Recensione di Nicola Lagioia, “La città dei vivi”

Author di Francesca Cassone

Quando si inizia a leggere La città dei vivi di Nicola Lagioia, non si sa cosa aspettarsi, quando si è immersi nello scorrere delle sue pagine, si fatica a catalogarlo in definizioni nette e precise: sembra camminare in equilibrio sul confine che divide la letteratura dalla realtà prosaica su cui si basa, in un tentativo di sua profonda comprensione.

In un appartamento della periferia romana, due giovani di buona estrazione sociale, Manuel Foffo e Marco Prati, uccidono un ragazzo, Luca Varani. L’omicidio è violento, ai limiti del crudele, privo di una motivazione che possa tentare di spiegarlo seppur in minima parte, ma soprattutto realmente avvenuto. Lagioia ricostruisce lentamente, tassello dopo tassello, l’evolversi di questo famoso caso di cronaca nera, indagato per trovarvi un senso, per scardinarne le dinamiche e i meccanismi, per vagliare ogni possibilità di comprensione. Ed è qui che la cronaca si fa letteratura: nella ricostruzione dei dialoghi, nei quadri dei protagonisti della vicenda che ci vengono restituiti nella loro piena umanità, nella descrizione degli ambienti che si caricano di significati quasi tangibili, nel concatenarsi delle situazioni che, collegate tra di loro col senno di poi, sembrano portare inevitabilmente a quel finale tragico. Soprattutto, si fa letteratura nelle preziose pagine in cui l’autore, a nome di ogni lettore giunto a quel punto dello scavo con lui, si interroga sulla natura umana, sull’essere vittima o carnefice, sulla responsabilità personale, sulla colpa, sul male e sul bene, sulla giustizia, sui tempi che viviamo. Il tutto sullo sfondo di una Roma che è protagonista partecipe di quello che accade, città sempre sull’orlo della decadenza fisica e morale, ma che sopravvive a tutto. Città dei morti, ma anche città dei vivi.

Lagioia va oltre la semplice ricostruzione delle vicende, che pure segue dal principio con attenzione e scrupolo. Il rumore, il clamore, la pubblica indignazione che accompagnano la cronaca nera vengono riportati fedelmente su carta, ma come guardati dall’esterno in silenzio. Non c’è nulla della curiosità morbosa che circonda certe storie e che tenta e quasi suppone di cogliere la prova della loro inevitabilità, quel dettaglio che ci consente di bollare i colpevoli come carnefici e di tranquillizzare la nostra coscienza e i nostri animi, perché così facendo li rende altro da noi, qualcosa di ontologicamente diverso. Noi siamo diversi da loro e non potrebbe essere altrimenti. Scopriamo, però, quanto questo sia falso quando viene posta davanti ai nostri occhi la totale umanità di questa vicenda: non c’è nulla che la riguardi che non sia profondamente umano. A popolare le pagine di questo libro non sono personaggi, ma persone come tutte le altre. Alle spalle non hanno passati di violenza o crimine, ma vite analoghe alle nostre, i cui chiaroscuri sono ombreggiati dagli stessi silenzi e dalle stesse incomprensioni che potremmo sperimentare noi quotidianamente. La linea che separa “noi” da “loro” viene tacitamente messa in discussione e poi fatta cadere.

Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?

Di fronte a fatti immutabili verso cui non si ha alcuna possibilità di intervento (anche narrativo), l’autore si fa osservatore silenzioso e il suo silenzio rispettoso sembra pervadere l’intero libro, pur nell’accumularsi di mille voci dissonanti. Queste trovano sbocco in una narrazione eterogenea e composita, di volta in volta diversa per adeguarsi a rappresentare l’intero intricato mosaico della situazione. Testimonianze di varia natura sono incorniciate da spazi bianchi nel testo, che siano scambi di messaggi, post su social o racconti diretti di persone più o meno vicine alla vicenda, e vengono proposte al lettore senza intermediazione, senza che vi sia il bisogno di commentare o aggiungere fronzoli superflui, in grado come sono di conferire significati inediti al testo, alle volte anche nella loro lapidaria concisione.

Nei confronti dell’immagine frammentaria che l’autore è riuscito a formare, sembra che l’unico lavoro concessogli sia interno a se stesso, di pensiero, introspezione. Lontano dall’essere giudice, perché in primo luogo coinvolto da quella umanità fragile, multiforme, imperfetta che si trova a scoprire, gli è però possibile tenere aperta la riflessione, in nome di un’umanità che alla fine riesce a essere riscoperta come valore e, in quanto tale, a dare speranza. Un libro figlio dei nostri tempi, che rende esplicita la funzione che la letteratura deve riuscire ad avere: quella di essere lente di interpretazione della realtà che viviamo, di scavare in fondo e non restare in superficie, di porre problemi e non dare soluzioni univoche e inevitabilmente parziali.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

• categoria: Categories Recensioni