Recensione di Massimiliano Tortora, “La svolta del 1929. Prima e dopo “Gli indifferenti” di Alberto Moravia” (2023)

Author di Niccolò Amelii

Negli ultimi anni all’interno del panorama della critica italiana abbiamo assistito a una fruttuosa quanto vivace “riscoperta” del romanzo nostrano degli anni Trenta, tornato a essere oggetto di interesse condiviso e di riletture tanto eterogenee quanto complementari, atte a fare chiarezza su un periodo della nostra storia letteraria spesso appiattito su categorie improprie e limitanti. In quest’ottica, il periodo che segna il rilancio e poi la graduale affermazione del genere romanzesco in Italia è stato indagato sia attraverso una prospettiva bourdieusiana – attenta a delineare i tratti caratterizzanti del campo letterario, le personalità eminenti, le riviste egemoni, le dinamiche di potere e influenza, i nascenti processi industriali nel settore editoriale, le politiche di traduzione e di “importazione” degli autori stranieri –, in un più ampio riesame dell’orizzonte artistico e culturale italiano dei primi decenni del XX secolo, come nei recenti studi di Sisto, Biagi e Baldini – membri del LTiT, gruppo di lavoro che si dedica alla letteratura tradotta in Italia –, sia in una chiave di verifica teorica e diacronica della categoria di modernismo, come nei lavori di Donnarumma, Castellana e Tortora.

Proprio Tortora ha da poco pubblicato per Palumbo Editore La svolta del 1929. Prima e dopo Gli indifferenti di Alberto Moravia, volume che si inserisce perfettamente in questa seconda linea d’indagine, fungendo da ulteriore tassello di approfondimento, utile e funzionale in un “cantiere” d’esame ancora ben aperto, mobile e in divenire. I nove saggi che compongono la raccolta, pur sollecitati da occasioni diverse, appartengono allo stesso laboratorio di ricerca che Tortora porta avanti ormai da diverso tempo e con grande profitto, nel tentativo di scandagliare nelle sue numerose sfaccettature il problematico passaggio dal Modernismo al Neorealismo e analogamente gli sviluppi e le riemersioni della lezione modernista nei decenni successivi (sulla stessa scia si sta muovendo Tiziano Toracca, interessato al romanzo “neomodernista” del secondo Dopoguerra). Infatti, nel momento in cui il discorso teorico intorno al Modernismo italiano, che è andato senza sosta ampliandosi, arricchendosi e stratificandosi negli ultimi vent’anni, è divenuto acquisizione certa e condivisa, nonostante continuino a coesistere proposte e posizionamenti tra loro differenti (soprattutto in merito alla periodizzazione e agli autori da inserire nel canone), diventa necessario specificare meglio, sulla scorta, appunto, di questo nuovo punto di partenza ermeneutico e storiografico, i contorni del fenomeno modernista italiano e i suoi confini esterni, cioè valutare gli effetti di attrito e di reazione palesatisi nel contatto con ciò che è venuto immediatamente prima – il romanzo verista e naturalista di tardo Ottocento – e con ciò che è venuto subito dopo – il “nuovo” realismo degli anni Trenta.

Ecco perché i saggi di Tortora, nel comporre un discorso prismatico, che si apre a raggiera, mettono, sì, al centro il concetto di Modernismo applicato al peculiare contesto italiano (e infatti il volume si apre con un articolo sintetico quanto efficace sulla “condizione” modernista), ma sono più interessati a scandagliare i territori limitrofi, con l’obiettivo di comprendere come le mutazioni strutturali che hanno interessato il romanzo modernista occidentale a seguito della rivoluzione epistemologica di fin-de-siècle, dopo essere state esposte al loro massimo grado nei capolavori di Joyce, Proust, Musil, Woolf, Pirandello e Svevo, vengano adesso inglobate e rielaborate all’interno di una ritrovata cornice romanzesca che, se da un lato risponde al generale clima di “ritorno all’ordine” post-avanguardistico degli anni Venti, dall’altro deve fare i conti in Italia con le imposizioni della dittatura fascista. Dopo aver cavalcato il Futurismo, il Novecentismo e lo “Strapaesismo”, il regime mussoliniano, nel decennio del massimo consenso e dei sogni imperialistici, spinge verso un realismo “vitalistico” ma non troppo, quasi “socialista”, capace di superare i residui sentimentaleggianti, romantici e decadenti, i furori marinettiani e le astratte geometrie bontempelliane, così come l’esasperazione soggettivista e psicologista delle narrazioni moderniste.

Al centro di questa fase di transizione, che Tortora indaga molto bene nel terzo saggio del volume, intitolato Modernismo e modernisti nelle riviste fasciste, c’è uno scrittore, Alberto Moravia, con un romanzo, Gli indifferenti, in grado non solo di inaugurare in Italia una “cultura romanzesca” sino ad allora a volte manchevole, ma altresì di diventare paradigma di una svolta realista che, a differenza delle volontà esplicite del regime (e per questo riceverà biasimi e accuse dai più importanti esponenti della critica fascista), si pone in una certa continuità con le conquiste precedenti di Tozzi, di Pirandello e di Svevo, pur riconfigurate all’interno di un’architettura romanzesca lineare che guarda anche ai grandi realisti dell’Ottocento (in special modo a Dostoevskij), e fondata quindi sulla concretezza dei referenti, sulla consequenzialità della trama, su un patto di lettura nuovamente basato sulla verità e non sulla demistificazione, sulla stabilità e sull’autorevolezza del narratore eterodiegetico.

Non sorprende, allora, che Tortora inserisca i due saggi dedicati all’analisi testuale degli Indifferenti (1929: Gli indifferenti e la nuova stagione del realismo e Raccontare solo il conoscibile: Gli indifferenti di Alberto Moravia) proprio al centro del volume, a fare da spartiacque decisivo tra un “prima” e un “dopo”, evidenziando perfettamente le modalità narrative mediante cui Moravia scopre un equilibrio vincente (dunque destinato a fare scuola) tra soggetto e mondo, mente e realtà.

A partire dal varco dischiuso dalla proposta moraviana è possibile, allora, indagare (nei saggi La funzione Verga nel romanzo italiano degli anni Trenta, «Raccontare altrimenti» il mondo contemporaneo: il romanzo italiano sotto il fascismo, Strategie di afascismo nella narrativa italiana durante il regime) come si articoli nello specifico il campo letterario degli anni Trenta, come agisca sugli autori esordienti la “funzione Verga” e come questi ultimi si posizionino nelle relazioni forzate con il regime e nel dialogo ambiguo con la sua contraddittoria visione ideologica ed estetica (propugnata attraverso riviste come «Critica fascista», «Quadrivio», «Occidente», «Primato»). Dalle puntuali ricognizioni critiche di Tortora emerge un perimetro frastagliato, che necessita di ulteriori illuminazioni, in cui, pur all’interno di una condivisa Stimmung realista, gli scrittori “nuovi” – Vittorini, Brancati, Bernari, Masino, de Céspedes, Alvaro, Silone – esprimono le loro inquietudini, le loro ossessioni e le loro frustrazioni nei confronti di un regime che rappresenta per essi, almeno sino a quel momento, tutto il mondo conosciuto e conoscibile, risemantizzando, trasfigurando, rovesciando i temi “forti” della propaganda fascista, vale a dire la moralità indefessa, l’arditezza e la fierezza giovanile, l’amore casto, i valori rurali e contadini, e smascherandone il portato posticcio e anacronistico.

Sia quello che Tortora definisce “romanzo campagnolo” (nell’articolo che chiude il volume, intitolato Città e campagna: dal modernismo al neorealismo) – i cui esponenti sono Alvaro, Silone, Vittorini – sia il nascente “romanzo metropolitano” – Tre operai di Bernari, Periferia di Masino, Quartiere Vittoria di Dèttore – mirano infatti, senza reale volontà politica ma per una naturale quanto consapevole tensione interna, a incrinare le sicurezze del regime e soprattutto a scardinare la farlocca mitologia dell’“uomo nuovo” fascista. La generazione di scrittori nata nel primo decennio del Novecento è perfettamente conscia, anche in virtù dell’eredità modernista mai rinnegata, che la modernità, con tutto ciò che essa ha comportato in termini di radicale trasformazione antropologica dell’uomo, ha rivoluzionato ormai definitivamente le antiche assiologie valoriali e le relative tassonomie interpretative, problematizzando alla radice i rapporti tra individuo e società, pensiero e azione, fratture che non possono certamente essere ricomposte attraverso la costruzione di una macchina mitopoietica farsesca, contraddittoria e deficitaria come quella fascista. Ed è consapevole del fatto che, al contrario, bisogna interrogare tali sfasature e aporie, uscendo dalle frontiere stringenti del proprio “io” e tornando a rivolgere lo sguardo ai fenomeni soggiacenti alla realtà circostante, ai suoi chiaroscuri, alle sue ambiguità latenti.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023)

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