Recensione di Franco Zangrilli, “Il piacere di raccontare. Pavese dentro il fantastico postmoderno”

Author di Biagio Coco

Nel suo nuovo e importante lavoro critico dal titolo Il piacere di raccontare. Pavese dentro il fantastico postmoderno (Dario Flaccovio editore 2017), Zangrilli offre una prospettiva critica inedita e al tempo stesso sistematica sullo scrittore langarolo, ripercorrendone l’intera produzione alla luce della stratificazione presente nella sua scrittura, attraverso quattro densi capitoli che compongono il volume: Poesia, Dialoghi, Racconti, Romanzi.

Secondo lo studioso, Pavese non rientra nel filone del neorealismo, ma è, in realtà, uno scrittore che eccede e sopravanza i tempi suoi, a tal punto da poter essere collocato dentro il postmoderno. La sua capacità di indagare «nei lati incomprensibili, oscuri ed enigmatici della realtà, (…) negli aspetti strani ed inquietanti della nostra condotta», attraverso «tutti gli strumenti dell’arte del racconto», l’utilizzo delle tecniche della riscrittura e le modalità della scrittura fantastica fanno di lui un autore che «anticipa tanti elementi cardine della letteratura postmoderna».

Nelle poesie-racconto, a partire da Lavorare stanca, Pavese dà vita a «una poesia diversa da quella dei suoi tempi dominati dall’ermetismo». I suoi testi poetici possono presentarsi a livello di superficie come un tessuto diegetico che «si colora di marcato autobiografismo e realismo». La sostanza della sua poesia va ricercata, tuttavia, altrove: nell’immagine-racconto, che nasce dall’interiorità del personaggio, a confronto con la realtà che gli si offre.

Se il lettore di Pavese assiste al metamorfizzarsi del paesaggio (naturale e urbano) che prende vita, alla contrapposizione tra «l’ambiente sano del passato» e la desolazione cittadina con le sue terre bruciate dal cemento, al continuo spostamento dei piani temporali, questo avviene perché argomento centrale della sua poesia «non è più ciò che il personaggio fa, ma ciò che pensa». La poesia di Pavese descrive, cioè, la “geografia fantastica” interna al personaggio e la riflette in un gioco di somiglianze, identificazioni e doppiezze che rimandano alla letteratura del fantastico e ai suoi moduli.

La mitologia contadina e i suoi riti, miti e bestiari non sono solo temi ma un secondo grado della scrittura: le immagini generate dalla coscienza interna di un io lirico, sovente in terza persona, aprono squarci di esistenze, si fanno a un tempo trasfigurazione e ricostruzione. Ed è «il piglio fantastico ad universalizzare la vicenda». Sono al riguardo numerosissimi i testi analizzati da Zangrilli tra i quali, ad esempio, «Il dio-caprone» nel quale la campagna, edenico «paese di verdi misteri al ragazzo, che viene d’estate», a causa di una biscia “tentatrice” che passa dentro l’erba e inquieta il bestiame, diventa un luogo in cui agiscono forze strane e misteriose, per trasformarsi alla fine in danza sabbatica: «e poi ballano tutti, tenendosi ritti e ululando alla luna». Tra i temi, quello che per molti aspetti riesce a essere rivelatore di questi procedimenti e dei moduli della riscrittura di Pavese, la donna, ha un ruolo eminente: «Il poeta la scorge dappertutto, in forme diverse e cangianti»; da «creatura marina, terrena, animale» nel complesso delle metafore forma un’«unità-identità con la terra, con la collina, con la vigna», si fa spazio sacro ed eterno. Diventa una «presenza fantasmatica», il correlativo fantastico ogni volta mutevole dell’animo del poeta, attraverso cui egli guarda la realtà delle cose. Altre volte la donna è figura spettrale, inquietante e sconosciuta, come Circe, Sirena, Medusa. Tutte immagini utilizzate al fine di esprimere il rapporto di fascinazione e incomunicabilità che il poeta ha con il misterioso universo femminile, con la capacità stessa di descriverlo. Tutte immagini fantastiche che contengono il modello e la sua variazione, la ricerca identitaria del poeta e la riflessione sulla scrittura: «l’uomo solo conosce una voce d’ombra» e «tu non attendi nulla / se non la parola / che sgorgherà dal fondo / come un frutto tra i rami».

Tuttavia, sono i Dialoghi con Leucò «l’opera più autobiografica di Pavese» e anche il suo scritto più decisamente postmoderno, forse il più complesso e incompreso. «Richiede un lettore particolare, un lettore archeologo che sappia scavare nei simboli fantastici delle mitologie di epoche diverse», e non soltanto per la presenza frequente nelle sue pagine di citazioni di scrittori antichi e moderni. Nascendo borgesianamente da altri libri, qui il “raccontare”, nella complessità dei livelli messi in luce da Zangrilli già nel capitolo iniziale del suo lavoro, si riverbera da subito nella struttura stessa dell’opera: la mitologia greca diviene riscrittura programmatica. Un’operazione che si estende all’allegoria metastorica, alla ricerca delle idee universali, delle forme perenni dell’agire umano e della vita «che l’uomo di ogni tempo non riesce né a spiegarsi né a capire con la ragione». Ma il personaggio classico, che parla di volta in volta in prima persona, raccontando in termini fantastici la sua storia, è un “personaggio-schermo”: diventa proiezione e controfigura dei «ripiegamenti autobiografici dell’autore», dell’uomo incapace di accordarsi ai propri obiettivi e ideali, chiuso nel cerchio imperfetto del mancato accordo tra il destino e la propria volontà.

Inoltre, continua Zangrilli, con chiarissima enunciazione dei nodi concettuali, «se da una parte Pavese si rispecchia nell’eroe classico, dall’altra sa di esserne diverso». Si assiste pertanto non solo a una ripresa di temi e moduli del fantastico, ma a una loro voluta ed esperta variazione. Così, Il diluvio contamina la tradizione greca e quella biblica per riflettere sulla memoria e sul mistero della morte. L’inconoscibile continua questa incursione nel territorio della morte, riscrivendo il mito di Orfeo per farne un eroe che viaggia narcisisticamente nell’Ade «per riportare alla luce della vita non Euridice ma se stesso messaggero dell’arte». Scrive Pavese in questo dialogo: «Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo». E ancora la ricerca della propria identità attraverso la parola e la memoria, come in Le streghe, in cui Circe raccontando ricorda come per compiacere Odisseo non esitò a trasformarsi nel «simulacro della sua Penelope»: «Disse che voleva scordarsi chi ero e dov’era, e quella sera mi chiamò Penelope (…) Molti nomi mi diede Odisseo stando sul mio letto. Ogni volta era un nome».

I Racconti rappresentano un rinnovamento costante di questo genere letterario «da tutti i punti di vista, narratologico, strutturale, stilistico». La narrazione asimmetrica e discontinua della doppia vicenda narrata in Ciau Masino, la struttura da piéce teatrale presente in molti altri racconti, come ad esempio in Si parva licet, che alterna dialoghi e didascalie riscrivendo il mito di Adamo ed Eva presente nella Genesi, il Colloquio con il fiume che diventa flusso di coscienza joyciano, immersione nella propria giovinezza e nel fluire del tempo, sono solo alcuni esempi di quella consonanza della struttura ai temi utilizzata per rappresentare la realtà interiore del personaggio (che è lo stesso Pavese). Tale consonanza nasce dal fatto che Pavese mette in scena personaggi che producono racconti, che sono «abili nel fabbricare la retorica dell’introspezione», filtrando i fatti reali alla luce della loro coscienza, e li rielaborano secondo modalità e movenze fantastiche, che scaturiscono dal nucleo profondo dell’io. Si pensi, per fare un solo esempio, all’amore-gelosia del protagonista del racconto L’idolo, che ricerca la propria fiamma nel postribolo, sfociando in un atteggiamento di allucinazione e squilibrio, in un’inettitudine travestita e riscritta con movenze da detective story.

Ascoltiamo una polifonia di voci (dei diversi personaggi e del protagonista); assistiamo all’uso di microtesti nel macrotesto, altre volte al vero e proprio monologo che dicono le illusioni, le false credenze, le doppiezze e le incongruenze interiori dei protagonisti. Altre volte, il complesso delle prospettive e degli sdoppiamenti è ingenerato dallo specchio, dal sonno oppure dall’insonnia, dal risveglio oppure ancora dal paesaggio che diventa l’occasione «per esperire momenti visionari e allucinati» e innescare la riflessione fantastica del personaggio: «Se chiudo gli occhi, ecco che l’ombra ha ripreso la sua funzione di freschezza, e le vie sono appunto questo, ombra e luce, in un paesaggio alternato che investe e divora».

Il capitolo conclusivo, suddiviso in nove sezioni, contiene una rassegna di tutti i Romanzi, da Il carcere a La luna e i falò. La misura del romanzo permette all’autore di riprendere e dispiegare tutti i livelli e le modalità della sua scrittura: la dimensione realistica, quella esistenziale e quella fantastica. La tendenza a «configurare le cose fantastiche come se fossero reali e le cose reali come se fossero fantastiche» raggiunge la sua più dinamica articolazione. Anche nei romanzi i dati di realtà si riflettono nella coscienza dei personaggi che fantasticamente li modificano e li ricompongono. Se al romanzo Il carcere soggiace il «mitologema postmoderno del labirinto che è gabbia e cella, con invisibili muri e pareti di un universo fantastico”, se il protagonista Stefano «fantasticava il mondo intero come carcere dove si è chiuso per le ragioni più diverse», questo accade perché il carcere è innanzitutto una prigione esistenziale, che impedisce al protagonista di esternare i propri sentimenti e di aprirsi all’amore.

La casa in collina ha come protagonista un uomo senza qualità che sperimenta l’irruzione della guerra e della storia nello spazio di una vita vissuta come «un lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più». La realtà della guerra dal suo punto di vista non può che essere raccontata rifacendosi alle modalità del thriller, con movenze «in chiave postmoderna sia dell’Inferno dantesco (…) sia del mito barbarico della giungla». Il racconto del suo rifugio in convento non può che contenere una «riscrittura della mitica via crucis», prima del personale definitivo isolamento. Tutto questo avviene perché la sua realtà interiore lo rende testimone incapace e incredulo, pervaso da paure e rimorsi per le mostruosità dell’uomo e le atrocità della storia, per la scoperta della guerra connaturata alla storia dell’uomo. Anche Anguilla, protagonista di La luna e i falò, è pirandellianamente uno dei tanti “nessuno” presenti nelle narrazioni di Pavese che necessita di ritrovarsi attraverso il racconto del passato ma che «non trova la propria identità neanche nel luogo dell’anima». In questo romanzo nel quale Pavese torna a dimostrare il frequente recupero e riutilizzo dei propri materiali (della poesia I mari del Sud, per esempio), la narrazione vive nella tensione delle dimensioni fantastiche che appartengono al protagonista, comunque destinate al capovolgimento, al rovescio. Anguilla, ritornando al suo paese, lo vede fantasticamente come luogo edenico, spazio favoloso dell'”infanzia-giovinezza”, luogo dell’avventura e del viaggio, e arriva a ibridarlo con il ricordo degli anni vissuti in America, descrivendo «una California langhigiana». Altrettante volte lo scopre come «spazio memorizzato», luogo instabile intessuto di visioni, allucinazioni e ricordi, nel quale la distruzione e la violenza rimangono ritualmente connaturate, come lo sono alla natura.

Credo che bastino queste brevi sottolineature per evidenziare come il lavoro critico di Zangrilli metta in luce aspetti inediti di uno scrittore certamente complesso, che è tanto più difficilmente collocabile nel canone novecentesco quanto più ha anticipato le modalità della scrittura che oggi definiamo postmoderna.

L’originalità rivoluzionaria di questo saggio sta nell’aver presentato in maniera documentata Pavese come scrittore neofantastico, nell’aver descritto la sua straordinaria capacità affabulatoria, ma ciò che lo rende particolarmente accattivante sta nell’aver esposto concetti ardui, rendendoli chiaramente accessibili anche da parte dei non addetti ai lavori e nell’aver più ampiamente chiarito che le affabulazioni complesse appartengono, ormai, sempre più al sentire dell’uomo contemporaneo. Infatti, del nostro passato, dei nostri miti, del rapporto perduto che ci univa, uomini agli dei, di tutti i nostri amori, cosa resta se non “il piacere di raccontare”?

Le parole che, narcisisticamente, raccontano noi stessi, rimangono. A tenere assieme memorie, impressioni e catene infinite di immagini. I nodi e l’ordito appartengono solo a chi ne è autore. Gli altri sulla nostra vita possono fare solo pettegolezzi.

(fasc. 18, 25 dicembre 2017)

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