Forse, per giudicare adeguatamente, oggettivamente un romanzo, bisognerebbe prima della lettura ignorarne l’autore, l’anno di composizione, perfino il titolo – chi lo diceva? Credo Franco Brioschi, troppo presto scomparso.
Comunque aveva ragione: se non sapessimo che Wann-Chlore appartiene al periodo giovanile di Honoré de Balzac, che non lo incluse nemmeno nel ciclo della Comédie humaine, potremmo considerarlo una delle sue opere più compiute, sicuramente una di quelle strutturate con più evidente decisione, e una delle più ricche, perché è un intreccio di tre romanzi, come spiega Alessandra Ginzburg nella sua esauriente, ottima introduzione.
Dalla quasi commedia di costume della prima parte – che è anche un fine romanzo psicologico, ritmato con gusto, alternato fra la storia d’amore appassionata dei protagonisti e il furbesco duetto tra la cameriera e il suo sergente – si passa all’accelerazione febbrile della seconda parte, a sua volta divisa in due sezioni: il memoriale di Horace Landon, tormentato eroe, e le lettere sempre più terribili del suo amico Annibal Salvati. La terza parte fa precipitare il dramma. E con lui il lettore, in una corsa affannosa verso la fine.
Questa frenesia nella lettura, che si fa sempre più rara di questi tempi, come l’invito all’immedesimazione, alla partecipazione, all’abbandono al puro piacere senza limiti della narrazione, fa rimpiangere un po’ tutto il tempo e l’accanimento persi nel disdegno per il “romanzesco”, la diffidenza snobistica per i “colpi di scena”, l’austero compiacimento nell’annoiarsi sconfinatamente in nome del Romanzo Nuovo e delle sue lambiccate sperimentazioni, che hanno colonizzato non solo la critica ma anche le abitudini di lettura per più di metà del Novecento – o per il secolo intero?
E viene in mente quella delicata principessa delle novità alla moda, Micol Finzi Contini, che a letto, malata, leggeva I ragazzi terribili di Cocteau: “Très chic, niente da dire, ma vuoi mettere i libri di una volta? Guerra e pace, o I tre moschettieri… quelli sì erano romanzi!” (cito a memoria).
Proprio così: che romanzi, quelli! Ma, dopo averne fatto scorpacciate, dal Settecento in poi, l’Europa, il mondo intero se ne dissero sazi. E preferirono gli anoressici pranzi dello sperimentalismo, bandendo dalla dieta i cibi romanzeschi ipercolesterolemici e più succulenti: quindi niente balli, tesori, testamenti perduti e ritrovati, corteggiamenti al chiar di luna, duelli, fughe, inseguimenti, tradimenti, assassini. Solo ore di riflessioni, giornate emblematiche di tutta una vita, epifanie nella nebbia di esistenze umbratili, coscienze inquiete ma sempre fluenti, personaggi incerti fra essere e non, operai, impiegati, commesse, sartine, uomini e donne qualunque. Fra le due guerre i narratori puri, robusti, di razza, se la videro particolarmente male. Lettissimi, sì, ma in segreto, e vergognosamente. Un pubblico di gente comune, poco esigente, per niente raffinata: quando vide ricomparire, decenni dopo, in nuove edizioni superbe, e con grandi sfarzi critici, certi autori di allora, una nobile, altera signora commentò: “Ma guarda, è tornato di moda? Erano libri che una volta si davano alle cameriere”.
Eppure, anche alle spalle degli autori considerati criticamente più fini, c’erano i romanzieri veri, ipertrofici, lutulenti, prodighi di sorprese di trama, che non rinunciavano a un effettaccio neanche a morire. Non erano tanto le grandi narrazioni del Sette e dell’Ottocento a venir stigmatizzate da sperimentatori e modernisti, quanto semmai le secche del Naturalismo. E loro, gli algidi campioni delle ricerche sulle nuove forme di romanzo, invidiavano in segreto i potenti padroni di casa nelle lussuose dimore della narrativa dei tempi che furono: Dumas e Dickens, Trollope e Thackeray, George Sand e Balzac, appunto. «Io nasco in Balzac» diceva con orgoglio una delle più eleganti plasmatrici della prosa francese, Colette. E perfino i teorici del “romanzo sul niente”, come Flaubert, confessavano di avere fra i loro maestri belle signore romantiche e prolifiche, come George Sand, generose di storie e di “fatti” (proprio quelli di cui Virginia Woolf confessava amaramente di essere a corto).
Leggere oggi un romanzo come Wann-Chlore fa riflettere sulla specificità preziosa del “romanzesco” allo stato puro, sulle idee che sottende, sulla sua funzione nella società in cui nacque come riflesso, diretto o distorto. Bisognerebbe poterlo leggere in segreto, abbandonandosi colpevolmente a un piacere proibito, come avranno fatto, all’epoca in cui fu scritto, tante ragazze di buona famiglia alle quali certi libri erano vietati. Ma anche tanti giovanotti curiosi di quel che passava nel cuore di quelle ragazze, le cui psicologie erano ignote. Leggevano anche loro, forse avidamente, maldestramente, e per entrambi i sessi quei romanzi erano probabilmente preziosi per comprendersi, per capire che coltivare due amori, e non l’unico e solo, come comandavano i dettami romantici e la quiete pubblica, non era soltanto possibile ma faceva anche parte degli innumerevoli segreti e delle altrettante contraddizioni che il cuore umano racchiude ostinatamente. Quelle pagine erano fonti di educazione sentimentale in epoche in cui, come Balzac e i più consapevoli romanzieri insegnano, la sopraffazione, il potere, il denaro, gli scontri di classe erano padroni incontrastati e feroci.
Nelle mani di un abile, consapevole narratore, il genere romanzo poteva assumere una fisionomia enciclopedica: nozioni e intuizioni che oggi troviamo frazionate in testi specifici o trattati di psicologia, scienze sociali, economia e finanza, in un romanzo ben fatto potevano essere sintetizzate, e illustrate con esempi lampanti, in pagine efficaci che spiegavano – come nel caso di Wann-Chlore – le mestizie della vita di provincia e della piccola nobiltà di campagna, o i tormenti di una fanciulla oppressa da una mater terribilis, ingombrante, plenipotenziaria, invidiosa, bizzosa, asfissiante. Ma anche la vita solitaria di un uomo deluso; il rapporto fraterno con il suo intendente che, se devoto, diventa anche segretario galante; le manovre sentimentali che somigliano in modo allarmante a strategie militari. E poi il delirio del desiderio soffocato. La fissazione – idealizzante o narcisistica? – dell’amour-passion, in cui anelito all’indipendenza, bisogno di appagamento erotico e carnale, ansia di identificazione e bramosia di rivalsa si intrecciano inestricabilmente. Eugénie ama davvero il suo uomo tenebroso? O correrebbe anche fra le braccia del garzone del lattaio, pur di scappare dalla sua prigione domestica? Diventerà una ragazza con la valigia o con la pistola? Una Sandrelli sperduta in Io la conoscevo bene o un’emancipata Monica Vitti fuggita a Londra da un’opprimente Sicilia?
Questioni simili venivano affrontate da quei romanzieri che si assumevano ogni giorno, davanti ai loro scrittoi, i compiti dei medici dei corpi e delle anime, dei geografi umani e sociali, dei parroci intenti a discernere fra colpe e peccati, innocenze e perversioni.
Chi conosce Balzac scoprirà in Wann-Chlore motivi, stilemi, situazioni e prefigurazioni di personaggi di là da venire: una Eugénie che poi prenderà il nome di Grandet; l’incombere costante del destino; una musica proveniente da un luogo chiuso, note misteriose a cui la pianista affida tutte le sue ansie (come nella futura Duchessa di Langeais); un’innamorata che arriva al punto di farsi assumere come domestica pur di stare accanto all’oggetto della sua adorazione disperata. E, soprattutto, una critica feroce della nobiltà, con cui Balzac non chiuderà mai del tutto i conti, nel lungo duello di classe che è uno dei fondamenti della Comédie.
L’importanza di questo romanzo è testimoniata dal fatto che gli è stato dedicato un convegno, nel 2007, all’Università di Macerata, come ricorda Alessandra Ginzburg. Raramente un incontro di studiosi viene organizzato per analizzare una sola opera “minore” di un pur grande autore – se non è la Vita nuova di Dante, per intenderci; questo fa pensare alle fluttuazioni di valore che i testi incontrano nella loro vita culturale, talvolta inconsuete, spesso imprevedibili, come imprevedibile è la perfetta misura nell’equilibrio strutturale del romanzo, che sembra matematicamente costruito, a dispetto della fama di autore fluviale e debordante che ancora qualcuno attribuisce a Balzac: circa 150 pagine per la prima e la seconda parte, più o meno 100 la seconda, accuratamente divisa in due metà di 50 ciascuna.
Infine, e ciò che più conta in un’edizione italiana, la traduzione, firmata da Mariolina Bertini. Dimostra l’essenzialità di un elemento di cui ormai raramente si considera il valore imprescindibile: l’esperienza; studiosa raffinata di letteratura francese, Mariolina Bertini ha da sempre un debole per gli scrittori dall’immenso fiato narrativo, autori di opere ciclopiche, come Proust e, appunto, Balzac. Ha curato indimenticabili edizioni della Recherche e di molte altre opere proustiane, per Einaudi (come le Cronache mondane e letterarie), e della Comédie per i «Meridiani» di Mondadori.
Il suo stile critico appartiene all’aristocratica tradizione di Giovanni Macchia e di Francesco Orlando, intramontabile come la vera eleganza, e come la vera eleganza fatto di perfetta purezza, estrema leggibilità, costellazioni di idee e spirito brillante, molto francese ma anche britannico, in una parola, europeo (senza nulla togliere, sia ben chiaro, alle consuetudini esegetiche americane, che virano, però, ormai troppo verso un solipsismo culturale e avanguardistico a volte difficile da seguire).
Si sente che Mariolina Bertini si diverte, traducendo, che ama il suo testo e le atmosfere di cui è intriso. Il suo tono ha la leggerezza di un ballo e la naturalezza di chi sa di cosa sta parlando, conosce i labirinti del fraseggio dell’autore, lo tratta da fratello nato in un’altra famiglia linguistica imparentata strettamente con la sua, e si comporta da sorella accorta e coscienziosa, sa contenere i suoi guizzi quando potrebbero apparire esagerati e mettere in luce i suoi pregi, come avranno cercato di fare le Brontë con il loro amatissimo Branwell, ma per fortuna Honoré non era alcoolizzato, soltanto caffeinomane.
Dopo Wann-Chlore ho letto After Dark di Haruki Murakami, e ho fatto male. Mi venivano in mente le parole di un bravo cantautore come Samuele Bersani: «Sei solo la copia/ di mille riassunti».
(fasc. 37, 25 febbraio 2021)