Recensione di Henry Ariemma, “Dodici cammini cosmici” (2023)

Author di Alessandro Carrera

L’orizzonte etico di Henry Ariemma

I Dodici cammini cosmici di Henry Ariemma sono un poema di autogiudizio, o meglio un poema autogiudicante.

Siamo in un’epoca di condanne senza appello o di assoluzioni frettolose. Sui social media si viene condannati per delle inezie, mentre, se una mattina ci svegliamo con l’idea, che ne so, di accoltellare il nostro insegnante, troviamo subito qualcuno che dice “poverino, bisogna capirlo”. Non si dica, poi, dell’indignazione teatrale per chiunque si comporta da “mostro”. È una scappatoia anche quella, perché, se un essere umano è un mostro, allora lo siamo tutti. È molto più facile avere a che fare con un mostro che con un essere umano che fa cose mostruose. Il perdono, quando è così palese che serve solo a liberarci dal senso di colpa di essere tutti dei potenziali mostri, decisamente non è più una virtù.

La poesia di Henry Ariemma, che questo problema lo affronta seriamente, non cerca scorciatoie, non accusa alla leggera e perdona ancor meno leggermente. La seconda persona, il “tu” che regge il dettato, contiene il dettato stesso nei limiti di un referto etico. Un “io” giudica un altro “io”, o molto più probabilmente giudica se stesso, ma spassionatamente: «Sei l’avvocato meglio vestito che vince», «l’essere giusti è personale in questa vita e quindi si è ingiusti».

“Amicizia” e “perdono” sono termini nominati come un orizzonte etico che a questo “io” messo sotto giudizio dovrebbero essere sufficienti per procedere nella vita, se non che tutto svanisce di fronte ai “mostri possibili”. Eppure, questo “io giudicato” è tutt’altro che un mostro. Sa donare amicizia, conosce l’arte rara del camminare con lentezza e vive con questo credo, «esaminando azioni loro a trovare giustificate indiscrezioni». Ma l’autore sa bene che fermarsi qui sarebbe troppo facile. Il cammino del suo personaggio prevede anche esplosioni di bile, amici difficili da sopportare, un continuo processo di morte e resurrezione dentro e fuori la gabbia delle buone maniere. Non ci vuole nulla a vanificare una vita o, come dice l’autore, a disperdere l’io giustificato “al mare”.

Abbiamo a che fare con un “io” che non ha del tutto torto a sentirsi libero e perfino onesto, addirittura luminoso, magnetico. Così almeno lo vedono gli altri, ma neppure questi riconoscimenti gli danno la forza necessaria per superare una percepita debolezza che non se ne vuole andare.

Forse l’errore sta nel contemplare il mondo come se fosse una platea, come se dopo tutto si fosse sempre in scena. Potrebbe sembrare ridicolo e un po’ fuori posto, in poesia, l’incidente domestico descritto in Parli sempre di donne… (una sfuriata contro operai incapaci di riparare un tubo che perde), ma non è proprio così. Se l’ossessione dell’io è quella di stare sempre sul centro del palco, è chiaro che durante la performance nulla deve andare storto. Ma se la performance dura un’intera vita, come è possibile che nulla mai vada storto? «Non contempli uno sbagliare», dice l’io giudicante all’io giudicato, ed è appunto questo lo sbaglio più grande.

Sarà ancora un giudizio, un referto, o soltanto un buon consiglio, quello di vivere «con riserbo e silenzio», lasciando ad altri il successo e la «grancassa magniloquente»? Se è un buon consiglio, c’è il forte rischio che cada nel vuoto. «Il tutto nasce che non sai stare chiuso in una stanza», nonché dalla conseguente tentazione di «rinominare il mondo».

La citazione da Pascal («Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una stanza», pensiero n. 139), diretta o indiretta che sia, emerge come la chiave dell’intero libro. Se non sappiamo come stare chiusi in una stanza, almeno dovremmo imparare a muoverci nel «reticolo guida» che ci attende non appena chiudiamo la porta dietro di noi. Ma è proprio qui che l’io (narrato e giudicato) non sembra reggere alla prova. Precipita in una competizione di gadgets sempre nuovi, dove l’amicizia è soltanto compagnia occasionale e dove ci si vergogna delle minime incombenze della vita perché non all’altezza di quella smania di «provare tutto il mondo comprando e vendendo», malattia per la quale non c’è mai stata nessuna cura, se non la morte.

Le prime sezioni sono scandite dai quattro elementi (Aria, Acqua, Fuoco, Terra). All’inizio della sezione Transiti, che segna lo spartiacque della raccolta, facciamo conoscenza con un personaggio femminile che se ne sta nella sua stanza, ma come prigioniera volontaria. Non è questa “lei” a diventare il personaggio dominante, presto torniamo alla radiografia impietosa dell’io giudicato. Ma il tono, anche se di poco, è cambiato. Perché siamo fuori dai quattro elementi, dalla quadratura che decide il destino.

Gli ulteriori dettagli che veniamo a conoscere a proposito di questo io giudicato, nonché di questa lei, che riappare in Meta, si fanno più minuti, anche più narrativi. Poiché l’essenziale è stato detto, i personaggi sono collocati all’interno di uno spazio che li lega, mani e piedi. È l’ora di venire a sapere dei loro gusti musicali e in fatto di bere. Si delinea persino la possibilità di un “noi”, che però ancora «non appartiene», fino al perentorio «Fermati» del componimento che forse è il più conciso e isolabile dell’intera raccolta.

Ci sono condizioni in base alle quali il “noi” sarebbe possibile. Perfino il tempo sembra essere tornato amico; giorno e notte si susseguono, compaiono nebbie, stelle e «pareti di mare» (immagine da ricordare). È vero che il sole sembra invadere anche la notte e che il buio pare accamparsi nel cuore stesso del sole. Il «buio con sole» è «la stessa fiamma» e sulla riva del mare le barche non rappresentano una fuga bensì un limite, ma è appunto questa coscienza del limite a dare il senso all’intera sequenza poematica.

Se giudicare non è possibile, perdonare non è cosa di cui ci si debba vantare. La coscienza di tale limite etico della poesia è, mi sembra, ciò che ha guidato Ariemma nella stesura dei suoi cammini cosmici. La sintassi contratta, le continue elisioni costringono il lettore a fermarsi spesso per chiedersi se al verso non manchi qualcosa. Sì, manca qualcosa, ma ciò che manca è semplicemente la soffocante prosa del mondo. È come se Ariemma l’avesse setacciata per bene, in modo che al fondo rimanesse solo la poesia.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

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