Recensione di Giuseppe Rosato, “Oh, l’inverno”

Author di Massimo Pamio

Per una lettura della poesia di Giuseppe Rosato

Il declino della prestigiosa critica militante italiana dovuto all’incipiente senilità raggiunta da molti dei suoi esponenti (Guglielmi, Ferroni, Citati si limitano, in genere, a brevi interventi, Filippo Laporta è voce troppo sola) ha giovato ai soliti noti, a quegli scrittori dotati di educate gesta, assuefatti alle droghe sintetico-schematiche del potere culturale che, insieme con i loro mentori (editori e giornalisti), partecipano, in qualità di bassa manovalanza intellettuale, a livellare i campi semantici delle reti comunicative della retorica ideologica egemonica, occupando tutti gli spazi possibili, tutti adusi a un lessico curiale, “realistico”, volti a forgiare temi avulsi dalle passioni, distanti da accensioni e sbalzi umorali, ludici, onirici, satirici, umoristici, grotteschi, ostili a qualsiasi tentazione linguistica potenzialmente eversiva. Accade pure, in Italia, che poeti notevoli, per motivi diversi da quelli appena esposti, a causa della loro riservatezza o della lontananza fisica e mentale dai centri del potere editoriale, vengano indebitamente trascurati: mi riferisco in particolare a Elio Pecora e a Giuseppe Rosato, dei quali, grazie a meritevoli iniziative di Bonifacio Vincenzi, mi viene offerta l’opportunità di tessere l’elogio.

La componente stilistico-retorica in Rosato è davvero unica e originale, pur se trae la sua specificità dal confronto con quella forgiata da illustri cesellatori del verso, in particolare Dante, Petrarca, Leopardi e Montale. Mi soffermerò, per confermare la bontà dell’ipotesi, sull’analisi di Oh, l’inverno (pubblicata per i tipi di Book Editore di Castel Maggiore nel 1999), raccolta che segna una svolta essenziale nell’evoluzione del dettato del poeta abruzzese. Il soggetto di ogni poesia di Rosato si rivela essere non un semplice sintagma nominale bensì un’intera frase («farsi persuaso come chi», «si disappanna il vetro al fiato caldo», «si va talvolta in punta di piedi», «non porta più notizia da tempo il giorno») che costituisce in genere il primo verso della lirica e che funge da argomento tematico sviluppato poi all’interno del testo. Pronunciate in terza persona o espresse impersonalmente da un intimo silente flusso della coscienza che inanella le parti di una lunga e meditata riflessione, queste frasi si sviluppano in una concatenazione sintattica stringente, ordinata, molto articolata e complessa, densa di subordinate. La costruzione sintattica, originale impronta della scrittura rosatiana, domina la lingua e la conforma alle esigenze di un dettato classicheggiante, in cui si possono rintracciare lasciti danteschi – «Trasecolar significò per verba/ cupamente sorprendersi o con triste/ meraviglia sdegnarsi» («Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba», Paradiso, I, vv. 70-73) – o montaliani – «Oh, l’inverno, l’inverno quando è inverno,/ quando il cielo s’oscura e al pomeriggio/ primo è già notte« («Oh la piagata/ primavera è pur festa se raggela/ in morte questa morte!», La primavera hitleriana) – o luziani – «O sarà la memoria anche allora/ per quell’istante o chissà interminabili/ giorni ad opporre al veniente buio/ le minuscole luci» («O un senso più elementare la sgomina/ come quando a un crollo del sonno/ o a una caduta dell’azione s’imbatte», da In corpo vile, Al fuoco della controversia) – o petrarcheschi («spoglia l’autunno gli alberi/ e il bel freddo rimena») oppure gozzaniani o dannunziani, prestiti citati dallo stesso poeta nelle sue annotazioni al testo.

L’enunciato, spesso privo del gruppo nominale, obbliga il lettore, come nella traduzione di una versione dal latino, a compulsare il testo nella ricerca degli accordi per addivenire al senso della frase; nel quale testo non v’è azione, quanto piuttosto il dipanarsi di una riflessione, sovente mancante perfino del predicato verbale, altrimenti usato in funzione appositiva, discorso costituito di frasi concatenate in base al suo svilupparsi, dove frasi intere possono svolgere la funzione di apposizione delle altre: «I fiori dei morti sugli spenti/ banchi autunnali affiorano già/ dei verdurieri, ecco l’ottobre/ col suo neutro cielo, il transito/ di giorni sempre più brevi e sempre/ più lente le notti ad aprire/ finestre a pervicaci pensieri».

Il soggetto di tutta la frase, se si vuole proprio cercarne uno, compare alla fine del testo: sono i “pervicaci pensieri”, che, fonti di una lunga e descrittiva annotazione riguardante la “fine di ottobre”, sembrano riferire a se stessi quel che osservano – probabilmente da una finestra – e ne desumono «i fiori dei morti sui banchi dei verdurieri» e «il transito di giorni sempre più brevi», due periodi, codesti, collegati sintatticamente per asindeto, volti ad assumere, in virtù dell’inciso che li separa, «ecco l’ottobre col suo neutro cielo», la configurazione di frasi libere e autonome. Una struttura che tradisce l’intenzione, da parte dell’autore, di mimare l’andamento stesso del pensiero, della riflessione pensante, in virtù di una costruzione classicheggiante, che in qualche modo richiama la complessa struttura della sintassi latina.

Nei testi di Oh, l’inverno si dipana un discorso mentale rivolto a se stesso in funzione d’un ipotetico ascoltatore, eloquente e fluido, che si rivela però sfuggente, probabilmente un se stesso che delude, disattende e non risponde, un se stesso in condizione inerziale, un doppio forse figurale, immagine narcisistica o parvenza dell’Altro, allotopia della Poesia come Incarnazione Assente, dell’Assenza. Il poeta si rivolge a una distanza infinita che lo evoca, e lo pronuncia, lo nomina. La poesia è Nominazione dell’Autore.

La poesia, nel momento in cui dice il presente, è già memoria. Non dice tanto le cose quanto la memoria delle cose. La nominazione è nominazione dell’assenza del reale che si produce per dar vita alla memoria. Tutto è memoria, le cose sono rapprese di memoria a cui evidentemente la Poesia attinge.

Tutte le questioni metafisiche che hanno tormentato i poeti del Novecento sono riassunte da Rosato in un ambito chiuso, personale: è il pensare lo spazio del metafisico, lo spazio in cui tutto si compie, perfino la Vorstellung della temporalità. Non c’è salvezza al di fuori del pensiero, che però costituisce anche l’inferno in cui si dibattono tutte le domande con le mancate risposte, le gioie con le sofferenze, la vena ironica e distaccata, talvolta perfino umoristica con cui l’autore osserva il mondo dell’unico luogo possibile, luogo di attesa, sospeso, “deserto dei Tartari” dove tutto e nulla si scontrano, per una notizia, per una novità che è sempre interiore. Nel pensiero il mondo si racconta a se stesso, il mondo è dunque un venire-alla-coscienza, ciò che si verifica come notizia e domanda ad-veniente, il mondo è la vita che si interroga; la coscienza – il pensiero – è ciò che la verifica, è il luogo in cui la vita diventa interrogazione a sé e la verifica di questa interrogazione. Ogni metafisica o supposizione metafisica viene dunque rinchiusa e ristretta, claustrofobicamente –non a caso qualche tempo fa alcuni scienziati avevano indicato nel claustro, la parte più remota e nascosta del cervello, il centro dell’autocoscienza. “Poesia pensante” o “pensiero poetante”, la scrittura di Rosato in Oh, l’inverno costituisce una risposta definitiva a tutta la poesia del Novecento poiché viene a far coincidere il pensiero poetico con la sostanza stessa dell’atto metafisico, divenuta pura immanenza. Il pensare poetico è un in-venire, un trovare dentro la riflessione poetica del pensare l’hic et nunc del mondo, il sigillo del mondo che si fa e si rivela nel ristretto ambito della coscienza. È tutto qui il miracolo, l’eventuarsi del mondo, che viene a coincidere come entità spaziale e temporale nella necessarietà sensuale della coscienza, senz’alcuna mediazione che non sia la vita stessa, la vitalità. La metafisica è una metafora? Forse, nel senso più stretto del termine, “trasporto”, atto del venire del mondo verso la coscienza per apparire in essa e lì trovare il suo compimento. Tutto si immerge nella mente, luogo della übertragung, per trasformarsi in ricordo, in fantasma, in desiderio, in assenza. La scarnificazione del mondo è completata. In Rosato perfino le cose non sono più “correlati oggettivi” ma addirittura scompaiono, in una complessiva astrazione ordita dall’unico paesaggio possibile, quello mentale.

Rosato chiude e sigilla tutte le istanze poetico-filosofiche del Novecento, egli costituisce l’ultimo approdo, dopo di lui la poesia dovrà cercare nuovi sentieri, ricominciare forse da capo, rifondarsi e riformularsi. Il poeta come Zarathustra rivela che ogni fondamento è infondato e l’uomo dovrà trovare nel sentimento della leggerezza la forza di elevarsi. Per ora, ogni disputa filosofica si conclude, si chiude per se stessa, in un minimo errore, in un virus, in uno scompiglio che azzera, annulla ogni fila di numeri e di oroscopi. Gli oggetti rubano il pensiero al poeta, ma la loro memoria è solo un archivio di dati che può scomparire da un momento all’altro, a causa di un improvviso virus, l’ultima beffa che lo stesso uomo gioca a se stesso, cui importa forse solo la «provvisoria contezza» prima che ogni cosa scompaia, o come scrive in un altro verso che riecheggia Zanzotto, «la cieca illusione di un fosfene».

È dunque tutta la poesia di Rosato un mesto rincorrere un lacerto del pensiero che, grazie a un errore qualsiasi, a un incidente, riesca a pescare, nel mare magno del mondo, una traccia, un filamento, un fantasma del senso, che forse pure si manifesta, ma probabilmente non viene avvertito o concepito come tale, e resta dunque segreto, incomprensibile e incompreso. La riflessione poetica è affidata, manoscritto in bottiglia, al bianco della pagina che la sigilla come un lungo complesso testamento beffardamente metafisico.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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