Recensione di “Diavoli di sabbia” (2022) di Elvira Seminara

Author di Maria Panetta

In una Sicilia-Mondo contemporanea, rievocata tramite mai neutri riferimenti all’Etna (ad esempio, alle pp. 49 e 131) e a Messina, un’inquietante perturbazione atmosferica sembra innescare un’indiavolata catena di storie tutte legate fra loro: è il perfetto meccanismo a orologeria di un’affabulatrice esperta, ma sempre innovativa nelle trame e nello sguardo, assieme cinico e incantato, sulla realtà. Diavoli di sabbia è l’ultima, avvitata creazione letteraria targata Einaudi della geniale autrice dell’Atlante degli abiti dismessi (2015) e dei Segreti del giovedì sera (2020) nonché di tante altre fortunate prove narrative, oltre a una lunga e impegnata serie di articoli giornalistici.

Elvira Seminara tiene da anni vivaci corsi di scrittura, e chi ha avuto il piacere di assistere alle sue luminose e sorprendenti lezioni conosce bene la sua sapienza nell’architettare storie spesso a partire da minimi dettagli, nel congegnare strutture raffinatissime dagli incastri perfetti, nel curare il lessico fino alla maniacalità, nello scrivere auscultando sempre il ritmo dei pensieri e traducendolo in parole e pause, pesate e calibrate armoniosamente, alternando con maestria termini precisissimi e lapsus rivelatori (nel romanzo, ad es.: «ho tagliato e cucito tre donne, […] volevo dire tre gonne», p. 7). Sempre un piacere sentir vibrare la sua brillante intelligenza nelle pagine acute e scoppiettanti che confeziona ad arte per i lettori, in genere nascondendosi e mimetizzandosi fra le righe, ma talvolta (magari suo malgrado) facendo capolino in una riflessione o in un commento. Nel romanzo ce ne sono tanti, che arrivano con la perentorietà di motti a innervare ulteriormente certe battute: «è uno sbaglio rattoppare e ricucire quando è più sano demolire» (p. 30); «Tenere per sé non è nascondere. Custodire segreti, ricordi e fantasie non è mentire, è una cosa benefica invece, salutare, oltre che un diritto, si chiama anche riservatezza» (p. 38); «L’umanità non può tollerare troppa realtà» (ibidem); «è incredibile quante briciole di noi lasciamo ai colombi, e quante impronte, per chi vuole raggiungerti anche solo così, da estraneo, scrivendo di te» (p. 47); «noi siamo fatti per stare in mezzo agli altri, per rapinarci e salvarci. La società comincia con la rottura del femore, chi l’ha detto?» (p. 50); «è una cosa molto bella, e rara, mantenere l’estraneità» (p. 63); «Ma quanti sono i giorni felici, in una vita, secondo te? Un mucchietto così, di sabbia d’oro. Tutti gli altri servono a fare massa, come la paglia sotto le bottiglie, nei cesti di Natale» (p. 88); «è impossibile capire le proprie madri, è come leggere il tuo diario in una lingua sconosciuta» (p. 89); «perdiamo la gioia per negligenza, e l’amore per scarsa manutenzione» (p. 136) etc.

In Diavoli di sabbia Seminara ha scelto la modalità del dialogo a due, dialogo peraltro in cui talora le voci volutamente si confondono e quasi si sovrappongono: il romanzo potrebbe essere letto e rappresentato felicemente come una serie di quattordici scene teatrali che prendono il titolo, ognuna, dai nomi dei due protagonisti. Funzionano benissimo, in tal senso, alcune chiuse, come quella del capitolo 8, Sonia e Alga:

– Guarda i miei capelli, con questa umidità diventano schiumosi e viola elettrico, sembro la regina Elizabeth col cappellino da cocktail, ecco l’unico difetto delle vetrate

– Quale?

– Che ti specchiano mentre guardi fuori. E cerchi il mondo, invece. (P. 77)

I Dust Devils esistono veramente: sono fenomeni meteorologici tipici dei territori desertici o secchi, dovuti a correnti connettive. Si tratta di coni di sabbia e polvere che possono superare i 500 metri e che, in una mezz’ora al massimo, in certi casi potrebbero arrecare anche seri danni: nel romanzo di Seminara il Dust Devil diviene «un vortice che ti afferra, e ti trasforma» (p. 125), metafora di quei particolari frangenti di vita in cui un’intera esistenza sembra avvitarsi attorno a un evento anche casuale oppure occasionale, non sempre importante, ma che finisce per provocare un effetto a catena che, da un momento all’altro, può sconvolgere anche annosi equilibri e portare situazioni in bilico a deflagrare («poi a un tratto salta la grata, e affiora tutto il sottosuolo», p. 135). Del resto, una delle immagini più significative dell’intero romanzo a quadri – a nostro modesto avviso – è proprio quella della «rosa borderline» (p. 100): una «rosa squinternata, lei chiama così i fiori al confine, in punto di sfiorire» (ibidem).

Un nome maschile pronunciato inconsciamente nel sonno è, infatti, all’origine di una sorta di effetto domino, che si protrae per tutta la durata del romanzo, facendo cadere illusioni, barriere, difese, sogni, ipocrisie, autofinzioni: il vortice atmosferico esterno si ripercuote sulla vita di tutti i protagonisti, che vedono la propria quotidianità in qualche modo sconvolta. C’è chi coglie la palla al balzo e ne approfitta per dare un taglio a una relazione sentimentale ormai stantia; e chi ne soffre, reagendo agli eventi in maniera inattesa, creativa o tragica («Quando dico di voler morire mia sorella ride, lo chiama eccesso di vitalità, perché amo troppo la vita, e non mi rassegno quando scarseggia», p. 121). Fatto sta che le narrazioni trainate dai dialoghi (le sceneggiature di Seminara sono perfette nei loro ritmi) si susseguono l’una all’altra, connesse sempre da un personaggio. Come nelle provenzali Coblas capfinidas, infatti, il secondo dei due nomi del titolo del capitolo precedente si ritrova per primo in quello successivo (Iris e Rodolfo, Rodolfo e Dora etc.), legando e dando continuità a una serie di “scene” che altrimenti potrebbero viaggiare benissimo anche isolate. Conferisce ulteriore compattezza alla trama, però, l’ingegnoso espediente narrativo che vede riecheggiare, negli ultimi capitoli, le storie raccontate nei primi, ma deformate – come in una sorta di “gioco del telefono” (del resto, l’oralità è una marca prepotente di tutto il romanzo) – dall’ottica personale e dall’aggiunta di senso che, nel passaparola, ogni “ripetitore umano” imprime alla narrazione dei fatti nudi e crudi. L’abilità narrativa di Seminara, inoltre, fa sì che, anche all’interno di ogni singolo capitolo, siano incastrate altre storie che, come matrioske, contengono a propria volta nuovi spunti di racconto: un intarsio magico alla Mille e una notte, condensato nel giro di poche pagine (come accade, ad esempio, nel capitolo 12, Olimpia e Manlio).

Il passato giornalistico di Seminara affiora spesso fra le pagine, specie in relazione alla tematica ambientale, che le sta evidentemente molto a cuore (si vedano i riferimenti al bambù a p. 20, alla «massa antropogenica» a p. 83, ai «detriti» in orbita a p. 89, ai rifiuti sull’Everest a p. 95, agli scheletri di case e alle «opere pubbliche incompiute» a p. 100), ma anche da qualche riferimento alla pandemia da Covid-19 (pp. 71, 121): questo romanzo dall’apparenza giocosa da intrattenimento (presentato in questi termini, anche in copertina, come “giostra”), a nostro parere, rivela infatti, al contempo, anche un intento militante di denuncia (intenso il brano sull’odore del carcere di p. 21, per esempio) e una riflessione seria, e a tratti cupa, sul destino umano che – confessiamo – ce lo rende assai caro.

Fin dalla dedica a Ripellino si percepisce che il comico e il tragico saranno allegramente alternati, nel corso dell’opera. A nostro avviso, però, il contrasto più forte e potente del libro è quello fra il dominante horror vacui delle valanghe di parole, delle sequele di pensieri accatastati e giustapposti, dell’ammassarsi degli oggetti (fra gli altri, tornano le scarpe e gli indumenti, elementi ricorrenti dell’immaginario di Seminara), dell’ossessione per i dettagli, della rapidità affannata dei ritmi verbali e dell’accelerazione folle che agli eventi sembra imprimere il vorticare caotico dei mulinelli di sabbia; e la sotterranea aspirazione al silenzio («il silenzio è un regalo di Dio, per farsi perdonare di aver creato gli uomini», p. 116), alla dissoluzione, alla smaterializzazione. L’umano desiderio di visibilità, la necessità della considerazione altrui e l’egoistico protagonismo si alternano all’anelito opposto: a scomparire, dileguarsi («scorporandosi», p. 9), non lasciare traccia («avrei voluto farmi sciogliere dall’acqua, sbavare, scontornare, ripulire, cancellare, farmi punire e umiliare dall’acqua, perché ero incarognito», p. 45; «Ha il pelo scuro come la terra, ma quando nevica diventa bianca. Si mimetizza e scompare. Io vorrei essere una lepre bianca», p. 57; «L’assenza di tracce e di ricordi dà un senso di libertà, di scorrimento», p. 74); al malinconico fiume carsico dell’annichilimento – a volte subìto come una subdola violenza («ma lei si sente invisibile perché lui la sta cancellando, pezzo a pezzo», p. 117) – che spesso affiora tra le pagine.

Per adoperare una metafora cara al Realismo Terminale, si può dire che Diavoli di sabbia sia come un “frullatore”: di storie, di coscienze, di dialoghi, di lessico, di fatti, di opinioni. Solo gli ultimi due capitoli del romanzo sembrerebbero essere al riparo dall’influenza satanica dei diavoli di sabbia: il terzultimo, infatti, si chiude con un rasserenante «arcobaleno» (p. 140) che parrebbe preludere al ripristino della “normalità” e alla fine dell’emergenza. Il tredicesimo, però, appare smentire immediatamente le aspettative del lettore, con un cortese ma gelido dialogo muto, a distanza telematica, fra i due uomini che avevano dato origine alla diabolica macchina narrativa, Manlio e Rodolfo: e non sfugge il lapsus di quest’ultimo, che lo appella come “Mario” perché è ancora chiaramente turbato dal nome di uno sconosciuto, pronunciato dalla sua donna durante il sonno. La loro chat, dunque, non promette niente di buono; e, infatti, l’ultimo capitolo interviene a ribadire che, ormai, il senso della crisi è consustanziale all’oggi (del resto, la sabbia si rivela essere troppo granulosa ed effimera per dare corpo a diavoli davvero persistenti e a lungo impenetrabili). E a riaccendere il finale con una nota briosa e arguta, chiudendo il cerchio con gli stessi due personaggi (Rodolfo e Iris) che, se nell’incipit dialogavano in carcere, nell’explicit si trovano nell’appartamento di lui a distanza di cinque anni; ma l’interrogativo terminale («Fine?», p. 150) lascia in bocca al lettore il sapore acidulo dell’ambiguità, la curiosità del dubbio, del finale a sorpresa, dietro al quale s’intravede il ghigno giocoso e divertito della fatina demiurga che ha concepito questa caleidoscopica sciarada.

La realtà – sembra suggerire, in limine, Seminara – è spesso più diabolica della nostra stessa immaginazione: e, per fortuna, a volte – commentiamo noi – anche al romanziere più accorto sfugge qualche iridescente riflesso di sé, fra le righe, nonostante il suo impegno costante a «raffreddare e contenere, vigilando» (p. 68). Del resto, montalianamente

Ogni giorno scompaiono cose, ci sono fessure dappertutto, faglie pericolosissime, spaventose o invisibili, e nascondono insetti, uova di animali, filamenti, ma anche frammenti di cose sconosciute, che si mischiano […] ci sono buchi anche nelle giornate, e dentro cade di tutto, cose minime e innocue, virgole, refusi, sillabe di cose non dette, scaglie e pezzi di un sogno, e si decompongono, diventano germi, virus del pensiero, scarti, avanzi, starnuti, droplet, insomma tutti lasciamo una mappa […]. (P. 82).

Lo scrive la stessa Seminara che la logica «non è il contrario del sentimento, è invece un sentimento, anzi di più, è un aggregatore di sentimenti» (p. 101). E allora sorge il dubbio che tutti i suoi personaggi in bilico possano essere declinazioni di un’unica voce alla ricerca di un contatto umano sincero e di uno scambio schietto, non paga dell’ingenua illusione di poter essere «la vacanza di qualcuno, la sua avventura libera e felice» (p. 103), perché, se la solitudine talora schianta e annienta, a volte dalla Zweisamkeit o “Duitudine”, dalla «solitudine provata in due» (p. 108), non si esce vivi.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

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