvino ad ammetterle nella Prefazione all’edizione scolastica del romanzo del ’65:

L’arco della vita di Cosimo di Rondò copre pressappoco gli stessi anni di quella di Carlino di Fratta; non manca la galleria degli eccentrici nobilotti di provincia, tra cui un familiare vestito alla turca (come in Nievo il redivivo padre di Carlino); Viola può essere considerata una sorella minore della Pisana, vera libertina dell’ancient Regime, e gli echi della Rivoluzione, gli Alberi della Libertà, perfino l’incontro con Napoleone in persona sono elementi comuni ai due testi[27].

Oltre alla somiglianza tra Pisana e la marchesina Violante ‒ entrambe capricciose, sfuggenti, impulsive, volubili come l’Angelica ariostesca, entrambe modello di amori eccentrici, non convenzionali, e di unioni coniugali poco esemplari, entrambe ricordate attraverso oggetti-reliquia (la ciocca dei capelli e il nastro rosa) ‒, c’è la somiglianza dei padri, biologici e non. Il Conte di Fratta, simbolo di un feudalesimo ormai morente, con parrucca, zimarra e spadino arrugginito, ha qualcosa del padre di Cosimo, il Barone Arminio di Rondò, descritto da Calvino come un uomo «fuori tempo», anacronistico in tutto[28]. Così la Contessa madre di Pisana assomiglia alla Generalessa madre di Cosimo, donne dal carattere severo e arcigno che, nel secondo caso, si esprime macchiettisticamente in lingua tedesca. Oppure si pensi a Spaccafumo e Gian dei Brughi, entrambi briganti “in guerra” con i potenti della zona, schierati a favore dei più poveri come dei Robin Hood d’altri tempi; o ancora a Todero Altoviti, il padre di Carlino intento a traffici orientali, vagamente somigliante al cavaliere Enea Silvio Carrega vestito anche lui alla turca. Ma la cosa più interessante è la scelta dell’arco storico: quell’età «a cavalcioni» tra Settecento e Ottocento in cui scorre la vita di Carlino e qui scenario delle vicende di Cosimo.

Nella Postfazione a I nostri antenati del ’60, Calvino parla del fascino esercitato su di lui dal Settecento e dal «periodo di rivolgimenti tra quel secolo e il seguente»[29]. «Un secolo d’eccentrici», un tempo che sembra parlare con l’epoca a lui contemporanea nella quale «l’individualità è negata» e i comportamenti sono «prestabiliti»[30]; in cui «nuove speranze e nuove amarezze si alternano» e nella quale occorre trovare «il giusto rapporto tra la coscienza individuale e il corso della storia»[31].

I due giovani protagonisti, Carlino e Cosimo, con le loro avventure, con il loro spirito di rivolta e non omologazione, annunciano il nuovo e salutano, o vorrebbero salutare, società ingabbiate in consuetudini e regole anacronistiche, «stonate» (per usare l’attributo scelto dallo scrittore per il padre di Cosimo). Come non farsi attrarre dall’idea che Calvino si sia divertito, ricorrendo al fondale storico, a parlare «dei suoi tempi e di sé», come aveva riconosciuto saper fare proprio al genere storico?

Il “Pastiche” storico che ne vien fuori, a cui sono state d’aiuto le «ricerche dei (suoi) amici storici sugli illuministi e giacobini italiani»[32], sembra rispondere al suo desiderio, come riconosce appunto nel ’60, nella piena crisi di quegli anni, di salvare «qualcosa che c’era di là»[33]. Il Settecento è anche, infatti, un luogo di fantasia e immaginazione in cui i due autori possono ritrovare, o cercare di ritrovare, una felicità perduta: per Nievo rappresenta il tempo dell’infanzia spensierata; per Calvino un tempo letterario dove costruire una realtà utopisticamente, fiabescamente, se non migliore, più leggera di quella della vita. Il tempo «di un altrove rispetto al tempo della Storia», il tempo «del cuore», quello di un’«immaginazione fabulosa»[34]. Si legge nella prefazione del ’65: «Partendo da un mondo che non esiste più, l’Autore regredisce a un mondo mai esistito», ma che presenta i nuclei «di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere»[35].

Attualità e memoria, dunque, si intrecciano in un romanzo apparentemente solo fiabesco e avventuroso. I toni favolosi di una vita vissuta tra gli alberi guardando il mondo dall’alto, infatti, non sono privi di tensione etica.

Nel Barone Rampante, attraverso Cosimo che decide di vivere sugli alberi, Calvino ottiene uno straniamento non solo generazionale (in questo caso il mondo dei suoi genitori), ma anche sociale e culturale, che lo porta a vedere il mondo e la società da cui si è allontanato con distacco critico. La fanciullezza appare con tutta evidenza in questo caso antidoto e salvezza per chi vuole conservare come i bambini la ricchezza dei sogni e delle speranze nel mondo adulto. Serve a ribaltare l’ottica con cui guardare le cose e a offrirne così una prospettiva inedita. Inoltre, Cosimo è dentro la storia ma la vuole vedere da fuori, esattamente come fa Nievo con l’espediente dell’anziano narratore che vede da lontano la storia cui pure ha partecipato. La postazione fisicamente elevata di Cosimo condivide qualcosa con la prospettiva alta, dal punto di vista esistenziale, dell’ottuagenario nieviano: entrambi vivono in quella dimensione che Cases, già nel 1958, ricorrendo all’espressione nietzschiana, ha definito «il pathos della distanza»[36]. Entrambi hanno bisogno di frapporre una distanza fra sé e il mondo, una distanza che permetta loro di osservare meglio, o forse di abbellire, la storia con l’immaginazione.

Scritta all’indomani dei fatti di Ungheria e delle dimissioni di Calvino dal PCI, la favola di Cosimo, si sa, può esser letta come trasfigurazione fiabesca di una crisi dell’autore che si interroga sul proprio posizionamento nella società come nella politica: il romanzo presenta, infatti, possibili allusioni alla crisi dello scrittore, soprattutto negli atteggiamenti di Cosimo.

Come Calvino cerca di definire per sé una posizione defilata dal panorama politico, così da poter valutare i fatti storici e sociali dell’Italia con maggiore libertà, analogamente Cosimo, salendo sugli alberi, non si sottrae alla vita pubblica, anzi la visione distaccata che ne ricava gli permetterà di assumere un ruolo di rilievo all’interno della sua comunità. Il giovane protagonista del romanzo, che sugli alberi legge e fa leggere, si configura più come un eroe che pensa che come un eroe che agisce e forse indica, con la sua posizione, quella via d’uscita alternativa che l’intellettuale Calvino sentiva più congeniale.

L’allontanamento dal mondo, il clima fiabesco e la leggerezza aerea dell’esistenza del personaggio sembrano indicare un carattere di disimpegno, decisamente in controtendenza rispetto alla coeva letteratura neorealista. In realtà l’impegno politico di Calvino, nato con la Resistenza, dopo questa crisi, pur cambiando modalità d’azione, resta impulso irrinunciabile della sua scrittura, con la quale intende incidere in altro modo, evidentemente, nella realtà della società.

Non solo le prime recensioni del romanzo hanno colto questa connotazione impegnata del testo e il suo legame con la crisi tra Calvino e il PCI[37], ma Calvino stesso ne ha difeso il carattere militante e personale. A Silvio Guarnieri scrive nel ’57: «il mio protagonista sugli alberi è un militante, un uomo continuamente impegnato. Più di quelli che stanno a terra»[38]. L’8 gennaio ’58 a un altro corrispondente spiega che con Cosimo ha voluto

proporre una figura di uomo (di “intellettuale” se vogliamo) impegnato, che partecipa profondamente alla storia e al progresso della società, ma che sa di dover battere vie diverse dagli altri come è destino dei non conformisti. Ho voluto esprimere anche un imperativo morale di volontà, di fedeltà a se stessi, alla legge che ci è imposta, anche quando questa costi la separazione dal resto degli uomini. È un credo di individualismo? Direi che è l’affermazione che per essere veramente con gli altri bisogna non aver paura di trovarsi anche soli. Che è nella propria forza e moralità individuale che sta la forza e la moralità che ci fa combattenti di lotte collettive.

E aggiunge che non pensa di aver scritto «un libro di grande importanza filosofica o storica», ma che ha voluto scrivere «un libro divertente, ficcandoci dentro una certa mia personale carica di umori e di ghiribizzi. È un libro personale»[39].

Calvino senz’altro aveva colto la connotazione politica e l’impegno civile sotteso alla scrittura avventurosa e comica di Nievo che proprio in quegli anni veniva riconosciuta nella sua attualità da Romagnoli che coordinava il progetto Einaudi[40]. A differenza dell’attenzione che nel dopoguerra riscuoteva il Nievo dei paesaggi e del mondo popolare, del Varmo e del Novelliere Campagnuolo, che tanto piacque agli scrittori neorealisti, Nievo era infatti anche il romanziere di una generazione che, nella difficoltà dell’azione militante, faceva della scrittura una forma di impegno e di resistenza civile.

Attraverso il racconto del passato, il clima avventuroso e la distanza ironica, Nievo, che fu per poco in realtà un “poeta-soldato”, aveva offerto con quel romanzo, assieme all’«eco poetica» del nostro Risorgimento, la sua lettura critica. Quest’aspetto non sarà certo sfuggito a Calvino che, come molta critica degli anni Cinquanta, è interessato a indagare e ridisegnare il rapporto sempre più problematico tra l’intellettuale e la società. E che, come è stato detto, presenta, forse più di ogni altro intellettuale italiano, lo spostamento da una «militanza culturale e politica» a una «militanza letteraria»[41].

Tensione pedagogica e comica leggerezza

Riguardo alla legittimità della lettura che scorge nel Barone rampante un romanzo incentrato sulla figura dell’intellettuale che pensa e agisce controcorrente, incurante delle logiche contemporanee ma devoto solo ai suoi ideali, due anni dopo la sua pubblicazione, Calvino, nel rispondere al giornalista Michele Rago (fortemente stupito dalla somiglianza del suo romanzo con quello di Nievo), pur essendone lusingato, riconoscerà di aver preso un’altra direzione da quella prevista: «La verità è che nell’idea che da anni mi portavo dietro di questo libro, era la parte politico-rivoluzionaria-napoleonica che contava; invece, scrivendo, la parte che doveva essere solo introduttiva ha preso spazio e vigore, e alla parte che più mi interessava sono arrivato dopo aver bruciato gran parte del combustibile»[42]. Ma, se nell’elaborazione della scrittura, come afferma egli stesso, ha preso imprevedibilmente più spazio la dimensione comico-fantastica di quella esplicitamente politica, questo testo testimonia un’accelerazione verso la nuova direzione che la sua scrittura prenderà che vale la pena interrogare. Il fascino in lui esercitato dall’orizzonte infantile e dall’atmosfera comica e allusiva, sospesa tra cielo e terra, lo porta, infatti, a sperimentare quanto quella dimensione sia una via efficace, dotata di leggerezza, una modalità a lui più congeniale per svelare con ironia «le menzogne, le rigidezze […] nel comportamento sociale e nella vita psicologica»[43]. L’atmosfera comico-fiabesca e la dislocazione in alto del protagonista risulteranno, infatti, espedienti capaci di orientare in modo inedito il lettore e di indurlo a riflettere perché, come egli stesso aveva detto, spesso dietro certe storie per ragazzi gli scrittori esprimono qualcosa che «vorrebbero dire agli uomini»[44].

Insieme all’amore per l’avventura Calvino, infatti, va maturando anche una predilezione per il registro umoristico. La comicità viene da lui riconosciuta come una delle ragioni del suo amore per Nievo: «Amo Nievo perché l’ho riletto tante volte divertendomi come la prima»[45].

Sebbene per Calvino il comico abbia «grande importanza»[46], non si riduce mai a «risata piena»[47], come per Nievo non è mai puro divertimento. Egli stesso dichiara: «quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via di uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. […] ricordare che il mondo è molto più complicato, vasto e contraddittorio»[48]. Quel che interessa Calvino è un «comico che ‘svela’ e ‘dissolve’», dove il riso e la smorfia divengono «strumenti conoscitivi» e fungono da “antidoto” critico[49]. Un comico, dunque, che ha «una componente pensosa»[50]: questo perché per lui la letteratura deve «educare la sensibilità e la percezione dei lettori»[51] e i procedimenti comico-umoristici mostrano di addestrare a diverse percezioni.

La sua attitudine tende, però, più all’umorismo, che mette in dubbio e sottolinea l’ambiguità delle cose con leggerezza[52]. Per Calvino, infatti, lo «humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea» e le sue strategie consentono di «contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia ed ironia»[53].

Questa la lezione dei grandi maestri, i quali, pur nelle loro diversità, non divergono secondo Calvino negli esiti: «L’ironia ariostesca, il comico shakeasperiano, il picaresco cervantino, lo humour sterniano, la fumisteria di Carrol […] valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge questa specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto»[54]. Queste, dunque, le ragioni della scelta dello sguardo dall’alto di Cosimo così come dell’umorismo nieviano, che appunto consente similmente, guardando a distanza i fatti narrati, di dissolverli «in malinconia e ironia».

Sugli alberi Cosimo conquista una distanza fisica che è anche e soprattutto gnoseologica e culturale, e offre con leggerezza al lettore una visione diversa: una visione alternativa, che accresce e allena lo sguardo del lettore e gli ricorda quanto il mondo sia «complicato vasto e contraddittorio».

La distanza e il problema della prospettiva con cui si osservano i fatti e le vicende umane si presentano sin dalle righe finali del primo romanzo calviniano, come ebbe a notare Cases prendendo a spunto le considerazioni sulle lucciole nel Sentiero; e il percorso di Calvino, fino alle Cosmicomiche e a Palomar, mostra una grande fedeltà a tale questione per lui centrale. Definito da Pavese uno «scoiattolo della penna»[55] per questo porsi a distanza da ciò che narra e vuole mostrare al lettore, Calvino con Cosimo esplicita la necessità di questa distanza e gli effetti comico-umoristici da essa procurati. Una lezione che, certo, un “fedele di Nievo” come Calvino non può non aver colto in quel romanzo che, assieme al racconto delle vicende storiche, offriva soprattutto uno sguardo, o meglio delle prospettive da cui esaminarle. Lo sguardo di un narratore fanciullo così come la postura del vecchio Carlo che osserva e commenta a distanza, entrambi presenti in Nievo, sortiscono il medesimo effetto prodotto dai maestri dell’umorismo apprezzati da Calvino: quella «specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto»[56] che Calvino sente evidentemente sempre più come la cifra della propria scrittura.

Sin dal 1955, nel contesto di un paese in ripresa ma ancora disorientato dal punto di vista politico-sociale, Calvino dice che per lui la letteratura è un “modo di guardare”, l’unico mezzo per conoscere sé stessi e la realtà. La letteratura deve rivolgersi agli uomini e, «mentre impara da loro», aiutarli «a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti», e, tra i compiti a lei attribuiti, già a quest’altezza compare quello di insegnare l’umorismo:

Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazioni fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili[57].

“Cose” difficili ma sempre necessarie per tentare di comprendere questo mondo «complicato vasto e contraddittorio». La distanza, quella tentata dai tanti discendenti di Astolfo, da Cosimo a Palomar, quella straniata degli occhi di un bambino o quella lontana degli occhi di un vecchio, forse, può essere ancora una via praticabile per chi voglia con la scrittura offrire al lettore la possibilità di sperimentare un altro sguardo sulle cose.

  1. Al ’50 risale l’avvio, presso l’editore torinese, del progetto di Romagnoli di pubblicare le opere complete di Nievo e Calvino proprio quell’anno, dopo aver svolto mansioni di ufficio stampa, viene assunto stabilmente e partecipa alle sedute del mercoledì, in cui si discutono i progetti editoriali. L’attenzione che la casa editrice torinese riservò a Nievo è individuabile nei Verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi (2011).
  2. I. Calvino, Lettere 1945-1980, Milano, Mondadori, 2003, p. 204.
  3. I. Calvino, Mancata fortuna del romanzo in Italia, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, vol. I, Milano, Mondadori, 2022, p. 1508.
  4. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 115.
  5. I. Calvino, A Leonardo Sciascia, Torino 25 settembre 1957, in Id., Lettere 1945-1980, op. cit., p. 516.
  6. E. Zinato, Fortini, Calvino e la verifica dell’editoria scolastica, in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, a cura di I. Crotti, E. Del Tedesco, R. Ricordi e A. Zava, Pisa, ETS, 2011, p. 371.
  7. In una lettera del 2 febbraio 1968 a Salinari, lo scrittore motiva le scelte dei brani antologici dividendoli per sezioni, dai racconti di avventura agli aneddoti storici, facendo riferimento anche alle parti elise. In proposito confessa la propria difficoltà di compiere tagli: «Strappare capitoli da romanzi è sempre operazione empia e crudele. Ho provato a farlo e mi rimorde la coscienza; io antologizzerei solo racconti in sé compiuti» (I. Calvino, Alla casa editrice Zanichelli, Torino 2 febbraio 1968, in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., p. 986).
  8. I. Calvino, A Claudio Milanini, 11-7-1981, in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., p. 1453.
  9. Intervista che uscirà postuma su «Autografo» il 6 ottobre 1985, pp. 47-53, ora col titolo Intervista di Maria Corti in I. Calvino, Pagine autobiografiche, in Id., Saggi 1945-1985, op. cit., vol. II, pp. 2920-29.
  10. Ivi, p. 2920.
  11. «La Pisana mi seguiva volentieri nelle mie scorrerie campereccie […] e siccome nell’Ariosto della Clara ella sia avea fatto mostrar mille volte le figurine, così non le dispiaceva di essere o Angelica seguita da Rinaldo, o Marfisa, l’invitta donzella, od anche Alcina che innamora e muta in ciondoli quanti paladini le capitano nell’isola. Per me io m’aveva scelto il personaggio di Rinaldo con bastevole rassegnazione; e faceva le grandi battaglie contro i filari di pioppi affigurati per draghi, o le fughe disperate da qualche mago traditore trascinandomi dietro la mia bella come se l’avessi in groppa del cavallo» (I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, a cura di S. Casini, Parma, Fondazione Bembo, 1999, vol. I, Cap. III, pp. 178-79).
  12. C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Saggi Letterari, Torino, Einaudi, 1968, pp. 245-47: 246.
  13. I. Calvino, Prefazione [1964] al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e Racconti, vol. I, op. cit., pp. 1185-1204: 1196.
  14. I. Calvino, Natura e storia del romanzo, in Id., Una pietra sopra, in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., p. 41.
  15. Ibidem.
  16. I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit., pp. 35-36.
  17. I. Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., p. 1528.
  18. I. Calvino, Natura e storia del romanzo, op. cit., p. 41.
  19. I. Calvino, Saggi 1945-1985, vol. I cit., p. 41.
  20. I. Calvino, Prefazione [1964] al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e Racconti, vol. I, op. cit., pp. 1185-1204: 1196.
  21. Ivi, p. 1197.
  22. Ivi, p. 1201.
  23. I. Calvino, Nota introduttiva [1954] al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, pp. 1205-207: 1207.
  24. I. Calvino, Prefazione [1964] al Sentiero dei nidi di ragno, op. cit., p. 1196.
  25. «Una vaga atmosfera da Castello di Fratta è evocata nel Visconte dimezzato»: I. Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., p. 204.
  26. I. Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., p. 228.
  27. I. Calvino, Prefazione 1965 all’edizione scolastica del Barone rampante, in Id., Romanzi e racconti, vol. I cit., p. 1227.
  28. «A capotavola era il Barone Arminio Piovasco di Rondò, nostro padre, con la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue. […] Il Barone nostro padre era un uomo noioso, questo è certo, anche se non cattivo: noioso perché la sua vita era dominata da pensieri stonati, come spesso succede nelle epoche di trapasso. L’agitazione dei tempi a molti comunica un bisogno d’agitarsi anche loro, ma tutto all’incontrario, fuori strada: così nostro padre, con quello che bolliva in pentola, vantava pretese al titolo di Duca d’Ombrosa, e non pensava ad altro che a genealogie e successioni e rivalità e alleanze con i potentati vicini e lontani» (I. Calvino, Il Barone rampante, op. cit., pp. 3-5).
  29. I. Calvino, Postfazione ai Nostri antenati (Nota 1960), in Id., Romanzi e racconti, vol. I cit., pp. 1208-19: 1214.
  30. Ivi, p. 1215.
  31. Ivi, p. 1213.
  32. Ivi, p. 1215. Nella Prefazione 1965 all’edizione scolastica del Barone rampante, cit., ribadisce di aver così compiuto un’«invasione […] nel campo dei suoi amici studiosi», quegli storici cioè che orbitavano intorno alla casa editrice Einaudi e al cui gruppo sente di appartenere (p. 1227).
  33. I. Calvino, Introduzione inedita 1960 ai Nostri antenati, in Id., Romanzi e racconti, vol. I cit., pp. 1220-24: 1223.
  34. P. Zambon, Un Settecento d’autore. L’immaginazione da Nievo a Calvino, pp. 79-89, in Il Settecento nell’Ottocento di Ippolito Nievo, a cura di M. R. Santiloni, Firenze, Cesati, 2017, pp. 79-89: pp. 82, 84, 86.
  35. I. Calvino, Prefazione 1965 all’edizione scolastica del barone rampante cit., p. 1229.
  36. C. Cases, Calvino e “il pathos della distanza”, in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 160-66.
  37. Cfr. le recensioni del Barone rampante di L. Sciascia (in «Il Ponte», 12, 1957), di G. Spagnoletti (in «Corrispondenza socialista», 8 settembre 1957), e di P. Citati (in «Il Punto», 13 luglio 1957).
  38. I. Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 501.
  39. Ivi, p. 537: Ad Armando Bozzoli, 8 gennaio 1958.
  40. Si veda S. Romagnoli, Il ritorno di Nievo, ora in Id., Di Nievo in Nievo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 23-24. Utile sintesi di questa prima ricezione nieviana offrono le pagine iniziali del saggio di S. Contarini, Intellettuali nella storia: Il barone di Nicastro e Il barone rampante, in Presenza di Nievo nel Novecento (1945-1990), a cura di R. Turchi, Firenze, Cesati, 2019, oltre a offrire una ricostruzione dell’ambiente einaudiano e un’interessante ipotesi sulle possibili suggestioni giunte a Calvino dal Barone di Nicastro di Nievo.
  41. A. Cadioli, Letterati editori. L’industria culturale come progetto, Milano, Net, 2003, p. 175.
  42. I. Calvino, A Michele Rago, 22 luglio 1957, in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., p. 498.
  43. B. Falcetto, Sorriso, riso, smorfia. Il comico nello stile di Calvino, in Calvino e il comico, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1994, p. 44.
  44. I. Calvino, Saggi 1945-1985, vol. I cit., p. 42.
  45. I. Calvino, Risposte a 9 domande sul romanzo, in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., p. 1529.
  46. I. Calvino, Definizioni di territori: il comico, in Id., Una pietra sopra, in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., p. 197.
  47. Calvino e il comico, op. cit., pp. 1 e 44.
  48. I. Calvino, Definizioni di territori: il comico, op. cit., pp. 197-98.
  49. B. Falcetto, Sorriso, riso, smorfia. Il comico nello stile di Calvino, op. cit., p. 49.
  50. Ivi, p. 44.
  51. Ivi, p. 50.
  52. Ivi, p. 44.
  53. I. Calvino, Leggerezza, in Id., Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 21.
  54. I. Calvino, Definizioni di territori: il comico, in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., pp. 197-98: 198.
  55. C. Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno”, in Id., Saggi critici, Torino, Einaudi, 1968, pp. 245-47: 245.
  56. I. Calvino, Definizioni di territori: il comico, op. cit., p. 198.
  57. I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Una pietra sopra, in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., pp. 9-27: 21-22.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)